Così è Dylan Farrow (se vi pare)

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E insomma anche l'altro giorno qualcuno ha segnalato a Gramellini una notizia relativa all'ennesimo episodio di Cancel culture (stavolta era Oxford contro Mozart), Gramellini non ha ritenuto troppo necessario verificarla, ci ha scritto il suo compitino e dieci minuti dopo averlo pubblicato sapevamo già che non era vero niente, Oxford non vuole cancellare Mozart. Così è più o meno nel 90% dei casi in cui qualcuno vi parla di Cancel culture (o di dittatura del politically correct, che è la stessa cosa scritta più in lungo per sembrare più minacciosa, oltre che probabilmente li pagano a battuta). 


Al punto che viene il sospetto: ma questa cosa esiste, al di fuori della parodia che ne fanno i sedicenti oppositori? È un fenomeno di una qualche rilevanza, qualcosa degno di essere studiato? Una possibile risposta era già disponibile da qualche ora: la CBS ha tirato fuori dagli archivi un'intervista a Woody Allen rilasciata l'estate scorsa, che è diventata abbastanza interessante soltanto dopo che la HBO ha trasmesso una miniserie di quattro episodi sul caso Allen-Farrow. La miniserie non si fa scrupolo nell'abbracciare la versione di Mia e Dylan Farrow, secondo le quali Woody Allen avrebbe abusato di quest'ultima quando aveva sette anni. Questo, se ci fermiamo a riflettere, è abbastanza clamoroso, e indicativo di un clima culturale realmente diverso dal nostro: per quanto tentiamo di mantenerci aggiornati, non credo che nessun canale in Italia trasmetterebbe per quattro domeniche in prima serata una ricostruzione di un abuso su un minore che non è mai stato appurato da nessun'indagine, né formalizzato in nessuna sentenza. Questa versione è particolarmente scabrosa e infamante per Woody Allen, che negli ultimi anni è stato oggettivamente danneggiato dalla polvere risollevata intorno a un caso archiviato vent'anni fa: ha perso un contratto con Amazon, la Hachette si è rifiutata di distribuire la sua biografia negli USA (in seguito a uno sciopero dei dipendenti!), molti attori rifiutano di lavorare per lui. E tuttavia Allen ha avuto lo spazio mediatico che gli serviva per ribadire la sua verità. Dunque questa Cancel culture esiste o no?

Probabilmente sì – e abbiamo anche qualche argomento per trovarla inquietante – a patto di accettare che non si tratta di una "dittatura": piuttosto di una guerra culturale. Il che spiega anche alcuni tratti dittatoriali: la guerra è uno stato emergenziale, molte cose non tollerabili in tempo di pace sono considerate inevitabili. Nessun tribunale in tempo di pace trovò Allen colpevole di molestie sulla figlia (addirittura ce ne fu uno che gli consentì di adottare due bambini), ma negli USA adesso c'è la guerra e ci sono obiettivi di fronte ai quali la rispettabilità di un anziano cineasta scompare – in particolare, c'è da salvare un saliente cruciale: il principio di credibilità della donna-vittima. 

In guerra non si va per il sottile e non ci si preoccupa di portare i bambini in prima linea, se sono utili. Il fulcro della miniserie HBO è il video girato da Mia Farrow in cui la piccola Dylan ripete alla madre le accuse nei confronti del padre. Il video – che secondo Mia Farrow era destinato a uno psicologo – non era mai stato mostrato in tv: eppure già nel 1992, tempo di pace, era stato offerto a un network che non l'aveva considerato divulgabile. Ma oggi siamo in guerra, e in guerra tutto è concesso: così gli spettatori USA hanno potuto vedere un video che non aggiunge nulla alle accuse già dette e ribadite, salvo il fattore emotivo di vederle pronunciate da una bambina di sette anni.


Il caso Allen-Farrow esisteva prima di questa battaglia (e temo che esisterà anche dopo: in fondo c'è ancora chi discute del capitano Dreyfus). Fa parte del paesaggio, ormai, e se fosse un paesaggio vero sarebbe un canyon strettissimo, dove all'imboccatura c'è spazio per almeno due versioni dei fatti ma se vuoi uscirne dovrai abbandonarne per forza una. Non c'è spazio per Pirandello qui, per un minimo di relativismo esistenziale ed è un peccato: nella cultura americana ci sono tante cose che è giusto invidiare, ma un Pirandello no e certe volte la mancanza si sente (forse con D.F. Wallace ci stavamo arrivando). Non c'è nessun cognato Laudisi sul palco ad additarci l'impossibilità di conoscere gli altri: c'è un abuso genitoriale, ci sono soltanto due possibili colpevoli e uno dei due la sta facendo franca, il che al pubblico USA deve risultare insopportabile. Dylan Farrow potrebbe essere stata abusata da Woody Allen, e per molti è conveniente che sia così. Perché altrimenti non resta che un'opzione, ovvero che sia stata abusata dalla madre, che l'ha convinta della sua verità e l'ha costretta a interpretarla da quando aveva sette anni a... potremmo dire che non ha mai smesso, ma è più complicato di così. Da molto tempo non si tratta soltanto di salvare la reputazione di Mia Farrow. Ormai c'è un esercito dietro, o perlomeno un battaglione che di qui doveva passare per forza e non può ritirarsi. Dylan Farrow non può cedere, anzi: è previsto che ribadisca per sempre che è stata vittima del padre; le sarà richiesto ancora per diversi anni di tornare sull'episodio. Ormai è vittima anche nel senso sacrificale del termine. Anche se non fosse un Enrico IV ormai prigioniero della sua finzione, anche se tutto fosse andato esattamente come lo raccontava la bambina alla mamma, a questo punto alla bambina dovrebbe essere consentito voltar pagina: a lei no, finché il padre non confessa: e siccome il padre non ne ha la minima intenzione, Dylan dovrà continuare ad accusarlo. Qualsiasi psicoterapeuta, in tempo di pace, farebbe presente che qui si sta sbagliando tutto: e in effetti se si trattasse di un semplice caso di abuso, questo sarebbe il peggior modo di gestirlo. Ma non è mai stato un semplice caso di abuso e ormai è proprio diventato tutt'altro.


"La cancel culture [scrivevo] si propaga attraverso prove di forza. Si individua un obiettivo e si martella finché l'obiettivo diventa indifendibile. Non ha così tanta importanza cosa abbia realmente detto o fatto l'obiettivo, quanti abusi abbia realmente commesso un Kevin Spacey o l'oggettiva incidenza di Cristoforo Colombo nella diffusione dello schiavismo. Si individua un punto debole del nemico e si batte sullo stesso punto finché non cede". Credo che lo si veda bene ad esempio in questo pezzo di Indiewire, dove la questione se Allen sia colpevole è definitivamente messa da parte. Quel che secondo l'autore dovrebbe interessare davvero ai lettori è: come mai la sua carriera non è ancora finita? Dopo tutto quello che gli hanno puntato contro, com'è possibile che stia continuando a lavorare? (Si sente, nel pezzo, l'angoscia dei graduati verso un nemico che secondo tutti i piani avrebbe dovuto ripiegare e invece è ancora lì, sui suoi pezzi: neanche contro questo rottame riusciamo a spuntarla?) In effetti con Spacey è praticamente bastato che un tizio si ricordasse di un episodio a una festa e puf, Spacey è stato letteralmente cancellato da un film già girato, e assassinato nella serie in cui faceva il presidente. L'errore probabilmente è stato pensare che Allen fosse attaccabile come uno Spacey o qualsiasi altra celebrità hollywoodiana – è il solito errore, alla fine: confondere gli USA con il mondo. Allen è senz'altro americano per nazionalità e cultura, ma dal punto di vista produttivo e culturale è ormai completamente alieno: in quarant'anni di carriera si è pazientemente costruito una nicchia autosufficiente che tutto sommato sembra reggere anche agli ultimi bombardamenti. Prima o poi dovrà cedere, se non al nemico, all'età: e a quel punto qualcuno potrà puntare una bandiera, annunciare che la missione è compiuta e passare oltre. Vien quasi da augurarselo: son tanto faticose le guerre.

[Il pezzo finisce così e non ho nemmeno fatto in tempo ad accennare al tema più interessante, ovvero lo slittamento tra pedofilia e pederastia – il modo in cui viene usata, per rafforzare le accuse contro Allen, la sua nota e vantata frequentazione di ragazze molto giovani, benché nell'età del consenso. Lo choc culturale per cui la relazione verticale descritta in Manhattan (un quarantenne con una 17enne), che in quegli anni sembrava socialmente accettabile, oggi viene equiparata senza mezzi termini a uno stupro e  considerata un forte indizio a favore di un altro abuso commesso nei confronti di una bambina di 7 anni – in sostanza negli anni '70 una 17enne era praticamente adulta, oggi invece non ci sarebbe differenza tra uscire con lei e con un'alunna della seconda elementare. Magari un altra volta se ho tempo e faccio un altro mestiere].

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Cos'è una croce?

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14 settembre - Esaltazione della Croce

Velazquez
[2012]. C'è la mamma di Daniele Luttazzi che si fa il segno della croce con un dito. Il papà la vede e le dice: "sei fortunata che non l'hanno impalato, sennò..." Di questa battuta, che ovviamente deve essere completata da un gesto preciso della mano destra, Luttazzi andava (va?) particolarmente fiero. "Mi piace", diceva, "il fatto che da questo momento in poi non riuscirete più a guardare un crocefisso senza pensarci". Qualche anno fa ci fu un caso un po' penoso di cui forse avete sentito parlare: Luttazzi dovette riconoscere che molte battute di cui si arrogava la paternità non erano farina del suo sacco. Il Cristo impalato però continuò a rivendicarlo, ignorando forse che qualche anno prima Paolo Poli era stato molto più sintetico e brutale: "Se Gesù fosse stato impalato, i Santi dove le avrebbero le stimmate?" Che Luttazzi possa non aver conosciuto la battuta di Poli è quasi probabile; difficile che ignorasse quella (già parecchio diversa) di uno dei suoi numi tutelari, Lenny Bruce: "Se Gesù fosse stato ucciso venti anni fa, i bambini delle scuole cattoliche porterebbero intorno al collo delle piccole sedie elettriche". Dove non è chiaro se Bruce ce l'avesse più coi cattolici o più con la pena di morte, ma questo era forse il bello di Bruce. Il quale a sua volta magari pescava da Heinrich Böll: "È una fortuna per gli esteti che la croce fosse lo strumento di morte abituale in Palestina, altrimenti dovrebbero appendere in camera da letto una ghigliottina o una forca". Böll a sua volta non poteva veramente ignorare quel famoso frammento del Discorso veritiero dove il filosofo Celso (II secolo dopo Cristo) scrive:
E dovunque da loro troverai l’albero della vita, e la resurrezione della carne dall’albero: questo, credo, perché il loro maestro fu inchiodato alla croce ed era di professione carpentiere. Così, se per caso egli fosse stato buttato giù da un dirupo, o spinto in un burrone, o strangolato con un capestro, o fosse stato ciabattino oppure scalpellino o fabbro, al di sopra dei cieli vi sarebbe un... dirupo di vita? O un burrone di resurrezione? O una corda di immortalità, o una pietra beata, o un ferro d’amore, o un cuoio santo? Ma quale vecchia intenta a canticchiare una fiaba per ninnare un bambino non si vergognerebbe di sussurrare cose del genere?
Il salto bimillenario tra Celso e Böll è dovuto - oltre alla mia ignoranza - dal fatto che in mezzo c'è stato un periodo in cui in Europa davvero, scherzare sul crocefisso non era molto consigliabile - meno di quanto lo sia oggi satirizzare su Maometto e la sua barba. Lo stesso Celso non ha avuto molta fortuna: la sua opera ha circolato liberamente finché i cristiani non hanno preso il possesso delle biblioteche, poi è rapidamente scomparsa. I frammenti che ci sono rimasti li ha salvati il suo miglior nemico, Origene, che per confutarlo scrisse un intero trattato, in cui non poteva evitare di citarlo. Se solo la Chiesa avesse avuto più apologeti alla Origene, e meno censori e raschiatori di codici antichi... ma raschiare è un risparmio, confutare è faticoso, insomma, è andata così. 

Un politico italiano in un'apparizione pubblica, ai tempi della prima sentenza.

Che il crocefisso, l'effigie di un cadavere esposta alla venerazione, sia qualcosa di scandaloso non è dunque una scoperta di Luttazzi. Lo era ai tempi di Paolo di Tarso, (1 Corinzi 22-24) lo era tre anni fa quando una signora italo-finlandese rivolse alla Corte europea dei diritti dell'uomo di Strasburgo più o meno il seguente quesito: mio figlio in Italia è costretto a studiare in una stanza dove è appeso il similacro di un uomo torturato e sanguinante, è legale questa cosa? La Corte in un primo momento disse no, sollevando un polverone che si era già abbondantemente posato quando nel marzo 2011 cambiò idea (il che è sempre sbagliato, parlo per me: il crocefisso appeso non mi dà fastidio, me ne danno di più i giudici che cambiano idea). Nel frattempo in molte aule e luoghi pubblici il simulacro continua a essere esposto con i chiodi e le ferite e tutto quanto. A causa di un bizzarro fenomeno di assuefazione culturale, la maggior parte degli italiani (e dei cattolici in generale, forse) non ci fa caso. Ovvero: facciamo tutti caso a un crocefisso, quando c'è, e magari litighiamo sul suo significato politico-storico-religioso-identitario, ma non lo guardiamo mai veramente per quel che è. Il fatto che descriva, con orripilante realismo, l'aspetto di un uomo torturato a morte, non colpisce quasi mai la nostra attenzione. Bisogna che arrivi Daniele Luttazzi con una battuta (o Paolo Poli, o Lenny Bruce, o chi volete).

In ogni caso io ho una risposta per Luttazzi e per Poli: se in luogo di essere crocifisso - la punizione capitale che veniva inflitta più frequentemente agli schiavi ribelli nelle province romane - Gesù fosse stato impalato, ebbene, i cristiani di oggi farebbero lo stesso identico segno della croce: e i santi continuerebbero a mostrare stimmate alle mani, ai piedi, al costato. Come faccio a saperlo? La domanda è malposta. Chiediamoci piuttosto: come facciamo a sapere che Gesù è stato davvero crocefisso? Siamo sicuri che non sia stato piuttosto impalato, o strangolato, o precipitato in un burrone? In realtà no, non siamo sicuri di nulla. Persino se decidiamo di prendere per buoni i vangeli, ci rimangono ancora ampi margini di dubbio. Ma come, direte, nei vangeli la croce c'è (anzi, ce ne sono tre). Sì, ma qui sta appunto il problema: cosa significa "croce" nei vangeli? Oggi il primo significato a cui associo la parola non è nemmeno religioso, ma geometrico: la croce è l'incrocio di due segmenti, c'è quella latina col braccio basso più lungo, mentre quella greca è un equilatero, eccetera. La Croce Rossa, la Croce del Sud, non ci sono dubbi su cosa sia una croce. Oggi. Ma per i contemporanei di Gesù la parola latina "crux", la parola greca σταυρός, indicavano per prima cosa il più orribile e umiliante dei supplizi capitali. La forma dello strumento di tortura era secondaria: una "crux" poteva avere diverse forme. I pali non avevano necessariamente la forma che vediamo nei dipinti, e non erano necessariamente due: un uomo inchiodato o legato a un solo palo era ugualmente "crocefisso". E i vangeli, anche se parlano di croci, non le descrivono mai. Dunque perché noi ci immaginiamo la croce fatta proprio in un certo modo? Perché ci facciamo il segno della croce proprio in un certo modo? 

Ma li inchiodavano davvero? In Giudea sì: il reperto a destra (I sec. dC) è stato ritrovato in Israele (a sinistra una ricostruzione).



Chiunque abbia discusso un po' con un testimone di Geova conosce l'argomento: Gesù potrebbe benissimo essere stato fissato a un semplice palo di tortura. La croce dei cristiani sarebbe un simbolo pagano preesistente, un idolo riciclato, un mandala.Ipotesi affascinante, ma probabilmente errata. Nel primo secolo dopo Cristo la crocifissione era ormai una procedura standard, che i Romani praticavano più o meno nello stesso modo ovunque gli schiavi dessero problemi. In un primo momento (1) si fustigava il condannato (senza esagerare, altrimenti moriva lì: quando ci si mettevano i Romani ti tiravano fuori le ossa a nerbate); si procedeva quindi (2) a fissare le braccia a un travicello (patibulum), con corde e/o inchiodando i polsi; così conciato (3) lo si conduceva nel luogo dell'esecuzione, spesso su un'altura - e il percorso in salita, col patibulum già attaccato alla schiena, era un'ulteriore tortura - ivi giunti (4) si innalzava il condannato su un palo verticale conficcato al suolo, fino a un'altezza di tre metri, dove il patibulum veniva assicurato al palo medesimo. Infine (5) si legavano (o inchiodavano) i piedi, e si aspettava. Ancor più che una forma di tortura, la croce era un'umiliazione: l'esposizione del moribondo, che poteva durare giorni interi, e spesso proseguiva ben oltre il decesso - le spoglie di solito non venivano sepolte, finivano in discarica. Tuttora non siamo sicuri sul modo in cui i condannati spirassero (dissanguamento? asfissia?); sappiamo che potevano rimanere appesi per giorni e notti. Qualcuno riusciva anche a staccarsi e farla franca. In qualsiasi momento comunque l'autorità poteva decidere di tagliar corto e ordinare agli aguzzini di praticare il crucifragium, ovvero la rottura delle ossa delle gambe. A quel punto i condannati, non potendo più reggersi, morivano soffocati. Fu la sorte dei due ladroni crocifissi con Gesù, il quale invece era già morto quando il legionario incaricato  andò a controllare. I racconti evangelici (piuttosto realistici, eclissi a parte) sono sostanzialmente compatibili con questa procedura standard, il che ci porta a concludere che la forma più probabile della croce sia proprio quella che troviamo appesa nelle aule scolastiche. 

Sullo stendardo di Costantino c'era il Chi-Ro (X+P), non la croce. In epoca precristiana rappresentava ChRonos, il Tempo. Quando l'imperatore apostata, Giuliano, lo fa rimuovere da un monumento allo zio Costantino (360 ca.), il Chi-Ro è già un simbolo cristiano.


Però non possiamo esserne sicuri. Gesù potrebbe essere stato inchiodato (o legato) a una croce di Sant'Andrea, o a una forca, e persino a un palo solo: e anche se è abbastanza improbabile che sia stato impalato nella maniera suggerita da Luttazzi e Poli (un supplizio non attestato presso Romani né Ebrei) immaginiamo per assurdo che un orrore del genere fosse successo: i cristiani hanno avuto più di mille anni per cancellare le evidenze e rimodellare la scena nel modo più scenografico possibile. Alla croce - come la intendiamo oggi - dovevano arrivarci per forza. È la forma più fotogenica, la più adatta ad attirare l'attenzione di chi rimira la pala d'altare: è simmetrica, rigogliosa di simbologie (i quattro punti cardinali) e, come già notava Origene, dietro la maschera di dolore ci mostra un abbraccio. Se non esistesse il crocefisso, insomma, lo avrebbero inventato. E non è da escludere che lo abbiano fatto, magari in un secondo momento. Non siamo nemmeno sicuri che i cristiani riconoscessero nella croce un simbolo cristiano, almeno fino al quarto secolo. Fino a quel momento il segno più spesso associato alla religione di Gesù era l'ichthýs (un pesce stilizzato); anche sotto Costantino viene spesso utilizzato il monogramma Chi-Ro, che sovrappone le prime due lettere della parola Christos. A dire il vero un crocefisso databile nel primo o secondo secolo c'è, ma pone un problema: non è un esattamente un simbolo religioso, anzi: è uno sgorbio osceno. 

"Prega il tuo Dio, Alessameno!"




Siamo sempre a scuola (il Paedagogium, un collegio sul colle Palatino). Pensate, il primo crocefisso a scuola non l'ha messo un prof di religione, ma lo ha inciso con un temperino un ragazzo che voleva sfottere un compagno, Alessameno, dal nome greco e dalla religione esotica. L'intento parodico è evidente nella scelta di raffigurare Gesù con una testa d'asino. I cristiani venivano chiamati confidenzialmente "asini che portano misteri", e venivano spesso accusati di adorare un Dio mezzo uomo mezzo mulo. Il disegnino scolastico più studiato della storia dell'uomo descrive sommariamente una croce proprio come ce la immaginiamo e come la disegnerebbe un ragazzino con un punteruolo, con il dettaglio realistico del predellino per i piedi (che veniva tolto quando si voleva accelerare il decesso). La sgraziata didascalia ("Alessameno venera il suo DIO") suona ai nostri orecchi postmoderni decisamente bullistica. Però anche questa in fin dei conti è una ricostruzione a posteriori: vediamo un crocefisso e lo riconduciamo immediatamente a Gesù, ma a quei tempi si crocifiggeva un po' chiunque; il Dio di Alessameno potrebbe anche essere qualche altra entità asinocefala.  Per vedere un Cristo in croce in una raffigurazione ufficiale dobbiamo aspettare il quinto secolo, quando compare tra i ladroni in una formella della porta lignea della basilica di Santa Sabina a Roma. Ma anche in questo caso - esempio interessante di autocensura - le croci non si vedono: sono del tutto coperte dai corpi dei suppliziati. Come se  piuttosto che un simbolo venerabile fossero ancora un tabù, qualcosa che indubbiamente c'è ma che è meglio non mostrare.

 

 Ancora negli anni di impero di Costantino, il sovrano che promulgò la libertà di culto (313) e forse si convertì e forse no, che forse vide una croce in cielo e forse no, gli schiavi ribelli continuavano a essere appesi a delle croci. La cose andò avanti fino a Teodosio, l'imperatore che nel 380 proclamò il cristianesimo religione di Stato. Fino a quel momento la croce richiamava l'umiliazione, la tortura e la morte. Certo, Costantino aveva raccontato al suo amico e biografo cristiano, Eusebio di Cesarea, di aver visto la croce iscritta nel sole alla vigilia della battaglia decisiva di Ponte Milvio. Il racconto non doveva essere molto convincente, se ne dubitava perfino Eusebio, che avrebbe avuto invece tutto l'interesse a propagarlo con entusiasmo. C'è da dire che di visioni di Costantino ne circolavano tante: in un tempio di Apollo a Treviri avrebbe visto tre X sormontate di alloro, per un totale di 30 (XXX) anni di vittorie; molti suoi legionari adoravano il Dio Mitra e portavano sugli scudi una croce simile al Chi-Ro. Magari Costantino amava modellare la storiella sulla fede del suo interlocutore: ai cristiani raccontava di una croce, ai pagani di Apollo e dell'alloro, se avesse avuto legionari indù gli avrebbe raccontato di quella volta che strinse le mani alla Dea Kalì. Era un dittatore militare che si barcamenava come poteva in un momento di forti tensioni religiose. Non si battezzò che in punto di morte, e chissà quanti altri sacerdoti e santoni ricevette sul medesimo letto. La sua immagine di imperatore cristiano dipende semplicemente dal fatto che mezzo secolo dopo i cristiani avevano vinto, ed erano liberi di raccontare la storia come meglio credevano, coi simboli che credevano.Ancor più che a Costantino, la croce fu associata a sua madre, l'imperatrice Elena, che rispetto al figlio aveva l'indubbio vantaggio di essere riconosciuta come santa. È a lei che viene attribuito il ritrovamento della Vera Croce a Gerusalemme, durante la demolizione del tempio pagano che occupava il luogo del Santo sepolcro. All'inizio il 14 settembre era semplicemente l'anniversario dell'inaugurazione della basilica, nel 335; i primi resoconti in cui compare la croce risalgono a una decina d'anni dopo. La reliquia diviene ovviamente il fulcro dei pellegrinaggi a Gerusalemme, anche se molto presto perde i suoi attributi più preziosi, i chiodi. Già prima di Cristo i chiodi dei crocefissi erano considerati potenti talismani. Quelli della vera croce, trasportati a Costantinopoli, finiscono un po' dappertutto: fusi negli elmi imperiali, nei morsi dei cavalli, sulla Sacra Lancia, nella corona ferrea, nel duomo di Milano, ovunque. 

La croce schiodata rimane a Gerusalemme per tutto l'Alto Medioevo - con un breve intermezzo tra il 614 - quando lo Scià Cosroe II saccheggia la città - e il 628, quando Eraclio lo sconfigge e recupera la reliquia. I conquistatori arabi, sopraggiunti poco dopo, non sembrano porre problemi. Le cose cambiano con l'arrivo dei più intransigenti turchi, ma siamo già verso l'anno Mille. È in quel momento che della Vera Croce si perdono le tracce. Ne ricompare un grosso frammento, incastonato in una croce d'oro, nel 1099, durante l'assedio crociato di Gerusalemme (quello che terminerà con un massacro indiscriminato). Come al solito in questi casi l'unico certificato di autenticità è l'entusiasmo dei fedeli, e la loro vittoria finale. La reliquia era tuttavia destinata a venire nuovamente smarrita nel giro di un secolo, a causa dell'abitudine crociata di portarla in processione durante le battaglie, battaglie che sempre più spesso i crociati perdevano. La Croce scompare durante la catastrofe tattico-logistica di Hattin, l'assurda battaglia del 1187 magistralmente descritta da Ridley Scott in Kingdom of Heaven, un titolo che non vi dice niente, vero? In italiano si chiama Le crociate con Orlando Bloom, io perlomeno quando lo proietto a scuola lo chiamo sempre così e tutti lo apprezzano, forse perché sperano che da un momento all'altro saltabecchi fuori Jack Sparrow - e invece si ritrovano davanti Edward Norton nei panni del re lebbroso, una magistrale interpretazione, ma non divaghiamo. 

Ridley Scott, Kingdom of Heaven, AKA "Le crociate con Orlando Bloom", 2005.

Dopo Hattin i cristiani sono costretti a evacuare Gerusalemme: il prode sultano Saladino decide di non vendicare il massacro del 1099 (lode ad Allah il Misericordioso). Di pezzi di croce a Gerusalemme non se ne troveranno più, ma non importa. I pellegrini avevano avuto quasi un secolo a disposizione per andarla a vedere, e si sa cosa succede in questi casi, no? Ognuno fa quel che può per portarsene a casa un pezzetto. La proliferazione di Veri Frammenti della Vera Croce in tutte le chiese della cristianità occidentale diventa nel giro di qualche secolo un fenomeno imbarazzante per i cristiani stessi, al punto che qualcuno comincia a ipotizzare una virtù miracolosa del legno originale, che gli consentiva di riduplicarsi all'infinito. Una toppa del genere era peggio del buco, visto che prefigurava una vera e propria inflazione di Veri Frammenti: la riproducibilità ne avrebbe fatto crollare il prezzo. Al contrario ogni monastero o diocesi o pieve ci teneva a ribadire l'originalità e la rarità del suo Frammento, e la cosa andò talmente avanti che nel Cinquecento in Europa si sarebbe potuto riempire un'intera nave soltanto di Veri Frammenti. Così almeno scriveva Calvino nel suo Trattato delle reliquie. Solo nel 1870 uno studioso francese (Rohault de Fleury) si prese la briga di inventariare davvero tutti i Frammenti ritrovati e sommarne la cubatura, ottenendo una stima insospettabilmente bassa, 0,004 metri cubi: perfettamente compatibile con il volume di una croce che doveva aggirarsi intorno agli 0,178 metri cubi. Certo, in mezzo c'erano tre secoli di guerre religiose, dinastiche e napoleoniche: magari molta legna si era persa per strada. Il minuscolo pezzettino della mia chiesa di Sorbara è ancora lì, immagino. Mal che vada ne grattugeremo un'altra briciola dal pezzo che sta all'abbazia di Nonantola, sei chilometri più in là. Rigettato dai protestanti, il crocefisso si è legato sempre di più all'iconografia cattolica, che dalla Controriforma in poi, tra Sacri Cuori coronati di spine, e amputazioni di martiri, e miracolose emorragie, ha scoperto una certa tendenza al Grand Guignol spirituale. È curioso che dopo esser cresciuti in mezzo a immagini del genere, tanti di noi se la prendano coi film e i videogiochi che banalizzano la violenza. Il crocefisso funziona allo stesso modo: ti mette sotto il naso un uomo agonizzante o cadavere, finché non ci fai più caso, finché non diventa un semplice simbolo religioso o identitario o politico a cui associ qualsiasi significato tranne quello della carne e del sangue. Bisogna che arrivi qualcuno da lontano, ogni tanto, a ricordarcelo. Forse basterebbe davvero toglierlo dalle pareti, e aspettare che torni il bullo archetipico, il compagno di Alessameno, che ce lo incida sul banco per spremerci una fitta al cuore.
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Schizogene e la sposa inventata

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– Il dibattito su Indro Schizogene Montanelli, che si è trascinato per quasi un mese, ci ha lasciato pochi punti fermi e uno è lo stato necrotico del giornalismo italiano. Invece di discutere il contesto, di improvvisarsi storici o antropologi, i giornali riguardo a Montanelli avrebbero dovuto fare una sola cosa, molto semplice: andare a verificare la notizia. Magari non nel 2020, con tutti i problemi del lockdown; ma se ne parla già da un anno buono, il pubblico sembra interessato, e da Fiumicino partono voli per l'Africa orientale tutte le settimane: c'era il tempo e l'agio per mandare un reporter in Eritrea a controllare se risultasse un "Indro" nato nel 1938. Visto che è lo stesso Montanelli a raccontarci che Fatima (o Destà) aveva dato il suo nome al primo figlio. "Indro" è un nome strano in italiano, figurarsi in tigrino. Dovrebbe stare sull'ottantina: magari ha avuto figli, magari qualcosa hanno sentito raccontare della nonna. Ecco, una volta si pensava che i giornalisti dovessero fare questa cosa, la caccia alle notizie. Almeno provarci. Invece tra 2019 e 2020 siamo stati più di un anno a discutere una storia che ha una fonte sola: e questa fonte è lo stesso Montanelli, che ogni volta la raccontava un po' diversa.  Prima si chiamava in un modo e aveva dodici anni, poi si chiamava in un altro modo e ne aveva quattordici, ecc. ecc. Finché qualcuno giustamente non si è domandato: ma non potrebbe essersi inventato tutto? E nessuno ha sentito la necessità di rispondere.


Ma pensa se davvero si è comprato la foto
 in un mercatino, e poi la mostrava ai colleghi
appesa accanto a quella delle altre mogli.
– Su Montanelli forse avevo ragione quando scrivevo: tiratene giù il monumento prima che il giornalismo italiano prenda la decisione di difenderlo a tutti i costi, prima che ne faccia il suo Fort Apache. Troppo tardi: e così ho potuto leggere e sentire cose straordinarie. Montanelli innamorato. Montanelli che voleva diventare abissino. Montanelli che va relativizzato perché anche nella Bibbia fanno i sacrifici umani (ma veramente no, nella Bibbia non li fanno; ma anche se li facessero, cosa c'entra la Bibbia col 1936... vabbe'). Montanelli giustificato così, Montanelli giustificato colà, neanche fosse un ricco vivo che vi tiene a libro paga, no: l'arte che avete imparato per tenervi a galla tra salotti e redazioni la state impiegando per relativizzare un tizio che se ne strafotteva e raccontava allegramente avventure africane vere o immaginate. E più ne parlavate, più ci confermavate l'unico fatto concreto: ovvero che il tizio si fosse affittato una ragazzina. Le vostre chiacchiere sfumano, e il fatto resta lì incontestato. Ma è questo sul serio il vostro mestiere?

– Di Montanelli forse ho avuto torto a fidarmi. Dettaglio imbarazzante: 19 anni fa, appena tornato da Genova, le pale degli elicotteri ancora nelle orecchie, mentre cerco di scrivere qualcosa di leggibile per le dieci persone che mi leggono e si stanno preoccupando, scopro che IM è appena morto e gli dedico il resoconto che sto scrivendo. Non sono mai stato tanto lontano dalle sue idee, che in quel momento non mi interessano minimamente. Della sposa bambina avevo già sentito parlare e mi sembrava un dettaglio lontanissimo nel tempo, impossibile da accostare all'anziano giornalista che faceva parte del mio paesaggio mediatico sin da quando ero bambino. L'unica cosa che mi muove in quel momento è l'immagine mentale del reporter con la macchina da scrivere sulle ginocchia, il mito del reporter che scrive mentre osserva e scrive solo quello che osserva. Precisamente il monumento che gli hanno fatto. E che al di là di ogni considerazione sugli abusi coloniali, probabilmente non si merita.



– Per me Montanelli era questo: un tizio con opinioni terribili ma un certo rispetto per la verità. Questa cosa m'interessava salvare: ho un approccio storico, m'interessano le testimonianze, non i moralismi. Se avesse avuto scrupoli morali, avrebbe cercato di occultare l'episodio: meno male che non li aveva, meno male che non hai mai pensato di chiedere scusa (come se chiedere scusa servisse a qualcosa) (sul serio, se avesse chiesto scusa 50 anni dopo la statua non gliel'imbrattereste lo stesso?) Finché non ho letto questo pezzo che mi ha messo in crisi. In effetti un tizio che ha raccontato di aver incontrato Adolf Hitler perché si era attardato a pisciare in un cespuglio potrebbe anche essersi inventato una sposa bambina. Perché? Per i motivi per cui i mitomani mitomaneggiano, e che cambiano col tempo: nel 1950 per vantarsi con gli amici, nel 1976 per trollare le femministe, nel 2000 perché ormai era troppo tardi per cambiare versione – come Enrico IV. Tutto plausibile, salvo i cortigiani che continuano a recitare a soggetto dopo vent'anni che il re è morto. E così continuiamo a discutere di una ragazza che magari nemmeno esiste, magari è una foto che IM si è comprato a un mercatino di Asmara. Oppure è esistita ed è la protagonista di un abuso coloniale, ma insomma, sarebbe utile saperlo. O no? Perché ho anche sentito dire questo, in questi giorni. Che alla fine non è necessario che Montanelli abbia abusato di una ragazzina: basta che se ne sia vantato. Non è che non abbia senso: alla fine anche una bugia può servirci a capire la psicologia di chi la racconta e di chi se la fa raccontare. Ma anche quella di chi ci casca, e a volte vuole cascarci.

– Di Montanelli ho sentito dire di tutto. Mi ha colpito la difficoltà di molti a contestualizzare non già le vicende di un graduato italiano nel 1936, ma i discorsi di un giornalista italiano nel 2000. Perché non chiedeva scusa? Perché le scuse non servono mai, e comunque riteneva di non aver fatto nulla di male. Perché ha cambiato l'età, che nel 1969 era 12 anni e nel 2000 diventa 14? Perché nel 2000 (anno 5 post Marcinelle) la pedofilia era diventata uno stigma sociale; sarebbe utile tenere conto che prima non lo era; a proposito, uno storico dovrebbe trovare interessante il fatto che racconti l'infibulazione, un dettaglio che nel 1969 avrebbe considerato ributtante o forse nemmeno conosceva. In ogni caso difficilmente nel 1976 o nel 2000 avrebbe potuto conoscere l'età precisa della ragazza africana dal momento che... non so, avete mai giocato con le figurine? Io da bambino avevo l'album Panini Espana 1982; non lo completai, ma scoprii nell'occasione che dei calciatori africani non veniva riportata la data di nascita. Non si sapeva. Nel 1982. Parliamo dei giocatori delle nazionali, non di abitanti della jungla. Può anche darsi che cinquant'anni prima Montanelli avesse accesso al certificato di nascita della sposa, ma è lecito dubitarne. Il vero discrimine in molte culture rurali (Italia compresa) è il menarca: prima si è bambini, dopo si è adulti, fine della questione. Montanelli insiste sul concetto, anche se ne parla col linguaggio di un giornalista del dopoguerra: non si abbassa a dire "mestruazioni", si limita a scrivere cose come "in Africa a quell'età si è adulte" e si aspetta che lo capiamo.



– Invece Montanelli noi non lo capiamo più. Non capiamo più quello del 2000, figurarsi quello che affittava ragazzine o sosteneva di averlo fatto. Tra i tanti che si affannano a giudicarlo ho trovato notevoli coloro che invece di adoperare il loro personale metro morale del 2020, cercano di fabbricarsene uno vintage: ovvero desiderano dimostrare quanto Montanelli fosse considerabile un maniaco sessuale anche per i costumi e i codici dell'Italia fascista. Col risultato indiretto di rivalutare i costumi e i codici di siffatta Italia. Ho letto cose come: quello che Montanelli faceva in Africa, in Italia sarebbe stato reato! Già, e questo era il motivo per cui certe cose venivano promesse ai volontari in Africa: Faccetta nera, l'avete mai sentita? Scrivono: ma il madamato era esecrato anche dal generale, dal tale politico. Sì ma forse a questo punto vi sfugge il quadro: il tale generale e il tale politico erano contrari al madamato in quanto razzisti che intendevano stabilire un regime di segregazione. È un dato acquisito dagli storici che la propaganda di regime abbia attirato i volontari con un'esca sessuale, e dopo i primi matrimoni abbia virato direzione.

– Abbiamo bisogno di mostri, così come abbiamo bisogno di eroi. La statua in effetti si potrebbe togliere (o museificare), ma poi toccherebbe individuare qualche altro feticcio e scoperchiare cose più noiose (il Risorgimento?) L'esigenza di fare di Montanelli un mostro sottopone alcuni antifascisti a una tale torsione che finiscono per riabilitare il contesto; per dimostrare che Montanelli era un mostro anche per le leggi fasciste e per i costumi fascisti, e per i fascisti che passavano e osservavano. E così dopo un lungo giro si ritorna all'archetipo degli italiani brava gente. Per quel che interessa, io non credo in una Storia di eroi, né di mostri. L'eventuale Montanelli-mela-marcia interessa molto meno del sistema che ha permesso, ispirato e tollerato le sue eventuali mostruosità.

– Se però accettiamo che Montanelli invece di un mostro sia un mitomane, c'è da riscrivere un pezzetto di Storia d'Italia magari non cospicuo ma trasversale. Alcuni dettagli di quello che sappiamo cambiano significato. Com'è noto, Montanelli dopo l'otto settembre fu arrestato dai tedeschi e tradotto in una prigione a Gallarate – dove fucilarono quasi tutti i suoi vicini di cella – e poi a San Vittore, dove tra i prigionieri conobbe un giovanissimo Mike Bongiorno e il cosiddetto generale Della Rovere – in realtà un truffatore infiltrato dai nazisti. Anche a San Vittore dopo un po' cominciarono le esecuzioni. A Fossoli finì fucilato anche il sedicente generale, su cui qualche anno dopo Montanelli scriverà un soggetto cinematografico per Rossellini (il ruolo sembrava tagliato addosso a Vittorio De Sica) e poi in un romanzo. Il generale Della Rovere è un prototipo dell'antieroe della commedia all'italiana, un imbroglione senza scrupoli che viene introdotto in una prigione per fare la spia, ma proprio grazie al suo istrionismo riesce a riscattarsi e dopo un'improvvisa alzata d'orgoglio muore da eroe come capiterà a Sordi e Gassman nella Grande Guerra. A questo punto però concedetemi il dubbio notturno: se il generale Della Rovere fosse un alter ego di Indro Montanelli? Se fosse lui l'imbroglione che teneva alto il morale dei prigionieri? Se nel romanzo Montanelli avesse esorcizzato il suo rimorso per essersi salvato la vita tradendo i compagni di prigionia, inventandosi un gemello buono che faceva tutto il contrario e moriva da eroe?

– La cancel culture (che per ora da noi è una più modesta imbratta-di-vernice-culture) si propaga attraverso prove di forza. Si individua un obiettivo e si martella finché l'obiettivo diventa indifendibile. Non ha così tanta importanza cosa abbia realmente detto o fatto l'obiettivo, quanti abusi abbia realmente commesso un Kevin Spacey o l'oggettiva incidenza del ruolo di Cristoforo Colombo nella diffusione dello schiavismo. Si individua un punto debole del nemico e si batte sullo stesso punto finché non cede. Non è che prima di Twitter si lottasse diversamente. A chi si sente sotto assedio consiglierei di dare un'occhiata ai punti deboli del nemico; di confondere le acque, magari mandando un'ambasciata a stabilire qualche punto fermo, qualche convenzione tra belligeranti (ad esempio: fino a prova contraria si è innocenti). Ai giornalisti italiani non consiglio niente perché nulla più hanno da difendere – giusto un'altra serata a raccontarsi quanto erano bravi, quanto erano furbi, nell'attico di un quartiere abbandonato. Che Montanelli li abbia presi per il culo tutta la vita: che si sia fatto trattare da maestro mentre li stordiva di frottole, è una circostanza che troverei appropriata – una volta dimostrata.
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Lo sai che si dice dei cattolici

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Ci sono ebrei al mondo, e buddisti,
mormoni, islamici e sikh.
Ci son Testimoni e battisti,
ma io... io non sono così.



Son tra i cristiani cattolici,
ci sono da sempre, e lo sai
che c'è di bello a esser cattolici?
Vai bene così come sei.

Non serve essere alto e prestante,
o un nobile o un genio, perché
cattolico sei dall'istante
in cui tuo padre è venuto per te.

Infatti...

Ogni sperma è sacro,
ogni sperma è santo.
Se sprechi lo sperma
Dio si altera alquanto.

Lascia gli infedeli
tristi a sgocciolare:
ogni goccia persa
Dio la sta a contare.

Ogni sperma è santo,
ogni sperma è sacro.
Se sprechi lo sperma,
Dio sa che è un massacro.

Indù, ebrei, taoisti
spruzzano qua e là,
ma Dio salva soltanto
chi si conterrà.

Ogni sperma è santo,
Dio ce l'ha donato.
Ogni sperma è una risorsa
per il vicinato.

Ogni sperma è santo,
ogni sperma è buono.
Ogni sperma è utile,
ogni sperma è un dono.

Lascia che i pagani
innaffin monti e mare:
ogni goccia persa
Dio la fa pagare

Ogni sperma è sacro,
ogni sperma è santo.
Se getti lo sperma,
Dio si arrabbia,
tanto.

Every Sperm Is Sacred, musica di André Jacquemin e David Howman, testo di Michael Palin e Terry Jones (1942-2020).

(Ho sempre pensato che sarebbe stato giusto averne una traduzione cantabile in italiano, non importa quanto inferiore all'originale).
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Le canzoni dei Beatles (#234-225)

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Cinquant'anni fa i Beatles cominciavano a sciogliersi, dopo aver inciso più o meno 250 brani che sul Post ascolteremo dal peggiore al migliore. Senza smettere di domandarci: in che senso "peggiore"? in che senso "migliore"? Davvero That Means a Lot è peggiore di Ticket to Ride o la pensiamo così soltanto perché la prima è stata scartata? Davvero Junk è spazzatura? E se Teddy Boy fosse un capolavoro? Ah ah ah – NO. 

Le 250 migliori canzoni dei Beatles (#254-235).

(La playlist  #234-225 su Spotify).

234. That'll Be the Day

You say you're gonna leave, you know it's a lie / 'Cause that'll be the day when I die. Secondo la leggenda (avvalorata dal film Nowhere Boy), That'll Be The Day sarebbe stata registrata il 15 luglio 1958, pochi giorni dopo la morte di Julia, la madre di Lennon, in un incidente stradale. I 15 scellini necessari per stampare il disco di lacca sarebbero stati l'ultimo regalo di Julia al figlio. Come facciamo a sapere che è una leggenda? Colin Hanton, il batterista, ricorda una giornata gelida, tanto che era entrato nella piccola sala di registrazione con una sciarpa e l'aveva usata per attutire il rullante quando il proprietario della sala si era lamentato per il rumore.

Hanton potrebbe anche ricordarsi male, così come voi magari non ricordate bene quando avete inciso questo o quel nastro con la vostra band di trent'anni fa (che però non è diventata la più famosa al mondo). Il vero motivo per dubitare dell'aneddoto è che combacia quasi perfettamente col testo della canzone: mi hai dato tutti i tuoi abbracci e i baci e anche i soldi. Il giorno che mi lascerai sarà il giorno in cui piangerò, sarà il giorno in cui muoio. Cose che succedono al cinema, più che nella realtà.

That'll Be the Day è uno dei due pezzi incisi dai Quarrymen presso il piccolissimo studio del signor Phillips, il retrobottega del suo negozio di dischi e giradischi. Gli acetati avevano il grosso difetto di deteriorarsi dopo pochi ascolti: i professionisti li usavano per incidere demo da sottoporre ad altri artisti, i dilettanti per creare un bel ricordo da conservare, più che riascoltare. I cinque Quarrymen si mettono d'accordo per conservarlo una settimana a testa: John lo tiene la prima settimana, poi lo passa a Paul che dopo una settimana lo passa a George che dopo una settimana lo passa a Colin che dopo una settimana lo passa a John "Duff" Lowe, che lo infila da qualche parte e se lo dimentica vent'anni... per poi cederlo al milionario Paul McCartney in cambio di una cifra che non è mai stata resa nota. Ora lo possiamo ascoltare tutti gratis su Internet. In mezzo a un baccano abbastanza ordinario, la voce di John è già inconfondibile.



233. Bésame Mucho (Velázquez; incisa nel 1962 durante il provino della Decca)

Cha-cha-boom! Se ora fate partire la Bésame dei Beatles su Spotify, e subito dopo cominciate a cercare tutte le Bésame Mucho su Spotify, finirà la canzone prima che riusciate a visualizzarle tutte, volete provare? Sennò fidatevi. La leggenda più diffusa su Bésame Mucho è che l'autrice, quando la compose (a 24 anni) non era ancora stata baciata, né mucho né poquito: nada de nada, povera Consuelo Velázquez. Paul mentre canta non suggerisce la stessa inesperienza, anzi si atteggia a crooner consumato e in effetti un dettaglio comune di molte cover di quel provino (alcune abbastanza improbabili) è che presuppongono nell'interprete un carisma da latin lover. The Sheik, Bésame, la stessa Ain't She Sweet che era pur repertorio di Sinatra. E siccome a scegliere i pezzi fu Brian Epstein, viene spontaneo domandarsi: l'ha fatto apposta? Sul serio stava cercando di lanciare quattro teddy boy di Liverpool calcando sul loro sex appeal? O semplicemente si fidava del suo gusto, e il suo gusto lo portava in una direzione un po' più camp di quella che poi i Beatles avrebbero preso?



Bésame i Beatles avevano iniziato a suonarla ad Amburgo, in una fase in cui erano juke-box viventi e l'eclettismo, durante concerti che duravano due o tre ore, più che una scelta estetica era una necessità. Il brano arriva alla Decca perfettamente rodato, e se ci sembra assurdo è appunto perché i Beatles lo lasciarono a quel bivio; ma se alla Decca fossero piaciuti, chissà.



232. In Spite of All the Danger (McCartney-Harrison; registrato su acetato dai Quarrymen nel 1958; ora in Anthology 1).

Malgrado tutto il pericolo, malgrado tutto quello che potrebbe succedere, farò qualsiasi cosa per te. In Spite of All the Danger è incisa sull'altro lato del disco 78giri in acetato prodotto nello studio del signor Phillips in un giorno imprecisato del 1958. Se vi sembra assurdo che questa istantanea sfuocata di 60 anni fa sia di gran lunga il pezzo più ascoltato su Spotify tra tutti quelli che abbiamo passato in rivista fin qui, considerate che è inciso sul disco più raro e quotato mai esistito. Ed è in assoluto la prima canzone originale dei Beatles... che non si chiamavano ancora così: diciamo che è la prima canzone originale di Paul McCartney, anche se una scritta a pennarello sulla label dell'acetato reca la dicitura "McCartney-Harrison", in quanto quest'ultimo era l'autore dell'assolo di chitarra. Lo stesso Paul poi sta smaccatamente ricalcando un pezzo di Elvis Presley che ha ascoltato a un campo scout, Tryin' to Get to You: la melodia è praticamente identica, anche il testo è simile. Nel 1958 Paul non ha ben chiaro il concetto di proprietà intellettuale: crede che le canzoni siano di tutti, e se decide di cambiare le parole probabilmente è perché non si ricorda il testo di Elvis né è riuscito a procurarsi il disco o lo spartito. Non ha nessuna velleità autoriale, per ora: non sta cercando neanche di sembrare originale. Ci riesce lo stesso.

Quel che rende In Spite una canzone diversa, non già beatlesiana ma nemmeno così presleyana, è l'intreccio vocale. Lasciando perdere il batterista, che suona troppo lontano dal microfono, i Quarrymen consistono di tre voci e tre chitarre che suonano gli accordi praticamente all'unisono, salvo il momento del non esaltante assolo. Magari il "muro di chitarre" era l'unico sistema per farsi ascoltare alle feste senza amplificatori, ma nello studio del signor Phillips di tanto baccano non c'è bisogno, è ridondante. Per contro, le tre voci sono già alla ricerca di armonizzazioni sofisticate (il che non significa che le trovino).

L'altro motivo per cui In Spite negli ultimi anni è diventata così popolare potrebbe essere la versione filologicamente correttissima contenuta nel film Nowhere Boy, un esempio clamoroso di potere del cinema, anche mediocre. Nowhere Boy non è un capolavoro, e il modo in cui utilizza In Spite per farci piangere non ha nulla di originale: è un banale montaggio di immagini di Julia Lennon, di John che balla con lei, che si ricorda di lei, che canta questa canzone evidentemente a lei. Funziona benissimo anche se non è vero niente: la canzone è di Paul, non ha nulla di strappalacrime in sé, John la canta con partecipazione ma non fa ancora spettacolo dei suoi sentimenti.





231. You Know What To Do (Harrison; outtake del 1964; ora in Anthology 1).

So if you want me just like I need you... You Know What to Do è la canzone che per poco non ha stroncato la carriera compositiva di George Harrison. Forse. Quel che è sicuro è che George era già stato accettato come terzo compositore dei Beatles nel loro secondo LP, che ospitava Don't Bother Me, incisa nel settembre del 1963. Per ascoltare una sua nuova creazione (I Need You) i fan avrebbero dovuto aspettare il febbraio del 1965: nel frattempo altri due album erano usciti senza brani firmati da George. Cosa lo aveva bloccato?

Secondo George Martin, Harrison si era scoraggiato quando "nessuno di noi aveva apprezzato una cosa che aveva scritto". Ora, l'unica "cosa" di Harrison che conosciamo tra il 1963 e l'inizio del 1965, è appunto You Know What to Do, registrata in fretta un giorno prima di partire per un tour, con Paul al basso e forse John al cembalo (Ringo era malato); non sembra onestamente questo orrore di canzone. Se la strofa è abbastanza banale, nel bridge incontriamo forse il primo accenno di descending bass line, un trucchetto che Paul saprà sfruttare meglio in Michelle, intorno al quale John costruirà Cry Baby Cry e lo stesso George farà risplendere in While My Guitar. Insomma, bastava insistere: e invece George si bloccò. Non doveva essere sempre facile lavorare con la ditta Lennon/McCartney. Questi ultimi a dire il vero stavano entrando in una breve fase di stallo creativo che li avrebbe portati, pochi mesi dopo, a consegnare alle stampe il loro disco più involuto: Beatles For Sale, con una sola hit, qualche esperimento e diverse cover poco interessanti. You Know What To Do non avrebbe abbassato la media più di tanto, ma George si era bloccato. Just call my name if you're lonely...



230. That Means A Lot (Lennon-McCartney; outtake del 1965-66, ora in Anthology 2).

C'è un cartoon divertente in giro per internet (oddio forse è divertente soltanto per i beatlemaniaci), comunque in questo cartoon ci sono Paul e John intorno a un microfono che fanno un duello di composizione mentre in cabina siedono George, Ringo e George Martin. Sulla stessa base Paul canta That Means A Lot e John Ticket To Ride: alla fine tutti votano per John, e Paul si mette a piangere. Ok. In effetti la progressione di That Means A Lot assomiglia un po' a quella di Ticket To Ride, soprattutto nelle prime versioni. Ma non c'è mai stata una gara del genere: quando Paul propose That Means A Lot, il brano di John era già stato completato. That Means A Lot, scrive Ian MacDonald, è un raro esempio di Lennon e McCartney che brancolano nel buio: cercano un motivo, si accorgono che è troppo simile a qualcosa che hanno appena registrato, provano a modificarlo, ma non funziona niente, proprio come succede ai comuni mortali. That Means A Lot non solo somiglia troppo a Ticket, ma ne tradisce tutti gli aspetti rivoluzionari: è un passo indietro dopo un grande salto, un incidente. Ascoltarla è farsi un'idea su cosa sarebbero diventati i Beatles se invece di spingere continuamente sull'acceleratore avessero deciso di calmarsi un po' e presidiare i territori già esplorati. Probabilmente non era un'opzione praticabile: l'unico modo per restare in piedi era continuare a correre.



229. Junk (McCartney, Esher Demo, 1968; completato poi nel primo disco di Paul McCartney, McCartney; la prima versione si trova in Anthology 3).

Cianfrusaglie. Ci sono brani dei Beatles che parlano di sé stessi; Junk parla dei tesori che lasciamo marcire in solaio o in cortile e a risentirla su Anthology sembra esattamente questo: ciò che rimane di un tesoro abbandonato. Il brano è già praticamente completo durante la prima session informale del 1968, quella in casa Harrison in cui i Quattro portano tutto quello che hanno composto prima e durante l'esperienza indiana, si rendono conto di avere già materiale per più di un LP e decidono che 'pubblicheranno tutto', ovvero che il prossimo album sarà doppio. Ma non è vero che pubblicheranno tutto, per esempio accantoneranno Junk come cianfrusaglia, e non è semplice capire il perché.

Junk contiene anche la prima riflessione di Paul sul consumismo, se non sugli eccessi della sua esperienza di giovane rockstar affetta da shopping compulsivo. In pochi minuti avrebbe aggiunto al Disco Bianco una dimensione in più, tra tante che ne ha già. Certo, non è che sia stata buttato via: se mi va di ascoltarlo posso sempre andarmi a cercare McCartney, il disco in cui Paul la incise due anni dopo. Ma è uno di quei dischi che anche se li apprezzi preferisci lasciarti indietro - quel tipo di dischi che dopo un po' i ragazzi trovano in soffitta, appunto. E forse è perfetto così, quell'amarognolo che senti in fondo è esattamente quello che Paul voleva farti sentire. Maledetto Paul.



228. Step Inside Love (Lennon-McCartney; incisa da Cilla Black nel 1968; suonata per scherzo durante la lavorazione a The Beatles il 16/9/1968, ora in Anthology 3).

You look tired, love; let me turn off the lights... Secondo una voce giornalistica probabilmente inverificabile, le due canzoni più eseguite della storia della musica sono Yesterday e (subito dopo) Garota de Ipanema. Questo cosa significa? Anche niente, ma immaginate per un attimo che i Beatles si fossero dedicati a scrivere pezzi di bossanova. Davvero, perché no? Nel '68 spaziavano dell'heavy metal allo ska, perché non ci hanno nemmeno provato? Perché la bossanova è più difficile, ovvio. Ma fino a un certo punto: in fondo se c'è qualcosa che hanno in comune con Gilberto è proprio la passione per gli accordi strani che all'inizio suonano dissonanti e poi ti ci affezioni. Invece una colore che alla loro tavolozza sembrava mancare è quel timbro rilassato, languido, senza il quale non si dà bossanova – proprio quel timbro che stava cercando Paul quella sera di settembre, mentre registrava I Will. Si capisce che Paul una bossanova avrebbe voluto cantarla, in un disco dei Beatles. Ci aveva già provato prestissimo, con la cover di Till There Was You ('64), ma comporne una era un altro paio di maniche. Step Inside Love era una mezza bossanova che aveva scritto per lo show televisivo di Cilla Black, ex compagna di Cavern scoperta, come i Beatles, da Brian Epstein. Spogliata da tutta la fanfara orchestrale, sussurrata in un microfono, accompagnata da quegli accordi sempre un po' imprevedibili, è la più esplicita preghiera che Paul poteva rivolgere ai compagni: ragazzi, dai, proviamoci. Potremmo farcela, potremmo sbarcare sulla spiaggia di Ipanema anche stasera. I compagni non lo prendono sul serio. Quella sera sono solo due (manca George) ma di buon umore, forse troppo. Ringo è alle maracas, John si diverte con legnetti e altre percussioni. Lo stesso Paul non insiste più di tanto, e alla fine si dissocia dal risultato attribuendolo a un tale "Joe Prairies" (una storpiatura di Pereira?) e ai suoi "Prairie Wallflowers". Niente Ipanema nel Disco Bianco, abbiamo scherzato. Peccato però.

Step Inside Love fu un discreto successo, anche perché si sentiva in tv una volta alla settimana e c'era tutto il tempo per affezionarcisi; per metà stagione Cilla dovette accontentarsi di cantarne la prima strofa, perché era l'unica che Paul aveva scritto; quando finalmente riuscì a incontrarlo e convincerlo a completarla, Paul notò che Cilla sembrava stanca, forse provata da quel ruolo di soubrette, e lo scrisse: "You look tired, love". Insomma Paul scriveva le prime cose che gli venivano in mente e fa un po' effetto pensare che sono proprio le parole che Cilla si è fatta incidere sulla tomba.



227. Los Paranoias (Lennon-McCartney; improvvisazione estemporanea durante la lavorazione a The Beatles, 16/9/1968, ora in Anthology 3).

Sing à la latina! Inventare buffi pseudonimi d'artisti era uno scherzo ricorrente tra i Beatles in sede di registrazione (in fondo anche Sgt Pepper è nato così). Quando Paul abbozza i "Prairie Wallflowers", John ribatte con "Los Paranoias", un termine che a detta di Paul faceva parte dello slang portuale di Liverpool. Paul ridacchia e ci inventa lì per lì un riff: "Come on enjoy us / Los Paranoias". John in falsetto protesta: "I can't make it", e intanto qualcuno, lui o Ringo, fa un gran casino tribale coi legnetti. Ogni tentativo di impostare una bossanova va a farsi benedire. Però è sempre un piacere sentire che si divertivano. Ci sono alcuni brani dei Beatles (You Know My Name, Hey Bulldog) che sembrano avere principalmente questa funzione: ricordare agli ascoltatori che i Beatles non hanno sempre litigato, anzi. Certe sere potevano andare avanti tutta la notte a suonare cretinate coi registratori accesi, così, per ridere. Tutto questo può spezzarti il cuore come quei filmini super8 in cui ti ritrovi più giovane a giocare con amici che non ci sono più o che non sono più tuoi amici. Come on, enjoy us! (I can't make it).



226. Teddy Boy (McCartney; outtake del 1969 ora in Anthology 3; McCartney la incise nel suo primo disco omonimo).


Ma poi ci sono canzoni che sono coltellate alle spalle, e Teddy Boy è la peggiore. Ci sono canzoni inutili e canzoni dannose, ma Teddy Boy è in un cassetto tutto suo, quello delle canzoni catastrofiche. Se non è quella che ha spaccato i Beatles, è per il semplice motivo che le crepe erano già abbastanza profonde e non sarebbero sopravvissuti comunque. Per come la imbastisce al microfono durante le difficili sessioni del gennaio '69, è la storia di un "teddy boy" che sotto la patina da duro è dolce e mammone come un orsacchiotto, appunto: e se avete più o meno presente la situazione psicologica di John in quel periodo, ve lo immaginate già stringere i pugni. Ma nella terza strofa la mamma di Teddy incontra un "another man", Paul canta proprio così e lo canta di fianco a John, e pretende che John gli dia pure una mano coi cori.

L'anno successivo John avrebbe iniziato un faticoso percorso di terapia allo scopo di superare il trauma dell'abbandono materno. Proprio come la mamma di Teddy, quella di John aveva incontrato un altro uomo, e John a cinque anni era andato a vivere da zia Mimi. Julia non aveva smesso di vedere il figlio; gli aveva insegnato a suonare Fats Domino al banjo, e poi era morta in un incidente stradale. John a quel punto si era già evoluto nel teddy boy del quartiere, ma "Teddy don't worry, now mummy's here taking good care of you", canta Paul, e magari c'è Yoko nei paraggi e John si innervosisce anche solo se la fissi per più di un secondo.

Che Yoko fosse una figura materna lo aveva ammesso John già nel '68, quando tra i versi di Julia si era lasciato sfuggire un "Ocean's Child", figlia dell'oceano, che è il significato degli ideogrammi che compongono il nome Yoko. Che questa nuova madre, dietro a una naturale possessività, nascondesse ambizioni manageriali era un'osservazione che Paul evidentemente non riusciva più a tenere per sé. Sceglie dunque di affidarla a una melodia che è poco più di una filastrocca irrisolta, sbilenca, che induce l'ascoltatore a domandarsi per un paio di minuti: ma ci è o ci fa? Si è accorto che sta mettendo a nudo il lato più fragile e rimosso del suo amico e socio in affari, o è l'inconscio che sta giocando un brutto scherzo anche a lui? Si tratta di un maldestrissimo tentativo di trasformare la musica in terapia (quel che poi John farà nel suo primo disco da solo), o di un'orribile gaffe? E se te lo domandi tu che hai avuto una vita famigliare standard, figurati un tizio devastato da dipendenze e nevrosi come John in quel momento. Tanto più notevole il fatto che invece di mandare Paul a quel paese, John si limiti a sabotarlo intervenendo nel ritornello nei panni di un maestro di ballo "Take your partners, dosi-do, hold them tight and don't let go". Un modo abbastanza garbato di dire: Paul, questa fa schifo.

Perché oltre a poter essere interpretato come un atto ostile nei confronti del partner, Teddy fa proprio schifo come pezzo e getta una luce sulle difficoltà impreviste che McCartney si troverà davanti, come compositore, dopo il divorzio. Nel biennio '69-'70 Paul comincia a sbandare: proprio nel momento in cui vorrebbe imporre un suo controllo creativo soffre il fatto che nessuno sta più controllando lui; alterna trovate geniali (Let It Be) ad altre che mal si conciliano con il gusto dei compagni (Obladì) se non lo sfidano apertamente (Maxwell's Silver Hammer). Era un momento psicologicamente molto teso, e ognuno reagisce alla tensione a modo suo. George e John approfittarono della situazione per scrivere alcune delle loro cose migliori, Paul si intestardì su Maxwell e Teddy Boy.



225. 12 Bar Blues Original (Lennon-McCartney-Harrison-Starkey, incisa nel 1965 durante la lavorazione di Rubber Soul, poi inclusa in Anthology 2).

Quando chiesero a Lennon se esisteva del materiale beatle non registrato, lui rispose che ricordava soltanto "qualche schifoso 12 bar". Il 12 bar blues, blues in 12 misure, è l'abc delle rock'n'roll band. Non devi neanche metterti d'accordo prima: qualcuno conta fino a quattro e alè, si comincia. Non c'è nulla da inventare, nulla da dimostrare, magari si stanno soltanto scaldando, o rilassando. Quando due anni più tardi capiterà loro di accennare il tema di una colonna sonora, finiranno di nuovo per montarla sull'ossatura di un blues (Flying), come se il 12 bar fosse il destino di qualsiasi tentativo di comporre in quattro, dal vivo, con gli strumenti in mano. Nel frattempo il blues stava tornando di moda proprio all'Inghilterra, una specie di radicalizzazione del rock praticata da gruppi come i Fleetwood Mac prima maniera. Ma il blues a cui tornerà soprattutto Lennon, dal Disco Bianco in poi, non è più la struttura fissa e rassicurante: è la musica del dolore (Yer Blues) o dell'ossessione (I Want You).

Per i Beatles del 1965 invece il blues è come il pane o l'acqua, qualcosa che di necessario, di scontato, che comunque fin qui non si è mai pensato di servire come pietanza centrale. Per questo è intrigante l'ipotesi che 12 Bar, invece di essere un semplice riscaldamento, fosse stata concepita all'inizio come la title-track di Rubber Soul, un vero e proprio manifesto: eccoci, siamo i Beatles, facciamo soul di gomma ("plastic soul" era la definizione con cui qualche critico americano aveva liquidato i Rolling Stones). Forse a un certo punto voleva essere una rivendicazione orgogliosa: davvero credete che non sappiamo suonare il blues? Sentite qua. Magari poi si portarono a casa l'acetato, lo riascoltarono con comodo, e si resero conto che... era davvero un blues di gomma. La versione di Anthology mette assieme i momenti meglio riusciti di un'esecuzione più lunga, che sfora i sei minuti. Anche così rimane comunque una jam qualsiasi, non così "schifosa", ma più divertente da suonare che da riascoltare.
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I Beatles esistono in natura?

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Life flows on within you without you...

Tra qualche settimana uscirà anche in Italia Yesterday, il nuovo film di Danny Boyle, e io lo andrò a vedere. Ci andrò malgrado abbia già letto critiche non entusiaste; malgrado dal trailer abbia capito quasi tutta la storia (un musicista mediocre, ritrovandosi in una dimensione parallela dove i Beatles non sono mai esistiti, fa quello che avremmo fatto tutti al suo posto: incide le canzoni dei Beatles e ottiene ovviamente un successo mondiale). Ci andrò e mi domanderò se l’autore del soggetto per caso un giorno non ha davvero visto Non ci resta che piangere, almeno lo spezzone su youtube in cui un Massimo Troisi catapultato nel quasi-Cinquecento prova a farsi bello canticchiando Yesterday. Perché con le buone idee funziona come con le melodie: se due si assomigliano, è più facile immaginare che una derivi dall’altra. Copiare è più semplice di inventare, e questo lo dimostrano gli stessi Beatles, dai quali tutti hanno un po’ copiato qualcosa. Il che però significa anche che un mondo senza Beatles dovrebbe essersi evoluto musicalmente in modo completamente diverso dal nostro, e quindi forse in un mondo del genere Hey Jude e Yellow Submarine suonerebbero strane e magari sgradevoli. O no?


Gli autori del film sembrano pensare di no: le canzoni dei Beatles diventano immediatamente successi. Come se le melodie esistessero davvero in sé, fuori dal tempo e dallo spazio in cui sono state composte, in una specie di iperuranio da cui ogni tanto qualche genio come Lennon e McCartney riuscirebbe a tirarle fuori. Il compositore sarebbe uno scopritore, dotato di qualche geniale senso in più che gli consentirebbe di percepirle e condividerle con noi poveri mortali. La melodia di Yesterday è irresistibile. Se anche non l’avessimo mai ascoltata prima, la troveremmo migliore di qualsiasi cosa ci propone il mercato musicale oggi: Ed Sheran morrebbe d’invidia (Ed Sheran nel film di Boyle interpreta sé stesso che muore d’invidia). Persino nel medioevo di Troisi e Benigni sarebbe piaciuta al primo ascolto – ma allora perché nessuno nel medioevo l’ha trovata? forse mancava il genio adatto. Migliaia di anni al buio, e poi all’improvviso, in un sobborgo di una città portuale inglese, all’improvviso un genio: Paul McCartney. Si sveglia un mattino, si prepara la colazione, si accorge che sta canticchiando un motivetto. Scrambled eggs, oh my baby how I love your legs. Per poi domandarsi all’improvviso: ma questa canzone, di chi è? L’ho davvero scritta io?

Per assecondare questa ipotesi, dobbiamo anche accettare che nella stessa località portuale sia nato, nello stesso periodo, un genio non inferiore a Paul McCartney: John Lennon, lo scopritore di Help, In My Life, Strawberry Fields, Across the Universe e decine di altre melodie geniali. E a questo punto sembra ingiusto tacere di come all’ombra dei due sia cresciuto George Harrison, magari meno dotato dei primi due ma pur sempre in grado di comporre Something e Here Comes the Sun: e che ai tre in un secondo momento si era aggregato Richard Starkey, un batterista che all’inizio lasciava perplessi i critici e che a distanza di mezzo secolo è considerato uno dei principali innovatori della ritmica pop – il paesaggio musicale in cui viviamo è ancora popolato di rullate improvvisate da lui. Certo, si potrebbe obiettare che i Beatles non erano gli unici innovatori sulla piazza: nello stesso periodo c’erano, per esempio, i Rolling Stones. Anche gli Stones però cominciarono a comporre soltanto quando videro, coi loro occhi, Lennon e McCartney completare in pochi minuti il ritornello di I Wanna Be Your Man. Almeno, stando a quel che raccontano i biografi senza l’esempio cruciale dei Beatles non avremmo avuto nemmeno le centinaia di composizioni firmate da Mick Jagger e Keith Richards.

Se davvero la musica esistesse in natura, disponibile soltanto alla sensibilità di rari individui, quel che successe a Liverpool nei primi anni Sessanta sarebbe insomma una coincidenza di proporzioni cosmiche: nello stesso ristrettissimo intervallo di spazio e tempo, quattro individui geniali si sarebbero incontrati e sarebbero riusciti a collaborare, ahinoi, per meno di dieci anni, prima che la combinazione supergeniale diventasse instabile ed esplodesse – non prima di avere ispirato centinaia di emuli, nessuno dei quali altrettanto geniale. Che storia incredibile, meravigliosa e tragica. È appunto la storia che amiamo raccontarci quando ascoltiamo i Beatles ed è quella che mi commuoverà mentre guarderò Yesterday. Ma è una storia, appunto. Ormai talmente consolidata nel nostro immaginario collettivo che forse vale la pena di sfoderare la parola pesante: è un mito. I rocker ragazzini che dopo anni di gavetta si impongono all’attenzione del mondo con la pura forza del loro genio musicale. Non sanno leggere uno spartito, ma in testa hanno più melodie di Mozart. (La stessa storia di Mozart in seguito è stata riscritta per assomigliare un po’ di più al moderno mito delle rockstar). Il mito conosce anche la parabola discendente: la difficoltà a gestire il successo, le divergenze artistiche e caratteriali, la droga, i contrasti economici, e una donna venuta da lontano a mettere zizzania tra i ragazzi. La storia dei Beatles sembra il canovaccio da cui saranno poi sviluppate tutte le biografie delle rockstar. Anche in questo senso, sono stati i primi a scoprire qualcosa che forse esisteva già.

L’idea che le innovazioni siano fenomeni rari, e che dipendano dalla nascita di individui geniali, è tipicamente romantica... (continua su TheVision, sotto questa foto di John&Yoko)




L’idea che le innovazioni siano fenomeni rari, e che dipendano dalla nascita di individui geniali, è tipicamente romantica. Nel tardo Ottocento gli antropologi che la condividevano venivano chiamati diffusionisti, e si contrapponevano in una certa misura agli evoluzionisti. Per questi ultimi le innovazioni sono semplicemente le risposte con cui una determinata cultura reagisce alle sfide dell’ambiente – per fare un esempio: se in due continenti diversi due popoli diversi in un paesaggio simile (foresta) si trovano a dover cacciare per sopravvivere, prima o poi entrambi svilupperanno la tecnologia dell’arco: perché ne hanno bisogno. Per i diffusionisti no: se una civiltà non partorisce un individuo geniale in grado di mettere assieme arco e frecce, dovrà aspettare che qualche altra civiltà sbarchi nei pressi e diffonda la tecnologia dell’arco. Può sembrare un’idea ingenua, ma aveva il grosso vantaggio di giustificare il colonialismo, e la maniera peculiare in cui gli europei avevano diffuso nel mondo un certo modo di usare la polvere da sparo. Ancora un secolo fa il diffusionismo godeva di ottima salute, anzi qualcuno cominciava ad elaborarne versioni ancora più radicali, come l’iperdiffusionismo di Grafton Elliot Smith. Per Smith (egittologo australiano) esisteva soltanto una civiltà innovatrice, e manco a dirlo era quella europea che si era sviluppata nel bacino del Mediterraneo a partire dagli antichi Egizi. Tutte le più antiche innovazioni, per Smith, erano da ricondurre agli Egizi, al punto che per spiegare l’uso di imbarcazioni nell’America precolombiana bisognava ipotizzare contatti antichissimi tra civiltà sulle due sponde dell’Atlantico.

Prima di ridere dell’ennesima fiaba a uso dell’uomo bianco, bisogna riconoscere che il nostro mito dei Beatles non funziona in modo molto diverso. Ipotizziamo che le melodie siano considerabili come innovazioni: un evoluzionista direbbe che sono la risposta di una determinata società a una determinata serie di sollecitazioni. Da questo punto di vista non è così eccezionale che nel nord dell’Inghilterra, all’inizio degli anni Sessanta, i giovani cercassero di sviluppare forme originali di adattamento al rock e al pop d’importazione americana: Liverpool era appunto il porto in cui arrivavano i prodotti d’importazione, compresi i dischi delle Shirelles e degli Isley Brothers che i Beatles coverizzarono nel loro primo disco. Insomma, per un evoluzionista il problema non si pone: se non ci fossero stati i Beatles ci sarebbe stato qualcun altro, magari cresciuto nello stesso quartiere. Per il diffusionista invece quello che succede nel 1963 a Liverpool a opera di tre-quattro individui geniali è una frattura nella Storia: niente sarà più come prima.

È per esempio l’ipotesi di Simon Reynolds, acclamato da Rolling Stone come “il critico musicale più illustre del pianeta”. “Sono nato nel 1963”, scrive in Retromania, “quello che, per ragioni varie e non solo narcisistiche, considero il Primo Anno del Rock. Quando iniziai a interessarmi seriamente al pop, da adolescente negli anni Settanta del post-punk, mandai giù subito una cospicua dose di modernismo: la convinzione che l’arte abbia una sorta di destino rivoluzionario, una teleologia che si manifesta tramite artisti geniali e capolavori che sono monumenti al futuro. Tutte cose che esistevano già nel rock, grazie ai Beatles, alla psichedelia e al progressive…” L’omissione di qualsiasi artista non bianco non è un atto di razzismo, o almeno non lo è consapevolmente. Reynolds non può inserire nel suo mito del rock-come-Forma-Consapevolmente-Innovativa Chuck Berry, Stevie Wonder o gli artisti della Motown, non perché siano così inferiori ai Beatles, ma perché hanno qualcosa che ai Beatles sembra mancare: le radici. Se davvero vuoi raccontare a te stesso che il rock comincia nel tuo anno di nascita, devi ignorare gli afroamericani che prima e dopo il 1963 continuavano a innovare incessantemente, senza però creare fratture così vistose – e ho il sospetto che Boyle tenti di esorcizzare l’aspetto razziale del mito dei Beatles offrendo in dono tutte le melodie del quartetto a un musicista non bianco.

La sua disarmante dichiarazione di modernismo rock, Reynolds la pubblica al termine di un libro che denuncia l’esatto contrario, ovvero l’inarrestabile tendenza della cultura pop a guardare al passato: la retromania, appunto. Lo stesso Reynolds tuttavia ammette di non avere avuto sempre le idee chiare sull’argomento. In un primo momento era convinto che la retromania fosse cominciata col post-punk. A fargli cambiare idea a un certo punto fu una retrospettiva sulla moda inglese, che aveva scoperto il fascino del vintage almeno fino al 1965 – l’anno in cui anche i Beatles cominciano a inserire suoni rétro nei loro dischi: il quartetto di violini di “Yesterday”, il simil-clavicembalo di “In My Life”, l’irruzione improvvisa del valzer nell’inciso di “We Can Work It Out”. Ma a questo punto perché non dare un’occhiata al primo disco dei Beatles, in quel fatale 1963? Please Please Me è tutto fuorché l’urlo primigenio di una civiltà modernista nell’atto di nascere dal nulla. Per essere il prodotto di 24 ore di lavoro di quattro ragazzini è anzi un oggetto sorprendentemente stratificato. Contiene persino una canzone di Burt Bacharach. Più in generale sembra il tentativo di creare una sintesi di tutta una serie di musiche che i quattro avevano già sentito in giro, e di cui avevano sperimentato l’efficacia al Cavern Club e ad Amburgo: non soltanto il rock’n’roll (che comunque nel 1963 doveva suonare già rétro, legato ai ricordi d’adolescenza di Lennon e McCartney), ma anche il pop delle radio AM (Bacharach, appunto), il doo-wop, le armonie vocali che negli Usa avevano fatto la fortuna di Beach Boys e Four Seasons. Persino nel 1963, insomma, i Beatles stavano lavorando su materiale già messo in circolo da altri. Il che non significa che Lennon e McCartney non fossero dei geni, ma non nel senso romantico e diffusionista del termine. Erano ragazzi svegli con le orecchie bene aperte in un paesaggio musicale in costante evoluzione. Erano tra i primi babyboomers a impugnare gli strumenti in un milieu sociale – l’Inghilterra del dopoguerra – che non aveva ancora assorbito tutti i riferimenti culturali e che quindi poteva davvero scambiarli per quattro geni venuti dal nulla.

I Beatles, inoltre, ebbero l’incontestabile fortuna di incontrare sul percorso alcuni rappresentanti della generazione precedente che si fidarono di loro: il loro manager, Brian Epstein, e soprattutto il produttore George Martin, che permise loro di sperimentare suoni e soluzioni con una libertà che forse nessun artista prima di loro aveva avuto. Tutto questo ha reso l’esperienza dei Beatles unica, ma non così unica. Molte loro canzoni, anche tra le più famose, non sarebbero così famose se non le avessero incise loro. Mentre viceversa ci sono canzoni altrettanto valide ma meno conosciute: semplicemente perché invece di averle scritte Lennon o McCartney le ha firmate qualche compositore professionista. Per dirla con Bob Dylan (un altro mitico eroe del 1963, che in realtà in quell’anno stava già saccheggiando musica del passato), ci sono milioni di canzoni come “Michelle” e “Yesterday” negli scaffali di Tin Pan Alley. McCartney e Lennon sono stati due grandi musicisti e compositori, ma senza di loro “Yesterday” l’avrebbe scritta qualcun altro. Lo intuiva lo stesso McCartney, che proprio in quanto compositore sapeva di muoversi in un terreno molto più infido di quanto ci immaginiamo. Non un iperuranio di canzoni perfette da recuperare e portare a terra, ma una jungla di reminiscenze, di melodie assorbite a livello inconscio e modificate costantemente.

Nel 1968, dopo aver composto “Hey Jude”, invece di chiudere lo spartito in cassaforte e precipitarsi in sala d’incisione, McCartney fa ascoltare la sua canzone a “chiunque fosse abbastanza educato da non rifiutare”. Se davvero le canzoni fossero invenzioni, dall’inventore sarebbe logico aspettarsi un maggiore riserbo: specie in un contesto competitivo come la scena pop-rock inglese degli anni Sessanta. C’era il concreto rischio che qualche collega orecchiasse la canzone e corresse a inciderla prima di lui, ma evidentemente McCartney temeva di correre un rischio peggiore: che qualcuno non lo avvertisse che la melodia non era davvero originale, che qualcun altro l’aveva scritta per prima. La stessa preoccupazione lo aveva ossessionato nel 1964, dopo che si era svegliato canticchiando “Scrambled Eggs”. Sarebbe passato un anno prima che si decidesse a inciderla: un anno trascorso a chiedere a tutti i colleghi che conosceva se per caso non avessero già sentito la stessa melodia. È un affanno non troppo diverso da quello del ricercatore che dopo aver fatto una scoperta, invece di gridare un Eureka! liberatorio si mette a esplorare la stampa scientifica con l’incubo di scoprire che qualcun altro ha già messo per iscritto gli stessi risultati.

Tra qualche settimana uscirà anche in Italia Yesterday, il nuovo film di Danny Boyle, e io lo andrò a vedere. Ci andrò anche se non condivido affatto l’ideologia diffusionista espressa nel trailer, anzi la trovo sottilmente razzista in quanto propone l’idea che esista una civiltà superiore alle altre (e no, il fatto che il personaggio che si impossessa di tutte le canzoni dei Beatles non sia un bianco non migliora la cosa, anzi). Ci andrò perché al mito dei Beatles sono affezionato, il che non significa che creda ancora nell’incontro di quattro geni assoluti della musica nella Liverpool di fine anni Cinquanta. Anzi, più invecchio e più mi piace trovare nei loro dischi un sacco di difetti, intuire dietro una qualsiasi canzone la tensione tra John e Paul, il senso di tragedia che comincia a sentirsi già in Revolver, culmina in Abbey Road e riecheggia in Let It Be. Ci andrò anche se non credo che Danny Boyle riuscirà nel prodigio di rifarmi ascoltare le stesse canzoni come se non le avessi mai sentite in vita mia. Però vale la pena provare. Resto convinto che se i Beatles non fossero esistiti, qualcun altro avrebbe preso il loro posto nel nostro cuore, con canzoni diverse e non necessariamente peggiori. In qualche universo parallelo magari è andata così, ma nel nostro universo i Beatles ci sono stati: ci è andata bene.
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Metti sull'Uno c'è un maestro che urla

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18 gennaio – San Successo (oh, esiste davvero, non è che me li invento – non questo almeno).

Il primo successo del 2019 per la Rai è Alessio Boni che urla ai ragazzini. Certo, La Compagnia del Cigno è molto altro: c’è musica in abbondanza, classica e moderna, e poi ogni ragazzo ha il suo arco narrativo, l’ingresso nell’età adulta eccetera – sì sì però se lunedì sera mettete sull’Uno all’improvviso, in tre casi su tre si materializzerà Alessio Boni che a stento controlla l’impulso di rompervi la bacchetta in testa.

Non che urli sempre come un ossesso (a volte frigna come un bambino), ma non sorprende che più di un Conservatorio abbia sentito la necessità di avvertire che no, non è così che funziona. Tra l’altro è stagione di preiscrizioni e nessun dirigente scolastico, davvero, si vanterebbe di avere un organico un personaggio del genere. Nessuno vorrebbe lavorare con un maestro del genere. Ci piace però guardarlo in tv.



La Compagnia ha battuto il Titanic restaurato, ha battuto la Coppa Italia; il maestro che urla è il primo grande spettacolo italiano del 2019. Quasi un italiano su dieci ha assistito alle sfuriate del maestro Boni senza cambiare canale. Anzi dev’essersi in qualche modo affezionato, e non so se questa è una buona notizia per il mondo della scuola. In gran parte si tratta degli stessi italiani che non esiterebbero a denunciare un maestro del genere se invece che in tv sbraitasse in quel modo davanti ai propri figli, in un’aula scolastica – andiamo, persino io lo avrei mandato a quel paese a un certo punto: e faccio il suo mestiere. Che ci è successo?

Che fine ha fatto il modello di insegnante che andava di moda quando studiavo, quello super-empatico che non castigava mai nessuno, anzi riusciva a entrare in sintonia con tutti senza alzare la voce? Il Robin Williams dell’Attimo fuggente: molti di noi insegnanti vorrebbero ancora assomigliargli, anche se alla fine ci scappa la pazienza e gli studenti piangono e poi i genitori protestano. Genitori che, diciamolo, non hanno sempre tutti i torti, forse dovremmo essere ancora più pazienti – sì, però gli stessi genitori quando tornano a casa si bevono due ore di fiction con Alessio Boni che urla e strepita, c’è qualcosa di paradossale in tutto questo.
D’altro canto è pur sempre televisione. Quello specchio piuttosto distorto che non mostra quasi mai il mondo intorno a noi; il più delle volte ci mette davanti il mondo dentro di noi. Nessuno vorrebbe un maestro severo per i suoi figli, ma tutti segretamente lo vorremmo per i figli degli altri, e forse una fiction assolve questa funzione (“Guarda questo professore asfaltare sette adolescenti!”)



Come ogni modello che funziona i critici si sono subito affrettati a farci notare il prestito evidente nei confronti di un prodotto d’importazione. Lo ha prontamente ammesso anche lo sceneggiatore Ivan Cotroneo: il maestro interpretato da Alessio Boni deve molto a quello impersonato da J. K. Simmons in Whiplash, il primo film di Damien Chazelle. È il ruolo che finalmente ha fruttato un Oscar a Simmons, il classico caratterista che tutti abbiamo la sensazione di conoscere come un familiare, tante volte lo abbiamo visto in tv. E però in Whiplash il maestro urlatore è il cattivo del film, non l’eroe che aiuta a sbloccare le potenzialità del protagonista. A parte la sua ossessione per la musica (ossessione omicida) non conosciamo quasi nulla di lui. Non c’è tempo per spiegare cosa lo ha trasformato nella belva che è; non ci sono flashback che ci facciano scoprire i suoi dolori, i suoi lutti, non ci sono siparietti ricattatori che ci facciano piangere insieme a lui. Non è insomma come il maestro di Boni, che tra una scenata e l’altra lascia intravedere un animo sensibile, empatico, in grado di entrare in sintonia con il delicato mondo interiore dei ragazzi; se anche il personaggio di Simmons sembrava trapelare qualcosa del genere, era soltanto per rivelarsi fino alla fine un subdolo manipolatore.

Whiplash fu criticato, anche in Italia, per la visione del mondo che tradiva: una giungla dove conta soltanto la lotta per la sopravvivenza, l’autoaffermazione e il successo. Il film si presta in realtà a un’interpretazione più problematica: il protagonista è più vittima che eroe. Il maestro della Compagnia del Cigno, all’apparenza più sfaccettato, alla fine è soltanto il classico burbero dal cuore d’oro. Ma Whiplash è un grande film anche perché mette in guardia da quel modello di maestro carismatico, denunciandone la tossicità.



Sia Whiplash che La Compagnia, poi, traggono spunto da un discorso così universalmente condiviso ormai che rischiamo di non vederlo intorno a noi, come l’aria che respiriamo. In un certo senso è l’aria che respiriamo. È il talent-show. Whiplash è strutturato come una caricatura di talent-show: un maestro severo, un allievo che deve seguirlo ma anche sconfiggerlo. La Compagnia è un succedaneo di talent-show – quasi un placebo per i telespettatori in crisi d’astinenza, tra la fine di X Factor e l’inizio di Sanremo. Lo stesso Sanremo assomiglia anch’esso sempre più a un talent-show, al punto di essersi dotato di un maestro talentuoso, magari non sbraitante ma più severo di quanto ci saremmo aspettati: Claudio Baglioni.



Il 2019 è l’ultimo anno degli anni Dieci. Forse non è più troppo presto per un bilancio: è stato il decennio dei Talent. È vero, esistevano anche prima (più negli USA che in Italia). Ma fino a X Factor non eravamo abituati a chiamarli così, e soprattutto non li consideravamo molto di più che una forma di intrattenimento, una sottospecie dei Reality. Poi è successo qualcosa, fuori e dentro la tv. Non è ancora chiaro cosa – forse ha a che vedere con la caduta delle élite di cui in questi giorni stanno parlando sui giornali di carta. Insomma altri punti di riferimento sembrano essere crollati: i politici hanno smesso di essere attendibili (non che lo fossero dieci anni fa), medici e insegnanti hanno perso ogni autorevolezza. L’unico punto fermo, l’ultimo baluardo della meritocrazia, è il Talent.


The New Voice of Italy

Dappertutto l’apparenza sembra diventata più importante che lo studio, tranne nei Talent: il solo luogo dove è ancora lecito castigare l’apparenza e premiare l’impegno. Stanti così le cose, ci è voluto poco perché tutto il nostro immaginario si riconfigurasse intorno all’architettura del Talent: al punto che persino il partito che doveva far piazza pulita del passato si è strutturato come un Talent. Si chiama Movimento Cinque Stelle ma avrebbe potuto chiamarsi Amici di Beppe Grillo: un partito dove si fa carriera col televoto e si cade in disgrazia entrando in polemica con la giuria. Insediandosi prima in parlamento e poi al governo, il M5S ha rapidamente trasformato la comunicazione della politica in Italia, che dalle prime dirette in streaming si è prontamente adattata al nuovo format. Deputati e ministri come dilettanti allo sbaraglio: alcuni hanno davvero talento e li salveremo, altri si rivelano inadeguati e saranno presto bocciati senza pietà. Eppure c’è chi si ostina a considerarli avversari della meritocrazia. A ben vedere stanno semplicemente proponendo una meritocrazia diversa, che non passi più per le aule scolastiche e universitarie, ma per i social e le Piattaforme del popolo.

A questo punto naturalmente occorre obiettare che una meritocrazia del genere non può funzionare: tanto per cominciare gli strumenti sono farraginosi (Rousseau non funziona), ma anche se fossero efficienti, ci sarebbe il problema che il popolo è un pessimo giudice, non ha le competenze ecc. ecc.. Tutto probabilmente vero. Ma non è così strano che la società dello spettacolo si affidi al codice del Talent. Scuole e università non è chiaro se funzionino o no; perlomeno le ultime classi dirigenti che hanno formato lasciavano molto a desiderare. I Talent non è detto che creino più competenza, ma sicuramente fanno spettacolo, e quella è una cosa che sappiamo apprezzare.



Nei Talent scorre ancora, neanche tanto sotterranea, quella vena di sadismo e crudeltà che abbiamo bandito dalle scuole (e che forse inconsciamente rimpiangiamo). Solo nei Talent è ancora concesso umiliare l’incapace, e mettere apertamente l’uno contro l’altro gli apprendisti. Che parlino di cucina o di musica, il motivo per cui li guardiamo è il motivo per cui ci lasciamo ipnotizzare dalle sfuriate di Alessio Boni: i maestri sadici sono sexy. Vederli tormentare le loro vittime è uno spettacolo per cui paghiamo abbonamenti e biglietti al cinema. Forse ci piacciono proprio perché non assomigliano affatto ai nostri ex professori, empatici e condiscendenti, sempre pronti ad applaudire ogni nostro minimo sforzo. Se non siamo diventati quegli uomini e donne di successo che loro vedevano in noi, magari è colpa loro: troppo buoni, troppo permissivi. Se ci avessero preso a ceffoni, invece, chissà… vabbe’, è troppo tardi per recriminare. Ma si fa ancora in tempo ad accendere la tv. Sull’Uno c’è un prof che strepita, su Sky quattro cuochi infieriscono su dilettanti allo sbaraglio, l’Attimo fuggente almeno stasera non c’è (anche perché a modo suo va in scena in tutte le scuole d’Italia, da lunedì a sabato, da settembre a giugno: e dopo un po’ viene a noia, non ditelo a me).
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L'annosa questione del razzismo di Tolkien

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Make Middlearth Great Again
Sauron non è il Signore Oscuro di cui avete senz'altro sentito parlare, ma un sovrano illuminato che sostiene il progresso industriale. Il perfido Gandalf il Bianco, tiranno feudale (re Aragorn non è che il suo burattino) mira a impossessarsi delle ricche miniere di Mordor – certo, occorrerà sterminarne la popolazione, ma non ha nessuna importanza: la storia la fanno i vincitori, e i vincitori dipingeranno nelle saghe le vittime dello sterminio come mostri subumani, gli "Orchi". È la trama di The Last Ringbearer, la più politica delle parodie del Signore degli Anelli, scritta qualche anno fa da un biologo russo, Kiril Eskov. In Russia fu un caso editoriale, in Italia e nei Paesi anglosassoni è ancora inedito. Eskov ha immaginato che il Signore degli Anelli fosse un'opera di propaganda, e l'ha smontata in quanto tale. Ma l'operazione non avrebbe funzionato così bene se lo stesso Signore degli Anelli non fosse un'opera che si presta, proprio per la sua architettura semplice, ma maestosa, a essere smontata e ricomposta. È una delle qualità dei classici, e Il Signore degli Anelli evidentemente lo è diventato. Malgrado il suo razzismo? Perché ogni tanto l'accusa salta fuori, e c'è sempre qualcuno che si stupisce, come se fosse la prima volta. Ma per qualcuno è sempre la prima volta.

Mappa non autorizzata, anzi proibita, anzi l'ho ritrovata in un sito russo, spero non sia contagiosa.
Quando non hai niente di nuovo da dire, ma vuoi fare notizia comunque, puoi sempre dare a Tolkien del razzista. Funziona: vuoi perché il razzismo è sempre d'attualità, e Tolkien non passa mai di moda; vuoi perché trattandosi di un autore che va per la maggiore tra i giovanissimi, puoi ripescare lo stesso dibattito ogni cinque-dieci anni e troverai sempre qualche giovane lettore che ci rimane male, Tolkien razzista? Non l'aveva mai sentita. E poi c'è un'altra ragione, ovvero che Tolkien, per i nostri standard, è davvero un po' razzista. Veramente poco, per un inglese dell'ultima generazione coloniale; ma quanto basta per far scattare gli allarmi più sensibili, tarati sugli standard di multiculturalità del 2018; quanto basta per riavviare ogni tanto la polemica. Anche a causa dei suoi difensori, esperti e affezionatissimi, e non disposti a lasciar cadere l'argomento senza citare una volta in più le durissime parole di Tolkien sulle derive nazionaliste e antisemite che negli anni Trenta osservava sgomento manifestarsi sul Continente. E tuttavia Tolkien è anche lo scrittore che, dovendo procurarsi migliaia di comparse per le schiere del Male nelle scene di battaglia, decide di reclutarle tra i Popoli dell'Est e del Sud. Una classica commistione tra esotismo e pericolo che i lettori inglesi dovevano percepire come assolutamente naturale nel 1954, l'anno della pubblicazione in Gran Bretagna, e che nel 2018 facciamo molta più fatica a mandar giù.

Nel frattempo la Terra di Mezzo è diventata un universo cinematico, e i volti dei suoi protagonisti sono stati fissati nella coscienza di almeno una generazione dalle scelte di casting di Peter Jackson, filologicamente inappuntabili, ma proprio per questo un po' troppo nordiche per i gusti di uno spettatore globalizzato, assuefatto a prodotti hollywoodiani dove le percentuali di comprimari bianchi, neri e asiatici sono calcolate al millimetro. Jackson non ha neanche voluto evitare di attribuire agli Orchi e agli Orchetti una carnagione scura, ed era destino che prima o poi qualcuno decidesse che la cosa lo offendeva. L'ultimo in ordine di apparizione è Andy Duncan, scrittore fantasy che in un'intervista a Wired ha ammesso di non poter passare sopra alla concezione tolkeniana per cui "alcune razze sono semplicemente peggiori di altre, e che alcuni popoli sono semplicemente peggiori di altri". L'affermazione in sé non ha nulla di clamoroso, ma il Times l'ha ripresa e nel giro di poche ore aveva fatto il giro del mondo, o almeno quella porzione non piccola di mondo che va dal Times al Secolo d'Italia (continua su TheVision)

Ma se lo tagliano, sanguina? Apriamo il dibattito.

La polemica in sé non è affatto nuova, e in Italia in particolare non dovrebbe sorprenderci: in fondo siamo stati i primi a sospettare, già negli anni Settanta, che Tolkien fosse un fascista o peggio. Il Signore degli Anelli, che nell’area anglosassone era esploso nel 1968, anno della prima edizione “tascabile” – si fa per dire, non stava nemmeno nelle tasche degli eskimo di allora – ed era stato adottato gioiosamente dalle star della controcultura, in Italia ha avuto una storia tutta particolare. Fu pubblicato nel 1970 da Rusconi, un editore di rotocalchi a base di gossip sui Savoia e Padre Pio, con una famigerata prefazione di Elémire Zolla che non si contentava di anticipare la trama (oggi diremmo “spoilerare”), ma lo innalzava come stendardo di una letteratura anti-moderna, puramente ispirata al folklore e alla tradizione.

Tolkien a ben vedere era tutt’altro che rispettoso delle tradizioni a cui attingeva, e che spesso deliberatamente pervertiva, ma Zolla non voleva o non poteva accorgersene, e ormai il dado era tratto: liquidato dagli ambienti progressisti come autore d’evasione, negli anni Settanta Tolkien fu adottato da una sparuta ma combattiva minoranza di sedicenti intellettuali di destra a cui non sembrava vero poter disporre di un generoso serbatoio di leggende, neanche troppo difficili da leggere. Tolkien in realtà piaceva a tutti, ma i lettori di sinistra ci misero un po’ di tempo a riorganizzarsi. A fine anni Novanta la riduzione cinematografica rimescolò le acque: il Signore degli Anelli entrò a tutti gli effetti anche in Italia nel calderone della cultura pop, proprio mentre i Wu Ming tentavano di recuperarlo a sinistra, insistendo sull’aspetto multiculturale di quel melting pot che è la Compagnia dell’Anello, e sul fatto che i veri eroi del romanzo non siano i tradizionali cavalieri feudali, ma gli hobbit, antieroi provinciali. Tolkien in generale è un autore molto più raffinato e sfuggente di quanto sembri a prima vista. L’affetto che nutre per i miti che rielabora è molto più smaliziato di quanto appaia; le sue fiabe non hanno un lieto fine, Bene e Male restano intimamente connessi.

E allo stesso tempo Tolkien resta un uomo del suo tempo, e al suo tempo non risultava così offensivo immaginare schiere di nemici avanzare da un Sud arido, a cavallo di elefanti. Possiamo decidere che questa cosa non sia più accettabile, e che l’opera di Tolkien sia destinata a seguire sugli scaffali più alti quella di Kipling o di altri autori dell’era coloniale che solo gli addetti ai lavori sono ancora in grado di leggere senza avvertire un inevitabile fastidio, lo choc culturale che proviamo di fronte all’implicito razzismo che permeava la cultura europea fino a pochi decenni fa.

Ma probabilmente non andrà a finire così: Tolkien sembra ancora avere molto da dirci (più di Kipling, tutto sommato). Un’opera che può essere ancora letta da destra, da sinistra, come una saga di eroi o come materiale di propaganda, non dà l’impressione di poter tramontare ancora per almeno una generazione. Se ne riparlerà tra quattro o cinque anni, quando qualcuno magari si accorgerà che Tolkien odia i ragni proprio mentre l’aracnofobia diventa uno stigma sociale, e qualche lettore appena arrivato strabuzzerà gli occhi: ma come, Tolkien aracnofobo? Peccato, e dire che mi piaceva così tanto.

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I pazzi e il Pendolo

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Tutto questo non potevamo aspettarcelo: ai posteri cercheremo di spiegarla così. Complottisti al governo, antivaccinisti alla sanità; sottosegretari che non credono alle missioni lunari. Si discute se possa presiedere la Rai un giornalista che ha diffuso notizie sul satanismo di Hilary Clinton. Tutta questa paranoia non l'abbiamo vista arrivare: come avremmo potuto? È troppo irrazionale, e tutto quello che è irrazionale non dovrebbe essere reale. Ai posteri cercheremo di spiegarla così, ma non è detto che ci cascheranno: ma certo che potevate aspettarvelo. Ci sarebbe bastato guardare meglio in giro, studiare con più attenzione i fenomeni, anche soltanto leggere i libri giusti. Ce n'era uno che prevedeva tutto questo con trent'anni d'anticipo, e non era un saggio di antropologia o di sociologia, macché: un romanzo. Un best-seller, addirittura – certo, non il più leggibile dei best-seller.
Solo per voi, figli della dottrina e della sapienza, abbiamo scritto quest'opera...
Si chiamava Il pendolo di Foucault, e trent'anni esatti fa era l'argomento più caldo dell'estate (bisogna dire che era un'estate dolce e pigra, Gimme Five di Jovanotti duellava con Nick Kamen in cima alle classifiche, Craxi aveva finalmente acconsentito a un governo De Mita che sarebbe durato un altro anno, gli Europei di calcio erano già finiti da un mese e le olimpiadi di Seoul sarebbero iniziate soltanto in settembre). In quell'agosto sostanzialmente tranquillo, sulla stampa italiana cominciarono ad apparire recensioni non autorizzate del secondo romanzo di Umberto Eco, che sarebbe uscito soltanto in autunno. Tutto questo malgrado le proteste dell'autore e del suo editore, Bompiani, che poi sarebbero stati accusati di avere occultamente orchestrato la fuga di notizie per vendere ancora più copie. Non che ne avessero la minima necessità: il primo romanzo di Eco, Il nome della rosa, era appena uscito dalle classifiche italiane di vendita dopo otto anni. Tradotto in più di 40 lingue, si stima che abbia venduto più di trenta milioni di copie: nel dicembre di quello stesso 1988 il film di Jean-Jacques Annaud con Sean Connery sarebbe stato visto su Rai1 da 17 milioni di telespettatori, il pubblico di una partita della nazionale.

"Quando uno tira in ballo i Templari è quasi sempre un matto"
[seguono centinaia di pagine sui templari].

Nel 1988 insomma Umberto Eco dava l'impressione di poter piazzare milioni di copie persino di un trattato di cabala babilonese. A qualcuno il Pendolo sembrò esattamente questo: un gioco esageratamente intellettualistico. A chi si aspettava un altro godibile giallo medievale, stavolta Eco infliggeva un labirinto narrativo articolato non solo nello spazio (Gerusalemme, Parigi, Milano, le Langhe) ma nel tempo (dal processo dei Templari agli intrighi massonici dell'Ottocento, dalla Resistenza al '68 alla Milano-da-bere contemporanea), affidato a due voci narranti – addirittura scritto in due font diversi.

Eppure il Pendolo, a rileggerlo trent'anni dopo, non sembra così complicato. C'è da dire che nel frattempo il best-seller postmoderno, il genere che Eco stava collaudando, è diventato un prodotto editoriale codificato: il citazionismo spinto e l'uso sistematico dei flashback non sorprendono più. Ma il sospetto è che già nel 1988 Eco li stesse usando soprattutto per mettere alla prova il lettore (come aveva dichiarato nelle Postille al Nome della rosa): gran parte delle difficoltà si concentrano nei primi capitoli. Proprio il più faticoso, il delirio iniziale di Casaubon al Conservatoire des Arts et Métiers, fu scelto per essere pubblicato in anteprima dall'Espresso. Più che a promuoversi, Eco sembrava deciso a sacrificare parte del pubblico che aveva conquistato. Poteva permetterselo (continua su TheVision).



Il Pendolo scalò immediatamente le classifiche, divivendo i critici (memorabile la stroncatura di Salman Rushdie) e spaventando molti lettori.

Se Il nome della rosa inghiottiva il lettore in un universo compatto, un medioevo ricostruito in laboratorio, Il Pendolo disorientava, accostando pagine autobiografiche ai divertissement eruditi alla Diario minimo. Era un testo scoppiettante, che attirava e respingeva, e verso il finale non resisteva alla tentazione di ammazzare qualche protagonista in scena come certi feuilleton ottocenteschi tanto amati dall’autore. La trama ruotava intorno a un gruppo di intellettuali che, per interesse anche economico, cominciano a frequentare il mondo dell’occultismo, fino a venire risucchiati in un apparente complotto universale che – come nel Nome – si rivela poi solo un grande equivoco. Nel Pendolo, Eco usciva dal suo confortevole Medioevo per cimentarsi con la contemporaneità, arrivando a prestare alcuni ricordi d’infanzia a uno dei protagonisti, Jacopo Belbo. Spesso i protagonisti dei thriller sono versioni idealizzate dei loro autori, uomini tutti d’un pezzo. Nel Pendolo tutto il contrario: Belbo è un Eco che non ce l’ha fatta, che non è riuscito a diventare uno scrittore e non se ne dà pace. Una cultura enciclopedica non lo riscatta dalla mediocrità, anzi sembra fornirgli strumenti più affilati per torturarsi. Troppo giovane per la Resistenza, troppo maturo per la Contestazione, Belbo mentre confida i suoi sogni di riscatto eroico al suo personal computer, continua a compromettersi col sistema; tra le sue mansioni di collaboratore editoriale c’è quella di selezionare i gonzi, gli autori di manoscritti da attirare nella truffaldina ragnatela escogitata dal diabolico editore Garamond. Personaggi ancora più mediocri di lui, poeti da strapazzo ed eruditi della domenica, impiegati e funzionari con un sogno di gloria nel cassetto: chi avrebbe mai pensato che sarebbero legione, movimento, forza di governo? Eco nel 1988 ci stava pensando.





Il pensiero complottista, ci spiegava, farà seguaci non soltanto tra i poveri di spirito, ma anche tra gli intellettuali come Belbo, sedotti anche per un solo istante da un Piano che spieghi ogni mistero e giustifichi ogni fallimento. È una lezione sulla quale forse non abbiamo ancora riflettuto abbastanza, oggi, mentre insistiamo a interpretare il trionfo dei movimenti complottisti e xenofobi come un problema di analfabetismo funzionale (eppure il partito più votato dai laureati è il M5S). L’avversario che ci additava trent’anni fa non era l’ignoranza, ma erano la frustrazione, l’insoddisfazione, l’incapacità di rassegnarsi alla mediocrità. Lo avrebbe ribadito sette anni più tardi in quella famosa lezione alla Columbia che oggi si ritrova in libreria sotto il titolo Il fascismo eterno: “L’ Ur-Fascismo scaturisce dalla frustrazione individuale o sociale. Il che spiega perché una delle caratteristiche tipiche dei fascismi storici sia stato l’appello alle classi medie frustrate, a disagio per qualche crisi economica o umiliazione politica, spaventate dalla pressione dei gruppi sociali subalterni. Nel nostro tempo in cui i vecchi proletari stanno diventando piccola borghesia (e i Lumpen si autoescludono dalla scena politica), il Fascismo troverà in questa nuova maggioranza il suo uditorio”.

Sfogliando manoscritti alla ricerca di gonzi da spennare, Belbo aveva scoperto alcuni temi ricorrenti: l’occultismo, i misteri del passato, i soliti Templari (“Quando uno tira in ballo i Templari è quasi sempre un matto”). Nel 1988 forse era presto per capire che Il Pendolo metteva a fuoco con precisione chirurgica la transizione tra anni Settanta e Ottanta, il momento in cui in certe piccole librerie di Milano i saggi sui templari avevano rimpiazzato quelli sul marxismo. L’irrazionalismo di uno Zolla o di un Cioran poteva apparire ancora un fenomeno di nicchia, una nuvola pittoresca e inoffensiva che veniva a stemperare gli incubi ideologici degli anni di piombo. L’impegno con cui Eco si dedicava a smontarlo e sbeffeggiarlo poteva sembrare eccessivo; un voler tirare alle zanzare col cannone. Nel 1988 c’erano cose che ci preoccupavano di più, anche se oggi è difficile ricordare cosa.



Quando nel 2003 le librerie furono infestate da un thriller fanta-storico, Il Codice Da Vinci di Dan Brown, qualcuno si ricordò che l’idea di un Gesù fondatore della stirpe dei Merovingi non era poi così nuova. Ne aveva parlato per esempio Eco; ma la circostanza è un po’ più bizzarra. La trama del Codice era stata anticipata in una pagina del Pendolo in cui i tre protagonisti si divertivano a interpretare le frasi emesse da un computer in sequenza casuale. Lo stesso Eco avrebbe più volte definito Dan Brown come un suo personaggio; e in effetti, il suo stile un po’ meccanico ricorda quello di un computer che si sforza di imitare gli scrittori in carne e ossa. Al di là delle coincidenze abbastanza facili da spiegare (sia Eco che Brown attingevano la loro mitologia da testi precedenti), quel che sorprende è che sia Il Pendolo a funzionare come una parodia del Codice, benché sia uscito quindici anni prima. Una parodia che non solo mette in luce l’ingenuità del complottismo alla Dan Brown, ma ne preannuncia persino il successo. Attenzione, voleva dirci il Pendolo: questa roba sembra ridicola, inoffensiva, ma funziona.

Torniamo a oggi. Quando è crollato il ponte Morandi, nel giro di poche ore su internet sono fiorite le prime ipotesi complottiste sulla “demolizione programmata”. È la prassi, dall’undici settembre in poi; dietro non c’è nessuna mente diabolica, né un’epidemia di analfabetismo di ritorno: solo l’umana esigenza di inserire ogni tragedia in un Piano che la giustifichi e ne dia la colpa a qualcun altro. È un fenomeno interessante, inquietante e ancora abbastanza oscuro: dovremmo analizzarlo meglio, forse avremmo dovuto cominciare a studiarlo per tempo: ma in fondo chi se lo sarebbe aspettato che queste buffonate sarebbero diventate così importanti? Ai posteri cercheremo di spiegarla così. E se siamo fortunati, magari i posteri non avranno letto quello strano romanzo in cui Umberto Eco ci metteva in guardia, ormai trent’anni fa.
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E anche questo coccodrillo

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Se non vi piacciono le commedie dei Vanzina, pensate che sono pure invecchiate bene. Capita di ritrovarle in tv, su Rai3 più facilmente che su Rete4 – cioè ce l'hanno fatta, sono passate da prodotto di massa a patrimonio culturale – con quelle canzonacce anni Ottanta che adesso vanno giù lisce. Adesso che quel decennio è diventato un tutt'uno compatto, un fondale coerente, quei pezzi da classifica sembrano assolutamente appropriati, mentre al tempo erano il dettaglio dissonante, quello che ti metteva a disagio già la prima volta che vedevi il trailer alle undici di sera nella striscia a cura dell'Anicagis. I Vanzina andavano a rimorchio delle tendenze del momento, e questo a inizio Ottanta consentiva loro ancora di adattare vecchi canovacci di commedia all'italiana a un panorama umano più abbruttito, più arricchito. Sembravano istantanee assolutamente attuali; il mondo com'era là fuori, sulle spiagge, negli alberghi; tornava tutto tranne le canzoni, che erano invariabilmente quelle di sei mesi prima.



Non credo che fosse una scelta autoriale; probabilmente erano i pezzi in classifica nel momento in cui avevano girato il film. Ancora più probabilmente se ne fregavano, i Vanzina, come doveva essersene fregato il padre e tutti i registi della generazione precedente. Mi vengono in mente un paio di capolavori in bianco e nero che sono anche caroselli frastornanti di canzoni da classifica – Il sorpasso, Io la conoscevo bene, ma era un periodo diverso, forse le canzoni avevano tempi di decadimento più lunghi. Invece un gap di sei mesi, negli anni Ottanta, sembrava un secolo. Dopo sei mesi Moonlight Shadow era preistoria, Sunshine Reggae a Natale causava dolore fisico. Troppo presto per provarne nostalgia, in compenso ti suggerivano una tristezza sconfinata. Lo spleen delle vacanze finite, delle feste di compleanno quando gli amici se ne vanno e la mamma non sparecchierà da sola. Una sensazione che gli stessi Vanzina non temevano di evocare alla fine dei loro film migliori ("E anche questo Natale se lo semo levato da le palle"). Il cinema stava perdendo la presa sull'attualità e ovviamente il colpevole era l'elettrodomestico a colori che tenevamo in casa. Quando il Drive In di Ricci divenne egemone, i Vanzina tentarono di ripeterlo al cinema. Ma i tormentoni di Ezio Greggio erano ancora più effimeri del pop da classifica, sei mesi dopo non è che non facessero semplicemente più ridere: sapevano di morte.

Chi è cresciuto negli anni Ottanta non è che avesse accesso a molte opzioni: poteva amarli o poteva odiarli. Non c'erano terze vie, sono state tracciate dopo. A chi sceglieva la seconda, a chi necessitava quotidianamente di oggetti esemplari su cui esercitare il proprio disprezzo, i Vanzina offrivano un bersaglio così comodo, così evidente che avrebbe dovuto insospettirci, ma eravamo scemi. I Vanzina a modo loro erano nostri compagni di strada; disprezzavano le maschere che mettevano in scena tanto quanto le odiavamo noi, ma eravamo troppo piccoli per capire, troppo orgogliosi. A loro non potevamo perdonare nulla. Consideravamo la sola esistenza di Christian De Sica una bestemmia, un'offesa al nobile regista di film neorealisti che dovevamo ancora guardare; ci avremmo messo trent'anni a capire che per la maggior parte della sua carriera Vittorio De Sica aveva interpretato cialtroni squallidi quanto quelli che erano toccati al figlio. Magari nel frattempo ci stavamo facendo una cultura sul segmento aureo della commedia all'italiana (quella che arrivava su Rete4 in seconda serata), in confronto al quale le farse vanziniane ci sembravano una degenerazione intollerabile; senza accorgerci che i Vanzina erano gli unici eredi di quelle formule che tentavano di svecchiare procedendo per tentativi, senza lasciare nulla di intentato e senza menarsela mai. Ecco, se la fossero menata un po' di più forse oggi sarebbe più facile salutare un grande artista e scopritore di talenti. Invece i Vanzina erano una macchina: lavoravano tanto, incassavano tanto e non avevano pietà di nessuno. Senz'altro non di sé stessi.

Nel film italiano più celebrato dell'ultimo decennio, un film che rielabora echi felliniani, scoliani e morettiani in un gran pastone per turisti, a un certo punto una tizia ci informa che "l’unica scena jazz interessante è quella etiope". Quel pezzettino lì non è Fellini, non è Scola e non è Moretti: potrebbe essere uno scarto di lavorazione dei Vanzina, qualcosa che all'ultimo momento De Sica non avrebbe detto perché gli sarebbe venuta in mente una frase più divertente.
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L'epico, persino un po' brechtiano, Fantozzi

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Dopo aver scritto più di venti libri e lavorato in più di 70 film, in 60 anni di carriera, Paolo Villaggio rischia di essere ricordato soprattutto per aver affermato che la Corazzata Potemkin è una cagata pazzesca. Questa almeno era l’impressione che davano i coccodrilli dell'anno scorso, tutti percorsi dalla necessità non solo di ricordare lo stesso sketch, ma di fornircene un’interpretazione – più che uno sketch ormai è una parabola, una pagina di un testo sacro in cui tutti troviamo qualcosa di diverso.

Per Mattia Feltri era soprattutto un atto di denuncia contro l’ipocrisia dei dirigenti che si atteggiano a rivoluzionari, come il dottor Ricciardelli che la sera di Italia-Inghilterra convoca i suoi dipendenti e li costringe alla visione del capolavoro muto e in bianco e nero; il vecchio Feltri li avrebbe definiti radical chic, il giovane ci risparmia almeno la definizione. Aldo Grasso invece non riuscì nell'occasione a controllare l’impulso di scrivere “superiorità antropologica della sinistra”, contro cui Fantozzi si ribellerebbe; la sua sarebbe la “resistenza che l’impiegato oppone a chi vuole colonizzare il suo tempo libero”.

Dall’amaca Michele Serra tentava l’impossibile compromesso tra gli orfani di Villaggio e gli estimatori di Ėjzenštejn: “Lo stesso spettatore poteva benissimo amare la Potëmkin e Fantozzi, il cinema d’essai e il cinema popolare. Ma in sale diverse, in momenti diversi e con animo diverso”. È un veltronismo che Villaggio non avrebbe condiviso: anche l’ultima volta che ebbe occasione di parlarne – invitato dalla Cineteca di Bologna nel 2003 in occasione del restauro della Corazzata – ribadì la sentenza fantozziana: altro che capolavoro, era una “cagata” che avrebbe potuto interessare solo “vecchi e insonni”.

E però la necessità di salvare capra e cavoli, Fantozzi e Corazzata, è troppo forte e produce torsioni interessanti, come quella di WuMing1 che dopo la commossa rievocazione di un’epica proiezione della Potemkin in piazza Maggiore propone di leggere l’episodio come una “vertiginosa mise en abime” dei cinque atti del film: “il cineforum è la corazzata; Fantozzi è il marinaio Vakulenčuk che per primo grida la verità su quel che sta accadendo; gli spettatori sono i marinai insorti; l’odioso Riccardelli è gli ufficiali spodestati; la sala occupata è Odessa; la polizia che «s’incazza davvero» ha il ruolo dei cosacchi che reprimono”.

Villaggio novello Ėjzenštejn, e proprio perché si permette di sfottere Ėjzenštejn (...nel momento in cui la borghesia finto-rivoluzionaria se ne impossessa e lo trasforma in un feticcio). A corroborare una lettura tanto epica, WuMing1 riconosce nella saga di Fantozzi un unico personaggio positivo: il marxista Folagra, che dal sottoscala in cui è confinato non rinuncia a spargere il seme della rivolta - un po’ come i WuMing, fedeli al loro personaggio di rivoluzionario in servizio permanente. Folagra però nel film sembra una macchietta, appena in grado di farfugliare quattro slogan autonomisti; la fiaccola rivoluzionaria che passa a Fantozzi si smorza subito nel Grande Acquario dei Dipendenti. Del resto non è che ai personaggi di WuMing la rivoluzione di solito riesca: sin dai tempi di Q non hanno fatto che raccontare storie di rivoluzionari magari più strutturati di Fantozzi, ma ugualmente destinati alla sconfitta. Paolo Villaggio in questo senso è un marxista più ortodosso (o più novecentesco): quando scriveva e sceneggiava Fantozzi, sembrava avere in mente una concezione meno vicina alla New Italian Epic che all’epica brechtiana: come Madre Coraggio, Fantozzi non acquisisce mai una vera consapevolezza della propria condizione di sfruttato. Non è lui che doveva svegliarsi, ma lo spettatore.

Non è esattamente andata così. Il secondo tragico Fantozzi è un film del 1976, un’epoca pre-tv-color in cui i cineforum impegnati erano ancora una realtà non solo nelle grandi città – e in effetti lo sketch era nato in tv come una satira di quell’ambiente, che Villaggio conosceva bene; solo in un secondo momento era stato riadattato all’universo fantozziano. Il successo dei primi Fantozzi di Salce e Villaggio fu notevole, ma la vera penetrazione nell’inconscio collettivo avviene nel decennio successivo, quando la Mediaset ne acquisì i diritti e cominciò a riprogrammarli intensivamente – al punto da risorgere anche il personaggio cinematografico, in una serie di sequel sempre più deprimenti.

È solo in quel momento che “è una cagata pazzesca” diventa un modo di dire della lingua italiana (70.700 risultati su google); una specie di versione adulta e sboccata dell’andersoniano “il re è nudo” (anche “92 minuti di applausi” era già un meme prima delle GIF: nell’era pre-facebookiana di internet la citazione fantozziana era un buon surrogato del tasto “Mi Piace”). Nel frattempo però il paesaggio che Villaggio irrideva – quel mondo scalcagnato di cineforum fumosi coi seggiolini di legno – era completamente scomparso; e Ėjzenštejn dimenticato, anche dal palinsesto notturno di Rai3. La tv commerciale stava crescendo una nuova generazione di cinefili, forse non meno fanatici del dottor Ricciardelli, ma dai gusti completamente diversi: completamente digiuni dei maestri russi e degli espressionisti tedeschi, ma in grado di riconoscere un film di Bombolo o Lino Banfi dal singolo fotogramma.

Chi cresceva in quegli anni poteva condividere la sensazione di ritrovarsi bloccato nella scena dell’assedio fantozziano, e costretto come Ricciardelli a vedere a ripetizione “Giovannona Coscialunga, L’esorciccio e La polizia s’incazza”. Tra questi titoli ormai imprescindibili della storia del cinema italiano, non mancavano i film di Fantozzi. La rassegna integrale, sempre più lunga e ridondante (e triste, nel suo lungo percorso verso il trash), veniva riprogrammata una volta a semestre. I megadirettori delle emittenti ci convocavano per sentirci ridere – ridere stava diventando obbligatorio, come una volta partecipare al dibattito. Invece dell’“occhio della madre”, era obbligatorio menzionare il "radical-chic" e la “superiorità-antropologica-della-sinistra”; al posto del “montaggio analogico”, c’era lo sberleffo obbligatorio verso un modello di cinema e di società che non avevamo nemmeno fatto in tempo a conoscere. È andata così e non è certo responsabilità di Paolo Villaggio; comunque è finita. Vero?
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Cosa deve fare un razzista per farsi prendere sul serio in Italia?

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Qualche giorno fa è morto un razzista, che era stato il leader di una piccola organizzazione razzista, che faceva discorsi razzisti e profetizzava di una guerra tra le razze al termine della quale lui avrebbe regnato su una razza inferiore; per questo motivo chiedeva ai suoi sottoposti di commettere omicidi a matrice razziale, scegliendo vittime bianche e ricche e facendo in modo che la colpa ricadesse sui neri. 

E i giornali italiani hanno scritto che è morto un satanista.

Insomma cosa deve fare un razzista per farsi accreditare come tale in Italia? Incidersi una svastica in fronte? No, neanche così. Manson non era il diavolo: Manson era un razzista si legge su TheVision.





Qualche giorno fa è morto, dopo una vita in galera, Charles Manson, un personaggio di cui avrete probabilmente sentito parlare. Se la sua storia non vi ha mai particolarmente appassionato, se avete soltanto dato una veloce scorsa ai titoli dei quotidiani italiani, probabilmente sapete che era un serial killer satanista che tra l’altro pugnalò, in modo particolarmente efferato, la giovane attrice incinta Sharon Tate. Eppure Charles Manson non era esattamente un serial killer, non era un satanista e non ha pugnalato Sharon Tate. Siamo davanti all’ennesima fake news, penserete. Si e no. Diciamo che siete davanti a una libera interpretazione della stampa italiana.

Charles Manson è davvero nato nel 1934 a Cincinnati, Ohio, in un contesto disagiato – sua madre, sedicenne, fu subito abbandonata dal padre di Charles. È davvero entrato in riformatorio a 13 anni, per evaderne molto presto su un'auto rubata; e non era che l'inizio. Buona parte degli anni Sessanta Manson li osservò da dietro le sbarre, mentre scontava pene per furto e sfruttamento della prostituzione. Questo se da un lato gli impedì di godersi l’esplosione del flower power californiano, gli diede qualche elemento per captare meglio di tanti osservatori le tensioni più distruttive che covavano in quegli anni – in particolare la questione razziale. Verso il 1968 Manson aveva davvero messo insieme la “family”, una setta abbastanza scalcagnata, ma non esattamente satanica; in quel periodo Manson più che a Satana faceva riferimento a una sua personalissima interpretazione degli insegnamenti di Gesù Cristo, filtrati attraverso i testi delle canzoni dei Beatles. A un certo punto sostenne di essere lui stesso il Cristo: è un tratto classico di tanti predicatori che perdono la brocca, ma ha poco a che vedere col satanismo. I suoi adepti uccisero davvero Sharon Tate e altre sei persone tra il 9 e il 10 agosto del 1969, e lo fecero seguendo le sue indicazioni. Quindi insomma la storia c’è, e per quanto sia stata raccontata migliaia di volte rimane pazzesca. Non solo, ma nel 2017 la storia di Manson sembra più attuale che in passato: oggi che il razzismo è un’emergenza non solo dall’altra parte dell’Atlantico, è particolarmente interessante ricordare che Charles Manson predicava ai suoi discepoli la necessità di un’imminente guerra razziale: molto presto i neri avrebbero cominciato ad attaccare i bianchi, e dal caos che ne sarebbe derivato la “family” di Manson avrebbe governato il mondo.

Di questo scenario delirante, i più autorevoli quotidiani italiani non fanno cenno. Insistono molto di più su un presunto satanismo di Charles Manson, che in prigione si era fatto una cultura rudimentale su tante cose, dalla magia nera alle filosofie orientali: definirlo satanista o “satanico” è altrettanto impreciso che definirlo buddista. La BBC, per esempio, di Satana non parla: ricorda invece che Manson aveva convinto le sue discepole di essere il Cristo. Per Rainews invece Manson è un killersatanico; per la Repubblica i suoi adepti “credono in Scientology e in Satana(*)”; mentre Corriere e La Stampa, non riuscendo a trovare una sola dichiarazione satanista di Manson, arrivano a un compromesso: “Sosteneva di essere la reincarnazione non solo di Gesù, ma di Gesù e Satana insieme”. Manson in effetti parlava tantissimo, e da qualche parte potrebbe anche aver detto questa cosa. Sembra però che a Satana i giornalisti italiani tengano in modo particolare – “Da Satana ha preso molto,” ribadisce La Stampa, mentre Repubblica li chiama “delitti satanici”. Così come spesso accade nelle narrazioni del giornalismo italiano, le principali testate tengono molto a ricordare i dettagli più scabrosi del delitto Tate, rievocando l’aggressione con uno stile quasi cinematografico: “Il primo a morire fu Steve Parent, un ragazzo di 18 anni che era andato a trovare il custode e che passava nella via. Linda restò fuori a fare da palo. Watson spaccò un vetro per entrare in casa e la banda radunò Sharon Tate e i suoi amici in salotto. Sharon fu legata per il collo a Sebring, mentre Waston legava le mani di Frykowski. La Atkins disse all’attrice “Puttana, stai per morire”, Sebring cercò di difenderla e fu ucciso da Watson, che gli sparò e lo accoltellò più volte, usando anche un forchettone” (La Stampa).

E ancora, Il Corriere: “Armati di coltelli, revolver e corda di nylon tagliarono i fili del telefono per impedire che venisse dato l’allarme. Il primo a morire fu un amico del guardiano della villa, che stava uscendo in macchina, Stephen Earl Parent. Poi toccò a Jay Sebring, che implorò inutilmente di risparmiare la vita a Sharon Tate. Fu finito a coltellate, così come le altre tre vittime. L’ultima fu proprio Sharon, incinta all’ottavo mese”.

Di questi siparietti nel pezzo della BBC non c’è traccia. In compenso è segnalato il movente di cui nei giornali italiani non si parla: “Race war”. Del resto chi ha bisogno di un movente quando ha Satana? Satana spiega senza sforzo qualsiasi follia: i membri della Family scrivevano “Helter Skelter” e “Pigs” sulle pareti col sangue delle vittime? Sarà un qualche rituale satanista. Ma “Pigs” era anche l’appellativo con cui erano chiamati i poliziotti dai manifestanti (un po’ l’equivalente di “ACAB” sui muri di oggi). Manson intendeva probabilmente depistare le indagini sulla comunità afroamericana, scatenando una rappresaglia che avrebbe portato alla guerra razziale. Perché prima di essere satanista, scientologo, buddista e fanatico dei Beatles, Charles Manson era profondamente razzista. Pensava che i neri e i bianchi non avrebbero mai potuto vivere insieme, e aveva in orrore soprattutto le unioni interrazziali. Un mese prima il delitto Tate aveva dato l’esempio sparando a uno spacciatore afroamericano (che era sopravvissuto); venti giorni dopo, quando aveva fatto uccidere un suo seguace che gli doveva dei soldi, aveva lui stesso usato il sangue per scrivere sul muro “political piggy” e disegnare un simbolo delle Pantere Nere, l’organizzazione rivoluzionaria afroamericana.

Insomma se c’era una logica nella sua follia era una logica razzista, non satanista. La stessa logica che rende Charles Manson, a mezzo secolo dal funerale degli hippy, una figura ancora attuale. Ed è anche quello che i giornali italiani non dicono: un po’ perché devono concentrarsi sulle coltellate, il sangue, i dialoghi pulp, un po’ perché Satana vende di più.

A questo punto, forse senza un motivo, viene in mente Gianluca Casseri, uno scrittore fantasy fiorentino che qualche anno fa si mise a sparare ai neri che vedeva in giro per Firenze. Quando lo presero ne aveva già uccisi due. Qualcuno scrisse che era depresso. Può darsi: però aveva anche opinioni politiche molto definite, di cui non faceva mistero. Dopo aver negato, la sezione fiorentina di Casapound dovette ammettere che Casseri li frequentava. Insomma era uno scrittore un po’ di destra, un po’ depresso, a cui era capitato di mettersi a sparare a degli africani in giro per Firenze, tutto qui (se capitasse il contrario, un africano che va in giro per Firenze a sparare agli scrittori bianchi, non avremmo molte remore a definirlo terrorista).

Con Charles Manson mi sembra che sia successo qualcosa di simile. È appena morto il capo di un’organizzazione razzista, che faceva discorsi razzisti e profetizzava di una guerra tra le razze al termine della quale lui avrebbe regnato su una razza inferiore; per questo motivo chiedeva ai suoi sottoposti di commettere omicidi a matrice razziale, scegliendo vittime bianche e ricche e facendo in modo che la colpa ricadesse sui neri. Per i giornali italiani più che un razzista questo è un satanista. Ma allora cosa deve fare un razzista per farsi riconoscere come tale dai giornalisti italiani? Incidersi una svastica in fronte? No, niente da fare, neanche quella basta.



Integrazione di lunedì 30 novembre ore 12:40

*Con riferimento all’articolo “Manson non era il diavolo: Manson era un razzista” pubblicato il 24/11/17, a seguito della richiesta di precisazione di “Chiesa di Scientology di Milano Continentale”, che riferisce essere falsa la notizia che Charles Manson fosse legato a Scientology e basasse la propria filosofia sulla stessa, precisiamo che l’articolo ha inteso dare conto del fatto che secondo la stampa sia nazionale che internazionale egli è stato un conoscitore e uno studioso delle teorie di Scientology e non che ne fosse membro. Circostanza, quest’ultima, esclusa dalla “Chiesa di Scientology” [La redazione di TheVision].
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I 1001 pianeti di Valérian

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Valerian e la città dei mille pianeti (Valérian et la Cité des mille planètes, Luc Besson, 2017).


Da qualche parte al centro di questa città quadrimensionale, vivono i superstiti di un antico e nobile popolo che abbiamo sterminato un giorno senza volere - cose che càpitano quando si esplora la galassia. Non vivono in armonia con la natura: la natura non c'è più. Hanno la loro tecnologia, sviluppata un po' in autonomia un po' rubacchiando quello che passava ai piani superiori. Non è incomprensibile, ma ha le sue stranezze - comunicano col Minitel, hanno le tastiere con la A al posto della Q. Un giorno spiccheranno il volo, verso un nuovo pianeta dove vivere in pace e stagionare altri ottocento formaggi diversi. E ci mancheranno. Sì, proprio i francesi. Lo so, sembra impossibile.

Ma tingerle i capelli proprio non si poteva? Anche in CGI...
Un giorno ci mancherà Luc Besson - per quanto sia così difficile volergli bene. È un tamarro senza scrupoli e senza redenzione. La sua idea di cinefumetto fantascientifico è esattamente quella che aveva Lucas negli anni Ottanta: navi spaziali in fiamme e pupazzoni. In più Besson ci mette tutta la computergrafica che si può permettere con 197 milioni di euro, e non gli resta nemmeno un eurocent per pagare lo sceneggiatore. Questa è la cosa che fa più rabbia, perché sul serio: quanto si può risparmiare se invece di farti scrivere buoni dialoghi, te li fai scrivere scadenti? Il costo di un mostro digitale? Di un attore europeo in ribasso? Tra un'ospitata di Rihanna e una buona storia, tu cosa avresti scelto? È praticamente impossibile voler bene a Luc Besson quando prende uno, anzi due storici personaggi del fumetto fantascientifico francese, e invece di farli battibeccare per tutto il film come due colleghi che flirtano tra una battaglia e l'altra, decide che proprio in quelle due ore devono confessare la reciproca attrazione e fidanzarsi - che cosa imbarazzante, in un cinefumetto del 2017, vedere lui che fa una proposta di matrimonio e lei che fa la difficile perché non vuole essere "una della tua playlist". Se almeno fosse una gag e invece no, man mano che il film perde l'energia iniziale, l'idea banalotta del matrimonio procede per inerzia fino ad assorbirlo tutto. È come se Besson, che in teoria sogna questo film da una vita (e ci ha investito parecchio), fosse persuaso di non avere seconde possibilità: Valérian e Laureline hanno solo un film a disposizione, tanto vale buttarci dentro tutto, immergerli in centinaia di ambienti diversi in due ore (il che andrebbe anche bene) e poi farli sposare come succede nelle fiabe (il che invece no). Il film poi non è andato nemmeno così malaccio come sembrava, per ora siamo a 225 milioni di euro di incasso. Quindi per il sequel che ci dobbiamo aspettare, Valérien e Laureline oltre i limiti della galassia in luna di miele? Valérien e Laureline che litigano su chi deve cambiare il cyberpannolino? Ci sarà un motivo se gli eroi dei fumetti non si sposano mai? E impossibile voler bene a Luc Besson quando cade su queste sciocchezze. Eppure è necessario (continua su +eventi!)

L'idea - molto europea - che la convivenza sia un caos, però un caos che tutto sommato funziona.

Si potesse fare a meno di lui, ne sarei contento. Ci fosse in circolazione qualche altro visionario regista francese in grado di attingere a quell'immaginario autoctono che negli anni Sessanta dava i punti agli americani - ma non c'è. Quel momento in cui il pianeta Francia e il suo satellite Belgio erano gli astri più fiammanti del firmamento, e Mézières e Moebius plasmavano il nostro immaginario, con situazioni più problematiche di quelle che arrivavano da oltre oceano, ma immagini altrettanto suggestive - alzi la mano chi ha trovato l'astronave di Valérian un po' troppo simile al Millenium Falcon, beh, è ovviamente il contrario. Besson non sarà il miglior difensore del patrimonio culturale che rappresenta, ma al momento è l'unico, e quindi viva Luc Besson e i suoi pupazzoni digitali (che comunque reggono il confronto di Avatar). Per quanto sia difficile volergli bene, una volta su dieci ne vale la pena. A volte gli riescono cose impossibili, ad esempio rendere simpatica Cara Delevigne. Mentre Dane DeHaan ha esattamente la faccia da schiaffi che serve a un avventuriero dello spazio. Valerian e la città dei mille pianeti resiste indomito al Monviso di Cuneo, almeno fino a stasera 24 ottobre alle ore 21.
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I replicanti sognano Blade Runner analogici?

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Blade Runner 2049 (Denis Villeneuve, 2017)


Il passato non esiste. I tuoi ricordi sono solo un innesto. Non è sempre stato così, ma un giorno c'è stato un black out e tutti i ricordi che avevi - le foto da bambino, i tuoi film preferiti - puf, è sparito, come lacrime nella pioggia. Non ci credi. Vuoi che facciamo un test?

Ho appena citato un film famoso. Ti ricordi quale?

Bene.

Ti ricordi quando l'hai visto per la prima volta?

Vedi?

Il primo a rompere l'omertà è stato Zerocalcare. Nei giorni successivi, qualcun altro ha trovato il coraggio di ammetterlo: uno dei problemi di Blade Runner 2049 è che è il seguito di un film che siamo tutti convinti di conoscere, ma non ci ricordiamo di aver visto. C'è senz'altro una spiegazione razionale al fenomeno. Quando uscì al cinema eravamo troppo giovani - e comunque floppò. Era stato messo insieme da Ridley Scott con tanta ambizione e pochi soldi. La storia faceva acqua, alcuni dialoghi non avevano senso, l'atmosfera era azzeccatissima ed ebbe un effetto dirompente sul nostro immaginario - uno stacco netto dai futuri postatomici degli anni precedenti - per cui negli anni Novanta anche se non guardavi Blade Runner te lo ritrovavi replicato in tutto il cyberpunk, persino nei fumetti della Bonelli: dappertutto pioggia, inquinamento, grattacieli, androidi tristi. Nel frattempo uscirono varie riedizioni, una director's cut che non piacque al director, cui seguì la director's cut della director's cut - a quel punto forse noi vedemmo per la prima volta Blade Runner, ma eravamo già in quell'età in cui ci vergognavamo a dire di non averlo già visto, e così programmammo noi stessi per dire: "l'altra sera ho rivisto Blade Runner". E si sa come va con l'autoprogrammazione, no? Convinci più te stesso che gli altri. Ormai era il 2000 e la gente si era messa a scrivere su forum e blog, e ogni tre righe citava "Ho visto cose che voi mortali". Tutti sembravano conoscerlo a memoria, Blade Runner. Ma più che la storia tutti citavano quel monologo senza senso improvvisato dal grande Rutger Hauer che sembra arrivato all'ultimo momento da qualche altro set di fantascienza ("navi da combattimento in fiamme al largo dei bastioni di Orione"?), e poi l'atmosfera, eh, l'atmosfera. La pioggia, le pubblicità luminose, il sushi. Ok. È un innesto.

Non è successo. Non hai mai visto veramente Blade Runner. E forse è meglio così. Ora sei libero di guardarti un ambizioso film di fantascienza di Denis Villeneuve, e di amarlo od odiarlo per quello che è. Un ambizioso film di fantascienza di Denis Villeneuve. Meglio di quello di Scott? E che ne so?

(Spoiler: in una delle scene più apparentemente gratuite, il grande demiurgo (che è Jared Leto, ma anche un po' Villeneuve) gioca a resuscitare il passato. È un gioco che ultimamente abbiamo già visto in tutti i film di fantascienza ad alto budget, quindi l'effetto sorpresa ormai è andato. Salvo che stavolta il demiurgo resuscita il passato, lo trova insoddisfacente e lo uccide. Ed ecco che una scena che sembrava poco interessante diventa il senso del film).


C'è stato un blackout, davvero. Tutto quello che ci ricordiamo è andato perso, perché anche se non siamo replicanti (e chi dice che non lo siamo?) la nostra memoria funziona come quella dei computer - la nostra memoria è quella dei computer: o è condivisa, o scompare. Nel 2049 di Villeneuve, il Blade Runner originale non esiste più. Solo qualche frammento audio. Per quanto tu possa cercare di riprodurre fedelmente qualche dettaglio, commetterai sempre un errore fondamentale: sbaglierai il tono di voce, o il colore degli occhi. Tanto vale buttare via anche i frammenti e ricominciare da zero. Restano i sogni - brandelli di ricordi incontrollabili - ma anche di quelli come ti puoi fidare? Lascia perdere. Il passato non esiste, guarda avanti. Una volta forse il mondo era molto migliore, ma è stato tanti anni fa e non ti riguarda.

Villeneuve ha una padronanza dei mezzi che ti fa dubitare della sua umanità... (continua su +eventi!) Il suo futuro è ammuffito e arrugginito come dovrebbe essere. Anche gli ologrammi smaglianti a volte vanno in crash. Il casting è perfetto - se Ryan Gosling era nato per interpretare un replicante, strappa l'applauso il modo in cui Leto, Ana de Armas o Dave Bautista vengono adoperati sempre al meglio delle loro capacità (quando l'ex wrestler Bautista inforca quegli occhialini, ti sembra il più umano di tutti).



A Villeneuve non interessa se il tal personaggio è replicante o no - siamo tutti replicanti a modo nostro. Ci crediamo speciali perché abbiamo dei ricordi che lui sa fabbricare in serie. Villeneuve non si preoccupa troppo di mantenere l'atmosfera del primo film ed è forse questo il motivo per cui in alcune sequenza, con naturalezza, ci riesce. A Villeneuve interessava fare un film di fantascienza cupo, nebbioso, imbastito su un'idea di futuro coerente, e c'è riuscito. A Villeneuve interessava un certo ritmo lento, e la cosa infastidisce soltanto nell'ultimo terzo, quando lo sforzo di reintrodurre sul set Harrison Ford allunga i tempi a dismisura. Si poteva fare diversamente? Secondo me no. A questo punto sono portato a fidarmi di Villeneuve come di un'intelligenza artificiale: se il film è troppo lungo, si vede che non c'era modo di accorciarlo senza ottenere un prodotto inferiore. Sta floppando? È un Blade Runner, che ti aspettavi? Gente che fa la fila per vedere un futuro prossimo dove mangeremo millepiedi e flirteremo coi sistemi operativi? (Eppure dopo una settimana l'ho visto in una sala ancora piena, ero il primo sorpreso a vedere che la gente non uscisse a metà).

Anche ammesso che Villeneuve sia un umano, ormai è certo che non è americano. Il suo Blade Runner è la storia di una creatura che non si crede speciale; che lentamente cede alla tentazione auto-indotta di credersi speciale; ma non lo è: ed è qui che Villeneuve fallisce clamorosamente il suo test di americanità. Il che non significa che non possa ancora rendersi utile, e provare riconoscenza per chi lo creato e ha creato i suoi ricordi. Saranno anche innesti, ma restano le cose più belle che abbiamo. Forse non abbiamo mai visto Blade Runner, ma è lo stesso dentro di noi. Oggi più che vent'anni fa. Blade Runner 2049 è al Cityplex di Alba (15:30, 18:30, 21:30), al Cinelandia di Borgo San Dalmazzo) (14:45, 17:10, 20:30, 21:30), al Vittoria multisala di Bra (17:30, 21:00), al Fiamma di Cuneo) (14:50, 18:05, 21:15), al Multilanghe di Dogliani (17:40, 20:45), ai Portici di Fossano (15:30, 18:30, 21:30), al Baretti di Mondovì, (21:00), al Cinemà di Savigliano (16:00, 18:45, 21:30).
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Nel giardino delle attrici castratrici

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L'inganno (The Beguiled, Sofia Coppola, 2017)


Al di là del bosco c'è la guerra. È lontana e in ogni dove, brontola tutti i giorni come un temporale che non riesce a sfogarsi. Un giorno ci troverà e sarà finita - in fondo siamo soltanto un collegio di signorine, o quel che resta di. Un giorno la guerra busserà ai nostri cancelli. O forse arretrerà sgomenta?

Niente All Star stavolta
A me dispiace che Sofia Coppola non abbia fatto la Sirenetta, alla fine. Se c'è un regista in circolazione che mi fa pensare ad Andersen, è lei. Quante principesse sul pisello ha già messo in scena, quanti sarti di abiti invisibili, regine di ghiaccio, brutti anatroccoli? Da come la racconta, pare che abbia rinunciato perché non riusciva a girare sott'acqua. Troppo complicato, troppo rischioso, eppure "la fotografia subacquea è così bella". La Universal le offriva un film ad alto budget, lei pensava più a un servizio fotografico. A me dispiace perché in fondo tutti i suoi film sono acquari, più o meno fragili: tutti i suoi personaggi nuotano verso il bordo, fissano perplessi una catastrofe che preme da fuori. Tutti sembrano ricordarli per la colonna sonora - che in effetti spesso è frastornante - eppure c'è sempre tanto silenzio, che riempie ogni spazio lasciato vuoto. È davvero come se la musica arrivasse da fuori, sempre attutita e poi riverberata dall'acqua. E poi c'è quel brusio, che in Marie Antoniette era la Storia che urlava alle finestre di Versailles, e qui è rumore di artiglieria che sembra non dover mai finire.

Dopo aver rinunciato e esprimersi in una grande produzione, la Coppola ha ripiegato sul remake di uno sfortunato film di Don Siegel in cui Clint Eastwood durante la Guerra di Secessione si nascondeva in un convitto di signorine - in Italia provarono a smerciarlo come un prodotto sexy, La notte brava del soldato Jonathan, ma era un film molto inquietante per l'epoca, in cui Eastwood metteva in discussione il suo machismo: un film che metteva in scena incesti e castrazioni, e che al botteghino andò male (pochi mesi dopo Siegel e Eastwood si inventarono l'ispettore Callaghan, riconquistando machismo e botteghino). Al posto di Clint c'è Colin Farrell; nel cast femminile la Coppola ha convocato Nicole Kidman, Kirsten Dunst, Elle Fanning e altre ragazze più giovani e assai promettenti. Tutte bianche, il che difficilmente le sarebbe stato perdonato nel 2017, ma lei lo ha fatto lo stesso (non se ne è resa conto o se ne infischia proprio? Continua su +eventi!)

Nel film di Siegel uno dei personaggi più importanti era una schiava, ma la Coppola una schiava afroamericana non sapeva come gestirla, così ne ha fatto a meno. Mentre critici e femministe la facevano a pezzi, riscoprendo stereotipi razziali in Lost In Translationlei difendeva la sua scelta spiegando che aveva eliminato la schiava proprio perché aderiva a uno stereotipo razziale; in effetti era la classica schiava subdola e impicciona e - al contrario delle collegiali bianche - non parlava un buon inglese. D'altro canto perché una schiava non avrebbe dovuto essere subdola e impicciona, e perché mai avrebbe dovuto parlare un buon inglese? Così per evitare di essere accusata di razzismo, la Coppola ha diretto il primo film ambientato nel Sud secessionista in cui non viene mai, assolutamente mai, inquadrato un personaggio afroamericano. Come t'insegnano al collegio: delle cose scabrose non si parla, non esistono. Le donne di Siegel avevano scheletri negli armadi, quelle della Coppola ci tengono gli abiti da sera (e sono tutti perfetti). Le donne di Siegel tramavano per conquistarsi l'unico uomo, manipolandosi a vicenda; quelle della Coppola al massimo si rubano gli orecchini. Il punto è sempre lo stesso: non è che la Coppola rifiuti l'approfondimento psicologico, è proprio che non le interessa. Le piace mettere in scena signore di tante età e farle splendere a turno. Hanno tutte qualcosa di magico che solo un grande fotografo sa catturare, anche se di solito lavora per Vogue più che a Hollywood. C'è un momento per la Kidman, un momento per la Dunst, e se in un attimo di debolezza finisci per preferire la Fanning, è scontato che un po' ti meriti le disgrazie che ne deriveranno. Ma se cerchi il dramma ti sei proprio sbagliato, e dopo tanti anni è imperdonabile: dovresti saperlo che lei gira così. E vince pure dei premi, quindi insomma hai solo sbagliato sala. Di fianco fanno Valerian, fanno It, Blade Runner, ce n'è per tutti i gusti. La Coppola può essere irritante, ma ha un suo stile, un suo prodotto e un suo pubblico. Eppure.


Eppure a me dispiace che non riesca a uscire dalla sua comfort zone festivaliera, perché una regista con una visione così personale, una cura per il dettaglio inconfondibile e un'arroganza da autrice, mi sembra un po' sprecata per i servizi di moda. Se un giorno qualcuno riuscisse a convincerla, per esempio, a fare un horror, secondo me ne salterebbe fuori un capolavoro. I suoi film sono una specie di bolla sempre sul punto di scoppiare, immersi in una sensazione di sciagura imminente che non ti accorgi nemmeno di sentire, che dai scontata come quel costante rumore di fondo. A differenza di Bling Ring Marie Antoniette, stavolta la Catastrofe non entra in scena. Forse non entrerà proprio nessuno. Forse la guerra è finita da secoli e quei rumori sono basi registrate. Forse quel bosco è in una bolla di vetro in fondo al mare. L'inganno è ancora per una settimana al Fiamma di Cuneo alle 21:15.
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Tom Cruise spaccia (ma non aspira)

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Barry Seal - una storia americana (American Made, Doug Liman, 2017).

Una volta ero un pilota. In una vita precedente. 
E proprio quando pensavate di aver visto tutti i Tom Cruise possibili, ecco a voi, in anteprima rispetto agli Stati Uniti, il Tom Cruise disonesto!

"L'avevamo già visto in Collateral".

Beh, ma quello era un killer, questo... questo è un simpatico cialtrone!

"Edge of Tomorrow".

No, no, questo è più manigoldo, questo...

"La mummia".

Questo fa sul serio, capite? Questo spaccia la droga!

"La droga? Tom Cruise?"

Non ve l'aspettavate, eh? "Tom Cruise" e "droga" nella stessa frase sono un colpo basso, non dite di no.

"Si drogava già in Minority Report".

Sì, no, ma stavolta non è che si droghi. La spaccia soltanto.

"Cosa vuol dire che la spaccia soltanto?"

Beh è colombiana di Medellin, dai, cosa pretendi, che la sniffi sul grande schermo? È pur sempre Tom Cruise.

È il caso di dire: che botta.

Se anche non andrete a vedere Barry Seal, c'è una scena che vi ricorderete perché compare in tutti i trailer, anche nelle pubblicità. C'è Tom Cruise che fa un atterraggio di fortuna in un sobborgo; c'è Tom Cruise che smonta dall'aeroplano tutto infarinato di cocaina con una valigia ricolma di dollari. È davvero il nocciolo di tutto il film: c'è l'aeroplano, ci sono i soldi, c'è la coca, c'è Tom Cruise che in un qualche modo ci salta fuori sempre (quasi). È anche l'unica scena che suggerisce che qualche granello di cocaina potrebbe essere stato inavvertitamente inspirato dal narcotrafficante interpretato da Tom Cruise. L'unica. E allora, signori, magari di narcotraffico non siamo così esperti, ma ormai di film ne abbiamo visti tanti. Anche prima dell'attuale inflazione di Escobar al cinema, c'era stato Blow, lo Scarface di De Palma, c'era stato Goodfellas con quella scena in cui Liotta se la prende con l'amante perché quando confeziona le dosi lascia polvere dappertutto. È cocaina, è bianca e granulosa, se soffi fa una nuvola, è quasi impossibile viverci in mezzo e non tirarne mai. Neanche un po'. Capita solo nelle fiabe - quelle che probabilmente i vecchi narcos raccontano ai bambini - il nonno era un capocartello, ma era pulito come appena nato - nelle fiabe e nei film con Tom Cruise.

Ci ho messo un po' a capire cosa non mi stesse convincendo in Barry Seal. Negli USA - dove deve ancora uscire - magari farà un po' di rumore perché... (continua su +eventi!) perché sostiene papale papale che la cocaina di Medellin entrasse in America grazie a una ditta basata in Arkansas che conosceva le rotte della DEA e della FBI dal momento che faceva lavoretti sporchi per la CIA e la CIA le aveva passato i tracciati. Che mentre Reagan dichiarava la Guerra alle Droghe, qualcuno forse nello stesso edificio considerasse l'invasione di colombiana purissima il prezzo da pagare per reprimere i sandinisti in Nicaragua. I sandinisti sono rimasti al potere, la cocaina è diventata un consumo di massa, la CIA si è allontanata fischiettando, e in tutto questo Barry Seal cosa rappresenta? Una pedina che si credeva furba ma che alla fine ha lavorato per tutti e non è riuscito a portarsi dietro nulla. Un tipo di personaggio che non è poi così nuovo per Tom Cruise - e allora perché stavolta manca qualcosa alla classica parabola del bravo-ragazzo-che-scopre-il-malaffare? Perché Barry Seal non raggiunge non dico i livelli di Wolf of Wall Street, ma a un certo punto fatica a mantenere il passo non certo da fuoriclasse di War Dogs?



Potrei tagliare corto e dire: Scorsese. Scorsese questi film li sa fare, gli altri no. Ma credo di averlo già scritto quattro o cinque volte, temo sia l'ora di approfondire. C'è che Scorsese è un tossico. Oddio spero non mi denunci. Magari ha smesso da anni, ma dentro di sé c'è un meccanismo che continua a girare. Gira a vuoto, ma gira. Tom Cruise ha altre stravaganze, ma quel meccanismo non ce l'ha. O non vuole mostrarlo, il che per un attore è imperdonabile. Magari gli piaceva il soggetto - un fattorino dei cieli che frega la Cia per conto dei colombiani e poi viceversa - magari voleva il suo Wolf of Wall Street personale. Però non voleva abbassarsi a tirare coca per tutto il film, ed è qui che casca l'asino. Il suo personaggio resta un'amabile faccia da schiaffi che passa la vita a mettersi nei guai senza un perché. Per un biplano ultraveloce? Una cadillac da regalare alla moglie? una villa con piscina a Mena, Arkansas? Non sembra davvero valerne la pena. La canonica scena "aiuto non so più dove mettere i soldi", che in Wolf varcava le soglie del grottesco, qui finisce per sottolineare l'assurdità della situazione: quanti ripostigli deve trovare Barry per le sue mazzette prima di capire che non potrà mai spenderle? La droga serve anche a questo: a bruciare i surplus in una nuvola gaia di euforia, a creare in individui non apparentemente cattivi quell'abisso da cui poi nascono le idee più disperate e geniali. Ma Barry non si droga. L'unico buon motivo per cui insiste a schivare l'artiglieria sandinista e gli elicotteri della DEA è che si diverte un casino. E naturalmente ha moglie e figli da mantenere - eh già, la famiglia, quanti crimini in tuo nome. Ma sul serio non c'è altro, nemmeno una scappatella con una hostess, niente. Cruise voleva fare il narcotrafficante ma anche il buon padre di famiglia.

Alla fine Barry Seal resta una pagina di storia interessante (anche se un po' fabbricata a posteriori: del resto quando c'è di mezzo la CIA l'unica verità è nel tritadocumenti). Non è però il film promesso, quello in cui finalmente Cruise si toglie la maschera da bravo ragazzo e ci mostra le turpitudini di cui è capace. Tutto il contrario: la maschera è più stretta del solito, non passa neanche un granello di polvere. Barry Seal è al Cinelandia di Borgo San Dalmazzo alle 20:00 e 22:40; al Vittoria di Bra alle 21:00; al Fiamma di Cuneo alle 21:10; al Multilanghe di Dogliani alle 21:30; ai Portici di Fossano alle 18:30 e alle 21:15; al Cinema Italia di Saluzzo alle 22:15.

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La sublime arte del lobbying

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Miss Sloane: giochi di potere (John Madden, 2017).


Sai perché i buoni perdono sempre (no, non al cinema, nella realtà)? Perché non sono abbastanza cinici. Non solo hanno quelle cose fastidiose che si chiamano "sentimenti", ma non sanno nemmeno sfruttarli: li nascondono, ricacciano le lacrime e cercano di sembrare razionali. Si aspettano che qualcuno gliene riconosca un merito. Sono sempre un passo indietro, sempre affannati nel tentativo di svelare l'ennesima trappola dei malvagi, invece di mettersi a elaborare trappole in cui qualche malvagio per una volta possa cadere. Per dirlo con una parola: sai perché i buoni perdono sempre nella realtà? Perché sono buoni. Ma se fossero i più cinici del mazzo, se vendessero i sentimenti propri e altrui a un tanto al chilo, se giocassero d'anticipo, che spettacolo sarebbe. Purtroppo nella realtà non può succedere. Al cinema, però...


Sai perché l'Europacorps di Luc Besson non sbaglia quasi un colpo al botteghino? Perché parte sempre da modelli collaudati - perlopiù americani - e li carica all'inverosimile, come neanche gli autoctoni osano. La loro America è sostanzialmente un sogno - un sogno nutrito di film americani, storie americane, serie americane. Ma se un giorno, invece di scopiazzare gli action per pensionati o i cinecomics o le commediole a base di animali parlanti, volessero cimentarsi con cose più cervellotiche, come quelle serie politiche ambientate a Washington dove tutti i politici e i lobbisti parlano a cento all'ora, che il pubblico raffinato si scarica coi sottotitoli e poi passa il tempo a leggere i sottotitoli? Se invece di fare il verso a Star Wars per una volta tentassero di fare il verso ad Aaron Sorkin o a House of Cards: cosa succederebbe? Che razza di film super-cerebrale, straparlato, implausibile ma irresistibile ci salterebbe fuori? Un film come Miss Sloane, diretto imprevedibilmente da John Madden (Shakespeare in Love, i Marigold Hotel) scritto da un esordiente e imbottito di intrighi e scene madri, ambientato in quell'America dirigenziale che si vede sempre nelle serie tv, quei palazzi tutti ascensori enormi e uffici a vetro. Una storia che parla del lobbysmo americano come se fosse l'epica Greca, un mondo che forse da qualche parte è esistito ma ormai è solo una metafora, un'iperbole, una scena trasparente dove mettere a galleggiare personaggi tragici. Un film che dopo cinque minuti ha già infilato un'interrogazione al Congresso e un dialogo tra due personaggi sulla via del gabinetto in cui si citano, tra le altre cose, Socrate, la Nutella e l'olio di palma. I debiti sorkiniani si saldano anche in sede casting, dove rivediamo almeno due volti di Newsroom, la dolce Alison Pill e li grande Sam Waterson: quest'ultimo in particolare piazzato in modo strategico, una specie di garanzia di genuinità di un prodotto (che tanto genuino magari non è, ma come si fa a non cedere davanti alla faccia del buon vecchio Waterson? Continua su +eventi!)


Ma Miss Sloane è soprattutto il film in cui Jessica Chastain può finalmente recitare a ruota libera, nel ruolo paradossale di lobbysta stronza che decide di passare dalla parte dei buoni - senza smettere di essere stronza, semplicemente trovando un fine nobile a i suoi stronzissimi mezzi. In fondo il suo ruolo non è molto diverso da quello già interpretato in Zero Dark Thirty - una donna super-determinata che fa di una singola missione lo scopo della vita - ma quello era un film realistico, o meglio le tentava tutte per presentarsi come tale. Miss Sloane è ambientato nella magica America sognata a un oceano di distanza, malgrado molti ingredienti della trama siano presi da scandali realmente avvenuti e documentati. L'eroina del film della Bigelow, in confronto a Miss Sloane, è statica come un'icona: qui la Chastain parla e straparla, teoricamente è dura come un diamante ma poi s'infrange come un cristallo, ogni tanto si fa un pianto o una crisi di rabbia ma poi si scopre che tutti gli apparenti fallimenti erano previsti. Miss Sloane è un surrogato europeo di Sorkin che coi tempi che corrono non possiamo permetterci di snobbare. Ovviamente non scorre bene come l'originale, ma è comunque uno spasso. Purtroppo il pubblico non ha gradito: Sloane è costato 13 milioni di dollari e fin qui ne ha raccolti solo nove. Nel frattempo Luc Besson sta per fare uscire il suo nuovo cinecomic fantascientifico. Sarà un baraccone pazzesco e sì, forse ho più voglia di vederlo che il prossimo Star Wars. Miss Sloane è all'Aurora di Savigliano alle 21.
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Ballare al volante, ballare al cinema

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Baby Driver (Edgar Wright, 2017).


C'è gente che balla là in strada. Lo fanno di nascosto, non li riconosci - se non dalle cuffiette, e da come tamburellano sul volante al semaforo. Non lo fanno per esprimersi o per esporsi o per piacere a sé stessi: lo fanno e basta, sono nati così, non smetteranno finché gli batte un cuore. Non sono più allegri di te, tutt'altro: c'è chi ha un fischio nella testa, o un dolore che non passa, o un grido che gli urla in testa, una canzone da dimenticare suonandoci sopra migliaia di altre canzoni. C'è gente che balla al volante, e non sono gli autisti peggiori.

Certi film partono talmente forte che è già tanto se non vanno a sbattere. Se dopo un po' sbandano, se forano una gomma e arrivano ai titoli di coda un po' ammaccati, è comunque un piazzamento. Baby Driver parte mollando il freno a mano e sgommando in quinta: infila una delle strade più trafficate di Hollywood (il canovaccio sull'autista delle rapine) ma trovandosi una corsia tutta personale (stavolta l'autista vive in simbiosi con le sue cuffiette, in un mondo tutto suo che va a tempo con la sua playlist). Almeno per mezz'ora gira tutto che è un piacere, con certe controsterzate che strappano l'applauso. Poi comincia a perdere colpi, ma appunto: era previsto. Al punto che viene quasi il dubbio che l'effetto sia voluto, o quanto meno calcolato: che da un certo momento in poi il film stia mettendo in scena proprio la difficoltà di mantenere le attese.


Già ai tempi di Hot Fuzz era abbastanza chiaro quanto Edgar Wright fosse affezionato a quei luoghi comuni del cinema d'azione che apparentemente stava parodiando. Come quello di Tarantino il suo è un cinema al cubo, che vive di riferimenti di riferimenti, e della gioia di saperli rimettere in scena. Baby Driver è una variazione d'autore su un tema rigoroso: man mano che la storia va avanti i margini d'azione si restringono, certi snodi della trama sono quasi tappe obbligate e Wright non fa nulla per occultarcele, anzi è come se le sottolineasse (continua su +eventi!)
La svolta probabilmente è una strana scena in un parcheggio, dove un personaggio che non rivedremo più fa un lungo e discorso sulla carne di maiale, che non ha altro senso che farti pensare a certe vecchie messe in scena di Guy Ritchie - forse è una parodia, forse un omaggio (c'è differenza?) È il momento in cui Jamie Foxx, fino a quel momento quasi un cameo, prende in mano il film e apparentemente lo deraglia. Da lì in poi qualcosa si inceppa, ma non è forse quello che succede in tutti i film sulle rapine? C'è un piano perfetto e a un certo punto qualcosa che va storto. Anche Baby, che nella prima mezz'ora sembrava infallibile, di lì a poco non riuscirà più a far partire una macchina. Ci sarà ancora molta azione, e le canzoni continueranno a ritmarla, ma la freschezza iniziale è andata persa e non poteva che finire così. Baby Driver non è un film sulla perdita dell'innocenza - il personaggio di Ansel Elgort rimane immacolato anche quando si macchia di sangue - ma su un altro sintomo della crescita: la fine del senso di onnipotenza. Il musical si interrompe, le macchine non seguono più il groove, tutto crolla e chi ha deciso di seguirti, o in un momento di debolezza, di coprirti, forse ha commesso il suo più grande errore.



Baby Driver ha una trama molto semplice, portata avanti da personaggi la cui biografia si potrebbe scrivere su un tovagliolo. Questo lo aggiungo per chi nei giorni scorsi si è lamentato, per esempio, della scarsa profondità dei personaggi di Dunkirk - allora, forse è meglio rammentare che al cinema le storie durano in media due ore, nelle quali l'approfondimento dei personaggi non è sempre la priorità. Se davvero è quel che vi interessa, forse è meglio se restate a casa e vi leggete un libro - oppure vi sparate una stagione di una serie in venti puntate dove di sicuro ci sarà tanto spazio per approfondire i personaggi, sviscerarli, ribaltarli e ricomporli a piacere - viene il sospetto che chi trova il cinema superficiale, oggi, si stia aspettando qualcosa che al cinema più di tanto non si può trovare. E che da parte sua lo stesso cinema di intrattenimento stia prendendo un'altra direzione - che poi è una banale strategia di sopravvivenza: visto che non si può rivaleggiare con la serialità, si tende all'estremo opposto: alla rapidità, alla stilizzazione. Baby Driver Dunkirk sono due film diversissimi, ma accomunati dalla volontà esibita di essere oggetti cinematografici. In entrambi i casi la colonna sonora è fondamentale. Nel caso di Baby Driver, Wright mette a frutto la vecchia lezione di Tarantino: se c'è una cosa che piace agli spettatori in sala, è scoprire o riscoprire qualche vecchia canzone. Perché è vero che c'è gente che balla ai semafori: ma anche in sala, quando si spengono le luci. Baby Driver è al Cinelandia di Borgo San Dalmazzo (20:10, 22:40); ai Portici di Fossano (21:15); al Cinemà di Savigliano (20:20, 22:30).

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Giù al tappeto negli anni Ottanta

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Knocked Out Loaded (1986)
(Il disco precedente: Biograph.
Il disco successivo: Down in the Groove).
Il film andò male ai botteghini,
secondo gli esperti anche a causa
dei baffi di Gregory Peck.
"I tuoi baffi ci sono costati milioni",
gli avrebbe detto un produttore.
C'è un western che ho visto una volta, su un pistolero che attraversava il deserto. L'uomo era Gregory Peck, però coi baffi. Era il più bravo di tutti ma si era rotto i coglioni - a una certa età succede. Non ne poteva più delle sparatorie, non trovava più niente di eccitante nei duelli al sole, e soprattutto non poteva più soffrire il modo in cui ti fissano i più giovani - quel modo che hanno di sgranare gli occhi dalla sorpresa, poi subito di stringerli per metterti a fuoco, per assicurarsi che sei proprio lo stesso tizio ritratto sulla taglia - e intanto senza accorgersene hanno già la mano sulla fondina. Che supplizio, che rottura, i ragazzini che vogliono farti fuori per farsi un nome. Chissà se sono mai stato uno di loro.
Mi è venuta in mente questa cosa mentre ridavo un'occhiata a uno dei documenti più penosi che un dylanita possa reperire su Youtube - qualcuno avrà già indovinato. Mettiamola così: qual è l'evento più glorioso nella storia del rock degli anni Ottanta, quello che segna uno spartiacque che è ancora visibile da qui, oggi? Senza dubbio il Live Aid, proprio nel bel mezzo del decennio: estate 1985. È la fine ufficiale del cinismo punk e post-punk; l'apparizione abbastanza improvvisa di una nuova sensibilità più filantropica che politica. I nuovi eroi da palcoscenico non vogliono soltanto vendere dischi ed essere adorati dal pubblico pagante: vogliono essere buoni. Salvare il mondo. Proprio lo sporco mondo che fino a qualche anno fa andava bruciato, improvvisamente nel 1985 diventa cosa sacra e degna di essere salvata. Bob Geldof è il profeta, Bono il Messia, Freddy Mercury il ladrone pentito eccetera eccetera. Ma chi è che fino all'ultimo momento cercò di rovinare la festa? Senza cattiveria, ma con l'intuitiva ostinazione di chi sembra essere nato per mettere a disagio la gente alle cerimonie? Un aiutino: in fondo alla scaletta, nel set di Philadelphia, c'era il grande Bob Dylan.
Anche se forse non se ne rendeva conto. Non era il solo: il ive Aid esplose in maniera abbastanza imprevista. Fino a pochi giorni prima ne parlavano soltanto gli addetti ai lavori e il giorno dopo sui quotidiani era diventato lo show del secolo. Dylan arrivò sul set senza una band, con una vaghissima idea di cosa fosse stato organizzato e perché, in uno dei periodi più confusi della sua carriera; ma invece di fare la cosa più semplice (portarsi una chitarra, un'armonica, suonare la fottuta Blowing in the Wind e buonanotte - magari con Peter, Paul e Mary che si erano riuniti per l'occasione) decise di accollarsi Keith Richards e Ron Wood, in un momento in cui i Rolling Stones sembravano separati in casa: Mick Jagger aveva appena duettato con Tina Turner sullo stesso palco. L'approccio è quello di tre amici che dopo l'ammazzacaffè si fanno prestare le chitarre e strimpellano la prima cosa che gli viene in mente. Il problema è che i tre amici sono Bob-Coscienza-della-Sua-Generazione e i due chitarristi della band più famosa del mondo: a presentarli c'è Jack Nicholson e a guardarli strimpellare il mondo intero. Insomma forse presero la cosa un po' sottogamba. A causa del peso dei loro nomi erano stati inseriti in scaletta verso la fine: non solo il pubblico era esausto, ma dietro le quinte c'era già chi brindava e festeggiava (oppure il coro di USA For Africa che stava facendo le prove: ognuno la racconta diversa e ritiene che gli ubriachi fossero gli altri). Wood e Richards sono abituati a capirsi al volo, ma dovrebbero prima capire cosa vuol fare Dylan, che sta in mezzo, non riesce a sentirsi in spia e rompe addirittura una corda - al che Wood gli presta la sua chitarra e in attesa del rimpiazzo resta sul palco a gesticolare come un ragazzino. Dietro c'è un gran baccano. Blowing in the Wind stavolta è veramente fottuta, chitarre scordate, uno strazio.
 
Gregory Peck, negli anni di KO Loaded, faceva Lincoln nella serie TV "Il buio e il grigio" (e com'è ovvio ricordava terribilmente il capitano Achab).

Dicevo che in quel film Gregory Peck fa il pistolero che non ne può più - attraversa il deserto perché dall'altra parte c'è una donna che amava, addirittura un figlio che non ha mai visto. Tutto quello che vorrebbe è sistemarsi in qualche fattoria. Ma i ragazzini, i ragazzini non lo lasciano in pace. Lo sfidano, si fanno ammazzare, e a quel punto naturalmente salta fuori qualche altro ragazzino che deve vendicare l'amico, il fratello, il cognato: non finisce mai.
La breve apparizione di Dylan al Live Aid si potrebbe anche liquidare così: credeva di essere a una festicciola, si fidava di amici in realtà confusi quasi quanto lui, nessuno gli aveva spiegato che era la vedette finale di un Grande Evento Storico. Insomma un equivoco spiacevole. E però la scaletta suggerisce che non fosse del tutto inconsapevole. Come al solito la cambiò fino all'ultimo momento. Ron Wood racconta che mentre saliva sul palcoscenico lo mandò nel panico proponendo all'improvviso di intonare All I Really Want to Do: una filastrocca che forse i due Stones si erano dimenticati, ma che per Dylan vent'anni prima aveva rappresentato il primo dei tanti disimpegni: quello dal movimento politico. Al Live Aid alla fine Dylan non cantò "voglio solo essere vostro amico", ma la storia di Hollis Brown, il contadino del Midwest che stermina la famiglia e si suicida per la fame. Una scelta non banale e apparentemente appropriata a una sera in cui si raccoglievano fondi per l'Etiopia, senonché al termine Dylan buttò lì che magari un paio di milioni dell'incasso si sarebbero potuti stornare "per pagare l'ipoteca su alcune fattorie che i contadini di qui devono alle banche". Tirava aria di crisi anche nel Midwest rurale: il pubblico della mondovisione magari non ci aveva fatto caso, Dylan sì. Qualche mese dopo Neil Young organizzò addirittura un Farm Aid, che molti considerano direttamente ispirato dalle parole di Dylan: quest'ultimo in quell'occasione si preparò per bene con gli Heartbreakers e fece uno show di ottimo livello. Invece, nella sera in cui si teneva a battesimo il Rock Buono, Dylan arrivò ubriaco come una vecchia rockstar (con una scorta di vecchie rockstar altrettanto ubriache); non urlò "America First!" ma ci andò vicino, e prima di massacrare Blowin' in the Wind inflisse ai due Stones e al pubblico un altro brano del passato remoto, When the Ship Comes In - vi ricordate in quale altra occasione, a dispetto di ogni ragionevolezza, aveva cercato di rovinare una festa con la stessa canzone? La marcia di Washington, esatto. E ora non c'era più Joan Baez a metterci una pezza, ma Ron Wood a fare air guitar. Magari è solo una coincidenza. Ma dopo Washington l'aveva cantata dal vivo soltanto altre due volte; non la tentava da vent'anni e dopo il Live Aid l'avrebbe accantonata per sempre. È un pezzo antipatizzante, che dice che la Salvezza arriva all'improvviso e non fa prigionieri: non è un pranzo di gala né un concertone benefico. Chi ne è degno sarà salvato, gli altri affogheranno. Amen.
E così Gregory Peck attraversava il deserto e arrivava in questa città di compensato - sai quelle cittadine western montate negli studios - e ovviamente la sua vecchia fiamma non voleva parlargli, e il figlio non sapeva chi fosse: e qualcuno aveva un conto in sospeso, o voleva soltanto farsi un nome. Ma forse sarebbe meglio che cominciassi a parlare di Knocked Out Loaded, il disco che Dylan pubblicò un anno dopo il Live Aid, ma che aveva già iniziato a registrare un anno prima, sempre un po' qua e un po' là senza un'idea chiara. Ai tempi pensavo che "knocked out loaded" significasse "carico di knocked out", come un pugile pronto a mandare al tappeto l'avversario: insomma un bel titolo combattivo, ecco un disco che se non state attenti vi prende a pugni! Invece significa l'esatto contrario: allude a un KO ricevuto, si può tradurre "suonato", "al tappeto". Forse non avevo mai fatto caso che verso la fine Dylan canta proprio "I was knocked out and loaded in the naked night". È che forse non ci ero mai arrivato, verso la fine. E dire che è un disco abbastanza breve. È il suo miglior pregio. Stiamo del resto parlando di un disco costruito attorno agli scarti di Empire Burlesque, le canzoni che non era riuscito a terminare in tempo per la scadenza del 1985, integrate con altri esperimenti per lo più infruttuosi del 1986. Siamo insomma al raschio del barile: qualcosa di buono ancora vien su, ma che fatica.
E infatti Gregory Peck, quando alla fine riesce a parlare alla sua ex, cala la maschera e le dice che ha finito con le pistole e i duelli e tutto quanto, e che vuole soltanto sistemarsi. Lei ovviamente è un po' scettica; magari non è la prima volta che lo sente dire: poi nemmeno nei vecchi western in bianco e nero funzionava così, che se dopo dieci anni il pistolero fa un fischio, l'ex ragazza madre è già pronta a perdonargli tutto. Lui se ne rende perfettamente conto, e chiede un anno di tempo. Se tra un anno tornassi, e avessi rigato dritto tutto il tempo, tu me la daresti una possibilità? Capisco che non puoi darmela adesso, e nemmeno promettermela, ma prometti almeno che ci penserai? Messa in questi termini è una proposta che si può dignitosamente accettare - specie se te la propone un pur baffuto Gregory Peck...
 
Un altro relativo pregio di KO Loaded è la disarmante sincerità. Infidels e Empire erano due dischi carichi di ambizioni, in parte giustificate in parte no. C'erano tentativi di suonare professionale, di suonare sofisticato, di suonare moderno. KO suona soltanto... suonato. È il disco di un tizio che di mestiere vende dischi e fa concerti, e prima di cominciare la stagione dei concerti deve fare uscire un disco: che sia ispirato o no. Voi andate tutti i giorni al lavoro ispirati? Dylan nel 1985/86 quasi mai. Il che non significa che non ci andasse: se uno mette in fila tutte le collaborazioni e le incisioni del periodo scopre che non stava fermo un attimo. Gli USA For Africa, il Live Aid, il Farm Aid, gli Artists United Against Apartheid fondati da "Little" Steven Van Zandt e prodotti da Arthur Baker (Dylan per la verità canta soltanto due versi, ma è stato carino da parte sua partecipare. C'era Miles Davis, i Run DMC, e nel disco c'era anche il primo vero pezzo blues degli U2, Silver and Gold, ma cantato da Bono con due amici d'eccezione tirati a lucido: Keith Richards e Ron Wood!) E poi sessioni con Dave Stewart degli Eurythmics, sessioni con gli Heartbreakers, con Al Kooper e T-Bone Burnett, sessioni con chiunque. A Cameron Crowe che lo intervistava per il libretto di Biograph aveva rivelato, con un certo sprezzo del pericolo, che stava accarezzando l'idea di pubblicare un disco di cover. È un'idea che lo aveva già portato al disastro nel 1970, ma forse chissà, col tempo aveva imparato a concentrarsi anche nel compito di interprete da studio, no?
No (continua sul Post).
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A Dunkerque il cinema resiste

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Dunkirk (Christopher Nolan, 2017)

Bon voyage.
Hai mai visto una spiaggia della Manica, quando il mare è così basso che sembra un deserto? Hai visto la schiuma strisciare spinta dal vento? Hai sentito l'urlo degli Stuka, il gemito di chi sta affogando nella stiva di una nave che cola a picco? Hai guardato il cielo e chiuso gli occhi, pensando che stavolta toccava a te? Sai quanto poco dista Dover da Dunkerque, una ritirata da una vittoria, un eroe che lotta per resistere da un vigliacco che ha paura di morire, un congegno meccanico di precisione da un capolavoro? Adesso che sai tutte queste cose, perché le hai viste e le hai sentite in un sogno di una settimana, di un giorno, di novanta minuti - torna pure a casa e scrivi che Dunkirk in fondo non è quel gran film che tutti dicono: che non c'è storia e non ci sono personaggi: solo gelidi meccanismi di attesa che scattano senza pietà per intrappolare gli spettatori. Che Nolan, per carità, regista sublime: ma noi volevamo vedere la Seconda Guerra Mondiale, i tedeschi cattivi, gli inglesi flemmatici, i francesi disperati - e lui anche stavolta è come se si mettesse davanti coi suoi trucchi, con le sue musiche a effetto, coi suoi orologi da sincronizzare. Che tanta tecnica può lasciare freddi, tanta lucidità può dare la vertigine: e che la Dunkerque del tuo cuore alla fine resta ancora quella del lungo piano sequenza di Espiazione.

Nell'ultimo momento c'è chi si tappa le orecchie e chi prende la mira.

Ogni sconfitta può sembrare una vittoria, se la inquadri nel modo giusto. Il desiderio condiviso, e comprensibile, di salutare in Dunkirk il film dell'anno, è il rovescio di una constatazione amara: non è che ci siano tutti questi capolavori in giro per le sale ultimamente... (continua su +eventi!)  Sia Hollywood che il cinema d'autore europeo sembrano navigare a vista, mentre le corazzate della serialità televisiva dilagano nel bacino dei giovani spettatori (quelli che se non si fanno una sensibilità cinematografica adesso, tra cinque anni in sala non verranno più: o al massimo per vedere la maxipuntata di un prodotto seriale come un cinecomic). Dunkirk è, tra le altre cose, un disperato manifesto di vitalità del cinema: non tanto per il feticismo della pellicola 70mm, ma per la sintassi così orgogliosamente antitelevisiva. In questo ricorda un film apparentemente diversissimo, Gravity: si tratta di due film brevi, senza tempi morti, che chiedono allo spettatore una specie di apnea: fai un bel respiro e ci risentiamo tra un'ora e mezza. Nolan ci promette lacrime, sudore e sangue (in realtà pochissimo), ma ci dice che la tv non è invincibile, che il cinema resisterà, perché c'è qualcosa che soltanto il cinema può fare.


Sangue e nafta
E però il cinema non è solo Nolan: non sei obbligato a condividere le sue ossessioni; ti è concesso restare diffidente nei confronti di un orologiaio che concepisce ogni film come un meccanismo di precisione. Non tutti vengono perfetti: quando oscillano un po' sbilenchi puoi criticarne i difetti più evidenti, irridere le ambizioni eccessive del progettista. Altre volte sembrano girare a meraviglia, al punto che hai la sensazione che non si fermeranno mai. In questo caso puoi sempre obiettare che non c'è niente di così profondo in un meccanismo che funziona; è vero, c'è un momento vero la fine del film in cui l'ansia per la sorte dei personaggi cede il posto a una strana soddisfazione pre-intellettuale, il sollievo di chi vede un puzzle completarsi tessera dopo tessera, il piacere che si prova a unire i puntini e scoprire il senso del disegno. Non è esattamente quel tipo di sensazione che ci si aspetta di provare mentre l'Inghilterra lotta per la libertà del mondo, ma è qualcosa che rende i film di Nolan diversi da tutti gli altri, e non è poco. Nel momento in cui tutti sembrano considerarci spugne emozionali, da imbevere e strizzare a piacere, lui almeno lavora su stimoli diversi. Alla fine ci strizza anche lui, ma qualcosa rimane. Su quella spiaggia, ci siamo stati. Per una settimana, per un giorno, per un'ora. Abbiamo visto la marea riportare i compagni a riva, abbiamo provato a saltare la fila, abbiamo creduto di potercela fare remando fino a Dover: abbiamo deciso che non entreremo mai più in una camera stagna. E intanto, dall'altra parte, ci siamo chiesti fino a che punto potevamo spingerci senza spia nel serbatoio e senza un sonar per gli U-Boot; il punto in cui il coraggio sarebbe diventato irresponsabilità e follia. Magari Nolan non è tutto il cinema, ma il cinema ha parecchio bisogno di lui. Al Cinelandia di Borgo San Dalmazzo (20:20, 21:30, 22:40); Fiamma di Cuneo (21:00); ai Portici di Fossano (21:15), al Cinemà di Savigliano (20:20, 22:30).
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Aspettando il re, trovando una mamma

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Aspettando il re (A Hologram for the King, Tom Tykwer, 2016)


Un giorno potresti ritrovarti a vivere in una baracca dall'altra parte del mondo.
Un giorno potresti ritrovarti dietro il volante di un'enorme automobile, in una bella casa, con una bella moglie.
Un giorno potresti chiederti: ma come ci sono arrivato?

Certi film - li riconoscevi dalla locandina - servivano soprattutto a viaggiare. Per il pubblico si trattava di un'alternativa low budget a viaggi veri che non si poteva permettere: film-safari con zebre e rinoceronti e selvaggi. Certi film funzionavano così. Aspettando il re sembra voler perpetuare la tradizione, individuando in Tom Hanks l'Homo Occidentalis per eccellenza, in perenne crisi esistenziale ed economica, e calandolo in una delle mete turistiche tuttora più difficili per gli occidentali: l'Arabia Saudita (ricostruita in Egitto). La prima scena dice tutto: unico non-musulmano su un aereo di linea, mentre gli altri pregano il loro Dio Hanks sogna di vivere nel video di Once in a Lifetime, Talking Heads. Lo seguiremo in un albergo, nel fatiscente cantiere di un nuovo polo tecnologico che è ovviamente un luogo di smarrimento metafisico oltre che una metafora delle vacue velleità delle dinastie dei petrodollari. Insieme a lui cercheremo di capire come si può passare anche solo qualche giorno in un Paese in cui in teoria è vietato bere alcool; grazie a lui daremo una sbirciatina alle festicciole delle ambasciate europee e addirittura riusciremo per qualche istante a intrufolarci alla Mecca, città proibita agli infedeli. Non ci capiremo un granché, proprio come succede ai turisti veri, ma alla fine ci sentiremo comunque arricchiti. Non troveremo Dio ma magari l'amore (caccia via), proprio come in quei vecchi film con gli esploratori biondi e le dive un po' esotiche. Quest'ultima cosa magari non era prevista nell'omonimo libro di Dave Eggers, ma evidentemente lo sceneggiatore e regista Tom Tykwer ne sentiva l'esigenza.


Vogliamo anche ricordare come avevano conciato
Tom Hanks in Cloud Atlas. 
A Hologram è l'ultima aggiunta al suo catalogo, sempre più simile al risultato di un esperimento surrealista: estrarre sei film a caso da Imdb e immaginare che li abbia girati tutti lo stesso autore. Nel suo caso sono usciti: Lola corre, l'ultima sceneggiatura di Kieslowski (ambientata in Italia!), Profumo, un thriller con Clive Owen e Naomi Watts, e poi un fecondo sodalizio con le sorelle Wachowski, con cui ha realizzato Cloud Atlas e la serie Sense8. Dopodiché avrebbe davvero potuto girare qualsiasi cosa, noir thailandesi o documentari sull'Amazzonia. In questo senso A Hologram è un viaggio deludente, non tanto per la destinazione, ma per il punto di vista che sceglie di adottare che è quello dell'occidentale in assoluto più standard e spaesato: l'Americano... (continua su +eventi!)



La storia del manager in trasferta, oberato dai sensi di colpa per aver collaborato alla delocalizzazione e allo smantellamento del Made in USA, sembrava già un po' datata quando uscì il libro - cinque anni fa: ora, con la disoccupazione statunitense in costante calo, suona sinistramente affine a certe tirate elettorali di Trump. All'angoscia vagamente beckettiana evocata da Eggers, Tykwer sovrappone la sensibilità paranoide che ha mutuato dalle sorelle Wachowski; in un paesaggio che è già surreale di suo, tra deserti e grattacieli, non serve molto per suggerire che il venditore di ologrammi Hanks sia vittima di un gigantesco scherzo, un meta-ologramma. Ma chi si aspetta un finale sconvolgente e rivelatore si prepara a una delusione: a un certo punto è come se sulla sceneggiatura fosse caduto un po' di zucchero, se non un'intera zuccheriera. Tykwer sembra sinceramente preoccupato non soltanto per il suo protagonista stanco e disperato, ma per tutti i cinquantenni che lo hanno seguito per più di un'ora, condividendone ansie e disagi a dire la verità più americani che universali (il college della figlia, status irrinunciabile!)


Alla fine non si tratta più di portare in viaggio gli spettatori, ma di confortarli: quella cisti non è necessariamente un tumore, quell'affanno è più panico che infarto; gli affari possono andare male, non è la fine del mondo: e anche i matrimoni, ma se guardi bene da qualche parte c'è già qualcuno disposto a medicarti e consolarti. È un film che in sostanza smette di guardarsi intorno e comincia a cercare la mamma: ma almeno la trova incarnata nelle forme antihollywoodiane di Sarita Choudhury. Vent'anni fa era la Tara di Kamasutra: oggi ne ha cinquanta, è una bellissima signora e non è affatto difficile capire perché l'uomo-Tom Hanks si senta attratto da lei. Quello che alla fine della visione rimane non spiegato è cosa possa aver trovato lei in un americano spaurito e senza direzione. Nei film di una volta sarebbe stata una domanda inutile: l'uomo bianco era affascinante in quanto bianco. Aspettando il re è al cinema Monviso di Cuneo da giovedì 31 agosto a martedì 5 settembre alle 21.
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Charlize Theron pesta Berlino

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Atomica bionda (Atomic blonde, David Leitch, 2017).

Che cast però.
Immagina per un attimo che gli USA e l'URSS avessero vinto la Seconda Guerra Mondiale, spartendosi l'Europa in due blocchi, a est e a ovest di Berlino; a quel punto avrebbero avuto entrambi la bomba atomica e quindi non avrebbero più potuto dichiararsi guerra. Immagina, come conseguenza, un lungo periodo di tregua armata, in cui alle grandi battaglie di massa si sarebbero sostituiti degli scontri simbolici - come ai tempi dei duelli epici, Paride contro Menelao, gli Orazi contro i Curiazi. Gli eroi protagonisti di questi combattimenti, uomini e donne esperti in ogni arte di combattimento e in ogni sotterfugio, li avremmo chiamati "spie", anche se alla fine non è che avrebbero spiato un granché - più che altro si sarebbero spiati a vicenda, in un gioco a somma zero. Qualche scrittore molto presto si sarebbe messo a raccontare le loro straordinarie avventure, senza preoccuparsi di esagerare. Ne sarebbe derivata tutta una letteratura epica, e poi naturalmente romanzi e film, che a furia di nutrirsi dello stesso immaginario che coltivavano avrebbero reso questa Europa immaginaria in un qualche modo concreta, più coerente di quella vera: un sogno ma tutt'altro che effimero, come la Grecia dei miti o il Far West, sognati da miliardi di persone. Al punto che ne avremmo avuto nostalgia, e un puerile desiderio di averci vissuto davvero, invece di vivere in... già, dove abbiamo vissuto noi?

Speriamo sia make up.
Charlize Theron, nel 1989 in cui crollò il Muro, aveva 14 anni. Adesso ne ha più di quaranta ed è una diva di serie A. Da cosa si capisce? Dalle botte che prende. Certo, ne dà anche parecchie. Atomica Bionda è tra l'altro il film in cui la vediamo uccidere i cattivi a mani nude. Ed è credibile: si fa una certa fatica viceversa a immaginare che un attore possa sopravvivere ai colpi che la Theron tira aiutandosi con quel che trova sul momento - un portachiavi, un fornellino elettrico, un tacco che per un attimo ti aspetti nasconda un qualsiasi gadget da James Bond e invece no, è un semplice tacco neanche troppo appuntito. Ma quello che fa davvero la differenza tra Atomica e altri film di spie più o meno seri (negli ultimi anni c'è stata una renaissance del genere, anche se il pubblico non sembra sempre entusiasta) sta nei lividi, nel sangue; nell'occhio nero con cui il suo personaggio si presenta ai suoi capi e al pubblico all'inizio del film; nel ghiaccio che usa per alleviare il dolore. Nell'abolizione di quella convenzione cinematografica per cui dopo una botta bene assestata l'avversario resta al tappeto in coma vigile - no, in Atomica bionda o muori o ti rialzi, e pare che morire non sia poi così facile.


L'ufficio stampa ci aveva preventivamente spiegato che la Theron, mentre si allenava a incassare sul set, "vomitava praticamente tutti i giorni", che a un certo punto ha perso un dente. Atomica Bionda è un progetto suo: è stata la sua società di produzione a scegliere la graphic novel, a farla riscrivere su misura (la protagonista del fumetto non era nemmeno bionda), a convincere il secondo regista di John Wick ad abbandonare John Wick 2 per girare un film non così diverso. Atomica Bionda è un film voluto, interpretato e scolpito a mani nude sulla carne viva da Charlize Theron, e la cosa non avrebbe dovuto stupirmi così tanto - se solo riuscissi a liberarmi dalla mia prediletta immagine mentale della Theron, che è ancora quella della bambolona riccioluta che sta con Keanu Reeves all'inizio dell'Avvocato del diavolo; se almeno riuscissi a ricordare che la stessa bambolona, in quello stesso film, si trasformava in qualcosa di totalmente diverso, un corpo già slavato e dolente - allora potrei rendermi conto che Atomica Bionda non è semplicemente il film dell'ennesimo divo/a che passata la soglia dei 40 anni (50 per i maschi) si mette a cercare nei ruoli action una seconda giovinezza: che è anche il punto di arrivo coerente di un'attrice che ha sempre lavorato sul proprio corpo, riempiendolo e svuotandolo, rompendolo e riparandolo (continua su +eventi!)

Queste cose nei miei anni Ottanta non si vedevano! (maledizione).
Qualcosa di simile a quello che ha fatto negli ultimi anni Scarlett Johansson? O forse l'esatto contrario. La Johansson lavora per sottrazione: toglie il volto, toglie la pelle, toglie il corpo, come se volesse domandare al pubblico: cosa ti piace di me davvero? La Theron non toglie niente, incassa tutto. A ben vedere lo ha sempre fatto, e ora che può scegliersi i ruoli lo farà ancora di più. Atomica Bionda è un film centrato su di lei, plasmato su di lei, ambientato in una Berlino anni Ottanta che malgrado ogni sforzo filologico sembra finta; messa in scena da scrittori, fotografi e trovarobe scrupolosi ma che sembrano non averli vissuti, quegli anni, né a Berlino né in Europa né sul pianeta Terra: sembrano alieni arrivati almeno dieci anni dopo, molto coscienziosi eppure la loro ricostruzione suona falsa lo stesso. È difficile spiegare perché. Ci si sente come si sarebbe sentito Buffalo Bill davanti ai primi film western, ammesso che ne abbia mai visti.

   

Non è una questione di dettagli, quelli sono tutti al posto giusto, eppure... metti Sofia Boutella. È brava, ha quella sua bellezza insolita che ricorda qualche vecchia esotica Bond girl; il suo ruolo ha un senso, eppure sembra lo stesso lì per caso. Prendi James McAvoy. È bravo. È sempre stato bravo. Ma può essere un veterano del MI6 a Berlino nel 1989? Qualcosa non va e non è il taglio dei capelli, né il giaccone, né qualsiasi altro dettaglio. È che un tizio così, negli anni Ottanta che mi ricordo io, non esisteva. Il suo modo di muoversi, di raccontarsela, di mantenere un'apparenza giovanile in una storia che non lo prevede... Così come non esisteva ancora, negli Ottanta che ricordo io, il lesbismo soft patinato di Atomica bionda, che dieci anni dopo era già un luogo comune. Non che abbia molta importanza: prima o poi era inevitabile che gli Ottanta diventassero un decennio immaginario, come gli anni Venti dei film di Gangster e l'Ottocento del Far West - un mondo fantastico ottenuto sovrapponendo gli oggetti trovati qua e là nei mercatini: la breakdance sulle note di 99 Luftballons, i New Order e Siouxsie. Non c'è neanche da prendersela, se non col tempo che passa e si lascia sempre più alle spalle i nostri ricordi: ma passa anche se ce la prendiamo. Forse dovremmo andare anche noi in palestra, prendere a pugni un attrezzo finché non va al tappeto, o non ci andiamo noi. Atomica bionda è un film di spie che si prendono a mazzate e Charlize Theron è la più tosta di tutte. Il cast è clamoroso. Tra una scena d'azione e l'altra c'è anche una trama non troppo stupida, anche se al cinema, con la musica a palla, è un po' difficile seguirla. Le mazzate invece si sentono benissimo. Al Cinelandia di Borgo San Dalmazzo (20:10, 22:40); al Vittoria di Bra (20:00, 22:30); al Multilanghe di Dogliani (21:30) e all'Italia di Saluzzo (20:00, 22:15).
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Ignoranti e felici, il film

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Beata ignoranza (Massimiliano Bruno, 2017)


Riuscireste a vivere due mesi senza connessioni internet? Sì, ma sarebbe un po' scomodo. Se non aveste mai usato internet, riuscireste a diventarne dipendenti nel giro di una settimana? È abbastanza improbabile. Ve li immaginate Giallini e Gassman professori di liceo, uno tecnopatico e l'altro entusiasta digitale, che si scambiano i ruoli? Uhm, in realtà no. Ecco, beh, non ci sono riusciti neanche gli sceneggiatori di Beata ignoranza: non esattamente gli ultimi arrivati, eppure.

In questi giorni sulla mia bacheca Facebook non fanno che parlare di Sarahah. Da quel che ho capito si tratta di un social network che ti consente di ricevere e mandare messaggi anonimi agli altri utenti. Lo ripeto perché secondo me è fortissimo: in questi giorni stanno tutti provando un nuovo servizio on line che - straordinaria novità! - ti fa sentire l'ebrezza di ricevere e mandare messaggi anonimi. Sono quelle cose che mi fanno sentire decrepito, perché mi ricordo ancora bene quando tutta internet era così, un posto di anonimi che si mandavano messaggi (l'anno scorso Facebook mi ha sospeso perché il mio secondo nome non gli risultava) (in effetti il mio secondo nome, tra Leonardo e il mio cognome, era Blogspot, e finché non l'ho cancellato non mi ha riaperto l'account, che evidentemente deve combaciare con quello che risulta all'anagrafe, il che è abbastanza inquietante: avrei potuto sbattere la porta e andarmene, ma la verità è che senza il mio account Facebook ormai farei persino fatica a lavorare) (sì, a lavorare a scuola).

La vignetta più riprodotta del New Yorker è del 1993.
Dice: "Su internet, nessuno sa che sei un cane".
Ho tirato fuori Sarahah e Facebook non perché non abbia voglia di parlare del film - alla fine è un film interessante, per quanto sballato - sembra concepito da qualcuno vecchio come me, salvo che dopo essersi preso male coi blog anonimi verso il 2004 ha chiuso il pc per sempre e non ha più cambiato la sua idea di internet. E nel 2016 ci ha scritto un film. In cui Marco Giallini interpreta un professore che non è mai stato on line in vita sua e per carità, esistono, ne conosciamo tutti, è più che giusto mostrarli nei film. Questo professore dall'oggi al domani, per una scommessa, viene dotato di adsl, di account sociali e quant'altro ed evidentemente anche di amici e followers, perché dopo una settimana sta già chattando a tutt'andare. Un po' curioso, ma si sa che nelle commedie si esagera, no? L'idea portante del film doveva essere appunto questa: mostrare un tizio che diventa dipendente da internet nel giro di pochi giorni (mentre il suo rivale speculare, Gassman, dovrebbe fare il percorso inverso). Era una idea interessante? Magari sì, ma a un certo punto qualcosa dev'essere andato storto, e basta vedere dieci minuti di film per accorgersene.

È un film veramente strano. Sembra essere stato masticato, risputato e rimesso nel vassoio da un cameriere impassibile - che purtroppo è Massimiliano Bruno, da cui sembra ovvio aspettarsi di più. Per dire: tutto comincia con una scena in cui Gassman e Giallini litigano in classe - davanti ai loro studenti! che riprendono tutto col cellulare! Dovrebbe essere lo snodo fondamentale, la crisi da cui scaturisce tutta la storia, epperò in quel momento i due attori principali non sono credibili. Si prendono a male parole, ma c'è qualcosa che stona ed è strano, è chiaro che nessuno dei due è Lawrence Olivier, ma qui sono davvero al di sotto dei loro standard professionali. Più tardi scopriremo che l'effetto era voluto: non stanno litigando davvero, bensì stanno rimettendo in scena un loro litigio precedente; cioè stanno recitando nel ruolo di due attori. Ma non sono bravi attori - cioè, no, Giallini e Gassman sono ottimi attori, ma i loro personaggi no, sono due ex filodrammatici, insomma se uno ha la pazienza di aspettare 80 minuti scopre che all'inizio stavano recitando bene il ruolo di chi recita male. Il problema è che al cinema è anche una questione di imprinting: se tu all'inizio vedi dei cani, ci resti male, e la tua voglia di dare una chance al film ne risente.


Da quel litigio parte la scommessa: Gassman deve rinunciare a smartphone e adsl, Giallini deve cominciare a usarli. Ora non importa tanto che lo sforzo degli autori di rendere una sfida del genere credibile porti viceversa il film nel Reame del Più Contorto Inverosimile (la figlia di uno dei due, non è chiaro di quale, fa la regista! e decide di fare un documentario sulla sfida! Appassionante, no?) Il guaio è che appunto il film sembra scritto da qualcuno che si è disintossicato da internet una decina di anni fa e da allora lo guarda un po' da lontano, con sospetto, come i vegani trascinati in un ristorante di pesce. C'è un preside tutto orgoglioso perché il suo liceo è diventato "smart" grazie all'adozione del registro elettronico! Che roba, eh? Peccato che il registro elettronico sia obbligatorio in tutte le scuole pubbliche da un paio d'anni. Ma più in generale: quali sono le cose che facciamo quotidianamente, oggi, grazie a internet? Le prime che mi vengono in mente: usiamo le mappe stradali. Recensiamo qualsiasi cosa. Manteniamo i contatti con gente che avremmo perso di vista da un pezzo. Incontriamo gente che non avremmo mai potuto conoscere, con la quale condividiamo interessi. Possiamo lavorare a Ferragosto, anche se siamo al mare, come sto facendo io. E i giovani, mi dicono, guardano molto più porno (continua su +eventi...)


Giallini non consulta mappe, porno men che meno, non compra né vende né scrive recensioni (si prende solo venti secondi per stroncare Tripadvisor in toto), non riallaccia nessun contatto, non si pone neanche il problema di come usare internet nel suo ambito professionale. Però si mette a giocare con un suo allievo ripetente a uno sparatutto per playstation. Da professore a gamer in punto in bianco... e va bene, le commedie esagerano. Che altro fa? Corteggia una sua collega... con un nick anonimo. Nel 2017. Non so. È come usare la macchina per attraversare la strada. Se non avessi mai usato facebook, qual è la prima cosa che farei? Storicamente, un sacco di gente cercava gli ex compagni del liceo, e poi è restata perché ha trovato vecchi amici e se ne fa di nuovi. Non sarebbe stato più credibile che Giallini si mettesse a cercare vecchie fiamme, o scoprisse anime gemelle a migliaia di chilometri di distanza? Devi usare facebook per scrivere i bigliettini? Qualcuno lo usa ancora così?

Secondo me no, ma forse non ha nemmeno così senso discuterne. Credo che i primi ad aver capito che la premessa non funzionava sono stati gli stessi autori, che probabilmente hanno riprovato a riscriverlo, a ritagliarlo, a rimontarlo, e poi forse c'era una scadenza in ballo e semplicemente hanno lasciato che Giallini e Gassman gigionassero a piacere, in barba a qualsiasi vaga pretesa di verosimiglianza (si odiano da una vita, non si vedono da 25 anni e al primo problema uno ospita l'altro in casa). Il risultato è un film molto più borisiano di Boris - o magari dello stesso genere del film nel film di Boris, Natale con la Casta: ci sono sequenze quasi surreali, a volte anche molto sofisticate, che portano avanti una trama risibile; situazioni drammatiche ai limiti della tragedia e oltre buttate lì come se fossero gag da cartone animato (a un certo punto esplode una casa); siparietti scolastici che in qualsiasi scuola vera provocherebbero ispezioni e licenziamenti (nella scuola di Beata ignoranza è prassi comune schiaffeggiare gli studenti); c'è persino lo spettro di una defunta moglie amante e madre interpretata proprio da Carolina Crescentini, icona di Boris. Ci sono, soprattutto, un paio di caratteristi che si fanno le canne dall'inizio alla fine del film, il che non è affatto inverosimile, anzi, ma assume un senso preciso nel momento in cui ci rendiamo conto che in realtà sono i due personaggi più lucidi: come se il film fosse visto secondo il loro punto di vista e probabilmente è andata davvero così. Probabilmente c'era un'idea interessante che stava evolvendosi in un film inutile, una scadenza importante che cominciava a mettere ansia, qualcuno che aveva parecchia maria in casa e ha iniziato a distribuirne, e così insomma alla fine ne è uscito un film un po' così. Però simpatico. Gli attori sono molto simpatici. Non si capisce nemmeno chi vince la scommessa, cioè si capisce che la scommessa non era così importante, l'importante è voler bene a chi ami anche se non fa sempre figli con te. Inoltre farsi le canne è meglio che andare su facebook, e vabbe', non è il messaggio più reazionario del mondo in fin dei conti. Dai dai dai.

Beata ignoranza si può vedere gratis a Bra il 17 agosto in via Sobrero, alle 21:30, in occasione della Rassegna itinerante di cinema d'autore. Altrimenti il 25 agosto a Limone Piemonte (ore 21:15). Oppure su Youtube a partire da €3,99.

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Uno psicanalista a Roma (un altro)

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Lasciati andare (Woody Allen, 2016)

Elia Venezia (Toni Servillo) è uno psicanalista che ha bisogno di perdere chili. Claudia (Verónica Echegui) è una personal trainer che ha bisogno di mettere ordine nella propria vita, ma che non può evitare di sconvolgere quelle di chi incontra. Se fosse un film, non potrebbero che incrociarsi. Ah, ma è davvero un film! E di Woody Allen! Di nuovo a Roma, stavolta nella magica cornice del Ghetto! Una commedia che è una sarabanda di trovate, dove si riflette ma si ride anche a crepapelle, e finalmente si rivede in forma il Maestro! Magari, in realtà no.

Lasciati andare (Francesco Amato, 2016)

Elia Venezia (Toni Servillo) è uno psicanalista. Si capisce perché assomiglia non tanto a Freud (calvo, la barba bianca, a un certo punto gli mettono in bocca pure il sigaro) ma alle vignette di Freud. Anche i suoi pazienti continuano a sembrare macchiette dei pazienti degli psicanalisti delle barzellette, secondo una tradizione cinematografica italiana che data almeno da Caruso Pascoski e prosegue, purtroppo, nei tardi film di Moretti (mi ricordo che una volta, credo da Fazio, Moretti ammise che nessuno nel suo staff di scrittori era mai andato in analisi, e questo succedeva dopo che erano usciti già almeno due film in cui Moretti interpretava uno psicanalista, che vorrei dire: almeno un po' documentarsi, no? cosa può costare prendere cinque-sei appuntamenti, giusto per capire come funziona? Beh in effetti può costare parecchio, ma non varrebbe la pena? Uno si sdraia, no guardi dottore non ho nessun problema serio, volevo soltanto fare un po' di esperienza perché sto scrivendo un film e non vorrei cadere nei soliti stereotipi? - Tempo tre sedute e stai già confessando che a tredici anni avevi ideato l'omicidio perfetto, ovviamente di tuo padre). (Anche in Lasciati andare, come in Habemus Papam, l'ex moglie dello psicanalista è psicanalista a sua volta - in questo caso è Carla Signoris, che fa piacere rivedere al cinema).


Francesco Amato ha diretto tre film in dieci anni. Il primo (Ma che ci faccio qui!) era la storia fresca, sorprendente, di un ragazzo che scappa da Roma per fare il giro del mondo ma si ferma alla prima spiaggia; il secondo (Cosimo e Nicole) è la storia fresca, sorprendente, di due ragazzi che si incontrano al G8 di Genova e di quel che combinano in seguito. Lasciati andare è il suo terzo film ed è una delle commedie italiane migliori dell'anno. Però non è fresca, né sorprendente.

Francesco Bruni è lo sceneggiatore storico di Calopresti e soprattutto di Paolo Virzì, passato alla regia con Scialla, Noi 4 Tutto quello che vuoi. Nel 2016 ha scritto, con Francesco Amato e Davide Lantieri, Lasciati andare. È esagerato affermare che da una squadra di autori del genere potevamo aspettarci di più di una commedia che, in effetti, gira che è un piacere ed è divertente il giusto, ma sembra approfittare di qualsiasi luogo comune cinematografico e narrativo che incontri sulla strada? Non bastava trasformare Servillo in un sosia di Freud che consiglia best-seller e ipnotizza i pazienti; bisognava anche affiancargli la pur brava Verónica Echegui nel ruolo della classica Manic Pixie Dream Girl, quel personaggio femminile che esiste soltanto nelle sceneggiature e ha il preciso scopo di dare una scossa al personaggio maschile? E se la scelta di ambientare la storia nel Ghetto era almeno qualcosa di originale, valeva proprio la pena caratterizzare il protagonista come uno spilorcio? Ma in generale: oltre allo psicanalista freudiano-quindi-ebreo-quindi-avaro, abbiamo una personal trainer solare e un po' pazza, e infatti spagnola; un capoverdiano che vende il fumo, un brutto ceffo dal coltello facile e l'accento balcanico, un lombardo carrierista e antipatico (Giacomo di Aldo Giovanni e Giacomo) e... un centravanti un po' scugnizzo e criptogay - questo a ben vedere è un luogo comune invertito, ormai banale quanto il luogo comune normale. L'unica scelta un po' originale è il rapinatore balbuziente di Luca Marinelli, che compare soltanto nel terzo atto e non a caso si porta a casa il film. E tuttavia.

Tuttavia alla fine Lasciati andare è un film divertente; Servillo è in forma (e non è meno macchietta che in altri prodotti più blasonati), la Echegui è davvero in parte, la storia è un po' prevedibile ma funziona. Forse il vero test per una commedia del genere sarebbe quello di Woody Allen: ovvero immaginare che cosa direbbero i critici di un film come Lasciati Andare se lo avesse girato lui. Secondo me sarebbero entusiasti. È vero, psicanalista e pazienti sembrerebbero quelli delle vignette, ma non è sempre stato così con Allen? È vero, più che spiazzare gli spettatori la storia sembra andare incontro alle loro attese, ma non è il tratto tipico di tanti film dell'ultimo Allen? La principale differenza è che Lasciati Andare si sarebbe visto in molte più sale e avrebbe incassato assai di più. Lo si può rivedere comunque a Cherasco venerdì 11 agosto, al cortile di Palazzo Gotti di Salerano (ore 21:30); l'ingresso è gratuito e il regista sarà ospite! Altrimenti venerdì 18 e venerdì 25 agosto alle 21:00 al cinema Sangiacomo di Roburent.
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Spiderman è tornato alla Casa

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Spider-Man: Homecoming (Jon Watts, 2017)

C'era una volta un supereroe così smagliante, così perfetto, che volle sfidare Atena: vediamo chi tesse la storia più avvincente. Invano Atena cercò di ricordargli i precedenti: guarda che chi sfida gli Dei casca malissimo. Eh ma io non casco mai! disse il supereroe, è impossibile! E fu proprio così. Quando vide la sua storia, Atena strabuzzò i suoi larghi occhi: era la migliore mai tessuta, persino le Parche in tanti eoni non avevano mai concepito roba del genere. E tuttavia chi sfida gli Dei va punito: pertanto Atena condannò il supereroe a rivivere quella storia per sempre. Ogni cinque, massimo ogni dieci anni, un narratore o una major cinematografica lo avrebbero fatto ricominciare da zero: di nuovo si sarebbe trovato in quel laboratorio di chimica e sarebbe stato morsicato da un ragno radioattivo, e suo zio sarebbe morto assassinato eccetera eccetera, nei secoli dei secoli dei secoli. Hai scritto la storia migliore? Non te ne libererai mai. 

Non è Octopus e non è Venom; non è nessuno dei trentadue goblin. Non è J. J. Jameson (che ci manca tantissimo, torna JJJ). Il peggior nemico dell'Uomo Ragno, da sempre, è sé stesso. No, non il suo clone (ma è indicativo che nessun altro supereroe abbia avuto tanti problemi coi cloni). Proprio sé stesso. Il suo essere, banalmente, il miglior supereroe possibile. Quello che salta tra i grattacieli e schizza ragnatele: non ce n'è uno più spettacolare di lui, né sulla carta né sullo schermo. Se ci fosse lo sapremmo, perché è da mezzo secolo che ci provano. Spidey piace perché è un insetto? Hanno provato con qualsiasi altro insetto. O forse piace perché è un ragazzino? Hanno provato con tanti altri ragazzini. Sarà l'ironia? Abbiamo avuto ondate di supereroi ironici, ma niente da fare. Abbiamo avuto anche un milione di variazioni sul tema: dozzine di Donne Ragno e Uomini Ragno potenziati. Ultimamente va forte uno Spiderman nero - per dire, la gente che si lamenta che Zia May nel film è troppo giovane, li legge i fumetti? Lo sa che nei fumetti esistono Zie May giovani, Spidermen neri, Peter Parker in pensione? Per dire che le hanno provate veramente tutte. Niente.

Non riescono a cambiare nemmeno il costume. Steve Ditko lo inventò nel 1963, e in capo a un anno si era già stancato di disegnarci le ragnatele. Hanno provato a semplificarlo, a renderlo più d'impatto: niente da fare. Alcuni costumi di Spiderman sono diventati dei personaggi a sé, ma Spidey resta rosso e blu. Ormai quando prova a cambiare costume lo sai già, che è solo una finta per far impazzire i lettori.

The Amazing Spider Man, #1 Annual 

Il peggior nemico di Peter Parker non è Elektro e non è senz'altro l'Avvoltoio, quel poveraccio. Il peggior nemico di Spiderman è il suo successo. Il suo creatore pensava a un supereroe con superproblemi, ma come fai a essere credibile se qualsiasi tua versione va a ruba, il tuo merchandising è una solida certezza, e al cinema vorrebbero farti un film all'anno? Come fai a sembrare fresco come un teenager, dopo cinquant'anni di produzione industriale? Come fai a ripresentarti dopo 15 anni e cinque film e dire, ehi, azzeriamo tutto per la terza volta, sono di nuovo un semplice liceale che scopre di restare attaccato ai muri?

Ma soprattutto: come fa la Marvel a non sbagliare un colpo? (Continua su +eventi!)

Ma soprattutto: come fa la Marvel a non sbagliare un colpo? A riprendere un eroe oggettivamente un po’ consumato – gli ultimi due episodi Sony non erano andati benissimo – e a ridargli vita come se fosse un concetto appena inventato? Come fa a inserirlo in una saga cinematografica già pesante e sfaccettata come quella degli Avengers, riuscendo però a suggerire forte e chiaro il messaggio che Spiderman sarà sempre un’altra cosa, una cosa un po’ a parte (una dinamica non troppo diversa da quella dello Spidey originale coi Fantastici Quattro)? Ammettiamolo, è un po’ irritante il modo in cui la Marvel sembra sempre arrivare al risultato – e senza darci nemmeno la consolazione di gridare al colpo di genio, perché non c’è niente di geniale in Homecoming: c’è solo il lavoro di squadra di un pool di sceneggiatori che sa fare il suo mestiere e non disprezza il suo pubblico. Uno degli aspetti più appariscenti dell’operazione – il ringiovanimento di Zia May – sembra alla fine più un trucco per attirare un po’ di polemica fine a sé stessa: Marisa Tomei è ovviamente perfetta, ma è dosata con il contagocce. Una trovata brillante è quella di riassumere la puntata precedente (il siparietto di Spidey in Civil War) con la sintassi di Youtube. Nota l’abissale differenza con Suicide Squad e la sua mezz’ora di preambolo in formato trailer: mentre la Warner tratta gli adolescenti come bimbominchia a cui somministrare riassuntini, Homecoming si pone il problema di capire come si raccontano, oggi, i liceali: con quali mezzi, con quali risultati. Perché ogni generazione ha le sue differenze, anche se a una certa distanza non sembrano un po’ granché, se lavori per loro queste differenze sono importanti. La Marvel lo sa, ma non si dimentica nemmeno tutti i quaranta-cinquantenni che continuano imperterriti a entrare al cinema a vedersi i suoi film. Quelli che forse non avevano più voglia di vedere per l’ennesima volta lo zio Ben morire, ma a tante altre cose non saprebbero rinunciare.

E la Marvel gliele dà. C’è una breve scena – quella dell’ascensore – che dà le vertigini per la quantità di riferimenti che contiene in pochi secondi. Quando vediamo l’inesperto Spiderman tentare il salvataggio della sua bella che precipita, non possiamo non pensare a Gwen Stacy. Quando un attimo dopo si trovano tête-à-tête – lui ovviamente in posizione invertita – qualcuno sussurra “baciala” e non possiamo non pensare a Tobey Maguire e Kirsten Dunst. Non sono inutili strizzate d’occhio: la scena è spettacolare e funziona, probabilmente, anche per chi tutti questi precedenti non li conosce; ma chi ha già qualche dimestichezza con Spidey si sentirà più in ansia quando Liz cade; e sta già dicendo “baciala” prima che si senta forte e chiaro. Se Spidey è condannato a rivivere la stessa storia ogni tot anni, noi possiamo ogni volta trovarci a nostro agio e scoprire qualcosa di più, qualcosa di meglio. È questa semplice, banale cosa che alla Marvel hanno capito. Forse perché a cucinare gli stessi personaggi da cinquant’anni ci sono abituati. Homecoming non è un capolavoro – nemmeno ci prova: si ferma di fronte a certi punti fermi quasi con riverenza: costruisce una scena notevole come quella del traghetto che sembra fatta apposta per farti pensare: non sono ancora lo Spiderman di Raimi che salvava quel treno sul binario sospeso e poi veniva salvato dai passeggeri; ma sto crescendo, dammi il tempo di fare i miei disastri e vedrai.

Anche se la trovata migliore del film resta il riscatto dell’Avvoltoio. Michael Keaton trasforma uno dei personaggi più patetici dell’universo Marvel – la tipica invenzione che Stan Lee poteva buttar giù in cinque minuti al gabinetto – un antieroe spaventosamente simpatico, che ha quasi il compito di mettersi tra noi genitori e Spidey: non provateci neanche, dice Keaton, i giorni in cui vi potevate immedesimarvi in un Tobey Maguire sono finiti. Oggi voi somigliate a me. Vi sentite presi a pugni dal sistema e fareste qualsiasi crimine per garantire ai vostri figli un futuro migliore. Keaton non ruba il film al suo eroe – la Marvel è troppo sgamata per commettere un errore del genere – ma è il primo villain della Casa che avremmo voglia di rivedere in un sequel. E se le cose vanno così non dovremo nemmeno aspettare molto. Nel frattempo Spiderman: Homecoming è ancora al Cinelandia di Borgo San Dalmazzo (20:30, 22:00), al Fiamma di Cuneo (21:10) e al Multilanghe di Dogliani (21:30).

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Il destino è già scritto (ma è comunque un casino)

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2:22 - Il destino è già scritto (2:22, Paul Currie, 2017).

Quanti aeroplani atterrano e decollano da New York in un giorno? Quanti incidenti avvengono negli incroci di Manhattan? Quanta gente si è sparata alla stazione Grand Central, se non dal vero almeno nei film? Quante stelle esplodono ogni giorno nella galassia? E se dietro tutti questi avvenimenti ci fosse uno schema? Non sarebbe comunque uno schema troppo complicato?

Dylan Boyd (Michiel Huisman) è un controllore di volo al JFK, con la mania dei pattern. Dietro a ogni avvenimento quotidiano ha sempre la sensazione di intravedere un pattern. Non uno schema, non un disegno; la versione doppiata dice proprio così: pattern. Si vede che era intraducibile, boh. Boyd li vede dappertutto. Infatti a un certo punto un suo collega gli ricorda: ehi, lo sai come chiamano quelli che vedono i pattern?

Grand Central ha già qualcosa di metafisico.

Al che Boyd sbuffa, cambia argomento, ma l'interrogativo rimane: come si chiamano? Googlando poi a casa ho scoperto che si tratta di Apofenia; che è un'ossessione assai affine alla Pareidolia (questa la conoscevo), e che è tipica di chi è portato a notare le coincidenze ma non a considerarle davvero coincidenze, bensì parte di uno schema, un disegno, insomma un pattern. E dunque, così come ogni buon thriller sin dai tempi di Hitchcock è incentrato su una psicosi; se per dire Babadook era un film sulla depressione post-partum (e in generale sulla sindrome dell'impostore di molte madri), Get Out sull'invidia etnica... 2:22 è un film sull'apofenia. La stessa sindrome che a mezza estate mi fa andare per cinema a cercare qualche film un po' irregolare, qualcosa che mi dia un certo tipo di brivido ma che mi faccia anche pensare, alla Predestination: film che assomiglino a puntate lunghe di Ai confini della realtà: ma ho la sensazione che si stiano facendo sempre più rari. È un peccato, perché io in questo periodo dell'anno ho proprio bisogno di vedere cose del genere. Non so perché, sarà un pattern...

Lei si chiama Teresa Palmer e spero di rivederla in film più interessanti.
Oppure: ieri è mancato Martin Landau, e Attivissimo ha notato che i commossi necrologi pubblicati su molti giornali contenevano tutti la stessa informazione sbagliata: il che significa che tutti la copiavano dalla stessa fonte. La cosa curiosa è che qualche anno fa successe la stessa cosa con Lelio Luttazzi, proprio nella stessa settimana dell'anno, e fui io a notare il fenomeno. Curioso, no? Sarà un pattern? (o sarà che in luglio nelle redazioni c'è ancora meno gente del solito e si scopiazza a tutt'andare?) Insomma i pattern sono veramente interessanti e non è che 2:22 sia il primo film che li scopre (lo stesso Hitchcock con La donna che visse due volte stava affrontando la questione). Semmai il problema è che ne infila troppi, creando un grado di complessità che non è poi in grado di sbrogliare: un tipico problema della fiction recente, sia al cinema che in tv. Ci sono le costellazioni e gli incidenti stradali, le rotte aeree e i fatti di cronaca, e dopo un po' si perde un filo. Anche i riferimenti ad altri film sono troppi (si va dal Giorno della marmotta all'Esercito delle 12 scimmie), e finiscono per suggerire l'insicurezza degli sceneggiatori e del regista. Il risultato è confuso, e malgrado l'impegno degli attori si dimentica quasi subito. È un peccato, perché pochi film come 2:22 riescono a restituire l'impressione di vivere in una grande metropoli moderna, un meccanismo apparentemente caotico che invece ogni giorno ti regala lo spettacolo di qualche incredibile coincidenza che forse non lo è, forse è il risultato di un'altissima forma di sincronizzazione. E almeno ho scoperto cos'è l'apofenia.

2:22 è al Cinelandia di Borgo San Dalmazzo (20:30, 22:40), al Fiamma di Cuneo (21:10) e all'Italia di Saluzzo (20:00): sconsigliato a chi ha paura di volare.

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La mummia contro Tom Cruise

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La mummia (Alex Kurtzman, 2017).

"Tom Cruise, la MUMMIA" (ma solo io ci sento l'ironia?)
Nessuno resiste al suo sguardo, nessuno sa opporsi alla sua parola. Giace da ere immemori, in una tomba che non è una tomba, ma una prigione. Imbalsamato vivo, per le sue colpe e affinché il suo orrore sia per sempre occultato ai mortali. Eppure non è lontano il giorno in cui ancora una volta il suo non-sonno sarà disturbato. Qualcuno ancora una volta ritroverà la cripta; qualcuno, per scommessa o per necessità, alzerà il sarcofago e farà la sua proposta:
"Salute a te, divino Mapother Quarto".
"Chiamami pure Tom, come butta?"
"Senti, io rappresento l'Universal, sai, quelli che hanno i diritti dei mostri classici".
"Volevate fare un film su di me?"
"...non proprio, no, volevamo fare un film in cui tu affronti un mostro classico".
"Perché, io non sono un mostro classico?"
"N-non ancora".

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Alex Kurtzman ha detto di aver scelto Sofia Boutella per gli occhi; che non importa quanti effetti e computergrafica ci sarebbe stata intorno: il pubblico l'avrebbe guardata negli occhi. È una cosa molto bella da dire ed è persino un po' vera. La Boutella è una mummia struggente; per quanto crudele, riesce in un qualche modo a farti empatizzare - in pratica, riesce a soggiogarti. Tinta di blu, avvolta in cartapecora, truccata da cadavere, sembra comunque più umana di Thomas Cruise Mapother IV, Tom Cruise per i mortali.

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"Hai ucciso tuo padre!"
"Sì però lo amavo. Volevo che mi ammirasse".
"Hai ucciso sua moglie... e il bambino!"
"Erano tempi diversi".
(Come fate a riconoscere un vero mostro? A uccidere i bambini sono tutti buoni, ma il vero mostro si giustifica col relativismo culturale).

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No, adesso, sinceramente: secondo voi come andrà a finire con Tom Cruise? Perché un giorno o l'altro dovrà finire. Come la civiltà. Spero un po' prima. Cioè non ho niente contro Tom Cruise, davvero, grande attore e personaggio - però a un certo punto bisognerà porsi il problema: può invecchiare? Ne è in grado? E noi possiamo accettarlo? Internet dice che ha 55 anni (non mi fido. Se c'è qualcuno che potrebbe davvero mandare in giro un esercito di zombie a levargli gli anni su tutti i siti internet del mondo, costui è Tom Cruise). In questo film interpreta un tizio che potrebbe averne al massimo 35. Al massimo. E mi chiedo: è mai successo? che un attore interpretasse un tizio di 20 anni più giovane? Sì, ovviamente. In un altro film di Tom Cruise. Ma a parte lui? C'è Brad Pitt. Anche Brad Pitt, in Allied, sembrava un po' troppo tirato (che era poi il suo modo di sembrare la cosa più umana di Allied). Però ormai Pitt il massimo che fa è sparare ai nazisti - una cosa che è già un po' old-fashioned di suo; Cruise continua a fare lo stuntman di sé stesso e in questo film, per esempio, ha voluto una scena in cui recita in assenza di gravità. Galleggia in un aereo che precipita. Non è una scena incredibile, se non sai che l'hanno girata veramente in quel modo. Ormai col digitale si può fare di tutto e così non è che ti si cada la mascella, mentre Tom e la Bella in Pericolo rotolano dentro la fusoliera. C'era senz'altro un modo meno pericoloso di girarla, ma a Tom piaceva così. È il suo modo di dirci Sono Immortale?

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Forse il fatto che La Mummia abbia floppato negli USA e stia andando forte nei mercati emergenti ha a che vedere con questo aspetto di Tom Cruise. Là dove Tom Cruise viene considerato ancora un essere umano, La Mummia stenta a convincere. Lontano dalla patria, dove forse è una specie di mito senza tempo (Italia compresa), la sospensione della credulità rientra nei limiti di norma. (Poi non è che in luglio escano tutti questi film imperdibili, eh).

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Se la civiltà non finisce (e spero proprio di no, non vedo alternative interessanti) a un certo punto gli storici del cinema si troveranno davanti, ci pensate? trecento, quattrocento anni di immaginario sedimentato(continua su +eventi!). Chissà se degneranno di qualche interesse Guerre Stellari, chissà in quanti riterranno interessante scavare sul fondo per cercare tutti i resti del Marvel Cinematic Universe. La Mummia ha più chance. Lo so che sembra intollerabile e ingiusto, ma parliamo di un concetto che al cinema ha già 80 anni; parliamo di Boris Karloff. Di saghe sulla Mummia la Universal ne ha prodotte già tre o quattro e non c'è motivo per cui non debba continuare finché al pubblico continueranno a interessare i cadaveri male imbalsamati nelle tombe egizie, cioè... per sempre. Anche i cross-over non sono questa novità. La Mummia contro Dr Jeckyll? Al cinema queste cose si son sempre fatte. Gli Zombie della Mummia contro Gli Uomini in Nero del Dr Jeckyll? Perché no. Gli Zombie della Mummia contro Tom Cruise? Interessante, diranno i cinefili del futuro. Quando uscì, la Mummia era una specie di archetipo dell'inconscio collettivo, mentre Tom Cruise era ancora considerato un attore in carne e ossa. Secondo alcuni era davvero in carne e ossa; abbiamo persino i video in cui fa gli stunt più pericolosi; ma c'è da dire che nello stesso periodo cominciava ad andare in voga il ringiovanimento digitale dei divi di Hollywood, e quindi è difficile capire quanto ci fosse ancora del vero Tom Cruise in quello che poi è diventato a tutti gli effetti un franchise a sé (nel 2317 al cinema c'è Tom Cruise contro Gozzilla) (Gozzilla è animato da un algoritmo sofisticato che riproduce i passi dell'automa gigante del mitico film del 2287 il quale a sua volta era animato da un software che imitava le mosse dei vecchi pupazzi in stop-motion) (Tom Cruise invece è davvero lui in carne e ossa, anche se nessuno ci crede: da decenni sono tutti convinti che si tratti di un clone-bot e nessuno fa caso ai casi di vergini morsicate sul collo nei dintorni del set).

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Non dico che valga il biglietto, ma a un certo punto Tom Cruise e Russell Crowe si menano. Per dire quanto ci credeva l'Universal nel progetto.

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La Mummia somiglia un po' alla Lega degli Uomini Straordinari: prendiamo i vecchi mostri gotici dell'Ottocento e li rimontiamo con le logiche della continuity dei fumetti contemporanei. Purtroppo di Alan Moore ce n'è uno solo (e neanche tutto). Moore è un folle, un visionario, ma è anche uno sceneggiatore di buon senso, ad esempio: ok, mettiamoci pure la continuity contemporanea: ma se sono mostri dell'Ottocento devono restare nell'Ottocento. Il loro fascino sta lì. Il fantastico ha bisogno di un Altrove, di un orizzonte diverso dal nostro per svilupparsi, e l'Ottocento è un Altrove perfetto. Ma Kurtzman la sa lunga. Ti piazza un dottor Jeckyll contemporaneo. Ma se togli l'Ottocento al dottor Jeckyll ti rimane un bipolare qualsiasi - non proprio la persona che dovrebbe dirigere l'Agenzia contro il Male Universale. In effetti basta che il primo arrivato gli levi la siringona di mano e patatrac, tutto a carte e quarantotto.

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A proposito di Guerre Stellari: la lavorazione del prequel sul giovane Han Solo ha riaperto il dibattito: ma esiste un giovane erede di Harrison Ford? Uno che potrebbe mangiarsi la scena sia in un'astronave-cargo, sia in un tempio maledetto, un figlio di buona donna col grilletto facile e la battuta pronta? Io! (sussurra la Creatura nella cripta). Io sono l'Erede di Harrison Ford! Datemi un frustino, mortali, e tremate!

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La Mummia somiglia ovviamente ai cinefumetti, che invece ambientano il fantastico in un setting contemporaneo (tranne alcune eccezioni suggestive, come Wonder Woman). Questo spesso causa corti circuiti interessanti: ad esempio è sempre più difficile commettere disastri nei cinefumetti. Prendi un grattacielo: hai presente quanti grattacieli finti cascavano nei vecchi film di mostri? Ordinaria amministrazione. Il pubblico andava in sollucchero, non è che si mettessero a pensare a tutte le vittime - tanto si sa che è un grattacielo di cartone. Ma il grattacielo del cinefumetto contemporaneo sembra un grattacielo vero. Non è solo una questione di effetti speciali; è che i cinefumetti spingono sul realismo, vogliono stupirti portando uomini incredibili nel nostro mondo - ma nel mostro mondo se casca un grattacielo ci sono migliaia di vittime, è una cosa orribile. La Mummia ha rinunciato alla confortevole ambientazione ottocentesca per ottenere gli stessi effetti di un cinecomic, ma il risultato è che abbiamo un primo atto in cui l'Iraq odierno viene descritto come un allegro far west dove se i pistoleri locali esagerano nell'assediarti puoi sempre chiedere un intervento aereo. Poi arriviamo a Londra, dove per fortuna c'è un po' di bruma e, i grattacieli e... non ce ne frega niente. Sul serio. C'è una tempesta di sabbia davvero ben congegnata e assolutamente scenografica, ma non ti viene nemmeno per un attimo il pensiero per i poveri londinesi soffocati. È una Londra completamente finta, minacciata da un Male che non riesci a prendere sul serio nemmeno per un istante. La Mummia somiglia anche a un altro sfortunato blackbuster estivo di qualche anno fa, War World Z: in entrambi i film si registra il tentativo di ripulire un po' gli zombie, di renderli meno spaventosi, più pop, meno vietati ai minori. Forse quelli della Mummia sono un filo più paurosi di quelli di WWZ, ma la vera differenza sta nell'angoscia. Per quanto ripulito dal sangue e dalle cervella, WWZ restava un film apocalittico, eccessivamente cupo per le famiglie in cerca di aria condizionata (il finale fu modificato proprio per questo motivo). Nella Mummia tutta questa angoscia manca completamente. Il dark universe comincia ben poco dark.

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La Mummia somiglia un po' a Suicide Squad, un film che brucia le tappe, che ha fretta di buttare sul fuoco più storie possibile, magari già intrecciate. Per cui ok, qui abbiamo la Mummia, gli zombie, il dottor Jeckyll e... non posso dire che altro. Non era meglio andare per gradi; dedicare alle origini di ogni mostro un film? Eh, ma ci avevano già provato (Dracula Untold) e non è andata bene. E così beccatevi la macedonia, pubblico estivo. Qualcosa di buono c'è, ma anche molti scarti che non ti saresti mangiato mai, toh, se lo fa la Warner perché la Universal non dovrebbe permetterselo?

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La Mummia è al Cinelandia di Borgo San Dalmazzo, alle 20:20 e 22:40.

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Il circo itinerante del tuono rotolante

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The Rolling Thunder Revue (The Bootleg Series Vol. 5, pubblicato nel 2002 ma registrato nel 1975).
(Il disco precedente: Desire
Il disco successivo: Hard Rain)
E se io e te partissimo, uno di questi giorni? Se prendessimo un treno, anzi un pullman, e ce ne andassimo in giro per l'America finché non ci stanchiamo e lei di noi? E se invitassimo tutti i miei amici - scusa, tutti i nostri amici - in fondo che hanno da fare a parte suonare, bere e farsi? Potremmo anche passare a prendere la mia ex, è un sacco che ho voglia di vederla, così diventate amiche. E un team di registi per farci i filmini. Secondo me sarebbe fortissimo, se un giorno io e te partissimo. Purtroppo abbiamo tante altre cose più serie da fare.
Roger McGuinn, Joni Mitchell, Richi Havens, Joan Baez e Bob Dylan.
Roger McGuinn, Joni Mitchell, Richi Havens, Joan Baez e Bob Dylan.
Nell'autunno 1975 Bob Dylan non le aveva. Per quanto la sua icona sia associata indissolubilmente alla metà degli anni Sessanta, dieci anni dopo si ritrovava sulla cresta dell'onda molto più di quanto era e sarebbe mai stato. Before the Flood Blood on the Tracks avevano già ottenuto un disco di platino ciascuno, The Basement Tapes un disco d'oro. Desire, già in canna, avrebbe venduto ancora di più. Improvvisamente il pugile suonato di qualche anno prima aveva ritrovato lucidità e grazia: uno di quei rari momenti in cui qualsiasi cosa scegliesse di fare, per quanto bizzarra, funzionava: e scelse di andare in giro per il Paese con una carovana di vecchi e nuovi amici. Funzionò (più o meno). 
Bob_Dylan_-_The_Bootleg_Series,_Volume_5I concerti della Rolling Thunder Revue duravano quattro ore. Nei camerini della Rolling Thunder Revue c'era un tizio che girava col sacchetto di cocaina: veniva detratta dalla paga, 25$ il grammo. Sul palco della Rolling Thunder Revue si alternavano Bobby Neuwirth (dopo dieci anni di nuovo nello staff di Dylan), Roger McGuinn, Ramblin' Jack Elliott, Ronee Blakey (la protagonista di Nashville), il chitarrista degli Spiders from Mars, Mick Ronson. Nella prima data della Rolling Thunder Revue suonò anche Phil Ochs, ma era conciato piuttosto male e qualche mese dopo si suicidò. C'era anche Allen Ginsberg, nella Rolling Thunder Revue; anche se i suoi reading uscirono presto dalla scaletta lui continuò ad aggirarsi per i backstage ad aggiungere quel tocco di poesia. Nella Rolling Thunder Revue a un certo punto si ritrovò persino Joni Mitchell, che dopo un concerto pensava di andarsene; ma il batterista fece un broncio e lei restò. Al Madison Square Garden, durante il concerto della Rolling Thunder Revue per Rubin Carter, salì sul palco anche Muhammad Ali. Durante la Rolling Thunder Revue, la Blakey si fece tagliare i capelli corti così che sembrava una sorella minore di Joan Baez. Quest'ultima si faceva filmare in vestito da sposa e da prostituta dai cineasti che a un certo punto invitarono nella Rolling Thunder Revue anche Sara Dylan - col disappunto del marito che dovette sloggiare un'altra compagna di letto. Quante altre donne potevano ronzare attorno a Dylan durante la Rolling Thunder Revue? A un certo punto arrivò anche sua madre.Ai concerti della Rolling Thunder Revue, Dylan si presentava truccato; una specie di clown bianco. Qualche volta si mise anche una maschera (da Nixon, o da Bob Dylan), ma doveva togliersela al primo assolo di armonica.
Joan Baez
Joan Baez qualche anno più tardi, sul confine cambogiano.
La Rolling Thunder Revue è una cosa a cui in un mondo migliore avrebbero diritto tutti, più o meno sui trentacinque anni: radunare su un paio di pullman gli amici di tutte le età, e darci dentro come se non ci fosse un domani. Probabilmente è il tour migliore che Dylan abbia fatto, e il volume doppio della Bootleg Series è il miglior Dylan live che si possa ascoltare - è un giudizio a cui si può arrivare per esclusione: il suono non è caotico come ai tempi degli Hawks, Dylan non sembra costantemente incazzato come in Before the Flood, la voce è ancora solida e soprattutto il repertorio è il migliore di sempre: mette insieme cose antiche come Blowing in the Wind (rifatta acustica con la Baez, fa scomparire completamente dalla vergogna la versione di Before the Flood) e cose come Isis Hurricane, talmente fresche che non erano ancora state pubblicate (ci sono ben sei pezzi di Desire, e sono tutte versioni che rivaleggiano con quelle incise in studio). 
Ci sono perle di valore assoluto, come una Hattie Carroll elettrica che la chitarra di Ronson trasforma quasi in un pezzo pop, senza togliere un grammo allo sdegno che Dylan riesce a ispirare cantandola; una Mama You Been On My Mind, di nuovo con la Baez, ma soprattutto con un gruppo che si diverte un mondo a fingersi orchestrina ragtime; una Simple Twist of Fate eseguita in solitaria che ci dà un mezza idea di che disco sarebbe stato Blood on the Tracks se Dylan avesse davvero deciso di inciderlo acustico; una Just Like a Woman riletta con un tocco glam-rock che è l'unica concessione allo spirito dei tempi. C'è davvero un sacco di roba buona e alla fine resta la voglia di sentirne di più. Il guaio è che il modo di sentirne di più è passare a Hard Rain... (continua sul Post).
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Wonder Woman nel Paese dei Mansplainers

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Wonder Woman (Patty Jenkins, 2017)

Oltre il grande mare, figlia mia, vivono i Maschi. Un giorno li incontrerai. Da cosa li riconoscerai? Dalla barba, se va ancora di moda; da come si sbracano sui sedili dei mezzi pubblici - ma molto più probabilmente da come ti interromperanno mentre parli. Ti giuro. Non è una leggenda: magari stai raccontando la tua ultima battaglia, e loro, senza aspettare che tu finisca la frase, cominciano a spiegarti che le cose sono molto più complesse di quel che credevi; che non è tutto bianco o nero; pensa, esiste anche il grigio!; che certe volte un male è un bene, un armistizio serve a prolungare la guerra e un'arma chimica può servire a fare la pace. Figlia mia, il giorno che li incontrerai, tu magari ascoltali.

Poi menali tutti - neri, bianchi, grigi - non importa. Dagliene tante, figlia mia. Anche se non sai il perché: loro senz'altro lo sanno. Magari - se sopravvivono - te lo spiegheranno.

Il 2017 è un anno storico per l'uguaglianza di generi ed etnie al cinema. Dopo tanti cinecomics, finalmente ne abbiamo avuto uno al femminile, Wonder Woman - e in breve la Marvel ci darà il suo primo film concentrato su un supereroe nero, Black Panther! Non è incredibile, però, che ci sia voluto tanto? Mentre tutto intorno il nostro immaginario si faceva sempre più multicolore e multigenere; mentre i cast dei film d'azione riservavano sempre più posti alle minoranze, e sempre più spesso il ruolo della protagonista a una donna, non è curioso che i cinecomics siano arrivati a un risultato del genere così lentamente?

È incredibile come facesse ridere
già dal poster (quelle orecchie, dio),
No.

Non è incredibile e non è nemmeno così vero, visto che 13 anni prima di Panther e Wonder Woman, Halle Berry era già Catwoman in un film che nessuno ricorda volentieri; soprattutto a casa Warner. E può darsi che quel flop, neanche il primo (Elektra, Supergirl) sia in un qualche modo responsabile del ritardo con cui la principessa amazzone arriva sul grande schermo: buona ultima dopo personaggi molto meno iconici e meno popolari (Ant-Man...), in un momento di iper-inflazione del genere a cui sempre più gli studios reagiscono proponendo personaggi collaterali e bizzarri: il supereroe che dice le parolacce, i supercattivi tuttitatuati, i procioni parlanti. Ecco il primo cinecomic al femminile arriva nell'anno del secondo film su un procione parlante. Furries 2 - Femministe 1, palla al centro.

La cosa sarebbe molto meno rilevante di quel che sembra, visto che grazie al cielo al cinema non ci sono soltanto supereroi, e nemmeno quel segmento molto chiassoso, cialtrone e culturalmente rilevante che sono i film d'azione. Prendi una qualsiasi saga young adult, da Hunger Games in poi; prendi Jennifer Lawrence, prendi Charlize Theron in Mad Max 4. Prendi Scarlett Johansson, a cui la Marvel non ha voluto dedicare un film solista, forse perché sarebbe costato troppo, e nel frattempo è diventata protagonista di una saga giapponese e di una francese. Prendi Angelina Jolie e Milla Jovovich che nel 2004 (13 anni fa!) mentre Gal Gadot diventava Miss Israele ed entrava nell'esercito, erano già protagoniste di saghe sparatutto. Persino in Fast and Furious le donne sono sempre più rilevanti: persino nei Transformers. Eppure c'è davvero chi ha aspettato il 2017, e l'arrivo di Wonder Woman, per festeggiare un traguardo nelle pari opportunità. Non è solo la storia a rendere omaggio alla bella semplicità dei tempi andati (c'è un'eroina buona ma ingenua che deve sconfiggere un cattivo astuto): anche il dibattito critico sembra arrivare da un tempo lontano in cui poteva sembrare incredibile che una donna prendesse al lazo i nemici anziché rammendar loro i calzini.

Lei è perfetta e arriva da una piccola terra di fieri combattenti
che l'hanno forgiata e le hanno spiegato che il Bene è il Bene
e il Male è il Male. NO NON STO PARLANDO DI ISRAELE:
È LA TRAMA DEL FILM. Oh maledizione.
C'è persino chi trova molto femminista il fatto che ci sia una donna anche tra i cattivi! - malgrado a conti fatti sia una sgobbona che prende gli ordini dai superiori. (Forse, se uno avesse la pazienza di controllare, scoprirebbe che era più femminista la cattiva Sharon Stone in Catwoman) (ma in generale di cosa stiamo parlando? Di donne perfide il cinema è pieno credo dagli anni Venti).

A questo punto però devo rammentare che sono un maschio eterosessuale, e forse la mia posizione non mi permette di capire che enorme salto in avanti sia, un film su Wonder Woman, per tutte le ragazze e bambine del mondo: soprattutto nei mercati emergenti, dove forse la Jolie e la Jovovich non sono arrivate così presto e così bene. Forse tutto quello che ho scritto fin qui è un lungo e ponderato mansplaining. Forse.

Ma anche in quel caso che altro posso fare, a parte recitare fino in fondo la mia parte di noioso maschio che spiega l'ovvio? Per me parlare di femminismo per questo film è fare un torto sia al femminismo sia al film. Quest'ultimo è divertente: probabilmente il migliore prodotto fin qui dall'universo cinematico Warner - dopo due mostri senza capo né coda né senso come BvS e Suicide Squad. È una storia dedicata all'origine di un singolo eroe, e per quanto la formula sia inflazionata è comunque più fresca dei polpettoni a più personaggi che la Warner ci doveva assolutamente propinare.

C'è una periodizzazione un po' più originale del solito (la Prima Guerra Mondiale, in tutto il suo orrore che a un secolo di distanza sembra ancora fantascienza apocalittica); c'è un prologo mitologico un po' kitsch ma che si riscatta con una delle cose più assurde e divertenti che ho mai visto sul grande schermo: Robin Wright che guida un assalto di amazzoni a cavallo contro delle truppe di sbarco tedesche.


La profezia si sta realizzando.
C'è soprattutto una meravigliosa Gal Gadot che più che una donna è una bambina: uno spirito ingenuo e puro che difende le ragioni semplici dei bambini nel mondo complicato, deludente e orribile degli adulti. Diana fugge dalla sua isola con un'idea molto semplice - distruggere il Male - e lungo la sua strada non farà che trovare personaggi maschili che opporranno alla sua morale fanciulla le obiezioni degli adulti: sensate ma insoddisfacenti, com'è giusto che sia in un film che prima di pensare alle pari opportunità, pensa ai suoi spettatori bambini. Diana sa tutto tranne come ci si veste e come ci si comporta; in combattimento non ha rivali ma non sempre ha chiaro quali siano i veri nemici. Persino la personificazione (maschile) del Male, quando alla fine si rivelerà, avrà un paio di cose da insegnarle. Insomma tutto questo femminismo non lo vedo: non vedo nemmeno troppo maschilismo perché ho la sensazione che il film sia solo il primo capitolo di una storia, e che l'ingenuità di Diana abbia un senso narrativo, più che ideologico. La Diana odierna, già intravista in Batman v Superman, non sembra più avere bisogno che i suoi colleghi maschi in mantello le spieghino chi combattere e perché. Anzi, speriamo che nei prossimi film accada spesso il contrario, visto che ora Diana sembra il personaggio con più esperienza alle spalle. Ma soprattutto speriamo che siano guardabili: Wonder Woman grazie al cielo (e alla regista) lo era. Dopo tre settimane lo si vede ancora al Cinelandia di Borgo San Dalmazzo (19:50, 22:40) e al Multisala di Bra (20:00)

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L'amore illegale

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Loving (Jeff Nichols, 2016)

Hai 18 anni, e quando sei rimasta incinta, il tuo ragazzo ha solo detto: Ok. È un uomo di poche parole, un muratore, ma "ok" è una parola bellissima. Poi è andato a comprare il terreno per costruirti una casa. Per sposarti ti ha portato fuori dallo Stato perché, dice, la burocrazia è più semplice. Nella camera dove a volte dormite assieme ha appeso il certificato di matrimonio; è una cosa carina.

Una notte, mentre dormite, qualcuno vi entra in casa con le torce. C'è anche lo sceriffo. Vi ammanettano. Tuo marito indica il certificato - ecco perché l'ha appeso, allora - lo sceriffo scuote la testa e dice che quel pezzo di carta non vale niente, e che voi due dormendo assieme state commettendo un reato. Perché tu sei nera, lui è bianco, e questo è lo Stato della Virginia. Siccome dormite assieme, vi condannano a cinque anni di prigione (se vi avessero colto durante un atto sessuale, il reato e la pena sarebbero stati più gravi); vi rilasciano a condizione che non torniate più in Virginia per 25 anni. È il 1958 e il matrimonio interrazziale diventerà legale in tutti gli Stati Uniti soltanto tra nove anni. Grazie a voi. Mildred e Richard Loving.

La storia della coppia che ha cambiato la Costituzione degli Stati Uniti si meritava un film che non fosse un semplice temino edificante di educazione civica. Jeff Nichols, che fin qua aveva girato solo thriller angosciosi, psicologici o apocalittici, gioca la carta dell'iperrealismo, girando in 35 mm. e curando alla perfezione ogni dettaglio, dagli oggetti di scena alla pronuncia degli attori, affidandosi soprattutto a questi ultimi. Ruth Negga e Joel Edgerton danno vita a due protagonisti straordinariamente credibili, malgrado gli esigui margini di manovra: i Loving parlavano poco, e non amavano esibire i loro sentimenti. In particolare Edgerton riesce a nascondere sotto un ceffo da galera un personaggio mite e glorioso, uno che in due ore di film (e di prepotenze subite) avrebbe tutto il diritto di commettere una o due cazzate, e invece continua a ingoiare rospi fino a una vittoria che è così tanto più grande di lui che quasi non gli interessa (continua su +eventi!) Nel suo vocabolario di cento parole c'è spazio per frasi potentissime: quando lo arrestano, lo rilasciano e gli impediscono di pagare la cauzione per la moglie incinta: "Questo non può essere giusto". Quando l'avvocato gli spiega che lo Stato di Virginia ha intenzione di difendersi presso la Corte Suprema: "Come possono difendersi da quello che mi hanno fatto?" E quando sempre l'avvocato gli chiede se ha qualcosa da dire alla Corte Suprema: "Dica che amo mia moglie".

I tentativi di imbruttire Ruth Negga si sono rivelati
abbastanza vani.
Concentrandosi sugli attori, Nichols è riuscito a evitare che Loving diventasse uno di quei film in cui il meccanismo dell'indignazione scatta meccanicamente, perlopiù ai danni di cattivi da operetta, obiettivi fin troppo facili come i segregazionisti della Virginia di mezzo secolo fa. E però la scelta di escluderli quasi completamente dalla scena è molto particolare, e discutibile. Loving è un film antirazzista in cui i razzisti non stanno in scena. C'è in quattro scene intensissime uno sceriffo (un granitico Marton Csokas), anche lui un tizio di poche parole, che non ha bisogno di alzare la voce per annunciare che spaccherà la testa a qualcuno, e che tratta i Loving come due bambini testardi e capricciosi. C'è un giudice convinto di essere clemente, quando spiega che Dio creò bianchi e neri in continenti diversi perché non li voleva mescolati. Ma i bravi e onesti cittadini bianchi della contea - quelli che elessero il giudice e lo sceriffo - Nichols decide di non mostrarli. In questo modo l'imposizione della legge diventa un po' più assurda, e forse il film un po' più astratto. Loving voleva parlare soprattutto dei suoi due eroi per caso, e di come loro tranquilla cocciutaggine abbia reso la Virginia e il mondo intero un posto migliore. Tratta il razzismo come un male oggettivo che peggiora la vita delle sue vittime, un ostacolo da rimuovere: non ne indaga le cause, non ne studia i comportamenti. Chi andava al cinema in cerca di questo - chi ha la sensazione che nel 2017, in Italia, ci sia bisogno soprattutto di questo - potrà restare deluso, e forse continuerà a voler più bene a Mississippi Burning, o al Buio oltre la siepe.

Loving si rivede solo martedì 20 giugno, al Cinema Italia di Saluzzo (ore 17:00 e 21:15).

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D'amore e d'ombra

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Sognare è vivere (A Tale of Love and Darkness, Natalie Portman, 2015).

Quand'ero piccolo, da grande volevo diventare un libro. Non uno scrittore, un libro: perché le persone le si può uccidere come formiche. Anche uno scrittore, non è difficile ucciderlo. Mentre un libro, quand'anche lo si distrugga con metodo, è probabile che un esemplare comunque si salvi e preservi la sua vita di scaffale, una vita eterna, muta, su un ripiano dimenticato in qualche sperduta biblioteca a Reykjavik, Valladolid, Vancouver...

Nel cinquantenario della guerra dei Sei Giorni, nelle sale italiane si celebra una specie di mini-festival israeliano, tutto al femminile: oltre a Un appuntamento per la sposa di Rama Burshtein (presentato a Venezia lo scorso settembre) è saltato fuori A Tale of Love and Darkness, girato e recitato in ebraico da Natalie Portman che era a Cannes due anni fa (e poi naturalmente c'è Gal Gadot, riservista dell'esercito israeliano, che fa Wonder Woman, e pare che sia molto brava). Dei tre film Love and Darkness è il più ambizioso: trasformare in cinema la monumentale autobiografia di Amos Oz richiedeva una dose di incoscienza che Natalie Portman fortunatamente ha conservato per dieci anni di lavorazione.


Come dimostrazione di serietà e perizia dietro la macchina da presa, A Tale of Love è sorprendente, forse anche troppo manierato: luci, ricostruzioni di esterni, montaggio, non puoi dirle niente. La Portman sa persino dirigere i bambini! (non solo il protagonista: c'è una ragazzina che sta in scena cinque minuti e riesce a comunicare con gli sguardi più di molti attori professionisti). Come trasposizione cinematografica, il film deve fare scelte inevitabili e in certi casi interessanti (ad esempio lo sfondo politico della storia è riassunto dalle chiacchiere dei passanti o dei passeggeri di un autobus, tra cui già onnipresenti nel 1948 i fanatici del complotto). Soprattutto la Portman sembra essere riuscita a cogliere un nucleo cinematografico in un libro disperatamente libresco, così concentrato sulla magia e sulla dannazione delle parole, sul fascino dei libri e sul desiderio degli uomini di partorirli e trasformarsi in loro. Di solito tutta questa letterarietà a Hollywood si risolve mettendo in scena tanti libri, possibilmente polverosi. La Portman non si sottrae, ma ti piazza ogni tanto qualche correlativo oggettivo di precisione spaventosa: l'utopia sionista di "far fiorire il deserto" trasformata in un orticello di cortile che non attecchisce, o il momento in cui il padre annuncia commosso al figlio: ora che è nato lo Stato di Israele nessuno farà più il prepotente con lui a scuola! e in capo a cinque minuti, ovviamente, il piccolo Amos deve cedere la merenda ai bulli (però israeliani).


Purtroppo il film ha un problema di ritmo (continua su +eventi!). In novanta minuti succedono parecchie cose, eppure sembra che non succeda quasi niente. Il disincanto che Amos Oz può permettersi, dopo aver partecipato alla guerra e alla stagione dei kibbutz, nelle mani volonterose ma affannate della Portman si trasforma in un pessimismo fin troppo cupo. Proprio quando ti aspetti che gli eventi precipitino (dalla dichiarazione d'indipendenza in poi) e la Storia irrompa sulla scena, la Portman decide di liquidare i combattimenti in un paio di scene e boati fuori campo, e concentrarsi sulla vicenda della madre: ovvero sul ruolo interpretato da lei stessa, ancora una volta nei panni di una depressa cronica.

Il problema è che i depressi sono i malati meno cinegenici al mondo. Piangono, prendono pillole, si scusano, prendono altre pillole, un po' d'euforia poi il crollo, altre pillole, chi non c'è passato difficilmente riesce a provare empatia. La voce narrante interverrà a collegare il crollo di Fania con l'inevitabile disillusione storica legata alla nascita di Israele: ogni sogno realizzato è un sogno deludente, voleva spiegarci Oz, e Israele non è più un sogno. Forse lo avremmo capito anche senza la didascalia, ma che fatica arrivarci. Alla fine anche questo film è un buon correlato oggettivo: un sogno cullato per lunghi anni, realizzato con grande fatica e serietà, che alla fine della visione lascia ammirati ma un po' freddi, stanchi: e i soldi del budget (perlopiù americani) non sono ancora stati recuperati. Come in altri film importanti prodotti in Israele (KippurVa' e vedrai), i palestinesi sono quasi del tutto assenti: compaiono soltanto in un paio di scene. Come se anche la Portman, per rispettarli e riconoscere i loro diritti, avesse bisogno di tenerli a una prudente distanza: quella distanza che a Gerusalemme forse non c'è mai stata. Sognare è vivere (un titolo italiano più sbagliato del solito, per un film che racconta la fatica di sopravvivere ai sogni) fino a mercoledì è all'Impero di Bra (20:20, 22:30) e ai Portici di Fossano (21:15).
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C'è un giudice a Sana'a

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La sposa bambina (I Am Nojoom, Age 10 and Divorced, Khadija al-Salami).

Una bambina di dieci anni entra in un taxi. Chiede al conducente di portarla da un giudice. Quale giudice? La bambina non ne ha idea. Il giudice. Ce ne sarà almeno uno a Sana'a, Yemen. La bambina non può dirlo al tassista, ma sta andando a chiedere il divorzio.

La sposa bambina è il primo film di Khadija al-Salami, regista yemenita nata nel 1966 e data in sposa dalla sua famiglia nel 1977; ripetutamente violentata dal marito, riuscì a separarsene e alla fine vinse una borsa di studio negli USA. Trent'anni dopo, in Yemen ci sono ancora spose bambine: tra queste Nojoom Ali è diventata suo malgrado famosa in tutto il mondo per essere riuscita a divorziare a dieci anni. I Am Nojoom, Age 10 and Divorced è la storia agghiacciante del suo matrimonio, descritto da Nojoom stessa e dalla giornalista francese Delphine Minoui nel libro omonimo. La regista si trova insomma di fronte a una storia vera, tragica, necessaria, che è anche molto simile alla storia della sua vita: è un'occasione unica e non la spreca.

La sposa bambina è un film talvolta ingenuo, ma tutt'altro che banale... (continua su +eventi!) Paga senz'altro la scelta coraggiosa di girarlo completamente in Yemen - uno dei paesi più cinegenici del mondo - e di non lesinare in quanto a esterni. Sana'a è una metropoli infida e polverosa; le montagne terrazzate un mondo a parte dove ogni pietra, se spostata, può originare una disgrazia. Una gestione originale dei piani temporali scongiura il rischio (altissimo) di trasformare una storia tanto potente in una semplice didascalia: per quanto la distanza tra buoni e cattivi non possa che essere enorme e chiara sin da subito, il film riesce ugualmente a spiegarci che le cose sono più complesse di quel che sembrano, e addirittura si permette di dosare un po' di suspense. Allo stesso tempo, La sposa bambina è un film che non si vergogna di volerci indignare e commuovere con tutti i mezzi che ha - e il più potente forse è il volto così disarmante della sua protagonista, Reham Mohammed: una bambina qualsiasi che potremmo aver incrociato su qualsiasi marciapiede, anche davanti a casa nostra.



Femministe e islamofobi potrebbero restare delusi da un film sulla carta così promettente: ci sono donne che partecipano attivamente al meccanismo della violenza, e giudici apparentemente illuminati che però ci tengono a far notare che stanno semplicemente applicando i dettami della Sharia. La cosa più curiosa è il rilievo modesto dato ai personaggi positivi, un giudice tranquillissimo che non alza mai la voce nemmeno di fronte all'ingiustizia più palese, e un'avvocata esperta di diritti civili che dice dieci parole in tutto il dibattimento (gli imputati non riescono nemmeno a capire chi sia, e perché non si faccia i fatti suoi). Come se la giustizia non avesse poi bisogno di tutte queste parole o lacrime per affermarsi. Il film termina con una nota di speranza che purtroppo la cronaca si è incaricata di deludere: la guerra in Yemen ha di fatto bloccato l'approvazione di una legge che proibisca le nozze tra minorenni; coi soldi dell'autobiografia della figlia, il vero papà di Nojoom si è comprato altre spose.

La sposa bambina è all'Aurora di Savigliano mercoledì 7 e giovedì 8 giugno, sempre alle ore 21:00.

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Black is the New Barbablù

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Scappa (Get Out, Jordan Peele, 2017)


Indovina chi viene a cena - in una bella villa bianca sul lato deserto del lago, tutto intorno chilometri di boschi, non un'anima a parte i cervi e i bianchi ricchi e progressisti. Rose vuole presentare Chris ai suoi genitori. Li ha almeno avvisati che Chris, oltre a essere un bravo fotografo, è... nero? No, ma non importa, anzi forse è meglio perché... è gente aperta, avrebbero votato Obama anche una terza volta, e poi chi non vorrebbe avere un bel ragazzo nero da sfoggiare al rinfresco?

Indovina chi ha azzeccato un altro thriller in una casa nei boschi: la Blumhouse, esatto. Ma stavolta ha esagerato. Con un regista esordiente e non pratico del genere (veniva dalle commedie); con la sua formula antica e austera, 10% azione e 90% suspense; con la sua produzione parsimoniosa, per non dire taccagna, ha portato in sala un film che è costato quattro milioni e mezzo di dollari e ne ha fatti duecentotrenta. Per intenderci: il King Arthur della Warner non ha ancora superato i cento - ce la farà, ma è costato centosettanta, per via dei mega-elefanti in computer-grafica che evidentemente erano necessari. La Blumhouse non usa computer-grafica (o se c'è davvero non si vede). Per emozionare lo spettatore - spaventarlo, divertirlo, consolarlo - non ha altre risorse che il montaggio, la recitazione, la storia: per farla breve: la Blumhouse fa il cinema. E funziona. Forse un cinema così classico è ormai merce talmente rara che fa notizia. Non spende tanto ma spende bene: luci e musiche ti danno l'impressione che il film giochi in serie A. Get Out cattura con cose semplici - occhi sgranati, occhi piangenti, porte chiuse e all'improvviso aperte, e qualche rumore semplicissimo e fantastico. Chi proprio vuole il sangue alla fine avrà il suo sangue, ma a Get Out per catturarti basta il suono di un cucchiaino (continua su +eventi!)
L'orrore è una lacrima.

















Certo, dalla sua Jordan Peele aveva anche la tematica-di-scottante-attualità: la questione razziale in America, il movimento Black Lives Matter, la fine dell'era Obama e il modo in cui anche il razzismo sta cambiando (evolvendo, per così dire), adattandosi alla postmodernità e scavandosi nuove nicchie. In questo senso forse Get Out è meno a fuoco di quanto molti hanno voluto credere. Non per imperizia di chi lo ha scritto, diretto e recitato, ma proprio perché non vuole essere un manifesto, ma soprattutto un film: anzi un film di genere, orgogliosamente di serie B, con una storia semplice e intagliata nell'antico legno delle fiabe. È un film che attinge da immagini banali e fortissime (un bicchiere di latte, un trofeo di caccia), da un brodo di emozioni vere e presenti (l'imbarazzo di sentirsi nero alle feste: non necessariamente disprezzato; anzi a volte persino ammirato, ma sempre e comunque etichettato, categorizzato, pesato e prezzato), e non disdegna una di quelle belle catarsi sanguinolenti che solo il cinema di genere può permettersi di servire.


Get Out forse esagera a prendersela coi liberal bianchi, un avversario forse un po' troppo facile e sgonfio, proprio mentre una nuova ondata di razzismo tutt'altro che ipocrita e liberal manda un suo uomo alla Casa Bianca. Ma la storia funziona molto meglio così, e quindi tanto peggio per i liberal. Get Out non salverà l'America dal razzismo, ma intanto sta salvando il cinema: perché le cose che ha da dire, giuste o o meno giuste che siano (o persino sbagliate), le dice coi mezzi antichi e potenti del cinema. Al Cinelandia di Borgo San Dalmazzo (20:20, 22:40); al Vittoria di Bra (20:15, 22:20); all'Italia di Saluzzo (20:00, 22:15) e al Cinecittà di Savigliano (20:20, 22:30).
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L'ingloriosa caduta dell'Excaliburino

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King Arthur, il potere della spada (Guy Ritchie, 2017) 


A Camelot qualcosa non va, la tavola rotonda è in fermento: da indiscrezioni sembra che qualche Valoroso Cavaliere sia scappato con la cassa. Il valoroso sir Ritchie non si trova, nelle sue stanze il re Artù si tormenta: è colpa sua. Non doveva dar retta a quella banda di disperati, pur riunita sotto lo stemma di un nobile blasone, la Compagnia dei Fratelli Warner. Ma loro si erano fatti avanti con suadenti lingue biforcute... una saga in sei film promettevano, sei film! Roba da Guerre Stellari, come dire di no? Finalmente la fama di Excalibur avrebbe raggiunto i quattro angoli del mondo, rivaleggiando con quella dei supereroi e dei robottoni componibili. E mentre già volava con l'immaginazione, mentre già visualizzava il suo pupazzetto barbuto spuntare da un happy meal sudcoreano, il nobile Artù forse non si accorgeva che gli stavano rubando l'anima?

"Che avete detto? Devo passare la giovinezza in un bordello? Ma non ero un maniscalco?"
"Maestà, abbia pazienza, è per attualizzare il personaggio".
"Ah perché i bordelli sono attuali?"
"Ehm".
"Cioè io ogni tanto ci vado al cinema, nei blockbuster di adesso vedo un sacco di donne guerriere, qui c'è solo qualche strega repellente e un po' di prostitute di contorno, tutta questa attualità, scusate..."
"Àstrid Bergès-Frisbey dà comunque vita a un personaggio femminile cool e non scontato, ammetterà..."
"Potrei anche ammetterlo, ma... neanche un bacetto, niente... poi a un certo punto la rapiscono, e mi potrebbe anche stare bene, la Damigella in Pericolo è proprio materia bretone, l'abbiamo inventata noi, praticamente".
"Perfetto, maestà".
"Poi però nella scena d'azione successiva serve un deus ex machina e quindi la liberano. Il malvagio re Vortigern la libera senza un plissé. Aveva chiesto in cambio Artù, e invece la libera prima che arrivi Artù. Ora io di buchi narrativi un po' me ne intendo, e questo..."
"La liberano perché gli hanno promesso che Artù sta arrivando!"


"Dunque io Vortigern me lo ricordo, e così imbecille proprio no. Ha in ostaggio una maga e un bambino e libera la maga. Ma chi ha scritto questo copione, si può sapere?"
"I nostri migliori artigiani, maestà"
"Ovvero?"
"Ehm... Joby Harold".
"Ovvero?"
"Sta lavorando alla nostra versione di Flash e di Robin Hood".
"Sta lavorando. Ma un film intero lo ha già scritto?"
"Certo, ehm, Awake..."
"Mai visto".
"Un buon successo del... del... 2007".
"E poi non ne ha più scritti?"
"Ha fatto altro, e proprio per questo gli abbiamo affiancato un altro valentissimo professionista e coproduttore, Lionel Wigram".
"Ovvero?"
"Ehm..."
"L'avrà mai scritto un film questo qui".
"The... The Man from UNKLE".
"Ma ha floppato!"
"No, non ha floppato, no... diciamo che non ha raggiunto i risultati previsti. Ma mica per colpa sua, lo script era buono".
"È stato più un problema di regia, dice?"
"Ehm...."
"Mi aiuti a ricordare, io faccio il re nella materia bretone non è che mi intendo così tanto... chi stava dietro la macchina da presa quando avete prodotto The Man from UNKLE?"
"Guy Ritchie".
"Signori, aiutate un povero monarca altomedievale a capire... volete fare una saga sulla materia bretone in sei episodi, solo per il primo quanto avete intenzione di spendere?
"175 milioni di dollari".
"È una cifra spaventosa, epperò... si tratta di rivaleggiare coi draghi dello Hobbit, immagino..."
"No, veramente niente draghi per ora".
"Come niente draghi?"
"Dopo lo Hobbit pensavamo appunto di cambiare un po', pensavamo a degli elefanti".
"Elefanti? Ma io sono re Artù".
"Elefanti enormi!" (continua su +eventi!)


"Sentite, io sono un po' fuori dal giro grosso... l'ultimo con cui ho lavorato è stato De Laurentiis, lui aveva in mente queste cose un po' fantastoriche... è andata com'è andata. Diciamo che la fantarcheologia ha fatto il suo tempo. Ma voi mi state dicendo che intendete buttare quasi duecento milioni di dollari in un film su di me scritto da due novellini, senza un personaggio femminile forte, senza attori di prima linea (la cosa più importante che ha fatto il mio interprete al cinema è Pacific Rim) senza draghi e con gli elefanti. Confesso una certa perplessità".
"Ma c'è Guy Ritchie! Ha visto cos'ha fatto Guy Ritchie con Sherlock Holmes?"




"Sentite. Ci è piaciuto immensamente lo Sherlock Holmes di sir Ritchie, ma il trucco che ha funzionato con la Londra dell'Ottocento - chiamiamolo choc anacronistico, un blockbuster d'azione in costume - non necessariamente funzionerà con Camelot. Primo perché Sir Robert Downey il Giovane non è più della partita - e anche Sir Jude il Bello soffre l'ingiuria del tempo; secondo, perché un buon trucco non funziona che una volta, al massimo due; terzo, perché Camelot è qualcosa di molto diverso, è un mondo di oscurità e misteri, e sir Ritchie e i suoi scrittorucoli questa cosa non l'hanno capita. È gente nata e cresciuta in città, non capiscono che esistano altri mondi, ficcano nel quinto secolo una Londinum metropolitana che neanche nel Milletré era grossa così, ma ammettiamo pure che ai paggi e alle pulzelle che affollano i multisala tutto questo non interessi. Siete convinti che si interesseranno comunque ai vecchi sortilegi di sir Ritchie? Quegli stacchi violenti, quei montaggi diegetici, quelle zummate improvvise, quei dialoghi esagerati da fumetto, così anni Novanta del Ventesimo Secolo..."
"È quel che piace ai giovani, maestà!"
"Non credo. Temo che sia quello che piaceva a voi quando eravate giovani. Ma i blockbuster di adesso non si fanno più così, c'è tutta un'arte che altre compagnie hanno interiorizzato, e voi no. Andate di selva narrativa in selva narrativa, cercando materiale quale che sia da sfruttare commercialmente, imponendo le vostre saghe raffazzonate alla benemeglio con la pura forza bruta del vostro nobile Stemma e del battage pubblicitario... non so se dovrei fidarmi di voi. Certo, la vostra proposta è allettante".
"Sei film in dieci anni, Maestà..."
"Ma rischio di perdere l'anima".
"Pupazzetti della tavola rotonda in tutti gli Happy Meal".
"Oh, va bene, dopotutto sono sopravvissuto anche a De Laurentiis e Valerio Massimo Manfredi, cosa ho da perdere? Portatemi il sigillo reale".

Da qualche parte ai piani alti della Warner Bros dev'esserci un gruppo di, come definirli, diversamente umani. Qualche figlio di, qualche ragazza di, qualcuno che passava di lì e aveva bamba per tutti, una squadra di iperattivi ipodotati che se hanno mai sfogliato un fumetto non riuscivano a decifrare le scritte nelle nuvolette; se mai sono entrati in un cinema, si sono addormentati dopo i trailer. Una gang di deficienti con una missione suicida: salvare il cinema da sé stesso. Lo scrivevo l'estate scorsa,  di fronte a quell'empia catastrofe che fu Suicide Squad. Non è che ci credessi davvero, ero solo scandalizzato da un film. Ma ora che King Arthur è sotto di centotrenta milioni di dollari, comincio a domandarmi se per caso ci avessi azzeccato: se la WB non abbia dichiarato guerra ai blockbuster e se non sia tempo di decidere da che parte stare. Nel frattempo, chi è curioso può trovare King Arthur al Cinelandia Borgo San Dalmazzo (20:00, 22:40), al Fiamma di Cuneo (21:00) e al Cinecittà di Savigliano (21:30).
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Gold, il grande spoiler

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Gold - la grande truffa (Gold, Stephen Gaghan, 2017).


Per quanti anni l'ho cercato. Ormai avevo perso le speranze, quando mi arrivò una dritta: nella suite di un grande hotel della capitale sopravviveva a sé stesso uno degli ultimi Titolisti del Cinema Italiano. Aspettava che qualcuno salisse ad ammazzarlo o scendesse a pagargli il conto. Entrambe le cose erano al di fuori della mia portata, ma provai ugualmente a salire con una bottiglia di scotch. Si sciolse subito. In fondo moriva dalla voglia di raccontare, di difendersi.

"Quando ha capito che voleva fare il Titolista?"
"Non c'è stato un momento preciso... ho sempre saputo che l'avrei fatto, lo faceva mio padre, e il padre di mio padre, il cinema italiano è così".
"Anche suo padre cambiava i titoli dei film stranieri?"
"È stato uno dei più grandi. Ha presente Non drammatizziamo... è solo questione di corna?"
"Domicile conjugale, di François Truffaut".
"Ahah, sì".
"È stato suo padre a cercare di far passare un film di Truffaut per una commedia sexy con Lando Buzzanca?"
"Ci siamo comprati un'Alfa Giulia con quel titolo".
"Lei invece è quello che ha tradotto Eternal Sunshine of the Spotless Mind con..."
"No, non sono io quello..."
"Se mi lasci ti cancello".
"...purtroppo. Che invidia. Grandissimo titolo".
"Crede che in qualche modo abbia giovato alla fruizione del film?"
"Non lo so. Ma lo ha portato in un centinaio di sale in più. Migliaia di biglietti in più. Il nostro mestiere serve a questo".
"A vendere illusioni".
"Non è l'essenza stessa del cinema?"
"Non pensa che un titolo così sia in qualche misura truffaldino? A che è servito riempire centinaia di sale in più, se la gente che entrava credeva di vedere una commedia con Jim Carrey..."
"È servito a vendere loro biglietti, ecco a cosa. E magari a uno su dieci il film sarà pure piaciuto. Come dovevano tradurlo?"
"Non so, per esempio L'eterna luce di una mente pura".
"Wow".
"Grazie".
"Forse un centinaio di biglietti in tutt'Italia riusciva a venderli anche lei. L'eterna luce di una mente pura, ma certo. Che razza di ipocriti".
"Prego?"
"Mi ha sentito benissimo. Voi, voi tutti che ci odiate, siete solo ipocriti. Per mille euro in più cambiereste il nome anche ai vostri figli".
"No, non credo".
"E per diecimila?"
"N-no, direi di no".
"E qual è il problema? Mi dica, qual è il problema se un film invece di avere un titolo noioso ne ha uno un po' più accattivante? Ha paura di trovare più gente quando entra in una sala?"
"Mi dica soltanto una cosa. Lei si ricorda un film del 2017, di Stephen Gaghan..."
"Buio assoluto".
"Con Matthew McConaughey, che fa il cercatore d'oro..."
"Ah, quello! Non male dopotutto".
"È lei che ha deciso di sottotitolare la versione italiana "La grande truffa"?"
"Sì, è successo".
"Mi può spiegare il perché?"
"Non c'è già arrivato da solo?"
"Ma..."
"Senta, il nostro non era un lavoro da dilettanti (continua su +eventi!)Non è che ci sedevamo in un angolo e tiravamo fuori bigliettini da un sacchetto. C'erano indagini di mercato precise. Le commissionavamo, le analizzavamo, e ne ricavavamo delle indicazioni preziose. Se le dicessi - e non lo confermo - ma se le dicessi che la parola "truffa" in un titolo italiano valeva da sola seimila biglietti in più..."
"Aveva almeno visto il film?"
"Crede che fosse un gioco? Crede che non li amassimo, noi, i film? Mio padre era un appassionato di nouvelle vague, lo sa?"
"Si è reso conto di aver rivelato il finale del film nel sottotitolo?"
"Beh, adesso, poi, il finale del film..."
"Se n'è reso conto o no?"
"Senta, lei non può capire certe volte la pressione. Me lo ricordo bene quel film, e le attese che aveva generato - era una storia pazzesca. Lo sa che lo doveva fare Michael Mann, a un certo punto? E poi è passato..."
"...a Spike Lee".
"Ed era un veicolo per McConaughey, che in quel momento andava fortissimo. Sembrava un colpo sicuro. Ci avevamo investito. Ma poi... a un certo punto si scopre che il regista è cambiato di nuovo, ed è questo... come ha detto che si chiama?"
"Gaghan. Ha scritto e diretto Syriana".
"Ecco, basta dirlo. Syriana. Fosse stato per me, l'avrei chiamato 40 Notti di Petrolio. Ma avrebbe floppato lo stesso. Ci facciamo dare un copia per farci un'idea, e scopriamo che ovviamente è un casino. Il tizio ci stava fottendo".
"In che senso?"
"Andava alla cieca, sapeva che sottoterra da qualche parte aveva una storia, ma non capiva dove cercarla. Ogni tanto tirava fuori qualche idea, ma non era roba del suo sacco. Qualche idea da David O. Russell, qualche pezzo fregato a Scorsese - come se Scorsese facesse materiale che si camuffa facilmente".
"Ma c'era pur sempre McConaughey".
"Altroché se c'era. Fin troppo. Spalmato in ogni fotogramma. Come a dire: pensaci tu. Una palese dichiarazione di inadeguatezza dietro la macchina da presa".
"Però il personaggio serafico di Édgar Ramírez è perfettamente complementare a quello del protagonista".
"Sì, vabbe', resta il problema di due ore di primi piani di McConaughey, che se fossero i primi anni Zero andrebbe benissimo, ma è un McConaughey con la pelata e i denti storti. Recensioni perplesse. Box office americano in picchiata. Dovevamo inventarci qualcosa, capisci?"
"Ma è una storia fantastica".
"Che ti posso dire, si vede che non bastava".
"Era un buon motivo per... per..."
"Avanti, dillo".
"Per spoilerarla?"
"Seimila biglietti in più, figliolo. Seimila biglietti".
"...di gente che si sarà sentita presa in giro e avrà pensato: non ci torno mai più al cinema".
"Lo crede davvero? Ma no, tornavano sempre. Quella era gente che al cinema ci andava, era qualcosa di più forte di loro. La fame di illusioni".
"Se è così, perché la ritrovo in bolletta e senza un mestiere?"
"È finita la gente".
"Ovvero..."
"Finita. Invecchiati o morti. I giovani guardano serie in tv, la fine era segnata. Abbiamo solo cercato di viverci finché abbiamo potuto. Non è quello che facevano tutti?"
"Cosa facevano tutti?"
"Non saprei, ero quasi sempre al cinema. Ma mi ero fatto questa idea che scavassero buche".
"Buche? E perché?"
"Per riempirle".
"Non capisco".
"Per sentirsi impegnati, professionali, indaffarati, e magari qualche volte per caso trovavate un po' d'oro e vi ripagavate la spesa. Ma il più delle volte l'oro lo gettavate voi. Non andava così con tutto, in quegli anni?"
"Si è fatto tardi, può tenere la bottiglia".
"Non buttavate un sacco di soldi dei genitori in startup che servivano sostanzialmente a percepire fondi per le startup? Non passavate anche voi il tempo a inventarvi titoli fantasiosi per i vostri progetti, per i vostri curricula?"
"È stato un piacere, addio".
"Cosa si aspettava di trovare salendo quassù, l'uomo che ha ucciso il cinema? Il cinema non muore, il cinema è tutto intorno, basta trovare qualcuno disposto a farsi..."
"Fregare".
"...raccontare una bella storia"
"Non è una bella storia se sveli il finale".
"Non mi sono mai piaciuti i finali. La vera magia del cinema è quando si spengono le luci, e la gente spegne il telefono, e al botteghino ti dicono quanti biglietti hanno venduto..."


Gold è al Cine4 di Alba alle 19:30 e 21:00; al Cinelandia di Borgo San Dalmazzo alle 20:10 e 22:40; al Vittoria di Bra alle 20:00, 22:30; al Cinecittà di Savigliano alle 20:15 e alle 22:30. Non fate troppo caso al sottotitolo italiano.
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Storia di un panino deludente

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The Founder (John Lee Hancock, 2016)

L'arca dell'alleanza.
Non c'è niente al mondo che valga come la perseveranza. Non il talento: nulla è più comune di un fallito di talento. Neanche il genio: il genio misconosciuto ormai è un luogo comune. Né l'istruzione: il mondo è pieno di straccioni istruiti. Solo la perseveranza e la determinazione sono onnipotenti. (Da The Power of the Positive, un libro che non esiste).

Ray Kroc non ha inventato il fast food: quello lo hanno messo a punto i geniali gemelli Dick e Mac MacDonald, nel loro ristorante di San Bernardino (CA), sfidando tutte le convenzioni degli anni Cinquanta (niente tavoli, niente cameriere, niente juke box) per concentrarsi su un solo obiettivo: servire istantaneamente hamburger e patatine. Kroc non ha inventato il franchising più efficace del mondo, anzi finché lo gestì lui direttamente non riusciva a rientrare nei costi di gestione. Kroc non ha nemmeno trovato un modo per risparmiare sulle celle frigorifere: l'idea arrivò dalla sua futura seconda moglie. Nell'impresa più epica della ristorazione moderna, Ray Kroc non ha messo il nome, non ha messo la faccia, non ha messo le idee: e allora perché è lui, e non un altro, il Fondatore? Perseveranza.

La terra promessa
The Founder, il film di John Lee Hancock dedicato a Ray Kroc, assomiglia un po' a quei primi esperimenti che i fratelli MacDonald avevano tentato prima di imboccare la strada giusta (e incontrare Kroc). Sulla carta, l'idea è perfetta. Un biopic su un personaggio controverso e visionario, commesso viaggiatore per vocazione più che per necessità. L'America che ha in mente è un luogo usa e getta, smontabile e ricomponibile, una pista autostradale solcata da viaggiatori frettolosi e rapaci come lui; prima di incrociare i fratelli MacDonald, Kroc aveva provato coi bicchieri di carta e i tavolini pieghevoli. I suoi primi veri discepoli sono disperati che vagano di strada in strada, di corridoio in corridoio, cercando di vendere qualsiasi cosa (fulminante l'episodio del venditore ebreo di bibbie protestanti). Come l'Aviatore di Scorsese, il Petroliere di Anderson, lo Zuckerberg di Sorkin e Fincher, Kroc è innovatore e prototipo: se si porta dentro una psicosi, non sarà contento finché non la condividiamo. The Social Network in particolare sembrava un ottimo precedente: anche stavolta l'eroe mefistofelico ruba l'idea a due bravi ragazzi non altrettanto determinati. I Big Mac non saranno interessanti e attuali come i social network, ma il loro pubblico al cinema in teoria ce l'hanno, specie se ne parli male (volete sentirvi vecchi? Super Size Me compie tredici anni). The Founder poi poteva contare sulla regia di John Lee Hancock, il regista di uno dei biopic più interessanti e stratificati degli ultimi anni, Saving Mr Banks: e del momento di grazia di Michael Keaton, dopo Birdman e Spotlight (due Oscar al miglior film in due anni). The Founder non poteva proprio andare male. E invece...

A quattro mesi dall'uscita nelle sale, il film non ha ancora coperto le spese di produzione (continua su +eventi!) Ai critici è piaciuto; i giurati dell'Academy hanno fatto finta di non vederlo; il pubblico non si è fatto vedere. Cosa non ha funzionato? Difficile dirlo. Da fuori il prodotto si presenta bene. Il primo morso è davvero stuzzicante - l'odissea di Kroc attraverso l'America, alla ricerca del solo messaggio di speranza in un futuro usa-e-getta: il piccolo ristorante di San Bernardino che non ha (incredibile!) nemmeno i tavolini, i piatti e le posate. È più tardi che ti rendi conto che The Founder non ha neanche lontanamente lo stesso sapore di The Social Network; quando nella seconda metà ti rendi conto che l'intreccio ruota sull'opportunità di inserire in menu un frappé liofilizzato. Manca molto più di un cetriolino; il formaggio è insapore; il bacon cartone abbrustolito, le patatine più gommose che croccanti. The Founder sembra il prodotto che ti servono in certi Mac, non sa di niente ma tanto tu lo manderai giù lo stesso perché il sapore del Mac ce l'hai già in testa, certe patatine sono solo un placebo. In cucina Keaton si dà da fare come al solito, ma tutto sembra dipendere da lui; le scene clou sono risolte in brevi dialoghi al telefono, le storie d'amore finiscono e iniziano nel tempo di alzarsi e sedersi dai tavoli. The Founder avrebbe potuto essere un grande film su una delle più straordinarie storie del capitalismo, ma a un certo punto è saltato il controllo qualità. È un vero peccato. All'Aurora di Savigliano, mercoledì 26 e giovedì 27 alle 21.
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Lei non si lascia scomporre

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Elle (Paul Verhoeven, 2016)

Tua madre è innamorata, si è fatta un altro po' di botox. Tuo papà è ergastolano, ma ancora sta in tv. Tuo figlio vuol fare il papà, ha messo incinta una matta, chiede due mesi d'affitto più le spese. Al lavoro c'è un dipendente che gioca a incollare la tua faccia su delle animazioni 3d sodomite, ma d'altro canto se lavori nel campo dei videogiochi la tua quota di psicopatici ti tocca. Il tuo amante sta diventando un po' ossessivo, l'ex marito è depresso perché fa lo scrittore francese, che altro? Ah già, c'è un tizio che ogni tanto entra in casa e ti violenta. Quasi dimenticavi. Buon Natale, Michèle, e felice anno Nuovo.

Paul Verhoeven non si è mai dato troppa pena di giustificare quello che faceva. Gli piaceva un certo tipo di violenza che Hollywood, fino a un certo punto, gli ha consentito: oltrepassato quel punto è tornato in Europa, dove le regole sono più ambigue, non necessariamente più tolleranti. Dopo un lungo purgatorio è finito in Francia, ed è incredibile quanto ci si sia ambientato - non avrei mai immaginato che un film tanto verhoeveniano potesse anche essere tanto francese. È un film di ordinaria follia, ma anche di borghesi che vanno al Monoprix a scegliere il borgogna da accompagnare alla lasagna, se trovano il vicino di casa lo invitano - e hanno tutti una cantina insonorizzata dove chissà che cosacce fanno. O potrebbero averla. Non dovresti fidarti di nessuno, ma poi sono tutti così gentili che lo fai lo stesso. Anche se è tratto da "Oh...", un romanzo di Philippe Djian (da cui la quota sindacale di ironia sui romanzieri francesi) Elle non doveva essere così francese, in partenza. La produzione cercava un'attrice americana, ma non si trovava, e bastano pochi minuti di film per capire il perché. Alla fine è entrata Isabelle Huppert, a cui nel film capita qualsiasi cosa, ma forse la violenza peggiore è vederla doppiata. Quando l'anziana madre le chiede: ma se mi risposassi tu cosa faresti?, e lei le risponde: ti uccido, beh, in originale è un j'te tue, così semplice, così naturale, con la stessa intonazione con cui sceglierebbe un dessert o negherebbe un premio di produzione a un dipendente, che ti fa capire che non scherza: per lei l'idea di uccidere la madre è davvero la cosa più naturale al mondo.

Elle deve aver fatto uno strano effetto agli spettatori di Cannes. In mezzo a tanti film sul disagio del neoproletariato europeo, un film di borghesi parigini che si scopano e si uccidono con quel savoir faire che incute sempre un certo rispetto, se non ammirazione. Però non credo, come Francesco Boille, che a Verhoeven interessasse mostrare la degenerazione di una determinata classe sociale. Verhoeven non ce l'ha con la borghesia francese: è che alla prova dei fatti solo la borghesia francese è in grado di esprimere film così. Romanzo, soggetto, ambientazioni, attrice: altrove sarebbe stato impensabile. Invece Boille non ha tutti i torti sul modo in cui l'assenza di moralità di Verhoeven ci consente, per contrasto, di verificare la nostra: come ai tempi di Starship Troopers, più che un film fascista un test sul fascismo: lo prende, lo colora, lo rende più pop e più gender equal, e poi te lo sbatte in faccia: ti piace? Perché anche se ti piace rimane fascismo lo stesso, facci caso.

A Verhoeven interessa la violenza (continua su +eventi!)

A Verhoeven interessa la violenza - sia quella esibita in video, sia quella che si può fare sullo spettatore, tenendolo in ansia per più di un'ora. Non solo ci viene continuamente suggerito che sta per capitare qualcosa di terribile: ma all'inizio abbiamo la sensazione che qualcosa altro di ugualmente terribile sia già accaduto. Di tutti i presunti figli di Hitchcock, forse è l'erede più credibile perché porta nel sangue analoghe ossessioni e non ha, come Hitchcock, nessuna ansia di giustificarle. Elle lascia in bocca lo stesso sapore amaro di Marnie, è passato mezzo secolo e in teoria ora ci sono tante cose di cui possiamo parlare: ma non importa. Verhoeven è lì per ricordarci che non è vero: ci saranno sempre desideri inconfessabili, ci sarà sempre qualcosa di cui non parleremo volentieri. Può essere amorale ma il suo personaggio non lo è: Michèle è una libertina, ha una chiara nozione di cosa sia bene e cosa sia male: salvo che quest'ultimo la solletica. Ci saranno sempre regole e proibizioni e chi avrà il potere lo userà sempre per aggirarle, altrimenti che potere è. Qualcuno l'ha chiamato un "rape revenge drama": c'è chi ha bisogno di una definizione, e pur di trovarne una fa finta di vedere un alto film.

Elle si presta a varie interpretazioni, ma si può godere anche come un thriller dove qualsiasi cosa può succedere in qualsiasi momento; può farci arrabbiare o sorridere, e almeno la nostra rabbia e il nostro riso avranno avuto un senso. Ma può anche lasciarci indifferenti: che è poi la posizione della protagonista, e di uno dei personaggi meno in vista, a cui tocca una delle ultime battute del film. Una persona che all'apparenza è l'esatto contrario di Michèle: che ha una moralità, una religione; e che allo stesso tempo non è l'avversaria, anzi forse aveva capito tutto dall'inizio. Elle è al Vittoria di Bra (17:00, 20:00), al Fiamma di Cuneo (15:00, 18:00, 21:00) e all'Aurora di Savigliano (18:30, 21:00).
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Non sono il tuo computer di colore

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Il diritto di contare (Hidden Figures, Theodore Melfi, 2016)

WE ARE THE COMPUTERS.
(COLOURED COMPUTERS).
Lo sapevate che nei primi tempi della Corsa allo Spazio, la NASA non aveva ancora un computer; non riusciva a installare l'IBM che aveva ordinato per una serie di disguidi tecnici, ad esempio era troppo grosso per passare dalla porta? E lo sapevate che nel frattempo i calcoli li facevano a mano, più spesso donne che uomini, non perché più portate ma perché (ovviamente) costavano meno? E che le "calcolatrici" bianche e quelle nere a Houston stavano in edifici separati? E che la calcolatrice più brava si chiamava Katherine Jones ed era stata ammessa al padiglione centrale, dove ricalcolava tutti i numeri necessari a mandare la capsula di John Glenn in orbita, ma quando le scappava la pipì, essendo nera, doveva farsi un chilometro a piedi per trovare il bagno segregato? Non lo sapevate?

Bene, perché in effetti non è successo.

Ma in fondo è successo qualcosa di simile ad altre, quindi tutto sommato va bene così.

Ti ci mando io in orbita, baby.
Povero Theodore Melfi, poveri produttori. Io me li immagino, un anno fa, mentre si dicono: che ci vuole a far man bassa di Oscar? Quest'anno sono tutti preoccupati perché non sono riusciti a candidare nemmeno un attore afroamericano. Bella gaffe. Quindi adesso noi troviamo una storia di afroamericani - no, non basta, devono essere ancora più minoranza, diciamo una storia di donne afroamericane. Di più. Donne afroamericane e matematiche - i matematici funzionano sempre nei film da Oscar, non c'è un motivo, è così e basta. Sono esistite importanti matematiche afroamericane? Sì. Hanno fatto qualcosa di importante? I calcoli della corsa allo spazio. Vabbe', ma è un film che si scrive da solo. Praticamente ti danno una nomination anche solo a pensarci. Chi lo può battere un film così, nel 2017? Chi?

Dove nessun uomo è andato prima, o almeno io
su quel piolo non ci ho ancora avuto il coraggio.
...Poi arriva un mezzo sconosciuto, un carpentiere, e con due soldi ti gira a Florida un film autobiografico di afroamericani gay spacciatori, santo dio, di tutti gli anni proprio nel 2016 doveva uscire Moonlight e vincere quell'Oscar? Posso dirla grossa? È un po' un furto. Non perché Hidden Figures sia un film migliore. Ma gli Oscar si danno a Hollywood, sono l'annuale celebrazione del cinema di Hollywood, e Hidden Figures è dieci, cento volte più hollywoodiano di quello strano frutto europeo trapiantato in Florida che è Moonlight - quel tipo di film che ti mostra il mondo nei suoi lati peggiori, ti fa sentire un po' in colpa e un po' sollevato per essere nato altrove, e poi si congeda senza nessuna parola di consolazione. Premiateli a Cannes, quei film lì. Là vanno matti per i marciapiedi sbeccati e l'odore di muffa degli appartamenti sfitti, c'è un trenino che parte ogni ora, la gente scende dagli yacht e va al palazzo del cinema a farsi la sua gita organizzata, un'ora e mezza di povertà - tre ore se lo spettacolo è doppio - dev'essere corroborante. I film americani sono diversi, perlomeno una volta lo erano. Non mostrano il mondo brutto com'è - in generale gli spettatori non hanno bisogno che qualcuno glielo ricordi - ma come dev'essere. Forse non c'è mai stato un direttore della Nasa a forma di Kevin Costner che prende a mazzate il cartello "bagno riservato alle donne di colore", ma avrebbe dovuto esserci. Deve esserci. Dobbiamo mostrarlo al cinema finché non prende forma nella realtà. Fare finta finché non diventa vero. Print the legend. Dici che è più propaganda che cinema? Va bene. C'è gente a cui interessa più cambiare il mondo che cambiare il cinema, tutto qui.

Io insegno in una scuola e ogni tanto mi capitano ragazze che quando vogliono fare una domanda, esordiscono dicendo: "Non ci capisco niente". E tutte le volte: ma perché dici così? (Continua su +eventi!)  Al massimo non avrai capito una cosa. E pensi che qua dentro qualcun altro abbia capito? Tu sei tra i pochi che almeno si stanno ponendo il problema, perché ti devi autodenigrare? Chi ti ha insegnato a comportarti così?
Hidden Figures è un po' bugiardo, parecchio paraculo e abbastanza convenzionale, ma sapete che c'è? È uno dei film più divertenti che ho visto quest'anno. È trascinante, è commovente, e non vedo l'ora di poterlo proiettare legalmente in una classe scolastica - voglio dire, ci sono le astronavi e c'è la lotta contro la segregazione e ci sono le donne che fanno calcoli meglio degli uomini: puoi chiedere di più da un film per le scuole? E non solo le matematiche sono donne (e nere): finalmente non sono rappresentate come personalità disturbate che devono vivere tra i numeri perché non riescono ad avere rapporti umani. Katherine e le altre ballano, bevono, vanno in chiesa (anche a conoscere uomini), si innamorano, hanno figli, e se hanno paura di non ricordare le date dei compleanni non è a causa di qualche oscuro disagio dello spettro autistico, ma perché lavorano come matte. E non sono nemmeno irrealisticamente strafighe come la Knightley in Imitation Game - ok, c'è Janelle Monàe che tira un po' su la media, come del resto in Moonlight: lei poi è una spalla perfetta per gli intermezzi di commedia, ma sono Taraji Henson e Octavia Spencer, due corpi così irresistibilmente qualunque a trasformare quello che poteva essere semplicemente una rivincita delle nerd nere in qualcosa di più: un inno al lavoratore testardo, anzi alla lavoratrice: che non molla un centimetro, si aggiorna, non si fa mangiare in testa dal superiore, e soprattutto non lascia indietro le sue colleghe. La marcia delle Calcolatrici nei corridoi è senz'altro una citazione di The Right Stuff di Kaufman, ma finisce per sembrare Ken Loach. Hidden Figures non è certo un capolavoro, ma forse non ne avevo bisogno. Avevo bisogno di un film in cui le signore non si vergognano ad alzare la mano, non vedono l'ora di prendere quel gessetto e di farla vedere a tutti. Questa settimana ancora all'Impero di Bra (22:30), al Cinelandia di Borgo San Dalmazzo (20:00, 22:40) e al Cinecittà di Savigliano (21:30).
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Wolverine sanguina! (finalmente)

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Logan (James Mangold, 2017)

Frank Miller, 1983.
Logan è il migliore in quello che fa. Ma quello che fa non si può mostrare in un cinecomic per bambini. È il solito problema. Spiderman può appiccicare i cattivi alle pareti con una colla speciale che non lascia alla polizia nemmeno la fatica di ripulire; Iron Man può stordirli con qualche tipo di raggio che non lascia segni; Superman o Batman trovano sempre il modo di stendere a cazzotti dei nemici che non riportano mai commozioni cerebrali gravi. Persino il Terribile Hulk al massimo i suoi nemici li scaglia a km di distanza, a suo modo è pulito: niente sangue. Ma Logan è... Wolverine, e Wolverine ha questi artigli affilati d'adamantio con i quali non è che possa dare un buffetto agli avversari.

È sempre stato così, anche sui fumetti: gli altri eroi in costume possono anche fingere di non essere assassini, Logan questa ipocrisia non se la può permettere. Quante volte ha accostato un pugno al torace o al volto del suo nemico, quante volte abbiamo letto "SNIKT" nella vignetta successiva, senza che il disegnatore si mettesse nei guai mostrandoci i dettagli della macelleria? Ma se Wolverine è sempre stato così difficile da gestire, a chi è venuto in mente di farne un eroe in carta e pellicola? Ai lettori.

Logan non era nato per fare l'eroe. All'inizio era una comparsa in una storia di Hulk, uno di quegli antieroi esotici dai nomi buffi e dai poteri bizzarri che devono prenderle dal titolare della serie. A metà degli anni Settanta si trova inquadrato quasi suo malgrado in una banda di personaggi di secondo livello riciclati nel tentativo abbastanza disperato di salvare una testata. La testata è X-Men e nel decennio successivo diventerà anche grazie a Wolverine la più fortunata dell'universo Marvel, eppure già nei primi numeri Logan rischia il licenziamento: viene salvato da uno dei disegnatori, Byrne, per una questione di mero campanilismo (è l'unico eroe canadese). Ma all'inizio davvero non si sa come gestirlo: c'è anche qualche tentativo di utilizzarlo come una spalla comica, il tappo incazzoso che si arrabbia per primo e le prende più di tutti. Paperino. Poi piano piano il personaggio rivela delle potenzialità.

I lettori scoprono che è più vecchio degli altri; che sotto la maschera ha due basette d'altri tempi; che gli artigli non sono un gadget, ma parte del suo scheletro, per quanto questo sia anatomicamente impossibile; che le sue origini sono molto più intricate di quelle di qualsiasi altro eroe, e forse per sempre occultate da multipli lavaggi del cervello; che tutte le persone a cui vuol bene finiscono male; che guarisce da qualsiasi ferita con una velocità che varia a seconda delle esigenze di sceneggiatura, da pochi minuti a qualche giorno: quanto basta per renderlo protagonista di una serie di storie in cui prima viene massacrato da qualche nemico prepotente, poi risorge cristologicamente per vendicarsi con operazioni di chirurgia sommaria senza anestesia. Erano ancora i primi anni Ottanta e i lettori della Marvel non avevano mai letto o visto cose del genere. Wolverine, a una certa distanza è più facile capirlo, è il primo eroe americano post-Vietnam: è un reduce, è un mostro, si vergogna ma è pur sempre il migliore in quello che fa. Più vicino a Rambo che a Capitan America, Wolverine era l'eroe perfetto per far annusare un po' di sangue ai lettori preadolescenti che non potevano più riconoscersi in un Superman perfettino o uno Spiderman Bello di Nonna. Dopo di lui i fumetti si sarebbero riempiti di cloni, cyborg e ninja, tutti un po' troppo sbilanciati rispetto all'originale: con Wolverine la Marvel aveva azzeccato per puro caso il mix migliore tra umanità e ferinità.

Questo tipo di cose.
Wolverine è anche uno dei primi eroi Marvel ad arrivare al cinema, nel film che anticipa la moda dei cinecomics, il primo X-Men. Era il 2000 e nel ruolo di Logan c'era già Hugh Jackman. Nei successivi 17 anni ha interpretato lo stesso personaggio in otto o nove film, credo che sia un record. Per me - se solo me l'avessero chiesto - era fuori parte sin dall'inizio: Logan è un animale che lotta per diventare umano e restare tale, Jackman è un attore di Broadway, canta e balla e in smoking sta una favola (non ho nemmeno idea di quante volte l'ho scritta, questa cosa). Bisogna però ammettere che ce l'ha sempre messa tutta. Scegliere un damerino per interpretare una macchina da uccidere la diceva lunga, già nel 2000, sull'approccio che la Fox aveva deciso di dare al personaggio e in generale a tutti gli X-Men: proprio mentre i fumetti si diversificavano e cercavano di crescere coi loro lettori, i cinecomics mantenevano la barra sul grande pubblico e cercavano di non allontanare i minori di 13 anni, il che almeno negli USA significa niente nudità e (quasi) niente sangue. E gli artigli? Eh. Col contagocce, o con nemici deumanizzati (ad esempio un cyberg-samurai gigante). Non aveva neanche molto senso lamentarsi, i supereroi al cinema si facevano così. Mentre il Wolverine cartaceo diventava uno zombie, un vampiro, un vendicatore, un preside, moriva, veniva sostituito da un clone con le tette (e gli artigli anche nei piedi), risuscitava ma più vecchio, quello sullo schermo sembrava condannato a roteare gli artigli in rassicuranti numeri di danza, finché...

Si chiama Dafne Keen: non è un amore?
Finché l'anno scorso un tizio improbabile in costumino rosso e fattore rigenerante, Deadpool - un supereroe di seconda fascia che senza Wolverine non sarebbe esistito nemmeno nella fantasia di un aspirante sceneggiatore di otto anni - non ha sbancato i botteghini con il primo vero cinecomic vietato ai minori di 14: un bel paradosso, per un film che non aveva molto da dire ai maggiori di 16. Ma insomma, in un panorama ormai inflazionato si è scoperto che i film di supereroi con sangue e nudità non solo si possono fare, ma funzionano meglio degli altri. E quindi? Avanti con le nudità, direte voi. Seh, magari.

Il passo successivo della Fox è stato convincere Jackman a rimettersi per un'ultima volta quei maledetti artigli, ma stavolta per usarli davvero (Continua su +eventi!)

Logan è il primo film in cui Wolverine può mostrare quello in cui è il migliore: mutilare, decapitare, infilarti tre artigli nelle parti più molli del cranio e strappartelo via in scioltezza. Il fatto che sia stato annunciato come l'ultimo cinecomic di Jackman non dovrebbe lasciare molti dubbi su come andrà a finire: al suo fianco una bambina che sembra già pronta a prendere il testimone, e un memorabile Patrick Stewart: anche per lui non è solo il film d'addio a un personaggio impersonato per due decenni (il professor X), ma anche l'occasione per farci piangere più di rimpianto che di nostalgia: che grande attore, che eroe fantastico avrebbe potuto essere, se dal 2000 in poi la Fox ci avesse creduto un po' di più, se avesse messo in scena storie appena un po' più potenti. James Mangold dirige una cupa storia di riscatto e macelleria con lo stesso presagio di fine incombente: quando gli ricapita di avere un Wolverine con gli artigli in fuori? La sua idea migliore è aver stravolto completamente la storia a fumetti a cui il film in teoria si doveva ispirare. Qua è là c'è finalmente qualche idea originale che non rende Logan un capolavoro, ma probabilmente il cinecomic più interessante che vedremo quest'anno, e forse l'unico caso in cui la pellicola funziona meglio del fumetto. Se negli altri film la violenza veniva censurata, qui è talmente esibita che dopo un po' viene a noia - il che è perfettamente in linea col personaggio, un vecchio felino che non ne può più di ammazzare ma non riesce a starne fuori: e comunque è sempre il migliore. Logan è al Cityplex di Alba (19:00, 22:00, 21:00); al Cinelandia di Borgo San Dalmazzo (20:00, 22:45); all'Impero di Bra (20:00, 22:30);  ai Portici di Fossano (18:30, 21:15) all'Italia di Saluzzo (21:30); al Cinecittà di Savigliano (21:30)

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Il mondo finisce un'altra volta

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È solo la fine del mondo (Xavier Dolan, 2016)


Ogni volta che muori, il mondo finisce con te: quindi di che cosa ti preoccupi? Di chi ti lasci indietro? Li hai ignorati per tutta la vita, la morte cosa cambia? Vorresti lasciare un buon ricordo? Comprensibile, ma forse è un po' tardi. Vuoi chiedere scusa? Si vede che non sei ancora così morto, ai morti queste cose non interessano. Non si sentono in colpa, non si sentono in dovere, non si preoccupano di noi.

"Tutto bene?"
"Sì che vuoi?"
"Niente. Sei occupato?"
"Devo scrivere la recensione".
"Ottimo. Ti è piaciuto il film?"
"Devo pensarci".
"Allora non ti è piaciuto".
"Ma a te poi che ti frega?"
"Quando ti piacciono te ne accorgi subito".
"Non hai veramente niente di meglio..."
"Quando tergiversi, quando vai a vedere le recensioni, le percentuali di giudizi positivi, i premi... hai paura di fare una brutta figura".
"Io? Si vede che non mi conosci".
"È più giovane di te, vero? Il regista".
"Questo cosa c'entra".
"Mi preoccupo, sai, perché..."
"Ma perché ti devi preoccupare, non ha proprio senso".
"...succederà sempre più spesso, man mano che avrai avanti. Musicisti più giovani, registi più giovani, persino un presidente del consiglio, se non sbaglio".
"Era l'ultimo dei suoi problemi".
"Devi cominciare ad accettarla, questa cosa".
"Che sto invecchiando? La accetto".
"Bravo".
"Non che ci fossero alternative".
"Una c'era. Quanti anni ha il regista?"
"Non lo so... va per i trenta".
"Uh, un ragazzo!"
"Non è questo il problema".
"Sicuro?"
"C'è un tipo di cinema che proprio non mi prende. Colpa mia. Io nasco lettore, è la mia formazione. Se mi prendi un testo teatrale e sostituisci i monologhi con gli sguardi intensi e i primi piani, io non ci casco".
"Quindi è un limite tuo".
"Non dovrei scrivere di cinema. Non di questo tipo di cinema, almeno. Per me il primo piano più intenso non sarà mai significativo come un discorso. Se hai da dire delle cose, dille. Se guardi fisso in camera non mi stai dicendo cose. Non importa quanto sia espressivo il tuo broncetto e ben impaginata l'inquadratura, tu non mi stai dicendo cose".
A lei comunque voglio bene.
"Il cinema è fatto di immagini".
"In movimento, però".
"Perché non sei andato a vedere Lego Batman?"
"Non mancherà l'occasione".
"Insomma non ti è piaciuto".
"Non è il mio tipo di film".
"L'età non c'entra niente?"
"Cosa dovrebbe c'entrare?"
"Dolan non ha trent'anni, che vuoi che ne sappia?"
"È un regista bravissimo e bisogna dargli atto che un'ora e mezza filano dritte come un treno, sembra sempre che stia per succedere qualcosa di orribile che poi..."
"Non come regista. Come persona. Che vuoi che ne sappia di cosa vuol dire morire?"
"Immagino che ci abbia ragionato, come tutti".
"A vent'anni? Lo sai anche tu come sono i ventenni?"
"No non lo so".
"Romantici".
"Sai che non sono d'accordo. Davanti alla morte abbiamo tutti la stessa età".
"E quindi cos'è che ti affligge?"
"Non lo so, è una sensazione, è... hai presente Natural Blues di Moby?"
"Why does my heart feel so bad?"
"Quella?"
"Ti piace?"
"La odio".
"Ecco, mi pareva" (continua su +eventi!)
"È uno di quegli esempi lampanti di Kitsch in musica... Un banale pastone dance impreziosito da un campionamento blues falso come l'ottone. E non ci sarebbe niente di male".
"Non hai niente contro la dance, adesso?"
"È un prodotto come un altro, ma questa idea che Moby la voglia fare di nicchia, la techno d'autore. Sono Moby, sono un genio, ho messo il blues nella house, so che non vedevi l'ora di sentirti profondo mentre ballavi in un club fighetto a fine anni 90".
"Coraggio, dillo".
"Cosa devo dire?"
"Che tu già a fine anni '90 eri... coraggio!"
"Troppo vecchio?"
"...per queste stronzate".
"Ma non è un problema di età. È proprio un pezzo brutto".
"Tutte le generazioni hanno i loro pezzi brutti. Poi la nostalgia, sai com'è".

(Ma alla fine voglio bene anche a loro).

"Non è un problema di nostalgia. La nostalgia la capisco. Sono cresciuto con questa canzone scema, so che è scema ma mi ricorda il primo amore, scusate, ok, ci siamo passati tutti, espediente non nuovo ma tollerabile. È il motivo per cui a un certo punto mette i Punk Bimbominchia, come si chiamano, i Blink-numero-a-caso".
"182".
"Ma Moby lo mette in fondo, Moby se lo tiene proprio come strappamutande finale, te lo immagini proprio questo ventenne che pensa adesso vedete che vi commuovo, adesso accendo le luci in sala e vi metto il pezzo che vi strizza il cuore come una spugna, dopodiché ecco cominciare un brano che per me ha lo stesso spessore emotivo della Lambada".
"È vero che a te piaceva la Lambada".
"C'è molta, molta più poesia nelle silhouette dei ballerini sul molo, contro il tramonto".
"Quindi lo stroncherai perché ha scelto la canzone sbagliata".
"Ma non è uno sbaglio, è proprio che... che il film è precisamente così, crede di essere una bomba emotiva e invece è solo il tranello di un dj disperato che pompa i bassi per far battere il cuore alla gente. E impreziosisce il tutto incastrandoci un testo teatrale raccattato dallo scaffale, ovviamente una cosa triste triste che gira a vuoto, perché mi sento così? Perché? Stai per morire, va bene, si è capito nei primi cinque minuti. Se non sai che altro dire... se non sai dire nemmeno quello..."
"Mi preoccupi, sai".
"Non è vero".
"Non vorrei che ti trasformassi in uno di quegli attempati brontoloni che..."
"Tu non sei in grado di preoccuparti, basta con questa stronzata".
"Non voglio dire che mi deludi, ma credo che potresti fare di meglio, l'ho sempre creduto".
"Piantala - poi questa cosa di urlarsi in faccia le peggio cose, tra famigliari, non so quanto Dolan si renda conto che è proprio un luogo comune del cinema continentale, cioè gira che ti rigira è riuscito a girare un film dove gli attori francesi passano il tempo a mandarsi affanculo o a dirsi "t'es malade", non esattamente il primo che vedo, ecco".
"E non ti fanno più effetto".
"I francesi che si urlano in faccia? Son quasi peggio degli italiani. C'è pure la scena in macchina, così possono litigare senza troppi controcampi. E allora è un genio anche Muccino, rivalutiamo Muccino".
"A te proprio non la si fa".
"Senti, l'ho già detto, è bravo. Però un'ora e mezza di riunione di famiglia di francesi che si urlano cose in faccia non... non..."
"Non è la fine del mondo".
"Non per me".
"Dovevi andare a vedere Lego Movie".
"Ti sto deludendo?"
"Non ti devi preoccupare di questo".
"Sei tu che non ti devi preoccupare".
"Facciamo che non si preoccupa nessuno".
"Tutto qui?"
"Puoi mettere un pezzo se vuoi".
"Chorando se foi quem um dia so me fez chorar..."
"Sei un idiota lo sai".

È solo la fine del mondo è al cinema Lux di Busca, giovedì 9 e venerdì 10 marzo alle 21. Spoiler: il mondo non finisce.
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Jackie è nella Casa

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Jackie (Pablo Larraín, 2016)



Signora Kennedy lei non ha / bisogno di scusarsi per il fatto che si trovava fuori sul bagagliaio / negli attimi successivi al momento in cui suo marito era stato colpito. / tutti hanno potuto vedere quel che era successo / in queste fotografie con i propri occhi ... / perché è stata distorta la verità di esseri umani? / a che serve questa immagine eroica? / nessuno è un eroe... / perché sono deliberatamente ingannato con confuse menzogne / a proposito di ciò che vedo con occhi sani / chi sono io per essere insultato così? 

Prima di ricomporsi in pubblico e adottare quella maschera cool che ci si aspettava da lui, Bob Dylan ebbe il tempo per lasciarsi sconvolgere dall'assassinio di Kennedy come qualsiasi altro americano. Scrisse quattro 'poesie' a caldo - in quel periodo definiva 'poesia' tutto quello che gli usciva di getto senza preoccupazioni metriche -  la prima delle quali era dedicata alla vedova Jacqueline. Più che una poesia è una lettera, senza le affettazioni tipiche del Dylan-alla-macchina-da-scrivere-che-si-crede-un-poeta. È un messaggio di scuse, quello che oggi potrebbe scrivere un personaggio pubblico sulla bacheca di facebook di un altro personaggio pubblico. È anche una riflessione su come i media e le fotografie mettono le persone in cornice o sulla gogna. Nei giorni immediatamente successivi all'assassinio politico più famoso del XX secolo, qualcuno era riuscito a biasimare Jackie Kennedy perché invece di difendere in un qualche modo il marito si era alzata, sporgendosi sul bagagliaio. Ufficialmente lo aveva fatto per aiutare una guardia del corpo a salire sulla berlina. Nell'intervista a Theodore White, giornalista di Life, emerge un altro probabile motivo: un pezzo di testa del presidente Kennedy era schizzato sul bagagliaio; Jackie si era alzato per raccoglierlo. Lo aveva rimesso al suo posto. Era evidentemente in stato di choc. Ma era anche Jacqueline Kennedy: avrebbe tollerato che le cose non fossero al loro posto?

Jacqueline Lee Bouvier Kennedy Onassis, detta Jackie, a distanza di mezzo secolo, è ancora un personaggio delicato, che impone cautela a chi lo maneggia. Forse addirittura sta diventando più delicata col tempo - ho in mente quella vecchia serie NBC degli anni Ottanta, in cui tutto sommato passava per una signora di buona famiglia ossessionata dagli interni della Casa Bianca - nozione che il regista Larraín o lo sceneggiatore Noah Oppenheim non tentano nemmeno di smentire: si tratta piuttosto di scavarci intorno, di problematizzare la cosa, di spiegare che dietro la cura per soprammobili e passamanerie c'era una riflessione sulla regalità della figura del Presidente, che emergeva ormai dalle brume della prima guerra fredda come l'uomo più potente del mondo. A quel punto era necessario lavorare sui simboli e sulle scenografie: un re deve vivere in una reggia, e sfoggiare una regina consorte. Sennò poi succede come ieri, che ti ritrovi su tutti i giornali una tizia coi piedi sul divano in Sala Ovale, e la cosa potrebbe avere ripercussioni in politica estera.


Un certo tipo di mitologia casabiancana nasce proprio con Jackie, che fu molto criticata in vita per questo (anche dal marito). Oppenheim osa finalmente dichiarare l'evidenza: Jacqueline Kennedy era, nella coppia, la più all'altezza del ruolo. Il marito era un mezzo disastro, un miliardario pasticcione che in tre anni si fece coinvolgere nel flop della Baia dei Porci, nell'escalation del Vietnam, e con la crisi dei missili portò il mondo a un passo dal conflitto atomico. La stampa conservatrice lo trattava più o meno come i liberal ora trattano il nuovo inquilino miliardario. Nel frattempo la moglie trasformava la Casa Bianca in Camelot, che è poi la vera grande eredità del 35mo presidente degli Stati Uniti. Era tempo che Hollywood riconoscesse a Jackie quello che era di Jackie. Senonché ci si è messo in mezzo Pablo Larraín. Una scelta abbastanza bizzarra, ma curiosamente in linea coi tempi, che sono piuttosto confusi.


Ci pensavo l'altro ieri, a Oscar consegnati. Secondo me Hollywood è nel pallone (continua su +eventi!) - non per il caos alla premiazione, quello è un incidente dal quale con un po' di sforzo si può cavare un simbolo, se fossi un mitografo come il giornalista Theodor White - o la stessa Jackie - o Dylan - magari mi ci proverei. Non è neanche Trump il problema (magari lo sarà nei prossimi anni - o magari sarà una soluzione, finalmente c'è un villain all'altezza del ruolo). Secondo me Hollywood non sa più che film premiare. Se la sono tutti presa con La La Land, un film che oscilla continuamente tra il dilettantesco e l'ipercitazionista. Dicevano: 14 nomination sono troppe. Può darsi, ma a chi darle, sennò? Che altri bei film avete visto nel 2016? Siamo onesti: avrebbe dovuto vincere tutto Zootopia. La rosa dei candidati era qualcosa di deprimente. Moonlight è un film che fino a qualche anno fa molti giurati non avrebbero nemmeno visto per intero, un film all'europea, intimista, diciamo pure ombelicale. Ormai il grosso dei budget è concentrato sulle saghe, e le saghe si stanno divorando tra loro: buttano fuori la stessa zuppa sempre più abbondante, sempre più pasticciata, tanto la gente manda giù di tutto.

Non è che non ci siano idee, non è che manchino gli sforzi produttivi coraggiosi. Ma ormai si concentrano sulla tv. Jackie a un certo punto doveva essere una miniserie HBO, e questo spiega in parte lo strano respiro del film - è come se Larraín abbia potuto pescare da una rosa di scene madri, a un certo punto c'è una interminabile mega-sequenza che è un mix di tre finali di tre possibili episodi: Jackie sta parlando al giornalista ma sta anche parlando a un prete, ma sta anche seppellendo Jack, ma sta anche tenendogli in mano il cranio, stretto come un vaso perché ne coli meno sangue possibile. Nel frattempo io mi sto addormentando, ma anche domandando se non è il miglior film che ho visto del 2016; o se non è per caso il peggiore; se Larraín voglia bene a Jackie o se non abbia deciso di prendere in giro gli yanquis in un modo talmente sublime che rischiava di vincerci un Oscar (è abbastanza incredibile che Natalie Portman non l'abbia vinto).




Il film all'inizio doveva farlo Aronofsky con Rachel Weisz, poi si sono lasciati e Aronofsky ha avuto questa pazza idea di proporlo a un regista cileno che a Hollywood non aveva mai lavorato. In un certo senso aveva visto giusto: Jackie era un personaggio perfetto per Larraín. È una pubblicitaria, una mitografa, una persona che vive nel suo stesso racconto. Ma di solito Larraín questi personaggi li racconta da fuori, con un'esibita freddezza, che a Hollywood non si può che stemperare. La Jackie di Larraín è una comunicatrice navigata, ma è anche una donna sconvolta che si aggira per i corridoi della 'sua' casa bianca come Jack Nicholson in quell'albergo. Dice cose molto sottili ma anche cose pazzesche. A un certo punto si lamenta con Bob che l'assassino sia solo un comunista da due soldi: se almeno l'avessero ammazzato per i diritti civili, avrebbe avuto più senso, no? È sotto choc, ma è anche un po' mitomane. Perché il suo autista si ricorda di Lincoln e non degli altri presidenti assassinati? Perché ha abolito la schiavitù? No: perché ci fu un funerale in pompa magna. E quindi ci vogliono più cavalli! Più cannoni! Poi cambia idea. Poi la cambia di nuovo. In una miniserie forse Larraín avrebbe trovato il ritmo. Qui è tutto contratto, mescolato secondo libere associazioni, al punto che sembra un sogno e forse a un certo punto stavo sognando sul serio.

Io la rispetto Signora Kennedy / ma non ho bisogno di fotografie per fornire rispetto... / il mio rispetto nasce da motivi che sono nel mio animo / che non posso toccare / né spiegare... 
Non mi sento meglio sapendo che lei è umana / Lo sapevo da sempre 
Bob Dylan 

Jackie è all'Impero di Bra alle 20:20 e alle 22:30; al Fiamma di Cuneo alle 21:10.
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Quattro funerali e due divorzi a Manchester (sul mare)

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Manchester By The Sea (Kenneth Lonergan, 2016).

Hai presente certi ceffi che vedi al bancone, nel tardo pomeriggio o se ripassi all'ora di chiusura, sempre una pinta davanti mezza vuota, hai presente quel tipo di espressione...
"Non fissarlo".
...ma è più una smorfia, di uno che la vita l'ha preso a legnate ma per qualche motivo si è dimenticato di darle il colpo finale, e forse la birra serve a questo, o a lenire il dolore, o a dormire senza sogni, chi può dirlo.
"È meglio se non lo fissi, dammi retta".
È che mi ricorda qualcuno.
"Casey Affleck in quel film?"
Oddio cosa mi hai fatto pensare.
"Con venti chili in meno, magari".
Che è il principale problema di quel film.
"Un problema? Che Casey Affleck è in forma?"
Sono contento per lui e il suo affezionato pubblico, ma interpreta un tizio che, hai presente la trama? Beve una birra all'ora almeno da dieci anni. E ancora ha una linea fantastica...
"Sarà la neve che spala dal suo abbaino".
...ed è il sogno erotico delle inquiline dei palazzi in cui lavora da tuttofare. Allora sì, dico che c'è un problema con i corpi che Hollywood presta al cinema d'autore. Non sono realistici, non mi parlano del mondo in cui abito, non ho niente contro Casey Affleck, gli auguro tutti i premi, ma sembra calato nel Massachusetts da un film di gangster, o di supereroi, è di nuovo lo stesso problema di Captain Fantastic: sono tutti troppo belli perché io me la beva. E bersela è un po' il senso di andare al cinema, no?
"La sospensione dell'incredulità".
Esatto.
"Adesso comincia a fissarti lui, vedi?"
Chissà che gli è successo, poveraccio.
"Non sono fatti nostri".
Perché invece quello che succede a Casey Affleck?
"Eh? Stai scherzando?"
No. Spiegami per quale motivo al mondo dovrei interessarmi all'elaborazione del lutto di Casey Affleck. Un lutto finto, tra l'altro. Come se non avessi già i lutti miei che mi danno da fare.
"Hai bevuto".
Questo in realtà è un altro film, ma è la foto più recente
che ho trovato di Casey Affleck al bancone. 
Un po' sì, ma in malto veritas. Spiegami sul serio: perché devo stare male? Perché mi ha fatto star male, quello stronzo di Lonergan. Mi ha fatto stare in pena per gente che non è mai esistita. Come se non avessi già la mia gente, viva o morta, che reclama attenzione e lacrime, no, devo pure provare pena per questi figurini che patiscono come la gente normale e bevono più della gente normale ma non ingrassano mai.
"Senti. È un film che è piaciuto a tutti. A tutti, capisci?"
E beh certo, chi vuoi che si metta contro dei bambini morti (continua su +eventi!)


"Può sembrarti ricattatorio, ma è un fatto che film di questo tipo funzionino. Forse assolvono a una funzione catartica".
E allora dichiaro che con me non succede.
"Ma sarà un problema tuo, non di Lonergan".
Sono uscito con sette euro in meno e un magone in più. Non dico che mi ci sbronzavo con sette euro, ma poteva essere un buon inizio, no? Ma sul serio ma la gente normale non ce li ha i suoi morti da piangere, che ne deve prendere in prestito di finti al cinema? Non ci ha nessun amico o parente che ti tormenta nei ricordi? Ah ma io vi invidio a voialtri che nel tempo libero giocate all'elaborazione del lutto come se fosse un passatempo.
"Parla piano, adesso ci guardano tutti".
Che io posso capire Nanni Moretti. Perché alla fine ormai è uno che conosco. O almeno ci ha dato questa sensazione. Per cui se Nanni Moretti perdesse un figlio, o una moglie, o una mamma, o il cane, non è escluso che tra dieci anni ci faccia un film su quella volta che ha smarrito il cane, io però comunque ci vado perché, cosa vuoi che ti dica, anche quando non è in forma ormai è un conoscente, Nanni Moretti, e se sta male mi sento in dovere di starci un po' anch'io, funziona così. Non dico che abbia un senso, eh? Però funziona.
"Ma perché tiri fuori Nanni Moretti in birreria, dai..."

E poi il ragazzo è uno stronzetto insopportabile, lo vogliamo dire?
Ma questo Lonergan chi è, che cazzo vuole da me, un Oscar? Li danno ogni tot ettolitri di lacrime inutili spremute a sconosciuti? Cioè non è un problema il ricatto. C'è un sacco di registi là fuori che ti ricatta. Prendi Moonlight: vuoi dirmi che è difficile crescere afroamericani e gay? Ok, lo ammetto, non ci avevo mai pensato tanto, adesso che me lo mostri devo riconoscere che crescere gay in un ghetto è veramente dura. Hai il mio rispetto, mi hai fatto stare un po' male ma mi hai anche insegnato qualcosa. Ma Lonergan porcaputtana, che mi dovevi dire? Ricordatevi sempre di spegnere il camino? Ci ho i termosifoni in casa Lonergan, vaffanculo!
"Va bene, adesso usciamo".
No aspetta voglio dire qualcosa a quel tizio che continua a fissarci.
"Ma sei tu che hai cominciato".
Infatti e adesso vado là e gli rompo il naso. Sembra che me lo stia chiedendo.
"Ma perché vuoi fare una cosa del genere, fammi il piacere".
Perché non posso romperlo a Lonergan, né ad Affleck, il quale peraltro me le darebbe indietro. Invece 'sto tizio è proprio appesantito il giusto, ehi scusa, tizio ci conosciamo?
"Manchester By The Sea è il film drammatico di Kenneth Lonergan in programmazione al Cinelandia di Borgo San Dalmazzo alle 21. È candidato a sei Oscar, è molto triste ed è piaciuto a praticamente tutti"
No? E allora perché mi fissi, eh? Si può sapere?
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L'ultimo romantico (spaccia crack ad Atlanta)

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Moonlight (Barry Jenkins, 2016).

Da Miami ad Atlanta (Georgia) sono mille chilometri; da Atlanta a Miami sono nove ore di autostrada, e non c'è nessuno al mondo per cui le faresti stasera, o no? Forse per quel ragazzo che al liceo ti ha messo al tappeto, non lo vedi da allora. Probabilmente è ormai un'altra persona, come te. Ti sei impegnato, hai mollato la scuola e hai trovato qualcuno che credesse in te (l'hai trovato in galera, ma sputaci sopra). Hai messo i muscoli dove avevi i lividi, ora non scappi più dai bulletti di quartiere; hai una bella macchina e un paradenti a 24 karati, la gente ti saluta non ti mette fretta. Li hai messi tutti in fila, non devi più niente a nessuno.

Ma se ti chiamasse quel ragazzo tu non ripartiresti in dieci minuti? Il cuore in gola come una scolaretta?

Se solo fosse uscito qualche giorno prima, Moonlight sarebbe stato il film più romantico nelle sale italiane per San Valentino. Altro che le 50 sfumature, col loro sadomasochismo omeopatico per coppie etero che non sanno più che sesso fare. Persino il Panavision di La La Land sbiadisce di fronte a un film di soli maschi afroamericani (le donne in scena fanno solo le madri, con risultati molto discutibili): qui c'è gente che si tocca una volta ogni dieci anni e poi vive nel ricordo. L'omosessualità è l'ultima frontiera del romanticismo, lo si era capito con Adele: certe situazioni, certi sentimenti sullo schermo grande e piccolo ormai li tolleriamo soltanto se riferiti a una minoranza da tutelare. Le uniche storie d'amore che riusciamo a guardare sono quelle insolite, per esempio qui ci sono due bambini / ragazzi / uomini che ogni dieci anni devono trovare una scusa per toccarsi. All'inizio si può giocare alla lotta, è cosa nota; ma poi diventa sempre più difficile, e purtroppo il film è quasi tutto lì: Chiron guarda Kevin, Kevin guarda Chiron, parlano del più e del meno col lessico molto impacciato di chi ha finito gli studi in galera (se inghiotti un popcorn ogni volta che nella versione originale dicono "man" ti ammazzi), cercano scuse per non salutarsi e andare via, e tu sei lì davanti, un po' il terzo incomodo - che è quello che succede in tutti i film d'amore, no? Ma qui non finisce mai. Parlano, si guardano, si guardano, parlano - in Adele succedevano anche altre cose, per dire.

Il regista Barry Jenkins e il drammaturgo Tarell McCraney hanno avuto fortuna, o colto l'attimo: l'anno scorso, in pieno movimento Black lives matter, i giurati dell'Academy non sono riusciti a candidare un solo attore afroamericano. Ne è ovviamente seguita una polemica. Poi è arrivato Trump, l'America razzista - o come si dice adesso, alt-right - ha perso il voto popolare ma ha messo il suo ometto nella Casa Bianca. Aggiungi che per Hollywood non è stato un anno esaltante, e il risultato è che Moonlight, un film d'autore che in altre stagioni non sarebbe uscito dal circuito dei festival, ha fatto man bassa di nomination, e qualche statuetta facilmente la porterà a casa: anche perché i rivali principali sono La La Land, già accusato di speculare sulla musica nera e sbiancarla, e Mel Gibson coi suoi trascorsi indifendibili, ubriachezza molesta e antisemitismo. E va bene così, abbiamo visto film anche meno meritevoli, e se è stato un colpo di fortuna è bello pensare che ogni tanto baci pure gente come Barry Jenkins, che aveva fatto un solo film nove anni fa (apprezzato dai critici) e poi si era messo a fare il carpentiere (continua su +eventi!)


C'è anche Janelle Monàe,
di mestiere è una cantante matta,
ma qui fa una particina quasi normale.
Come il Gus Van Sant del periodo di Elephant Paranoid Park,  Jenkins sembra convinto che il cinema debba sostanzialmente puntare un faretto su dei ragazzi, senza complicazioni sociologiche e psicologiche che ci turberebbero la contemplazione di questi teneri esserini che non sanno mai cosa dire e fanno i broncetti. Sin da quando attira l'attenzione della macchina da presa fuggendo dai suoi compagni nella prima scena, Chiron non sembra vittima di una società o di un pregiudizio, ma del destino: è nato "faggot", non gli resta che scappare o nascondersi o rispondere alla violenza - unica possibilità di sopravvivere. I suoi stessi avversari non hanno motivazioni né storia, sembrano lì dall'eternità per torturare il prossimo: non è il bullismo, è la natura.
Non è che Moonlight non abbia i suoi pregi (una fotografia d'altri tempi, che tratta con rispetto anche lo sfacelo suburbano), ma è curioso che abbia messo d'accordo praticamente tutti. È un film minimale ed è forse una certa sobria economia di mezzi e di campi che ci fa temporaneamente dimenticare che la storia è quella che hai sentito in un migliaio di rap diversi: man, il mio quartiere era il più duro, mia madre si sballava, sono dovuto diventare grande in fretta (man) e adesso guarda che bei pantaloni che ho, invidioso? Non nego che tutta questa roba sia degna d'interesse antropologico, ma è davvero la stessa lagna da vent'anni, man. L'unica cosa un po' insolita, appunto, è l'omoerotismo, ma somministrato con puritana parsimonia - è un film che tratta il pene come una questione irrisolta e abbastanza astratta, irriferibile e invisibile: lo si può tranquillamente programmare in prima serata. Adele non era così - è anche una questione di gusti, mi rendo conto, ma nel 2016 se vuoi fare un film tutto su due persone che vogliono toccarsi, perché non le inquadri mentre si toccano davvero? Di cosa hai paura? Di non vincere un Oscar e tornare a fare il carpentiere? No, man, ti capisco, e poi in fondo non è la mia roba, boh, guarda, rispetto. Moonlight è al cinema Vittoria di Bra (20:00, 22:30) e al Fiamma di Cuneo (20:00).
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L'audace colpo dei soliti ricercatori

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Smetto quando voglio 2 - Masterclass (Sidney Sibilia, 2017)

Sono tornati, hanno ancora fame. Dopo essersi spinti ben oltre i limiti della legalità, dopo averne pagato le conseguenze con gli interessi, i Ricercatori hanno finalmente trovato un Ente statale che apprezza le loro straordinarie competenze. E ha un lavoro da offrire, capite? Un lavoro.
A progetto, naturalmente.
Senza assicurazione, beh, ovvio.
In nero, già. Di chi si tratta?
Della Polizia di Stato. Cosa hanno da perdere? Tutto.
Possono almeno smettere quando vogliono?
No.

Sono passati appena due anni - sembra un'era - da quando Sidney Sibilia, al suo esordio dietro la macchina, scoprì la formula che trasformava in action comedy una frustrazione tutta italiana (la fuga dei cervelli, il precariato dei ricercatori). Smetto quando voglio ci pigliò benissimo, era qualcosa di cui non sapevamo quanto avessimo bisogno, finché non l'abbiamo provato.

Da allora la situazione è parecchio cambiata. Mentre Sibilia riposava altri si sono inseriti nel mercato, mettendo in circolazione formule ancora più spinte. Jeeg Robot e Veloce come il vento non sono nemmeno più commedie, sono action e basta: le inevitabili tracce di parodia ridotte al minimo. Smetto quando voglio 2 accetta la sfida: volete l'action? Vi daremo inseguimenti nel parco archeologico e un assalto al treno merci in side-car, con scazzottata in cima ai vagoni. E questo è ancora niente, per la terza puntata ne abbiamo in serbo di fortissime... Per fortuna Sibilia è molto più consapevole dei propri limiti di quanto non appaia: sotto l'apparenza sbruffona c'è una precisa valutazione di quello che può funzionare e quello che sarebbe bello sulla carta, ma è meglio lasciar perdere. Per esempio a un certo punto ci porta a Bangkok, ci illude facendoci sentire odore di kickboxing, ci guida tra i meandri di un mercato e proprio quando sembriamo arrivati a un ring clandestino, taglia corto e la butta in farsa. Action sì, ma con criterio, certe competenze non s'improvvisano. La scena più simbolica è davvero l'inseguimento ferroviario, movimentato e complesso ma prudentemente mantenuto ai sessanta km all'ora. Più forte di così per ora il cinema italiano non può andare: è un problema? Per un regista italiano è già molto, come fai a prendertela con Sibilia? Dopo un inverno di cinepanettoni, cinepandori, cinetorroni, i suoi ricercatori-supereroi sembrano venire da un altro pianeta. Lui stesso sembra sapere che i suoi clienti gli permetteranno qualsiasi cosa e ormai si comporta da impunito, scherza coi feticci del Terzo Reich, flirta col proibizionismo ma solo per far andare avanti la trama. Per quanto ispiri simpatia, si merita d'essere preso sul serio, perché è vero che ha già fatto tanto per l'ecosistema del cinema di genere italiano, ma con un piccolo sforzo potrebbe fare anche di più.


Per esempio: c'era proprio bisogno di ampliare il cast? (Continua su +eventi!) Certo, siamo tutti contenti di vedere Giampaolo Morelli nella banda, ma ormai a ogni comprimario spetta poco più che un siparietto (mentre per paradosso il ruolo di Edoardo Leo diventa ancora più centrale). E se allargare la squadra era l'unico modo per mantenere alto il ritmo, possibile che anche stavolta non ci fosse posto per una ricercatrice? Forse che di studiose super-specializzate e sotto-occupate l'Italia non abbonda? Ecco, un rilievo che si può fare a Smetto quando voglio 2, è che per quanto ammicchi a prodotti americani come Suicide Squad e Ritorno al futuro, non riesce del tutto a uscire dal solco di Amici miei o dei Soliti ignoti: la sua Banda di intellettuali declassati continua ad assomigliare a una cumpa di amici in libera uscita. Un gruppo di soli uomini che fanno per lo più le cose stupide che fanno gli uomini quando escono da soli: zingarate, corse in furgone, droghe di sintesi.

Non è che le donne del film siano stupide, tutt'altro: ma rappresentano una forza ostile che espone la Banda a tensioni distruttive. Greta Scarano (meravigliosa) è la poliziotta senza molti scrupoli che approfitta dei Ricercatori come un qualsiasi barone universitario; Valeria Solarino interpreta in modo sempre più arcigno il Principio della Realtà, pretendendo dal protagonista una normalità impossibile: quando lei è in scena anche il filtro del colore si deprime. E tra i pochi personaggi che non ritornano nel secondo episodio purtroppo c'è la moglie sinti dell'economista De Rienzo. Sarà un pelo nell'uovo, ma siamo nel 2017, persino quel burino di Luc Besson ha capito che i film d'azione oggi si fanno coi protagonisti femminili; e noi ancora stiamo alla moglie col pancione che si lamenta delle rate sulla lavastoviglie, pretende che il marito chimico-spacciatore-informatore faccia il buon marito e l'accompagni alle ecografie anche se è detenuto. E dire che sarebbe bastato aggiungere un'architetta geniale, o una psicologa, un'esperta di biotecnologie, ce n'erano dei rami da coprire. Speriamo nel terzo episodio: e che anche dopo nessuno abbia troppa voglia di smettere. Smetto quando voglio 2 - Masterclass è al Cityplex di Alba (19:30; 21:30); al Cinelandia di Borgo San Dalmazzo (20:00; 22:30); al Vittoria di Bra (21:00); ai Portici di Fossano (21:15); all'Italia di Saluzzo (17:00; 20:00; 22:15 e al Cinecittà di Savigliano (20:15; 22:30).
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La La La ti sento eccome

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La La Land (Damien Chazelle, 2016)

"Buongiorno in cosa posso esserle utile?"
"Buongiorno, io... io ho visto La La Land".
"Allora ha chiamato il numero giusto, questo è..."
"E non m'è piaciuto!"
"...il numero verde per gli spettatori di lingua italiana a cui non è piaciuto. Noi offriamo assistenza a tutti quelli che si domandano..."
"C'è qualcosa che non va in me?"
"Assolutamente no, signora. È una questione di gusti".
"Ma è piaciuto a tutti tranne che..."
"No, signora, stia tranquilla, non è piaciuto a tanta gente. È normale".
"Anche se ammetto che certe cose erano davvero ben fatte, eppure..."
"Siamo lieti che lo valuti positivamente e la ringraziamo per il feedback. Ha avuto anche lei la sensazione che nelle sequenze iniziali la macchina da presa facesse parte della coreografia?"
"Può darsi. Ma non mi è piaciuto lo stesso!"
"Forse non le interessano i musical".
"Non saprei".
"Ha apprezzato altri musical di recente?"
"Io, boh... una volta ho visto Cantando sotto la pioggia..."
"Beh, se ne doveva scegliere uno solo, ha scelto bene".
"...e non c'è paragone".
"Allora vede, signora, forse lei è entrata in sala con aspettative eccessive, perché quando parliamo di Cantando sotto la pioggia siamo proprio al top di gamma, capisce? Sarebbe un po' come aspettarsi 2001 Odissea nello spazio tutte le volte che si va a vedere un film di fantascienza".
"Ed è sbagliato?"
"Non c'è nulla di giusto o di sbagliato, ma forse gioverebbe tenere l'asticella un po' più bassa, rimediare meno delusioni. Al cinema come nella vita".
"Comunque adesso che ci penso è davvero da tanto che non vedo un musical".
"In Italia fanno fatica. Ha presente Sweeney Todd?"
"No".
"Dieci anni fa. Forse l'ultimo Tim Burton importante. 150 milioni al botteghino, nomination a Johnny Depp".
"E in Italia non l'hanno distribuito?"
"Certo. Ma si erano dimenticati di avvertire che era un musical".
"Sul serio?"

"Nei trailer italiani i personaggi non cantavano. Allora forse, mi dico, forse, se attiri al cinema la gente e non l'avverti prima che i personaggi canteranno tutto il tempo, poi è naturale che ci restino male e detestino i musical".
"Ma perché ce l'avremmo coi musical, noi italiani?"
"Chi lo sa. Cocciante è andato in Francia. E Tano da morire? Nessuno si ricorda più di Tano".
"Forse è il rigetto per due secoli di melodramma, dobbiamo espiare per quanto abbiamo stressato il mondo con la Butterfly e la Traviata".
"Più probabilmente è un problema di doppiaggio. Il momento in cui gli attori passano dal recitativo al cantato è molto delicato. Se proprio in quel momento sente cambiare il timbro di voce e la lingua, magari la sospensione di credulità ne soffre e non riesce ad apprezzare il film".
"Ma l'ho visto in lingua originale!"
"Forse si è affaticata leggendo i sottotitoli. La gente è convinta di poter vedere un film e intanto leggere i sottotitoli, ma è più faticoso di quanto sembra":
"Dice che è per questo che a metà del secondo tempo stavo per addormentarmi?"
"Il calo di tono è necessario, fisiologico - sarebbe insostenibile un film tutto coreografato come la prima mezz'ora. Ed è perfettamente previsto dalla storia: prima ci si innamora ed è tutto bellissimo e promettente, e poi... le complicazioni".
"Niente di nuovo insomma".
"No, decisamente no. Ma credo fosse già chiaro dai manifesti, no? È un film sulla nostalgia".
"Ecco, forse sono stanca di tutti questi film nostalgici".
"Mi permetto di dissentire. È un film sulla nostalgia, non è un film nostalgico. Usa il passato in modo funzionale, per ottenere determinati effetti. Non prova neanche per un attimo a convincerti che esisteva davvero un paradiso perduto di gente felice e di oggetti belli".
"I vinile, i vecchi cinema che chiudono, la macchina di James Dean, il jazz fino a Miles Davis..."
"Ok, c'è un personaggio che è un maniaco di queste cose. Ma alla fine tutte queste ossessioni gli si ritorcono contro - anzi, no, sin dall'inizio. Mi sembra lo stesso problema che avevano alcuni con Whiplash: aiuto, c'è un protagonista che sacrifica gli affetti alla carriera! Sì, ma non è mica un personaggio così positivo. Neanche Gosling in questo film lo è".
"Un bianco che spiega il jazz ai neri".
"Per la verità è il contrario; è l'amico nero che gli spiega cos'è veramente il jazz: una continua evoluzione. Mentre lui sembra bloccato nella fase puberale. Ha perfettamente senso che sia bianco, a proposito. L'hipsterismo contemporaneo è roba da giovani bianchi benestanti. L'idea che il jazz coincida con la sua Storia, e che abbia un'età dell'oro, dell'argento, il bebop il cool il free e la Caduta, è una menata da critico bianco. Si ricorda Denzel Washington in Mo' Better Blues..."
"Vagamente".
"...che suona la tromba in una band post-bebop e si domanda: dove sono i fratelli? Perché ci vengono a sentire solo i bianchi? Insomma signora, le può dispiacere La La Land per un migliaio di motivi, ma un tizio che ascolta i vinile, si crede James Dean e si offende perché servono tapas in un locale di samba dev'essere bianco. Ma diciamola tutta. Dev'essere Ryan Gosling".
"Anche se non balla un granché bene".
"Ma ne è sicura?"
"Un po' legnoso".
"Ma signora, aveva detto che a lei non piacciono i musical, è sicura di poter giudicare la prestazione di Ryan Gosling? Di sicuro non è Fred Astaire, ma balla in modo più che passabile e ha una voce educata e gradevole. In più è perfetto per la parte, insomma, è sicura che avrebbero mai potuto trovare di meglio?"
"A questo punto mi aspetto che difenda anche Emma Stone".
"Beh, sì, è perfetta. Cioè, no, è proprio la sua imperfezione che la rende... perfetta per la parte. È una che non sei mai sicuro se ce la farà. Quando intona, quando parte a ballare, quando è a un provino, è sempre sull'orlo del baratro. E se ne rende conto. È una scelta ottima, davvero".
"E anche lei doveva essere bianca per forza?"
"Anche su questa cosa, ci ho riflettuto".
"Addirittura". (Continua su +eventi!)




"Perché se lo sono chiesto in tanti, ma il punto è questo: se avessero scelto un'attrice brava come lei, imperfetta come lei... però nera, le stesse scene avrebbero lo stesso senso? Quando passa di provino in provino e la scartano e ne minano l'autostima: funzionerebbe ugualmente? Non cominceremmo a sospettare che la scartano perché è nera? È un film sull'autoaffermazione, non sulla discriminazione".
"Magari a me interessa di più la discriminazione".
"Ha perfettamente ragione, è un tema più interessante".
"Cioè tutti questi film sulla gente che crede nei loro sogni, anche basta".
"Comprendo il suo fastidio, è un segmento molto coperto".
"Non ci sono già abbastanza talent in tv?"
"E tuttavia, signora, nel frattempo un tizio che faceva il giudice in un talent ha vinto le elezioni americane e sta alla Casa Bianca, per cui forse La La risente molto più dello spirito del tempo di quanto crediamo".
"Sta cercando di convincermi che La La può spiegarci Trump?"
"No, ma non è neanche quella fuga in un passato rassicurante che finge di essere... magari ti piazza un finale falso, un balletto in cui tutte le cose per un momento vanno per il verso giusto, ma la morale è molto meno edificante - ed è la stessa di Whiplash: uno su mille ce la fa ma poi passa la vita a domandarsi se ne valeva la pena".
"Non l'ho visto, Whiplash".
"Vale la pena. Non è un musical. Non c'è nemmeno una storia d'amore. Ha presente quando il maître del ristorante licenzia Gosling su due piedi? Ecco, Whiplash è tutto così, dura un'ora e mezza, è divertente e un po' angoscioso".
"E non balla nessuno".
"Suonano soltanto. Ma signora, le canzoni di La La non le sono piaciute? Secondo me sono la cosa migliore".
"Non credo di apprezzare il jazz".
"Non sono poi così jazz. Dica la verità, non le sta già canticchiando? Sono maledettamente orecchiabili. Tutt'altro che banali, eppure neanche così complesse. City of Stars è un classico immediato, si fischietta al primo colpo, la puoi imparare alla quinta lezione di pianoforte, ne scrivono una ogni vent'anni di canzoni così. Cioè bravo Chazelle, ma soprattutto Justin Hurwitz. Quando hai un talento del genere puoi anche concederti il lusso di metterti in discussione, di domandarti se è giusto insistere su un sound così fuori dal tempo. Perché il film fa questo: si presenta dicendo, ehi, abbiamo un'idea di jazz che forse è quella sbagliata, però sentite intanto cosa siamo riusciti a combinarci".
"Va bene, Hurwitz probabilmente un Oscar se lo merita".
"Grazie, signora".
"Ma altri tredici, dico, scherziamo?"
"Sono solo nomination".
"Non è mica Eva contro Eva".
"No, senz'altro no. Anche se il tema è simile - i giurati hanno un debole per i film che parlano della loro professione. Forse ha preso tante nomination perché oggi c'è meno competizione, tante professionalità si stanno spostando sulle serie tv... è un'ipotesi. Senz'altro La La è una risposta alla domanda: perché andare in sala oggi, perché non guardarsi un film a casa? La La va proprio visto in sala. Deve venirti voglia di smontare le poltrone".
"Eh?"
"Come ai tempi di Blackboard Jungle, ha presente? La gente entrava per ballare i titoli - che erano Rock Around the Clock, l'unico pezzo rock che si potesse sentire in città - smontavano le poltrone e si mettevano a ballarlo. Anche la prima sequenza di La La Land funziona così, in fondo".
"È uno scherzo, vero?"
"Sia sincera. Non le è venuta voglia di smontare le poltrone durante Another Day of Sun?"
"Mi è venuta voglia di uscire".
"Ecco, allora... non so che dire... mi dispiace".
"Non si deve dispiacere, sto a posto così".
"Pensa che lo scriverà su facebook?"
"Perché me lo chiede?"
"Perché è stato osservato questo fenomeno. Quelli a cui non piace La La sentono l'irrefrenabile desiderio di dichiararlo su facebook".
"E... nell'eventualità, diciamo, che male ci sarebbe?"
"Provo con un esempio. Io non riesco a mangiare la nutella".
"È una questione di gusti".
"No. La nutella è buona. È progettata per piacere a tutti. Piace praticamente a tutti. Ma io sono allergico alle nocciole".
"Oh, mi dispiace".
"Ecco, vede che le dispiace?"
"Non dovrebbe dispiacermi? Ho pietà di lei, non apprezzare la nutella è..."
"Lo dica".
"...una menomazione".
"Ecco. Ma si immagini che io scrivessi su facebook che schifo la nutella, che ne facessi una questione di orgoglio, cioè mica come tutti i pecoroni convinti di apprezzare una crema spalmabile di cioccolato e nocciole solo grazie al marketing... solo io sono in grado di capire che in realtà quella roba fa schifo: cosa penserebbe di me?"
"Che ha una notevole autonomia di giudizio..."
"Mmm"
"Per un tredicenne, voglio dire".
"Ecco, appunto".
"Appunto cosa?"
"Signora, non c'è niente di male a non apprezzare i musical, a non aver voglia di saltare le poltrone quando cantano reaching up the heights. Ma non c'è nemmeno nulla di cui vantarsi, capisce?"
"No".
"Fa lo stesso. Adesso scusi, questo spazio è gentilissimamente offerto da Piùeventi Cuneo e quindi ora devo dare i titoli: La La Land è anche stasera al CITYPLEX CINE4 di Alba (21:00), al CINELANDIA di Borgo San Dalmazzo (20:00, 22:40), al CINELANDIA FIAMMA di Cuneo (21:10), ai PORTICI di Fossano (21:15) e al CINECITTÀ (Savigliano). Buona visione, e smontate quelle fottute poltroncine!"
"Io non ci torno".
"Non me ne frega niente di quello che fa lei signora".
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Dio è morto, il Giappone è una palude, e Scorsese sta benissimo

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Silence, (Martin Scorsese, 2016).

Verso il 1650 cominciò a girar voce che Sawano Chūan, già conosciuto come Cristóvão Ferreira, fosse morto: e prima di morire avesse ritirato la sua scandalosa apostasia, e proclamato a gran voce davanti all'inquisitore del Giappone la sua fede in Cristo, che 15 anni prima aveva rinnegato. Per questo era finalmente stato condannato al supplizio del pozzo: sospeso a testa in giù e dissanguato lentamente. La solita propaganda dei gesuiti: chi andò a controllare scoprì che Sawano-Cristóvão aveva avuto un funerale buddista, presso il tempio che aveva scelto conformemente alle leggi dello shogunato. Il suo nome giapponese si legge ancora sulla lapide. Forse in segreto continuò a credere nel dio cristiano per tutto quel tempo: ammesso che si possa credere a un Dio in segreto. C'è chi non lo ritiene possibile.

Un vero fumie: il volto di Gesù è consumato
dalle centinaia di piedi che lo hanno calpestato
Scorsese ci crede. I suoi eroi non cambiano mai, non rinnegano mai. Toro resta scatenato, il lupo di Wall Street perde solo il pelo. Qualsiasi cosa ti abbia portato a sbattere contro il muro - la religione che hai imparato da bambino, la mafia in cui sei cresciuto o la propensione genetica al consumo di sostanze, o al gioco d'azzardo, o a picchiare il prossimo o a fotterlo - non importa quanto forte sbatterai, non importa quanto in basso striscerai. Dentro di te resterai sempre il mafiosetto che eri, il giocatore che eri, il pugile, il truffatore, il drogato, il gesuita. Non importa quanto vai lontano, non puoi rinnegare te stesso. Quando uscì L'ultima tentazione di Cristo, molti cattolici rimasero scandalizzati. Qualcuno al Vaticano pensò di regalargli il romanzo di Endo, Silenzio, sulla repressione del cristianesimo giapponese. Una scelta lungimirante. Se ci ha messo vent'anni per trovare il modo di metterlo su pellicola, Scorsese non ha comunque avuto bisogno di cambiare qualche passo o di aggiungere niente di personale: Silence era già scorsesiano in partenza. Ambizioni, tentazioni, arroganza, caduta. La solita parabola.

Eppure Silence non è il film che il pubblico si aspetta da lui - men che meno i giurati dell'Academy, che in fondo hanno sempre diffidato di questo corpo esterno, questo seminarista fallito e riconvertito al cinema. Il film sembra concepito per confondere e tradire gli spettatori che abbiano una fede superficiale nel suo cinema. Scorsese li attende silenzioso al termine di un lungo viaggio in un Giappone antipittoresco, e dopo due ore e mezza non ha ricompense da offrire a chi lo trova: solo silenzio. Può darsi che non sia il suo migliore film. Neanche tra i suoi primi dieci film. Ma anche quando tace e prega, può tranquillamente dare lezioni di cinema e vita a chiunque sia disposto a imparare. Più che con altri suoi film, trovo inevitabile confrontarlo con quello che passano gli altri conventi: per esempio giusto un anno fa stavamo tutti applaudendo per Revenant. Anche quello un film lungo e senza compromessi, anche quello ambientato in un paesaggio naturale alieno, ostile, e ispirato a un fatto vero.

È un confronto impietoso (continua su +eventi!).


Un crocefisso abusivo, nascosto
dietro la schiena di un Budda
In Revenant la natura viene continuamente trasfigurata in cartolina da una troupe che sembra appena atterrata in elicottero. I sentieri sono irragionevolmente impervi, roba da triatleti più che da gente che cammina davvero per mestiere. In Silence le isole Goto sono una presenza viva e vera, ogni strada ci parla della fatica di camminare. In Revenant ci sono buoni selvaggi che scorrazzano qua e là lamentandosi che l'uomo bianco gli ha rubato la terra, e pazienza se in realtà non è ancora successo; in Silence i giapponesi non sono una proiezione dell'altro, ma un popolo con tutte le sue contraddizioni; ce n'è di simpatici e di odiosi, di eroici e di patetici e di assennati - e l'eroismo somiglia pericolosamente a ingenuità, l'assennatezza coincide con la crudeltà più pura (ed efficace!)

Sbarrando gli occhi durante la visione di Revenant riesci a vedere un regista milionario sul suo patio che si domanda cosa allestire per il pubblico bue e ai giurati degli Oscar: una storia di vendetta? Però nel finale bisogna ricordarsi che la vendetta è brutta, al massimo va subappaltata al buon selvaggio che resta buono anche quando scalpa un potenziale ladro di terra. Silence è un film che parla a ogni persona che ha cercato Dio e non l'ha trovato, o l'ha perso nel silenzio: è il regalo umile e superbo di un gesuita mancato che passa il tempo a tormentarsi: se soltanto fossi nato in tempi più semplici, con meno tentazioni in giro, meno droghe e meno macchine da presa... che gran cristiano che sarei stato.

Andrew Garfield oscilla continuamente tra l'imitazione di Cristo e la sua parodia: desideroso di seguire i suoi maestri, precipita in un sadico vangelo al contrario dove i buoni forse sono buoni per il motivo sbagliato, e i cattivi molto più ragionevoli, ma spietati proprio per questo. Cristo è un amico immaginario che ti porta davanti al baratro fra tortura e dannazione e ti lascia lì senza spiegarti niente, devi cavartela da solo. Scorsese non ha risposte, o non ce le vuole dire, e se le porterà con sé fino all'ultimo giorno.

Silence è alla Sala Polivalente di Piasco (21:10) e al Cinema Italia di Saluzzo (20:30).


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Io e te, alieno, cosa abbiamo da dirci?

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Arrival (Denis Villeneuve, 2016).

Ti trovi in mezzo a un prato, o a un bosco, o un deserto, quando ti imbatti negli alieni. Come fai a presentarti, diciamo, come un animale raziocinante, abbastanza degno di un tentativo di comunicarci, piuttosto che d'essere sezionato o servito a cena? Il teorema di Pitagora potrebbe aiutarci anche in questo. Un animale che sappia disegnare per terra un quadrato dell'ipotenusa uguale alla somma dei quadrati dei cateti non dovrebbe essere considerato selvaggina. Matematica e scienza saranno il nostro terreno d'incontro obbligato: "triangoli", "cateti", "ipotenusa", "uguale", "quadrati", sono concetti che dovrebbero esistere in qualsiasi parte di questo universo, ed è molto difficile che una razza senziente riesca a viaggiare nello spazio senza averli scoperti e codificati.

Questo ottimistico punto di vista è ben espresso da un racconto del 1957, Omnilingual, in cui i fanta-archeologi che trovano su Marte resti di una civiltà avanzata estintasi millenni fa brancolano nel buio dei simboli finché non trovano, appesa a una parete, una tavola degli elementi: la Stele di Rosetta. Solo il collega più anziano, esperto di Ittiti e non di particelle, osa formulare il dubbio cosmico: Come facciamo a essere sicuri che i 'loro' elementi non siano diversi dai 'nostri'? La nuova generazione gli ride in faccia: nonno, posa il tuo relativismo umanistico. Che sia Marte o Alfa Centauri, l'idrogeno avrà sempre un protone. Le cose non possono essere più complicate di così. O no?

Storia della tua vita, il racconto di Ted Chiang che ha ispirato Arrival, mette appunto in crisi questo approccio. E se la scienza degli alieni fosse diversa dalla nostra? Se il calcolo integrale per loro fosse facile come le tabelline, e le tabelline viceversa calcoli astrusi e poco familiari? In teoria dividiamo lo stesso universo. Ma se avessimo una percezione dello spazio-tempo completamente differente? Che casino sarebbe... (ma che rivincita per il relativismo umanistico).

Questo per esempio è molto ingenuo. Come fai a dare per scontato
che distinguano il nero dal bianco e lo considerino un simbolo?
Nel film Amy Adams è la linguista (adorabile), Jeremy Renner lo scienziato (simpatico). Quest'ultimo all'inizio sembra sicuro del fatto suo: gli alieni vogliono comunicare? Spedite una sequenza di Fibonacci, vedrete che ci intenderemo. Dopo due scene si è già ridotto a fare la valletta per la collega. Nel racconto ovviamente la cosa è più complessa. Gli alieni effettivamente mostrano di conoscere gli elementi e qualche altra nozione scientifica di base, ma tutto si ferma lì, finché un giorno non riescono finalmente ad avere una conversazione sul principio di Fermat. La parte del racconto dedicata a questo principio è la più interessante: è anche quella necessaria, perché gli alieni di Chiang sono solo un'ipotesi narrativa, ma il principio di Fermat funziona davvero e stabilisce (grosso modo) che il percorso di un raggio di luce tra due punti è quello che si attraversa nel tempo minore. Da cui la domanda, ingenua e inevitabile: ma come fa la luce a sapere in partenza qual è il percorso che potrà attraversare nel tempo minore? Come può prevedere gli imprevisti di percorso? Forse perché per la luce non esiste un prima e un dopo, una partenza o un arrivo, perlomeno non nel modo in cui lo percepiamo noi umani?

E se anche per gli alieni non esistesse il "prima" e il "dopo" degli umani? In questo caso la domanda più banale ("perché siete qui?"), sarebbe anche la meno comprensibile: potrebbe esistere un "perché" in un mondo in cui potessimo vedere ogni cosa già conclusa prima che accada? In altre parole: nella realtà descritta dal principio di Fermat, e dagli altri principi variazionali, ha ancora senso parlare di libero arbitrio? Non solo gli alieni non saprebbero fornirci un perché, ma anche noi umani dovremmo domandarci se i perché hanno un senso. Tutto accade nello stesso momento, e se potessimo vedere la nostra morte - come gli alieni - non potremmo comunque impedirla. È lo stesso Chiang a proporci una metafora: vivere oltre il tempo è come avere un figlio. Nel momento in cui lo concepisci sai già che soffrirà, ma non si torna indietro. Lui non ha scelto di vivere, e nemmeno tu in fondo hai potuto scegliere che nascesse.

Questo parallelismo non così banale - il figlio come un alieno, o forse gli alieni sono i nostri padri che non possono e vogliono dirci perché ci hanno messi al mondo? - è quello che ha probabilmente conquistato lo sceneggiatore Eric Heisserer, e spinto a scrivere un copione che senza il successo di blockbuster come Interstellar o Gravity sarebbe rimasto un'idea folle, una sceneggiatura vagante nello spazio cosmico. Heisserer purtroppo ha tolto ogni riferimento a Fermat e inserito l'arrivo degli alieni in una specie di gelida parodia di Independence Day - qualcosa che in effetti Denis Villeneuve poteva aver voglia di girare (memorabile una delle prime sequenze, dove il panico mondiale viene descritto nel modo più quotidiano e canadese possibile: in facoltà gli studenti disertano le lezioni, due macchine si tamponano in un parcheggio. E col panico per questo film siamo a posto). Arrival è, come Sicario, il viaggio di una donna curiosa e competente alla scoperta di una dimensione nuova del mondo. Per il regista non è importante soltanto l'arrivo, ma anche le piccole cose che fanno il viaggio: i corridoi, i briefing, il silenzio già complice dei compagni appena conosciuti.

Purtroppo dopo il momento della scoperta, bisogna anche far succedere delle cose, e Heisserer non è stato all'altezza del compito (continua su +eventi!) 
Le intenzioni erano buone - aggiungere alla storia di Chiang quel minimo sindacale di conflitto, di action, persino di esplosioni che potevano rassicurare i produttori e fornire immagini seducenti per i trailer. Così abbiamo gente che mette le bombe perché "ha visto troppi film", abbiamo un generale cinese che vuole attaccare le astronavi (è abbastanza indicativo che i militari americani necessitino per comprenderlo della consulenza della stessa linguista che sta decifrando la lingua degli alieni). Il film non mette i cinesi tra i cattivi, ma quantomeno deve assumere che siano più impulsivi e timorosi degli americani - anche perché invece di cercare di tradurre gli stranieri, si sono messi a giocarci a mahjong (idea geniale, che nel racconto non c'era e che purtroppo è buttata lì un po' in fretta).

Il risultato è un po' una delusione, anche per le attese che questo film era riuscito a suscitare nella prima parte. Ma è giusto prendersela con Heisserer e Villeneuve per aver omesso il principio di Fermat? In generale, possiamo far loro una colpa dell'aver semplificato la storia fino a farla pericolosamente assomigliare a una baracconata new age con gli alieni onniscienti che vengono a regalarci la chiave della trascendenza? È un film di Villeneuve, senz'altro inferiore a Sicario ma con la stessa capacità di fondere l'intimo e il sublime. Ma è anche un film di fantascienza hard, che con la scusa degli alieni ti parla di linguistica e spaziotempo per un'ora e mezza; è un film tratto da un racconto che solo un pazzo poteva pensare di trasformare in pellicola, e Villeneuve sta riuscendo perfino a guadagnarci; insomma è un oggetto straordinario, che dimostra l'ottimo stato della fantascienza al cinema; che fino a tre o quattro anni nessun produttore sano di mente avrebbe pensato di finanziare e invece oggi eccolo qua; e chissà cos'altro arriverà domani, visto che film di questo genere non soltanto si fanno, ma incassano pure. Villeneuve andrebbe soltanto ringraziato per il dono che ha fatto all'umanità, invece di mettersi anche lui a macinare le solite storie viste e riviste, i soliti sequel e i soliti remake. Chissà cosa farà adesso.
"Blade Runner".
"Eh?"
"Sta facendo un Blade Runner".
"Ah".
"Ma in fondo era inevitabile".
"Era inevitabile dall'inizio".

Arrival è al Cinelandia di Borgo San Dalmazzo (20:10, 22:40); al Vittoria di Bra (21); al Multilanghe di Dogliani (21:30); al Cinecittà di Savigliano (20:15, 22:30)
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Brad Pitt, spia imperfetta (per fortuna)

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Allied - Un'ombra nascosta (Robert Zemeckis, 2016)

A un certo punto - non rivelo nessun punto saliente della trama - Brad Pitt e Marion Cotillard stanno scappando in automobile. Brad si ferma un attimo davanti a un negozio perché deve sistemare una questione. Marion lo aspetta a bordo, con la bambina in braccio. Lui ha promesso di far presto, invece ci sta mettendo un po', e quindi lei non sa che fare. Non può entrare con la bambina, non può restare ferma lì. Dentro il negozio in effetti stanno succedendo delle cose, ma niente che non accada tipicamente nei film: rivelazioni, sparatorie. Soltanto un pretesto. Quello che veramente importa è nell'auto: l'attesa, l'angoscia, la bambina che è insieme un ostacolo e il senso di tutto quello che sta succedendo.

A un certo punto pensavamo di aver perduto Robert Zemeckis. Il regista di Ritorno al futuro 2, di Roger Rabbit, della Morte ti fa bella, aveva deciso di concentrarsi sull'animazione, e in particolare di quella branca dell'animazione in digitale che fin qui ha dato a investitori e spettatori meno soddisfazioni: la performance capture. Polar Express e A Christmas Carol erano due esperimenti freddissimi, come certe feste organizzate più per dimostrare le proprie capacità che per mettere a proprio agio gli invitati. La performance capture non è né animazione disegnata né realtà filmata: è una sfida della tecnologia digitale a entrambe. Un giorno vincerà, e gli attori saranno sostituiti da manichini digitali assolutamente identici ai modelli. La carriera delle star degli ultimi trent'anni (una generazione già longeva di suo) si prolungherà di qualche secolo: che bisogno c'è di cambiare le facce quando il pubblico è già affezionato a quelle vecchie? Qualche attore ringiovanito digitalmente lo abbiamo già visto. La scelta della Walt Disney, che dopo la morte di Carrie Fisher ha deciso di non utilizzare più la sua versione digitale, non ci incanta: ci aspettano altri cent'anni di Tom Cruise, di Di Caprio, di Matt Damon. Persino di Brad Pitt.

Non tanto l'uso del green screen, quanto il voler farcelo notare.
A un certo punto ci siamo accorti che Brad Pitt tutto sommato era bravo. Non tanto a recitare quanto a resistere. Non è solo una questione di tenuta fisica - in realtà se l'allestimento di Zemeckis ha un limite, è proprio in quel volto tirato che sembra un po' più finto di quello che dovrebbe essere: un trentenne interpretato da un 50enne - splendido quanto si vuole, ma non è il volto che s'incastrerebbe alla perfezione in quei costumi d'epoca. Non gli giova il confronto con la Cotillard, lei sì perfetta in qualsiasi abito, in ogni fotogramma - una spia ideale, mentre Brad se vuole non farsi scoprire deve paracadutarsi all'ultimo momento e fingere di non sapere le lingue. Come in Basterds, esatto - del resto è sulla consapevolezza dei propri limiti che Pitt ha costruito il suo impero, o almeno ha saputo conservarlo dagli assalti di attori a volte più giovani, e sempre più talentuosi. Alcuni coetanei che sembravano tanto più dotati stanno cedendo terreno, lui tiene botta (continua su +eventi!)

Qualche volta azzecca il prodotto giusto, qualche volta rimane impantanato in un disastro (World War Z), ma ne esce sempre abbastanza dignitosamente. Dall'incontro con Tarantino sembra che abbia sviluppato un'ossessione per la Seconda Guerra Mondiale che in realtà ha perfettamente senso: ai film di guerra servono eroi tutto d'un pezzo, non troppo dinamici, meglio se laconici e imbronciati. Senz'altro gli anni '40 sono più congeniali a Pitt di un'apocalisse zombie o dell'assedio di Troia. La spia di Allied è in un qualche modo complementare al capitano del tank di Fury: tanto quest'ultimo era rassegnato a non sopravvivere alla distruzione di cui ormai faceva parte, tanto il primo si ostina a difendere un'oasi domestica di pace che forse era una menzogna sin dall'inizio: un picnic sul prato dove nottetempo è precipitato un bombardiere. È una spia fragile, in un mondo che non tollera debolezze.




A un certo punto la Disney ha chiuso lo studio di performance capture fondato da Zemeckis, dopo averlo rilevato: e il regista si è rimesso a fare film dal vivo. Questo almeno è quello che ci fanno credere. Ma Flight e Allied sono film strani proprio perché insolitamente convenzionali. È difficile spiegare perché, malgrado abbiano tutto quello che ti aspetti da un film, non sembrino veri film, sembrino... finti. Ma tutti i film sono finti, no? Sulla carta Allied è l'ennesima rivisitazione di luoghi comuni del film di spionaggio ambientato negli anni della guerra, con le suggestioni del caso: Orson Welles, Hitchcock, Casablanca. Sullo schermo... c'è qualcosa che non torna, ma è difficile dire cosa. Ci sono sfondi straordinari che è inevitabile immaginare rifatti al computer. C'è un senso della composizione che vince sulle necessità narrative (eppure la storia funziona, e avvince). C'è ancora qualche traccia di quel senso di freddezza che si provava davanti a Polar Express e a Christmas Carol. E infine, ci sono Marion Cotillard e Brad Pitt, in diverse scene le uniche due persone a sembrare vere nell'inquadratura: salvo che appunto, lei è troppo perfetta per esserlo davvero. Solo Pitt, con la sua faccia tirata, sembra garantirci che Zemeckis non lo abbia già sostituito col replicante digitale di sé stesso, che Allied non sia che un colossale scherzo tirato agli spettatori.

A un certo punto la performance capture vincerà: gli archivi di tutto il mondo forniranno agli sviluppatori tutte le fisionomie e le espressioni degli attori più importanti, e finalmente li vedremo interpretare qualsiasi ruolo nell'interpretazione migliore possibile, secondo algoritmi sempre più sofisticati. Ogni tanto magari qualche attore vero insisterà per recitare la sua parte sullo sfondo verde, e come faremo a capire che anche quell'attore non è una rielaborazione digitale? Lo noteremo dai difetti, come notiamo Brad Pitt. Che non è mai perfetto, e a un certo punto abbiamo capito che gli vogliamo bene proprio per questo.

Allied è al Cinecittà di Savigliano (21:30); al Cinelandia di Borgo San Dalmazzo (20:00, 22:40); al Citylplex di Alba (19:30, 22:00); all'Italia di Saluzzo (17:00, 21:30); al Vittoria di Bra (21:00)
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Diventare mostri a Teheran

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Il cliente (Forushande - The Salesman, Asghar Farhadi, 2016)

Rana una sera era stanca. Il trasloco, le prove a teatro fino a tardi. Era appena arrivata nel nuovo appartamento, aveva ancora il trucco addosso e voleva fare una doccia. Il citofono ha suonato e lei ha aperto. Ma non era suo marito. Sono incidenti che purtroppo capitano dappertutto: perché non a Teheran?

A Cannes l'anno scorso c'è stato il festival del degrado urbano cinematografico. In una botta sola Mungiu (Bacalaureat), Ken Loach (Daniel Blake), i fratelli Dardenne e l'ultimo ottimo film di Asghar Farhadi - premiato per la migliore sceneggiatura. Nel complesso, un tripudio di marciapiedi crepati, piastrelle sbeccate, ruggine e polvere, sulla Croisette vanno pazzi per queste cose e un po' li capisco, tutti quegli yacht ancorati proprio dietro il Palazzo del Cinema dopo un po' ti devono venire a noia.

Forushande condivide con Bacalaureat non solo la premessa iniziale - un caso di molestia sessuale, un capofamiglia che cerca di farsi giustizia da solo - ma anche questo torvo accanimento nell'esibire la bruttezza delle periferie. Se Mungiu si dedicava a sbriciolare ogni residuo esotico della Transilvania, portandoci a spasso per i sobborghi sconsolati di Cluj-Napoca, Farhadi ha un gusto per lo squallore, il cemento, la paccottiglia ammassata in un angolo che degrada in rifiuto, che lo innalzano sopra ogni confine culturale. Non importa se là fuori c'è un muezzin che invita alla preghiera, le targhe sono in alfabeto arabo; basta accendere la luce nella cucina di una casa sfitta, ingiallita dall'uso, ed è come se il film parlasse di noi.

Sta davvero parlando di noi... (continua su +eventi!) che a volte siamo distratti e non alziamo la cornetta del citofono e poi ce ne pentiamo. Che a volte iniziamo a lucidare una finestra e poi ci blocchiamo sgomenti constatando l'enormità del compito. Che vorremmo essere migliori del mondo in cui viviamo, ma sarà vero? Se avessi un bulldozer tirerei giù tutto quanto e lo rifarei da capo, dice Emad al suo amico regista, più anziano. Lo hanno già fatto, risponde lui: e questo è il risultato. Emad è il protagonista (Shahab Hosseini, palma a Cannes): è un giovane insegnante, generoso, colto, recita a teatro, ci sembra naturale assistere alla storia dal suo punto di vista. Che possa essere proprio lui il moralista più intransigente, è una cosa che ci costerà un poco accettare. Come Mungiu, Farhadi sembra volersi prendere gioco del suo protagonista, che ogni tanto vediamo in scena truccato da vecchio, trasformato in quei cattivi padri depravati che disprezza e che intende punire. Mentre a scuola i ragazzini stanno già cominciando a ridergli alle spalle.



Il miglior cinema iraniano è sempre riuscito a usare le proprie limitazioni come punti di forza. In un film iraniano non si può parlare di prostitute? Farhadi ci gira intorno per tutto il film, costringe gli spettatori a non pensare ad altro, e nel frattempo fa recitare ai suoi personaggi Morte di un commesso viaggiatore, dove una prostituta c'è, e c'è un'attrice che la interpreta (vestita di tutto punto). In un film iraniano le donne devono coprirsi il capo anche in casa? Taraneh Alidusti si prenderà una botta in testa in una colluttazione, così può restare fasciata per tutto il film. Il modo in cui Farhadi riesce a prendersi gioco apertamente delle stesse convenzioni che rispetta ha qualcosa di epico, ma se fosse tutto qui si tratterebbe soltanto dell'ennesimo film che ci spiega com'è difficile vivere in Iran oggi: l'ennesima edificante visita di istruzione in un Paese totalitario offerta al pubblico dei festival europei.

Invece Forushande parla anche di noi, e per accorgersene basta aspettare che si accendano le luci in sala, e ascoltare gli spettatori. È un film che ci fa discutere, e non soltanto della condizione delle donne in Iran. È un film che non rinnega le questioni irrisolte del suo Paese, ma riesce anche a toccarne di universali: la giustizia, la vergogna, la vendetta, la corruzione. È anche una detective story, a modo suo, che per un'ora e mezza va avanti rapida senza una sola scena di troppo, e poi si concede un'ultima mezz'ora lentissima, estenuante, spietata come il suo protagonista. Meno male che non aveva un bulldozer, ti viene da pensare. E ricordi una delle prime battute del film: "Come fa un uomo a diventare un mostro?", chiedeva uno studente. "Col tempo", rispondeva l'insegnante.

Il cliente è in programmazione al Cinelandia Fiamma di Cuneo fino a mercoledì 18 gennaio (ore 21; sabato 14 ore 17.20-20-22.35; domenica 15 ore 15.40-18.20-21).
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Nello spazio nessuno può sentirvi pomiciare

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Passengers (Morten Tyldum, 2016)

Ti svegli un mattino su un'astronave generazionale e scopri che c'è stato un errore: tutto il resto dell'equipaggio dorme e non si sveglierà che tra 90 anni. Re-ibernarsi è impossibile, suicidarsi la prospettiva più logica. Mentre ci rifletti, inciampi nella cella criogenica di Jennifer Lawrence, che sulla Terra faceva la giornalista ed era (ovviamente) molto spigliata e simpatica. La svegli? non ci pensi neppure.

Ma il giorno dopo ti svegli e sei di nuovo lì, tutto solo, davanti a Jennifer Lawrence congelata. Basterebbe ficcare un cacciavite nel circuito giusto, e potresti avere Jennifer Lawrence per tutta la vita, senza doverla dividere con nessuno, su un'isola deserta con tutti i comfort (per esempio sull'astronave c'è il karaoke e i ristoranti etnici e una piscina affacciata sullo spazio, altri comfort agli sceneggiatori non sono venuti in mente). Ma sarebbe un crimine, no? Una specie di omicidio, anzi forse peggio. Quindi non ci pensi più.

Ma il giorno dopo sei di nuovo lì, tutto solo, davanti a Jennifer Lawrence - non c'è rimedio a questa cosa. Del resto, se la svegli poi dovresti mentirle per tutta la vita. E convivere con questo orribile segreto (ma anche con Jennifer Lawrence). Che follia. Meglio pensare ad altro.

Ma il giorno dopo? E il giorno seguente?

Là dove l'uomo non è mai arrivato e forse neanche quelle famose foto che tenevo sul telefono.
A un certo punto Hollywood si è resa conto che la fantascienza sul grande schermo sarebbe sopravvissuta meglio di altri generi. Il passo successivo era cercare di allargare il bacino di utenza, che nel caso della fantascienza era perlopiù un sottoinsieme del genere maschile. Che vizzo stereotipo, vero? Però era così. Dunque  il problema era: come convinciamo le donne a sciropparsi film di astronavi?

Una delle strategie possibili era quella di mettere al centro dei personaggi femminili aspirazionali, magari un po' ribelli e atletici, ma femminili: ci facevi bella figura anche dal punto di vista politico. La letteratura giovanile negli USA aveva già inaugurato il trend. E così Jennifer Lawrence divenne l'arciere rivoluzionario di The Hunger Games. Nel giro di pochi anni ragazze eroiche hanno preso il controllo più o meno di tutte le saghe in circolazione - nonché dei lungometraggi Disney e Pixar, e di Star Wars. E finalmente quest'anno avremo Wonder Woman in un film tutto suo. Bene. Cioè. Siamo proprio sicuri che le donne vogliano vedere Wonder Woman al cinema? Cioè il motivo per cui a tante donne fin qui non interessavano le astronavi è che non c'erano donne ufficiali in plancia di comando? Siamo sicuri che queste eroine cazzutissime che abbattono avversari più grossi e armati di loro non siano un fantasma più maschile che femminile? Abbiamo davvero femminilizzato la fantascienza, o non abbiamo semplicemente costretto anche le donne a fare quelle cose odiosamente maschili come le guerre, le conquiste (e a indossare quei ridicoli pigiami da supereroi)?

Ora ti salto addosso in sala mensa,
così anche col femminismo siamo coperti
Un'altra strategia è quella di Passengers: se le donne devono proprio entrare in un'astronave, se è il Mercato che lo richiede, non si può almeno dar loro quello che vogliono? Perché a molte donne piacciono le storie coi sentimenti. Che stereotipo vizzo, già. Però è così (continua su +eventi!)

E quindi ecco Chris Pratt e Jennifer Lawrence. Il trailer parlava chiaro, la locandina ribadiva il concetto: questo è un film in cui Chris Pratt e Jennifer Lawrence si baciano, tutti soli su un'isola deserta - no, in realtà è un'astronave, ma è quasi la stessa cosa, anzi se volete può anche essere più romantico perché... perché... ci sono le stelle, ad esempio, tutte le stelle che vuoi... le nebulose, e ogni tanto cose ancora più incredibili come... le giganti rosse, ecco, il giorno del compleanno di Jennifer l'astronave passa davanti a una gigante rossa, una rotta economicamente suicida, ma vuoi mettere il romanticismo (qualche ora dopo la gigante rossa è già sparita, del resto vanno alla metà della velocità della luce).

Un film del genere, una crociera spaziale di Jennifer Lawrence e Chris Pratt, la puoi portare nei cinema anche a ridosso di un capitolo di Star Wars senza troppa paura di patire la concorrenza al botteghino; è tutta un'altra idea di fantascienza, di fiction, di romance. Probabilmente non è l'idea che venderà più biglietti; sicuramente è un'idea che farà inorridire molti critici e qualche femminist* - parliamo di un film in cui il maschio fa il meccanico e la donna la scrittrice. Persino io, che per le astronavi generazionali ho una specie di ossessione, ho avuto qualche difficoltà ad accostarmi a un film che sembrava più indirizzato al pubblico di Io prima di te. Ma devo ammetterlo: sono rimasto piacevolmente sorpreso. Forse perché, davvero, non mi aspettavo niente di più che un film in cui la Lawrence scopre che Chris Pratt è l'uomo della sua vita (nonché l'unico in tutto quel braccio della galassia) e gli dà due bacetti senza svestirsi, e invece ho passato una prima mezz'ora solo con Chris Pratt che mi ha fatto pensare a un vecchissimo film di astronavi e solitudine, Silent Running. Ho incontrato il barista Arthur (Michael Sheen), uno degli androidi più verosimili mai visti al cinema: cordiale, ragionevole, un ideale compagno di bevute, a differenza del sistema operativo di Her non acquisisce mai umanità e anzi contribuisce in modo determinante a farcene sentire la mancanza.

La mia scena di bacetti preferita 
è quando ci provano con le tute ma è complicato.
(Qui lei gli sta facendo notare che non può entrare nella tuta
col vestito da sera).
Ma soprattutto mi sono trovato davanti al dilemma su Jennifer Lawrence: svegliarla o impazzire? Ecco, per me la buona fantascienza deve fare questo. Isolare i dilemmi etici, gli argomenti che ci fanno discutere, inserirli in una cornice straniante - in questo caso lo spazio profondo, un'astronave di belli addormentati - allontanandoli da tutti quei dettagli localisti e vernacolari che ci distraggono dalla sostanza. Quando alla fine la Lawrence si sveglia, l'astronave diventa una pazzesca metafora di cosa può diventare un rapporto a due - amore e menzogna, devozione e manipolazione. Per dire, alcuni critici sono rimasti scandalizzati perché a Pratt, che ha commesso un delitto tanto sordido, il film offre una possibilità di redimersi. Ma come! Quello è uno stalker, un maniaco! La Lawrence non può perdonarlo, al massimo sarà vittima di sindrome di Stoccolma! Ok, son critici d'oggi, probabilmente avrebbero difficoltà anche con Rhett Butler - per tacere di quell'assassino di Romeo Montecchi, (Giulietta avrebbe dovuto ripudiarlo subito, altroché). L'idea che l'eroe di un film possa commettere un crimine, benché in una situazione di assoluta disperazione, fa sempre più fatica a passare. Ma quindi vere storie di redenzione non potremo più raccontarne, e quindi insomma che ci racconteremo? A parte le storie di ragazze predestinate che salvano l'universo, va bene - ma in un mese ne ho già viste due.

Con tutte le sue ingenuità, le sue giganti rosse e le gag involontarie, Passengers è un film che prova a raccontarci una storia diversa, che prende in prestito le suggestioni di tutti i successi fantascientifici degli ultimi anni (GravityInterstellarThe Martian) per ricordarci che anche nello spazio profondo continueremo a essere uomini e donne, ad attrarci e a respingerci per problemi altrettanto profondi. E poi, certo è anche un film in cui se Jennifer ha voglia di Chris, gli salta addosso in sala mensa. Migliore opera di fantascienza sentimentale del 2017, fin qui. Lo trovate al Vittoria di Bra (18:00, 20:10, 22:30), al Multilanghe di Dogliani (21:45) e al Cinecittà di Savigliano (20:20, 22:30).
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Capitan Fantastico scende in città

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Captain Fantastic (Matt Ross, 2016).


Lassù sulle montagne, dove l'aria è più buona e il capitalismo non arriva, vive senza chiedervi il permesso la famiglia Cash. Sono filosofi e carnivori; di giorno cacciano e disossano i cervi e la sera, intorno al fuoco, bivaccano studiando la teoria delle stringhe. Scalano montagne, affilano lame, sono buddisti ma armati. Un giorno scenderanno a darvi una lezione. Non si sentono superiori a nessuno; lo sono.

Fino a qualche anno fa non succedeva mai, e quest'anno è capitato già più volte, di ritrovarmi di fronte a un film americano pensando "beh ma preferivo la versione italiana". Non so se abbia più a che fare con la salute del cinema USA o con la mia. Il paragone tra Captain Fantastic e Le meraviglie di Alice Rohrwacher non ha molto senso, comunque: anche se entrambi sono molto piaciuti a Cannes. Da una parte un prodotto d'autore europeo, drammatico (con qualche virata nel simbolico), dall'altra un comedy-drama americano, uno di quei film da Sundance che di indipendente non hanno nemmeno la confezione; l'ennesimo tentativo di far convivere le suggestioni del ritorno alla natura con un linguaggio che infallibilmente ne restituisce immagini patinate. È una di quelle situazioni in cui i famosi production values americani, quei livelli ineguagliati di professionalità e organizzazione, si ritorcono contro la macchina: fai fatica a spiegarci Henry David Thoreau se i tuoi strumenti sono quelli con cui si gira la pubblicità di uno shampoo... (continua su +eventi!)






Matt Ross ha voluto girare un film diametralmente opposto alla sua opera prima, 28 Hotel Rooms: là c'erano soltanto due attori in 28 camere d'albergo diverse (da cui il titolo), qui c'è tutto l'Ovest, dalle foreste dello Stato di Washington fino ai campi di golf del New Mexico, uno schiaffo alla miseria e alla siccità; e una famiglia di selvaggi sapienti che è un trionfo di casting - ragazze e bambini hanno tutti pochi minuti per lasciare un segno, e ce la fanno. E poi c'è Viggo Mortensen, padre-padrone illuminato, che per metà film sembra davvero l'uomo più saggio del mondo: com'è prevedibile, basterà scendere un po' a valle perché tutto venga messo in discussione. Ma appunto, è un po' troppo prevedibile. È capitato ad autori più esperti di Ross di scontrarsi con lo stesso argomento, e di consegnare agli spettatori qualcosa di irrisolto o ambiguo (vedi Into the Wild). È come se intorno all'argomento ci fosse qualcosa di sostanzialmente sacro: magari ritornare alla natura è impossibile, ma non è comunque consentito riderne.




Il manuale di base della sceneggiatura televisiva prevede che l'eroe si scontri con le convenzioni; che a ogni parziale successo corrisponda l'accettazione dei propri limiti; le convenzioni sono elastiche, si lasciano penetrare, ma in cambio l'eroe deve capire che hanno un senso. Captain Fantastic deve accettare di essere un po' meno fantastic; passare dalla caccia all'agricoltura; in cambio resterà un filosofo e continuerà a conservare la sua famiglia bellissima. È un finale che ha un senso soltanto al cinema o in tv, e soltanto in America. Qui da noi è diverso, al punto che di un film così forse non sappiamo che farcene. Captain Fantastic questa settimana resiste solo al Fiamma di Cuneo (giovedì 15, venerdì 16, lunedì 19, martedì 20 e mercoledì 21 alle ore 21; sabato 17 ore 17.30 - 20.00 - 22.30; domenica 18 ore 15.00 - 18.00 - 21.00).
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Vita da gatto, un film da cani

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Una vita da gatto (Nine Lives, Barry Sonnenfeld, 2016)

Perché la maggior parte della gente cerca di comportarsi bene? Ok, qualcuno pensa di andare in paradiso. Qualcuno spera di lasciare un buon ricordo. Qualcuno proprio per fare il cattivo non è tagliato (ci vuole coraggio, ambizione, inventiva, è complicato). Ma la maggior parte della gente, perché non si comporta male tutto il tempo? Probabilmente credono nella metempsicosi: sperano di reincarnarsi nei gatti d'appartamento. Che altro chiedere dalla vita? Per dire che anche dietro a un film apparentemente inutile come Una vita da gatto c'è un'importante figura dell'inconscio collettivo: il sogno di finire come Kevin Spacey, palazzinaro di New York, troppo preso dalla sua carriera per vedere le esigenze di moglie e figlia bla bla bla bla, che una sera cade dal suo grattacielo e si risveglia nel corpo del gatto di famiglia. Scoprirà che non sono tutte rose e fiori e gomitoli di lana.

Perché l'Europa Corps non fa dei bei film, invece di farli brutti? Non è una domanda così peregrina. Nine Lives aveva un budget di 30 milioni di dollari (il triplo di Big Game): sono pochi? Se puoi scritturare Kevin Spacey, Christopher Walken e Jessica Gardner, e alla regia Barry Sonnenfield (La famiglia Addams, Men in Black); se hai abbastanza computer-grafica da riuscire ad animare un gatto che sembra vero, perché non riesci a costruirci non dico un capolavoro, ma un film abbastanza carino? Coi film d'azione forse è più facile - no, non mi riferisco a Lucy, Lucy è un episodio imperdonabile. Però finché è azione puoi sempre spararle grosse, magari non centri il bersaglio ma un effetto lo ottieni lo stesso, e anche un po' di ridicolo involontario non guasta mai (vedi il ciclo di Taken). Nine Lives invece vorrebbe essere un film per le famiglie: una cosa molto più delicata. Lo hanno scritto in cinque, senza mai azzeccare il tono. Si capisce che l'idea della trasformazione in gatto non è partita da un autore - qualcuno che avesse veramente voglia di dire qualcosa sui gatti d'appartamento, sul loro modo di essere e non essere parte della famiglia - ma dal reparto effetti speciali: ehi, guarda qui, siamo riusciti ad animare un gatto che sembra vero. Facciamoci un film, come quelle vecchie pellicole della Disney in cui a Dean Jones succedevano le cose più strane - in uno si trasformò effettivamente nel cane di famiglia. Perfetto, che problema c'è?

C'è che i gatti non sono cani, per esempio (continua interessantissimo su +eventi!) Immaginare un gatto che si strugge per cercare di dimostrare la propria umanità è faticoso. In generale, è faticoso immaginare un gatto che si strugge. Se sogniamo tutti di reincarnarci in felini è proprio perché sappiamo che quando finalmente ci arriveremo non ci fregherà più nulla di nulla - il nirvana. Gatto-Spacey invece si dà un sacco da fare, deve salvare la sua azienda, finire in qualche video buffo su youtube, creare quei simpatici casini domestici che fanno gli animali, e scoprire tante cose importanti sulla propria famiglia. Addirittura a un certo punto cerca di aiutare sua figlia coi compiti - ma un gatto che fa i compiti non è un gatto. Non fa nemmeno ridere. Nine Lives è un film che mette meccanicamente assieme tante cose che in teoria potevano fare un film, ma non ci riesce. Resta un'accozzaglia di cose messe lì. Negli USA è uscito il 5 agosto 2016, una delle date più terribili della storia del cinema mondiale (uscì anche Suicide Squad). Nine Lives non è altrettanto brutto, ma dimostra che il cinema americano non è un'alchimia così semplice. Anche con buoni attori americani, con un veterano americano alla regia, con un concetto tipico dei film per famiglie americane, il risultato è inferiore alla somma degli addendi. Lo trovate al Cityplex di Alba (19:00); al Vittoria di Bra (20:15); al Cinelandia di Borgo San Dalmazzo (15:15, 17:20, 20:15, 22:30); al Fiamma di Cuneo (18:10, 21:10); ai Portici di Fossano (20:00); all'Italia di Saluzzo (20:00); al Cinecittà di Savigliano (20:20, 22:30).
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Capitan Sully, l'eroe di due minuti

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Sully (Clint Eastwood, 2016).

Anche i migliori a volte hanno dei dubbi. Per esempio Clint Eastwood, come dire, la Storia del cinema. Secondo me ogni tanto se lo domanda: e se avessi sbagliato qualcosa? E se avessi fatto un errore? Quell'inquadratura era da dilettanti. Quel raccordo non riesco a perdonarmelo. Quante cazzate che ho fatto, e diciamolo, come attore valevo nulla. Ok, ho scoperto Michael Cimino, ma forse era meglio se lo avessi lasciato a girare pubblicità, per lui e per tutta l'industria. Magari sta uscendo da una macchina, Clint Eastwood, magari cammina su una passerella; tutt'intorno un cordone di sicurezza, sconosciute che vorrebbero abbracciarlo, c'è gente a cui Clint fa sesso a 80 anni, e intanto lui pensa: forse faccio pena.

L'unico modo per cambiare idea è riguardarsi uno dei suoi film. E commuoversi. No, Cristo, io non faccio pena, io sono la fottuta storia del cinema. Ho portato a casa film impossibili, ho dato un capo e una coda persino ad American Sniper - ok, la gente sarebbe andata a guardarlo anche se fosse stato girato e montato da un ragazzino daltonico, ma io ne ho fatto un fottuto film di guerra e di pace, e ci ho messo anche la retorica, ma solo quel pizzico che non stomaca e ti lascia il sapore dolce sul finale. Ed era la storia di un cecchino mitomane, Cristo, lasciate perdere i critici. Non sanno cos'è il mestiere, non se lo immaginano, non possono capire. Nessuno sa cosa vuol dire trovarsi sul set sotto pressione, a un'età in cui dovreste stare ai giardinetti, a stingere i denti e macinare un altro film da 60 milioni di dollari. Nessuno sa quanto sono bravo. Solo io posso capirlo. Gli altri al limite devono fidarsi. Di Clint Eastwood.

Sully forse non è un grande film, ma proprio per questo è un film straordinario. C'erano tanti modi di raccontare un'impresa epica, ma brevissima (cinque minuti tra il decollo di un jet di linea e l'ammaraggio più riuscito della storia dell'aviazione civile, 155 superstiti salvati nelle gelide acque del fiume Hudson, nessuna vittima). Hollywood conosce tantissime ricette per allungare il brodo e produrre film di successo, e Clint Eastwood le ha scartate tutte. Avrebbe potuto concentrarsi sulla biografia del pilota, darci dentro coi flashback; e invece a Eastwood dopotutto il passato di Sully non interessa un granché. Avrebbe potuto insistere sui passeggeri, raccontare le loro vite che si intrecciano casualmente sullo sfondo di una tragedia contemporanea evitata per un soffio - trovando nei nostri cuori più di una corda da suonare, in fondo siamo tutti passeggeri, siamo tutti potenziali vittime, potenziali eroi - invece no, neanche i passeggeri in fin dei conti sono così importanti per Clint. Avrebbe potuto insistere sul procedurale, offrirci dettagli ancora più specifici dell'inchiesta, le manovre vere o presunte della compagnia per pagare qualche migliaio di dollari in meno d'indennizzi - non ci avremmo capito quasi nulla, ma ci sarebbe piaciuto lo stesso, come in quei film di avvocati o broker finanziari. Ma non era quello il punto.

A Clint Eastwood interessavano solo quei due minuti: quelli in cui capitan Sully ha fatto la differenza (continua su +eventi!)


Questo non è il film (ma nel film è uguale).


A Clint Eastwood interessavano solo quei due minuti: quelli in cui capitan Sully ha fatto la differenza. Ce li mostra una, due volte: e poi le simulazioni, quattro simulazioni, in tempo reale; e giusto quando stavamo pensando Grazie, Clint, basta anche così, ci infila a forza le cuffie e ci fa riascoltare la scatola nera. Non è neanche più esattamente cinema, non è narrazione, ma nemmeno documentario; alla quinta volta che ritorni nella stessa cabina, è qualcosa di più simile a un addestramento, o a una liturgia. Scordati il passato, non pensare alla famiglia, non preoccuparti dei processi che ti faranno - faranno bene a farteli, ma adesso non ci devi pensare: e anche al boato dei passeggeri lì dietro, non c'è tempo per soffrire con loro, devi salvarli. È tutto lì. È veramente tutto lì. E se andrà a finire bene, ti daranno dell'eroe o del pazzo incosciente, ma che ne sanno? Non ne sanno nulla. Tutti i critici veri o computer-simulati non possono capire cosa vuol dire trovarsi al comando in quel momento, e prendere la decisione che non è mai giusta, la decisione che è meno sbagliata delle altre. Ti odieranno, ti ameranno, ti daranno dell'eroe, ma nessuno potrà capirti. E tu stesso avrai dei dubbi, tu stesso saprai di non poterti fidare dei tuoi ricordi. La memoria fa scherzi assurdi, l'inconscio di notte cambia le carte in tavola.

Sully è la piccola storia straordinaria di un tizio che fa una manovra mai fatta, viene immediatamente acclamato come eroe, ma in cuor suo sospetta di aver sbagliato tutto, di aver perduto un aereo, la pensione, e (soprattutto) l'autostima. Sully è un film che si appoggia con la leggerezza di un jet sul grande tema dello stress post-traumatico: che tra mille modi di commuoverci sceglie di ricordarci quei momenti in cui ci svegliamo di soprassalto pensando a un incidente che stavamo per commettere, e che in un mondo parallelo è successo, e siamo morti tutti, tutti. È un film che prosegue con un paragone azzardatissimo: dopo aver salvato il suo equipaggio, Sully salverà sé stesso, con lo stesso stile: poche semplici manovre al momento giusto. Il discorso con cui impone alla commissione la sua versione dei fatti è efficace e stringato (un altro segno subliminale che l'età di Obama è finita, forse anche nei film di Spielberg i discorsi si asciugheranno). Eastwood aveva a disposizione 60 milioni di budget e Tom Hanks nell'ennesimo ruolo di Capitano d'America. Poteva usarli come li voleva: li spende per dirci che il successo, il boato del popolo che ti ama e ti abbraccia, non significa niente. Se sei un professionista, l'unica verità sta nella scatola nera. Se sei un professionista, il miglior critico di sé stesso sei tu. E Sully questo è: un professionista. Come le hostess che da un attimo all'altro cominciano a eseguire una procedura mai fatta prima, una di quelle che non funziona quasi mai e di solito dopo si muore di schianto. Come tutta la città di New York, tutti i suoi abitanti e impiegati portuali che se vedono un aereo planare non perdono neanche un istante a domandarsi cosa fare: c'è una cosa sola da fare, se sei un professionista. E poi sarai anche un eroe, ma l'impresa eroica è quel tipo di cosa che ti capita se sei un professionista.

Sully è al Cityplex di Alba; al Cinelandia di Borgo San Dalmazzo; al Vittoria di Bra; al Fiamma di Cuneo; al Multilanghe di Dogliani; ai Portici di Fossano; al Baretti di Mondovì; al Cinecittà di Savigliano.
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Obama tramonta, Snowden resta (ma a Riotta non va proprio giù)

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Snowden (Oliver Stone, 2016)

Ricordate il giorno in cui avete pensato di coprire la webcam del vostro computer, il giorno in cui non vi è sembrata più una paranoia? Quando è successo? Difficilmente prima dell'estate del 2013. In primavera l'ex agente NSA Edward Snowden aveva abbandonato la sua postazione di lavoro alle Hawaii portando con sé in una card più di due milioni di documenti riservati dei servizi americani (e inglesi, canadesi, australiani, neozelandesi). In giugno li aveva consegnati ai reporter del Guardian che lo avevano raggiunto in una stanza d'albergo di Hong Kong. Qualche giorno dopo il suo avvocato riusciva a metterlo su un aereo. Snowden sperava di trovare asilo in Sudamerica, ma una volta arrivato in Russia, gli USA gli hanno revocato il passaporto. È ancora là.

Man mano che l'astro di Obama tramonta, è più facile accorgersi di come Edward Snowden sia una delle figure più importanti dell'ultimo decennio. Non ha semplicemente gettato una macchia sul presidente più cool di sempre; non si è limitato a rivelare segreti militari, non ha soltanto bruciato qualche agente di antiterrorismo: Snowden ci ha fatto coprire le webcam. Se prima dell'estate del '13 avevamo qualche sospetto di essere spiati dalle nostre compagnie telefoniche, da lì in poi abbiamo dovuto accettarlo: non c'è paranoia che non si stia realizzando. Ogni smartphone è una cimice, ogni videocamera fa rapporto a qualche grande fratello. A inizio 2013 sarebbe stata la premessa di un film di fantascienza distopica: tre anni dopo è già materiale per Oliver Stone.

Forse la storia più congeniale a essergli passata per le mani dai tempi di Nato il 4 luglio, a cui fin troppo somiglia. Prima di questo film la nostra idea di Snowden oscillava tra l'hacker e l'attivista per i diritti civili; ma lo Snowden di Stone è per prima cosa un veterano. Si ricomincia dal solito addestramento da accademia militare: correre nei boschi, strisciare nel fango, urlare sissignore all'istruttore. Potrebbe essere l'inizio dell'ennesimo film di guerra, se il giovane Edward non si fratturasse le ossa alzandosi dalla brande con troppo zelo. Non importa, gli spiega l'ortopedico: ci sono altri modi per servire la tua patria. Ma anche quando si dimetterà dalla CIA per scrupolo, trasformandosi in una specie di contractor privato; anche quando sceglierà di tradire il suo Paese, lo Snowden di Stone resterà a suo modo un soldato, proprio come il Kovic di Nato il 4 luglio che aveva bisogno di scoprire la militanza pacifista per rimettersi a urlare ordini ai sottoposti. Snowden è disciplinato e responsabile, Snowden valuta i pro e i contro di ogni situazione; rispetta il presidente come comandante-in-capo; prova devozione filiale per i superiori e un malcelato disprezzo per i camerati che per far carriera compiono gesti irresponsabili. E come il cecchino di American Sniperdi cui è una specie di gemello buono, ha una donna che vorrebbe proteggere e che in un qualche modo lo protegge.

Stone prende una complicata storia di leak e di intelligence e la smonta fino a trovare i fattori primi, umani, che funzioneranno anche con gli spettatori digiuni di crittografia. Se il rischio è accreditare il personaggio come un genio del computer, Stone lo corre volentieri. Non ha mai avuto la mano leggera, ma forse in questo caso c'era proprio bisogno di trasformare entità astratte in immagini potenti. La webcam che diventa un occhio: un ragazzino con la camicia in fuori che in qualche ufficio dall'altra parte del mondo può spiarti l'account facebook per antiterrorismo o per capriccio. Stone preferisce girare all'estero, ma quel che vuole realizzare è proprio il caro vecchio blockbuster americano: non esita a mettere al centro una storia d'amore; ce la mette tutta pur di inserire sequenze che non stonerebbero in film di spionaggio o di azione. E come Michael Moore, sente l'esigenza di ricordarci a ogni pié sospinto che è altrettanto americano dell'America che sta criticando (continua su +eventi!)


A Washington c'è un posto dove gli innamorati
mettono i lucchetti?


Snowden non è il film più avvincente dell'anno, ma è un utile ripasso su una delle figure più importanti dei nostri tempi, e tutto sommato ha senso che l'abbia realizzato un regista che condivide lo stesso ambiguo amore per la sua patria. Joseph Gordon-Levitt forse esagera col mimetismo, ma non è mai stato così bravo. Va da sé che si tratta della storia di Snowden secondo Snowden e i suoi avvocati; ma è un film abbastanza onesto da farci capire anche il punto di vista dei cattivi. Lo trovate all'Aurora di Savigliano alle 21:15.

PS: per un approccio più completo, segnalo questa epica recensione di Gianni Riotta sulla Stampa, che vi riassumo per sommi capi e per divertimento:

Primo paragrafo: nel 1932 Walter Duranty, un giornalista del NYT vinse un Pulitzer con un'inchiesta filostalinista (che c'entra con Snowden, vi chiederete? Dopo lo spiega);

secondo paragrafo: Zizek è affascinato da Trump e Stone bazzica il Cremlino: Putin gli avrebbe affidato un documentario sull'Ucraina (in realtà Stone ha prodotto un documentario di un regista ucraino naturalizzato negli USA, vabbe', dettagli);

terzo e quarto paragrafo: l'avvocato russo di Snowden è un uomo di Putin, Snowden è una sua marionetta, anche Stone è una sua marionetta e inoltre a una festa ha messo una mano sul collo della documentarista Laura Poitras. Nel romanzo che l'avvocato russo ha scritto sul caso Snowden tutti i nomi sono cambiati, il che non c'entra veramente nulla col film ma Riotta si mette a elencarli, per dimostrare che ha letto il libro (e il film, lo avrà visto?);

quinto paragrafo: Snowden ha arrecato gravissimi danni al controterrorismo, almeno a detta delle agenzie americane e francesi di controterrorismo. Kerry voleva arrestarlo, invece Oliver Stone ci ha fatto un film. È un regista che ha vinto degli Oscar, ma anche a un giornalista stalinista una volta hanno dato un Pulitzer, vi ricordate? Credevate che Riotta fosse andato fuori tema, eh? E invece no, tutto torna. E il film? Beh, il film lo liquida in una riga: "girato con telecamerine spia per effetto, è intriso di «superparanoia». Capita, come capitò a Duranty, cui, 90 anni dopo, vorrebbero togliere il Pulitzer". In realtà non risulta che Duranty fosse affetto da superparanoia, con o senza virgolette. L'ossessione di Riotta per un vecchio premio Pulitzer ha radici abbastanza contorte: qualche anno fa Glenn Greenwald (nel film è Zachary Quinto) definì un intervento di Riotta su Snowden "the opposite of journalism". Qualche mese dopo vinse il Pulitzer, appunto, per lo scoop su Snowden. Si vede che il critico cinematografico della Stampa se l'è legata al dito.
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L'America di Tom Ford, incubo patinato

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Animali notturni (Nocturnal Animals, Tom Ford, 2016)

Susan (Amy Adams) si annoia. Alla sua età, col suo reddito, è praticamente un must. Susan ha una ricca casa e un maggiordomo; una galleria d'arte che gestisce con sempre meno convinzione; un marito ricchissimo che la tradisce nel modo più discreto; e un fantasma del passato, un ex marito scrittore fallito (Jack Gyllenhaal) che dopo 19 anni le invia un manoscritto. Il mondo di Susan è finzione, ma ricorda: il mondo vero è molto peggio.

...That you're tired of yourself and all of your creations...
Anche Tom Ford vive in un mondo suo. I film se li finanzia da solo - se lo può permettere - e li gira con uno stile che che non ricorda nessuno di preciso ma che non sembra nemmeno ossessionato dal voler riuscire originale a tutti i costi. Potrebbe girare qualsiasi cosa, sceglie uno strano noir decostruito, che comunque somiglia a un noir normale quanto basta per essere distribuito nei multisala. È difficile capire cos'avesse in mente quando scelse per la sua seconda opera il romanzo non conosciutissimo di Austin Wright, anglista americano scomparso nel 2003. Difficilmente gli si può attribuire l'intenzione di mostrare l'America di Trump trasfigurata in un incubo.


And you say, “Oh my God, Am I here all alone?”
Fosse uscito un mese fa (era a Venezia a settembre) neanche ci avremmo fatto caso. Ma arriva in sala proprio mentre Trump apre le consultazioni col KKK, ed è una storia che sovrappone ricchi progressisti sofisticati a poveri rednecks briganti e stupratori... (continua su +eventi!) I primi si isolano in palazzi ermetici e sterilizzati; i secondi vivono come selvaggi in baracche ai margini del deserto, montano i gabinetti in veranda per cagare con comodo all'aperto. I primi vivono sospesi tra noia, rimpianti e paura; i secondi sembrano nascere nella notte, alimentarsi delle paure e dalla diffidenza. Sono un tizio semplice, dice l'assassino allo scrittore. Faccio quello che mi è richiesto. Se tua moglie mi dà dello stupratore, mi viene voglia di stuprarla.


Standing on a corner a ringin' my bell, 
Up stepped the sheriff from Thomasville. 
He said 'Young man is you name Brown? 
Remember you blowed Sadie down."
Il profondo Texas fotografato da Ford è una pura illusione, l'invenzione di un ex marito rancoroso, un dispositivo di tortura per sé e per Susan (e anche per noi, poveri spettatori). Considerata la confezione elegante, il perfezionismo delle luci e della composizione delle inquadrature; l'efficacia con cui si incastrano tre piani temporali senza mai generare equivoci; considerato il coraggio con cui Ford trova una sua strada scartando le suggestioni più banali, non indietreggiando davanti a scelte anche fuori moda (le dissolvenze incrociate!): considerato tutto questo, è notevole quante volte ci venga voglia di guardare, più che il volto smarrito di Susan o il tramonto texano, il quadrante dell'orologio. Ford  ha una specie di idiosincrasia, una difficoltà a rendere le scene collettive: anche in una sala affollata o in un ristorante, i suoi personaggi sembrano sempre soli o al limite in coppia; tutti gli altri rumori arrivano attutiti e la colonna sonora un po' vintage spesso latita (per poi saltar fuori quando meno te l'aspetti). In mezzo a tanta fredda eleganza ogni tanto spunta un dettaglio dissonante: un volto gonfiato dalla chirurgia, un'ingenuità di scrittura. Molto spesso ci domandiamo se quel che vediamo sia vero o no, se Susan abbia davvero una figlia dai capelli rossi e se i soliti sospetti siano davvero gli assassini che Ford ci ha mostrato un'ora prima. Se insomma il mondo fuori dalla galleria d'arte esista realmente, o non sia solo proiezione. Animali notturni è al Multisala Vittoria di Bra (21:00); al Cityplex di Alba (19:00, 21:10).
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(35 anni fa) Simon Le Bon ci ha salvato la vita

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Sing Street (John Carney, 2016)

C'è stato un momento - mica come adesso sapete. C'è stato un periodo in cui truccarsi non era una scemenza vanitosa come adesso, c'è stato un momento in cui era questione di vita o di morte. Ti mettevano in un angolo e te ne davano finché il trucco non ti serviva davvero a qualcosa. C'è stato in un periodo in cui non andavi ai talent a farti compatire, c'è stato un momento in cui dovevi farti compatire in casa, girarti un video e mandarlo in giro nella speranza che qualcuno dall'altra parte del mondo volesse perdere un po' di tempo e denaro per compatirti. C'è stato un momento in cui Simon Le Bon era avanguardia, in cui gli Spandau Ballett erano la ribellione, in cui i Cure potevano servirti con le ragazze. Ci sono stati gli anni Ottanta ma non erano la favola di plastica che vi raccontano adesso; erano ormoni, sangue, nicotina, brufoli, disperazione, e in mezzo a tutto questo, per quanto assurdo potesse sembrare, un George Michael.

A metà anni Ottanta, Cosmo piove dallo spazio in un sordido liceo di Dublino (nei titoli finali ci avvertono che adesso invece è una scuola bellissima che diploma tantissimi ragazzi successful: andateci). Due genitori che litigano, un fratellone depresso che passa il tempo a girare canne e 33giri, un compagno bullo che ha intenzione di sodomizzarlo entro gli esami. Bisogna avere un progetto, anche solo far colpo su una ragazza. Bisogna mettere su una band, girare un video, far finta finché non funziona (continua su +eventi!). Il successo sembra un traguardo impossibile, eppure la terra promessa è solo a un braccio di mare. Il film più autobiografico di John Carney non è probabilmente il suo meglio riuscito: la necessità di rendere un tributo a chi lo ha aiutato e a chi è rimasto indietro gli impedisce forse di guardarsi indietro col distacco necessario. Coi metri che usiamo da vent'anni, il suo eroe non è che un poser: si esprime per citazioni che ha appena mandato a memoria, cambia look a seconda del videoclip che è riuscito a guardare il giorno prima. Il suo stesso immaginario è poco più elaborato di una mensola di videocassette. Cosa dire, salvo che negli anni Ottanta eravamo davvero così: ignoranti, superficiali, disperati, determinati. Ci esprimevamo per versi malintesi di canzoni, e sognavamo per videoclip. Ne abbiamo copiata di roba prima di trovare una voce personale, ammesso che l'abbiamo trovata e che interessi a qualcuno. Del resto avevamo quindici anni: e il suono più meraviglioso del mondo non era la campana della scuola e neanche il rullante della batteria. Era la voce gracchiante al citofono del tuo migliore amico appena conosciuto, che ti chiedeva se avevi voglia di andare al parco a scrivere una canzone. Sempre.

Sing Street è al Moretta di Alba lunedì e martedì alle 21; al Fiamma di Cuneo alle 21:10 fino a mercoledì.
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Cicogne, tornate al core business

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Cicogne in Missione (Storks, Nicholas Stoller e Doug Sweetland, 2016)

Come sapete, da un po' di tempo in qua le cicogne non portano più i bambini. Troppo rischioso, troppo coinvolgimento, insomma adesso preferiscono recapitare smartphone e altri beni di prima necessità. Gli affari vanno bene, tutti sono contenti, noi umani abbiamo trovato un sistema per fare bambini comunque, eppure... eppure forse si stava meglio prima.


Bastano pochissimi minuti per capire che gli autori di Storks hanno lavorato anche al meraviglioso Lego Movie. Le scenografie sono diverse (più convenzionali, purtroppo), i mattoncini hanno ceduto temporaneamente il posto a un mondo di fattorini pennuti, eppure l'atmosfera è la stessa: una grande azienda, un meccanismo grigio, omologante, perfettamente oliato dove basta che qualcuno non sia dove dovrebbe essere per scatenare un'esplosione caotica e vitale. Questo è probabilmente il miglior pregio di Storks: in una fase in cui ormai esce un buon film d'animazione alla settimana, e il rischio che si assomiglino tutti è inevitabile, la nuova divisione digitale della Warner quantomeno sta riuscendo a costruirsi un'identità.


Se non può rivaleggiare con la Pixar per qualità o per ambizione, almeno sta diventando un'anti-pixar dal punto di vista ideologico: se la compagnia di Monsters & co., e Inside Out ha sempre celebrato l'importanza del lavoro di gruppo, anche nella versione più corporativa e aziendale, Lego e Storks cercano di suggerirci che le ditte sono la morte dell'individualità e della fantasia. Giusta o sbagliata che sia, almeno è un'idea: alla Universal con Pets si sono contentati di prendere vecchie idee Pixar e rimetterle assieme senza aggiungerci niente, e il botteghino sta dando ragione a loro. Ma Storks è un film più interessante. Sfortunatamente, l'altro punto in comune con Lego è l'ipercinesi (continua su +eventi!)


Cicogne, umani e altri personaggi non stanno fermi un attimo, hanno continuamente cose da dirsi ed emozioni da manifestare nel modo più teatrale possibile. Sembrano tutti isterici; ogni snodo della trama parte da un loro gesto impulsivo. La cosa curiosa è che il film sembra proprio voler criticare questo approccio iperattivo alla vita moderna, eppure nella coppia di agenti immobiliari che vivono con l'auricolare (e non hanno tempo di avere un secondogenito) sembra di riconoscere gli sceneggiatori: non hanno mai tempo, devono condensare intere vite in flashback di pochi secondi, far girare i loro protagonisti per il mondo in un battito di ciglia. Cicogne in missione è un film divertente, che strizza l'occhio soprattutto ai giovani genitori, ma come in Lego rischia di disorientare proprio il vero pubblico di riferimento, i bambini. Oggi è ai Portici di Fossano alle 18:30; al Multisala di Bra alle 17:30.
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La vita segreta (non troppo originale) degli animali

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Pets - Vita da animali (The Secret Life of Pets)

MORTE AL GENERE UMANO!
Cosa fanno i nostri animali mentre noi non siamo in casa? Cosa volete che facciano: perlopiù dormono, mangiano, litigano, scappano di casa, vanno alle feste, complottano contro il genere umano, guidano missioni suicide contro convogli di accalappiacani, e poi tornano a casa in tempo per scodinzolare quando apriamo il portone.

Pets è il sesto film della Illumination Entertainment - se contiamo anche il primo Cattivissimo me (2010), che era ancora un prodotto della francese Mac Guff, acquisita di lì a poco. L'Illumination ha l'esclusiva per i film di animazione della Universal e grazie ai Minions è diventata una delle più grandi realtà dell'animazione digitale: più grande della branca animazione della Fox, da cui proviene il fondatore (Chris Meledandri lavorò ai primi due Era glaciale), più grande della Dreamworks che forse Meledandri si comprerà. Più in altro c'è solo la Disney/Pixar, ma per ora più che competere sembra che la Illumination si contenti di imitare. Gru e i Minions almeno avevano una loro identità, magari non originalissima, ma tra tanti prodotti in 3d si facevano riconoscere; Pets non prova neanche per un istante a sembrare diverso da quel che promette nei trailer: una rifrittura di concetti e luoghi pixariani e disneyani.

Che poi non si capisce come vada a finire:
diventa vegetariano?
Meledandri è molto bravo a mantenere bassi i budget e stavolta non ha speso molto nemmeno per l'idea (continua su +eventi!): facciamo Toy Story con gli animali, al posto del cowboy e dell'astronauta mettiamo due bastardini che prima litigano e poi diventano amici inseparabili. Mettiamoci anche un cattivo dolce e insospettabile, come in Toy Story 3. Un predatore che cerca di vincere i propri istinti, come lo squalo di Nemo. C'è persino il siparietto lisergico, come in Dumbo e nel Good Dinosaur; il tutto senza foga citazionista: semplicemente si prendono cose che si sa che funzioneranno bene, e si usano ancora una volta, senza pretese di originalità ma nemmeno troppi  ammiccamenti. Neanche il successo straordinario dei Minions ha fatto venire a Meledandri la voglia di rischiare un po', e il risultato è un altro boom al botteghino: un film che incasserà più di Zootopia, raccontando situazioni simili (una comunità di animali che convive nella diversità) con molta meno fantasia.



Quanto sia meccanico l'approccio lo si vede bene nel momento in cui il film si ritrova all'improvviso in una situazione 'alla Up': da qualche parte nella grande città c'è una piccola casa col giardino, dentro forse c'è ancora un anziano signore che aspetta uno dei personaggi. Una scena del genere, in un Pixar autentico, sarebbe stato un colpo al cuore: il classico momento dei lacrimoni. Qui niente. Viene persino pronunciata la parola speciale, "morte" - una parola che in un prodotto per bambini deve essere usata con una cautela - ma non ci si ferma a riflettere, men che meno a piangere: è solo uno snodo qualsiasi della trama, lo spunto per un battibecco in attesa dell'ennesimo inseguimento. Verrebbe da dire che per i bambini magari è meglio così, il pathos di certi film della Pixar è inadatto a loro - ma poi c'è una scena d'azione eccessivamente intensa, in cui i personaggi praticamente annegano, roba che gli stessi bambini potrebbero sognarsi di notte. Non è una questione di budget, non è un problema di rendering: è proprio che manca il cuore. Ma c'è un sacco di animaletti buffi, e sta piacendo a tutti. Al Vittoria di Bra (alle 20:00 in 3d, alle 22:20 in 2d); al Fiamma di Cuneo (alle 21:00); al Multilanghe di Dogliani (alle 21:30 in 2d) e ai Portici di Fossano (alle 18:30 in 2d).
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Woody torna a Hollywood, Woody torna a NY

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Café Society (Woody Allen, 2016)

Non importa se nel frattempo ti sei scavato il tuo buco in questo mondo: quante mani stringi, quante persone conosci, quanti ti devono un favore. Lì su un divano c'è il tuo primo amore, per quanto hai scavato è riuscito a snidarti. Vuole controllare che stai bene, vuole mostrarti che sta meglio. Chiacchiera di cose che non ti interessano, cose che non ritenevi dovessero interessarle: cose che comunque non avresti potuto permetterti, tutte queste cose teoricamente inutili che ormai stanno tra te e lei. Spalanca una finestra su quel teatrino che avevi messo insieme con due ricordi, quella farsa che chiamavi il passato trascorso assieme: non è trascorso davvero, non eravate realmente assieme: ogni discorso era un equivoco in attesa di una terza, o una quarta persona. Rimane solo un gran vuoto, ogni tanto qualcuno ti avvertirà che lo stai fissando.

Per molto tempo Woody Allen e Hollywood ci sono sembrati due universi lontani, in qualche modo complementari. Poi lentamente qualcosa è cambiato, qualcosa è collassato, e WA si è scoperto un classico. Un comico che aveva cominciato a confezionare film per aggirare le autocensure dei network televisivi, che li girava sghembi e irregolari, senza vergognarsi di prendere in prestito stilemi e soluzioni dai suoi maestri più o meno dichiarati, anno dopo anno, film dopo film, si è ritrovato padrone di un locale in cui era entrato da fattorino, depositario di un enorme repertorio di cose che nessuno viene più a ritirare. Tanta roba di ottima fattura ma un po' fuori moda: lo swing, i telefoni bianchi, perché no; quelle roboanti voci fuori campo del cinema di una volta, quelle sceneggiature squillanti in cui i personaggi fumano come ciminiere, bevono come spugne, dicono tutto quello che gli passa per la testa, compreso "muoio per amore" al primo tizio che ti presentano a una festa - quelle cose che succedevano in quei vecchi film che forse non abbiamo mai visto, ma ormai ce li immaginiamo simili a quelli in costume di Woody Allen.

Cafè Society questa settimana è il film proiettato in più sale, anche nella provincia di Cuneo - se la gioca con la pesciolina Dory - del resto lo abbiamo visto, ormai il marchio Woody Allen è una specie di Walt Disney per la terza età. La gente non va a vedere molti film, ma i suoi sì. Non è un film particolarmente divertente, non è nemmeno una tragedia: è il tipico film del tardo WA. Un cast notevole, costumi stupendi, fotografia pazzesca - in un certo senso è più un film di Storaro che di Allen, luci e inquadrature sembrano più importanti delle chiacchiere pure interminabili dei personaggi. La trama è più evanescente del solito e questo è forse un vantaggio, rispetto agli ultimi anni di canovacci un po' scontati: come se volendo evitare la solita storia, si fosse ritrovato quasi senza storia da raccontare. Siccome i fratelli Dorfman sono una coppia classica del cinema alleniano - il gagster e il giovane innocente di belle speranze - per buona parte del film ti aspetti una svolta tragica che invece, sorpresa! non avviene. Qualcuno viene effettivamente ucciso e nascosto, ma per futilissimi motivi, quasi non se ne possa fare a meno: c'è una pistola sul set, usiamola.

Forse una relativa novità sta nell'idea di mostrare un triangolo sentimentale dal punto di vista del giovane infelice. Sappiamo che per Allen le ragazze sono naturalmente attratte da uomini col doppio dei loro anni: non necessariamente ricchi o potenti (ma aiuta), senz'altro più saggi e colti (continua su +eventi!). Un tipo preciso di relazione da sempre vista con sospetto nelle commedie sentimentali e quasi del tutto rimossa da quelle di ultima generazione, che per WA è una specie di condizione di natura, indiscutibile, al punto che nel film dell'anno scorso la studentessa Emma Stone non aveva nessuna difficoltà a scambiare effusioni col suo professore Joaquin Phoenix sul prato della facoltà - sono quelle piccole cose che ricordano allo spettatore che siamo nel mondo di Allen, un mondo dove un cinquantenne troverà sempre una ventenne disposta a impazzire per lui. 

Poi le cose non vanno sempre a finire nel migliore dei modi, ma forse è la prima volta che Allen sceglie di mostrarci la storia dal punto di vista opposto al suo: il ragazzo giovane che viene scaricato perché l'uomo ricco e potente (Steve Carell), per una volta, ha deciso che lascia davvero la moglie per la segretaria. È una piccola rivoluzione copernicana, ma forse è anche il motivo per cui il film gira un po' a vuoto, malgrado Jesse Eisenberg sia quel tipo di attore che sembra nato per recitare film di Allen. Si capisce che il regista vorrebbe dare al suo personaggio un po' di profondità - gli regala anche un siparietto divertente con una ragazza squillo che ai fini dello sviluppo della trama non ha molto senso - e però fino alla fine questo giovane Dorfman resterà poco più che una silhouette, uno che prende continuamente le distanze dalla superficialità e dal cinismo hollywoodiani salvo andare a infilarsi in un posto altrettanto superficiale e cinico come un nightclub newyorchese. Come se WA, dopo aver deciso di mettere in scena l'educazione sentimentale di un giovane, si fosse distratto - tanto che le battute migliori stanno in bocca ad attori attempati e riguardano, come al solito, la morte ("vivi ogni giorno come se fosse l'ultimo, e un giorno o l'altro ci azzeccherai"). Partito con l'idea di raccontare le illusioni perdute della gioventù, WA sembra davvero ritrovarsi soltanto davanti a quell'ingrigito padre ebreo che senza alzarsi da letto lancia la sua sfida alla morte: me ne andrò, ma non staro zitto. "Protesterò"; e a quella moglie in vestaglia che gli risponde: protesterai con chi, protesterai di cosa?

Infine c'è Kristen Stewart, che con Eisenberg recita spesso e si trova bene - anche se neanche con lui sembra mai davvero a suo agio - coi suoi broncetti imbarazzati che contagiano lo spettatore e lo lasciano sempre interdetto - è brava a sembrare imbarazzante, o è imbarazzante e basta? Quando è sulla spiaggia col fidanzato giovane, e i raggi dell'amore si velano all'improvviso dell'ombra del rimpianto che Kristen sottolinea trattenendo a stento il fiato come a reprimere un rutto: cattiva recitazione o colpo di genio? Perché a volte le ragazze fanno davvero così, io le ho viste. Credo. È passato del tempo. Non sono più la stessa persona. Vivo in un'altra città, faccio un altro lavoro, tutti mi salutano l'unica cosa che mi è rimasta è che vado ancora a vedere i film di Woody Allen - oggi al Citiplex di Alba (17:00, 19:00, 21:15), al Cinelandia di Borgo San Dalmazzo (15:20, 17:40, 20:20, 22:30), al Vittoria di Bra (17:30, 20:00, 22:00), al Fiamma di Cuneo (15:15, 18:15, 21:15), ai Portici di Fossano (16:00, 18:30, 21:15), al Baretti di Mondovì (21:00), al Cinecittà di Savigliano (16:00, 18:10, 20:20, 22:30).
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I cagnolini della guerra

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Trafficanti (War Dogs, Todd Phillips, 2016)

Voi cosa combinavate a 22 anni? Nel 2006, Efraim Diveroli gestiva dal tinello del suo appartamento una ditta scalcinata che gli aveva passato il padre per levarselo di mezzo. Cercava di vincere appalti per forniture all'esercito. Appena l'esercito metteva il bando su un sito, Diveroli si metteva a cercare le forniture più a basso costo che trovava. Le forniture erano armi, fucili e munizioni, raccattate il più delle volte a prezzi di saldo dai magazzini dei Paesi del vecchio blocco sovietico. Qualche volta vinceva un appalto, qualche volta lo perdeva, e nel giugno del 2006 ne vinse uno per trecento milioni di dollari. Questo faceva Efraim Diveroli a 22 anni - e a 24 era in galera. Ma non c'è rimasto poi tanto, e in seguito non ha nemmeno cambiato mestiere - solo il nome alla ditta. In fondo cos'aveva fatto di male? aveva soltanto smerciato munizioni albanesi agli afgani filo-USA, senza sapere che erano di fabbricazione cinese. Pare che per il Pentagono non sia un problema se armi i tuoi alleati con Ak-47 degli anni Sessanta e con proiettili recuperati in qualche bunker in Albania, magari da un tizio che è sulla blacklist e usa come prestanove un ventiduenne sovrappeso di Miami. Però se scopre che è roba fatta in Cina, è un guaio, ehi, con la Cina c'è un embargo. La guerra è così. L'America è così. E Trump non ha ancora vinto, pensa

Un film come War Dogs si scrive da solo, ma se l'avesse scritto Scorsese saremmo tutti più felici (continua su +eventi!)



Fa ridere perché sono al Ministero della Difesa
ma si sono appena fatti una canna e quindi sono in para dura
AH AH AH  (no sul serio forse sono troppo vecchio, boh),

Un film come War Dogs si scrive da solo, ma se l'avesse scritto Scorsese saremmo tutti più felici. Un bel vortice di avidità e dissipazione, l'ascesa e la caduta dell'ennesimo personaggio posseduto dallo spirito animale del capitalismo eccetera. Invece è toccato a Todd Phillips, reuccio della stoner comedy, avete presente, quei film coi ragazzi americani che si fanno le canne (il che pare sia divertente in sé, almeno questa è la spiegazione che mi do: i giovani americani vanno al cinema a vedere giovani americani farsi le canne, perché ciò li diverte). Molto spesso c'è Jonah Hill, che in Wolf of Wall Street faceva proprio da anello di congiunzione tra la stoner comedy e l'universo adulto (ma ancora più stonato) di Scorsese. E benché Jonah e la sua spalla perfettina Miles Teller, mentre inseguono i loro sogni avidi, citino più volte Scarface di De Palma, è a Scorsese che Phillips torna in continuazione. E va benissimo: siamo tutti in crisi di astinenza da Scorsese, in quella fase in cui non si va tanto per il sottile e mandi giù di tutto, anche Bradley Cooper che fa il ricercato internazionale (del resto produce lui). War Dogs avrebbe potuto riuscire meglio: l'epopea di due ragazzini americani ignoranti che si ficcano in guai più grandi di loro meritava forse una narrazione più distesa; ma la formula originale per miscelare il moralismo con la fascinazione per il crimine la conosce solo Scorsese, e se la tiene ben stretta. O forse si sarebbe potuto insistere di più su come l'esercito americano si sia voltato dall'altra parte per non vedere da dove i fornitori gli procuravano le armi - imbroglioni di mezza tacca, ragazzini che fotoscioppavano i bilanci, a un certo punto andava bene di tutto, e se non ci si fossero messi in mezzo i giornalisti forse Diveroli starebbe ancora trafficando kalashnikov della guerra fredda. Magari lo sta ancora facendo. Hill e Teller sono in parte, ma non sembrano giovani come effettivamente erano Diveroli e il suo socio Packouz: del resto a 22 anni qui da noi sei ancora un ragazzino. I due protagonisti sembrano già sulla trentina, quel momento nella vita in cui certe porte si chiudono, magari una compagna resta incinta e sì, se un tuo vecchio amico ti avesse proposto di trafficare munizioni in medio oriente, tu saresti stato abbastanza disperato da accettare. Trafficanti è al Cinelandia di Borgo San Dalmazzo alle 20:20 e alle 22:45; al Cinecittà di Savigliano alle 20:20 e alle 22:30.
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Alla ricerca del sequel perfetto

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Alla ricerca di Dory (Finding Dory, Andrew Stanton, 2016).

Cara Pixar,
c'è qualcosa che volevo chiederti, ma non ricordo cosa.
A proposito, complimenti per il successo del tuo nuovo film - il seguito di Nemo, tredici anni dopo - sembra che stia mettendo tutti d'accordo, e con i sequel non è facile, sai? Ma certo che lo sai. Ormai siete i più esperti: tra la saga di Toy Story, Cars 2 e... e... quell'altro film coi mostri che ho pur visto e adesso... c'è un altro tuo film al cinema, lo sapevi? Beh, sì, immagino di sì.

Stavamo dicendo?

Il prossimo fatelo sul polpo per favore
Cara Pixar,
quello che vorrei dirti è che sono proprio contento per i tuoi ultimi successi. Ti credevamo un po' appannata, poi Inside Out ha fatto il botto e soprattutto non era il solito film, era qualcosa di davvero nuovo. L'altro film coi dinosauri non è andato altrettanto bene, ma anche in quel caso non si può dire che abbiate scelto l'approccio più banale al problema. Invece ero un po' in pensiero a causa dei sequel. No, non ho niente contro i sequel, immagino che siano investimenti sicuri. Non si vive di soli Inside Out, certe volte bisogna anche prendere fiato. E poi bisogna ammettere che il vostro approccio ai sequel è tutt'altro che banale. Questa idea, per esempio, di spostare l'attenzione sul comprimario, su un personaggio che nel primo film sembrava monodimensionale - è una mossa interessante, perché sfida davvero le tue aspettative di spettatore. Anche solo l'idea di dire: facciamo un film con Cricchetto protagonista e Saetta McQueen da spalla - è chiaro che la prima reazione dello spettatore è: non funzionerà mai. Cricchetto è ridicolo, è imbarazzante, inaffidabile, non ha la profondità che serve. E invece. Stessa cosa col mostro-monocolo di Monsters University, come si chiama... è solo una spalla comica, non puoi caricare tutto il film sulle sue palpebre, no? E invece...

È un po' come con la vita vera, quando all'improvviso condividi qualcosa con una persona che fino a quel momento era rimasta sempre all'orizzonte delle tue conoscenze, e ti rendi conto che è una persona in carne e ossa proprio come te, e che tu l'hai snobbata fino a quel momento. È un effetto molto particolare, ma non ricordo assolutamente perché ne stavo parlando con te che sei... chi sei? Ah sì, la Pixar.

Per dire, hai presente Nemo? Immagina che un giorno ne facciano un sequel, e invece di raccontare un altra storia di Nemo che si perde, si concentrino, che ne so! sulla tartaruga hippie, o magari su quella pesciolina che aiutava il padre di Nemo e che aveva un problema con la memoria a breve termine, come si chiamava? Ecco, immagina una cosa del genere. La tua prima reazione è: ma cosa puoi raccontare su una pesciolina che perde la memoria ogni cinque minuti? È solo una comparsa, una spalla, non può funzionare. E dopo un'ora di film immagina che stai piangendo per la sorte della pesciolina, e di Nemo non ti frega più niente, è diventato la comparsa nella vita di qualcun altro. Sarebbe incredibile, no?

Ecco, forse sto scrivendo alla Pixar per proporre una storia del genere.
O il romanzo di formazione di Anton Ego.
O le avventure di Charles Muntz sul suo dirigibile.

Cara Pixar,
ultimamente ho qualche problema a mantenere la concentrazione - (continua su +eventi!)

Cara Pixar,
ultimamente ho quaalche problema a mantenere la concentrazione - sarà l'età, o gli impegni, insomma, quel che scrivo può risultare un po' sconnesso. Volevo dirti che ho visto il tuo ultimo film ma... non sono così sicuro di averlo visto. Ma correggimi se sbaglio. C'è un comprimario di un film precedente che nella prima mezz'ora si comporta in modo insopportabile. Finché non ti rendi conto che dietro questa scorza imbarazzante c'è una persona vera (anche se è solo un personaggio di pixel), col suo fardello di traumi e delusioni. Scommetto che si ritroverà sperduto in una situazione più grande di lui, e potrà farcela soltanto grazie al sostegno di amici vecchi e nuovi, perché lo spirito di squadra è il minimo comun determinatore di ogni lungometraggio Pixar. E ci sarà una scena madre attentamente preparata per sessanta minuti, che ci farà piangere come fontane, e poi un po' di azione insensata e divertente prima del finale. Ecco, questo è il film che tra un po' uscirà nelle sale, e non vedo l'ora. Anche se non vado matto per i sequel. Ma non si può sempre aver tutto.


Non mi freghi piiaaaaaaaaaaawwwww



Cara Pixar,
mi è venuto un dubbio. Forse il film dopo tutto l'ho visto, ma ero stanco, oppure in sala c'erano troppi bambini che chiedevano di essere rassicurati: ma poi tornano il papà e la mamma? ma poi lo ritrova Nemo? Ma poi dove va il polpo? Ma poi, ma poi, ma poi. Cara Pixar, adesso che mi ricordo forse volevo scriverti che sono un po' stanco del modo in cui riesci sempre a manipolarmi: a farmi odiare un personaggio (Dory per metà film è insopportabile) e poi a farmi piangere per lei. Che ormai ho capito come funzioni e non c'è neanche più bisogno di ricordarseli, i tuoi film, dopotutto la struttura si ripete. Che questo, in particolare, funziona fino a un certo punto: i vecchi personaggi sono ridotti a macchiette, i nuovi sono interessanti ma non c'è quasi tempo per svilupparli (il polpo in particolare non sta fermo un attimo). Che la sequenza finale è un po' troppo fracassona, come era già successo con Cars 2, uno dei tuoi film più deboli. Che insomma forse a questo punto è ora di lasciarci, perché è più colpa mia che tua. Tu hai i tuoi franchise da mandare avanti per quei milioni di bambini che hanno il diritto di sentirsi raccontare le vecchie storie. Se io comincio ad annoiarmi, a fissarmi sui dettagli o a intravedere i meccanismi, è un problema mio. Devo passare ad altro. Magari facendo finta di non vedere che c'è più cinema in un tuo sequel riuscito a metà che in molti film cosiddetti d'autore. Cara Pixar.

Non mi ricordo più cosa ti stavo dicendo. Ma sai che c'è? Non importa. Non vedo l'ora di vedere il tuo prossimo film, ho sentito che è nelle sale! Anche se è un sequel. Alla ricerca di Dory è al Cityplex di Alba (19:45, 22:00), al Cinelandia di Borgo San Dalmazzo (20:20, 22:35), all'Impero di Bra (alle 20:20 in 3D, alle 22:30 in 2D), al Fiamma di Cuneo (21:00), al Bertola di Mondovì (21:00), all'Italia di Saluzzo (20:00, 22:15), al Cinecittà di Savigliano (20:20, 22:30).
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Compra un esame in Transilvania (prima che lei compri te)

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Un padre, una figlia (Bacalaureat, Cristian Mungiu, 2015).

Romeo ha una cinquantina d'anni, una moglie che non lo guarda più negli occhi, un appartamento dignitoso al piano terra di un quartiere in sfacelo, un telefono che suona in continuazione, un reparto di ospedale da mandare avanti, un'amante che comincia a lanciare ultimatum, un'unica figlia a cui ha insegnato l'importanza dell'onestà, dell'integrità, del duro lavoro. La Romania è un disastro, ma Eliza può farcela; ha vinto una borsa di studio per l'Inghilterra, l'importante è superare l'esame di maturità. Cosa può mai andare storto? Romeo ha una settimana di tempo per rovinare tutto; perdere la famiglia, la stima di sua figlia e di sé stesso. Può bastare un sasso, una distrazione, una tentazione, una macchina ferma sul lato sbagliato della strada. La Romania è un cantiere abbandonato, chi ha vinto l'appalto è scappato per primo, c'è gente che ci si nasconde e gente che gira a vuoto, in cerca di uscita.

Oh com'è difficile restare padre quando i figli crescono e le mamme imbiancano - oh oh oh oh 
Quel po' di esotico che la Transilvania aveva conservato in Oltre le colline, Mungiu lo distrugge con Bacalaureat. La periferia cementifera di Cluj-Napoca è così anonima che potremmo essere nella Vallonia dei fratelli Dardenne, che del resto producono. Mungiu ha ammesso di sentirsi più vicino alla loro poetica che a quella dei cineasti rumeni della sua generazione, e a suo modo è globalizzazione anche questa: il suo eroe dardennizzato è ripreso di spalle più spesso del solito e lotta contro una società che non gli permette di giocare pulito. Qua e là Mungiu sembra voler tentare una chiave di lettura un po' più simbolica, che però rientra subito tra i ranghi: i Dardenne, e i loro fan, sanno meglio di tutti cosa vogliono vedere per due ore: marciapiedi sbrecciati, playground arrugginiti, una volta il cinema era l'alternativa low cost ai viaggi esotici, ormai l'ultima frontiera dell'esotismo sono le periferie urbane decadenti per le quali non ci verrebbe mai voglia di acquistare un biglietto. Ma dopo due ore in compagnia di Romeo ci sembrerà di conoscere Cluj come quel quartiere dormitorio in cui abbiamo passato un semestre.




(Ani de liceu, cand tii soarele in mana si te crezi legendar Prometeu...)


Vien voglia di chiedere la cittadinanza onoraria, anche perché Mungiu si è fatto un po' prendere la mano. Ormai lontana la secchezza di 4 mesi 3 settimane e 2 giorni, con quella scansione fulminante in tre atti: Bacalaureat dura venti minuti in più, di cui alcuni passati semplicemente a far girare a vuoto il protagonista, o a farlo riflettere immobile su una panchina. E per quanto la sceneggiatura sembri infierire contro di lui, alla fine non si riesce a non voler bene a questo povero tizio che vuole salvare la figlia dal disastro che lui stesso è diventato. Del resto Bacalaureat parla di corruzione sociale ma anche fisica - di come sia inevitabile venirci a patti, a una certa latitudine e a una certa età. Ma anche chi è scappato in terre meno corruttibili potrà voler dare un'occhiata - il film è al Fiamma di Cuneo fino a mercoledì (ore 21); da giovedì è al Monviso (sempre a Cuneo, sempre alle 21).
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Chi vi uccide sa quello che fa, date retta

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Il diritto di uccidere (Eye in the Sky, Gavin Hood, 2015)

Ora vi spiego la guerra, signorini.
O uomo occidentale, cos'è troppo grande per te? Gli dèi del tuo antenato, gli dèi della folgore e degli oracoli, non avevano un decimo del tuo potere e del tuo sapere. I tuoi droni possono localizzare il nemico al gabinetto; colpirlo con folgori da decine di megatoni e spalancare l'inferno ovunque tu decida che è giusto. Puoi vedere tutto, puoi bruciare tutto. Ma a volte vorrai solo chiudere gli occhi.

C'è un Occhio che gira intorno al mondo e vede quello che vuoi e che non vuoi. C'è una casetta da qualche parte in Kenya, con stanze separate da tramezze che non arrivano al tetto (molto comodo per le inquadrature dei mini-droni). Dentro ci sono terroristi fanatici, che forse credono che la cittadinanza inglese o americana li protegga dall'Occhio. Stanno per indossare pettorine e andarsi a fare esplodere in qualche luogo affollato. Bisogna colpirli prima che colpiscano - ma c'è una bambina in strada, a pochi metri dal probabile impatto, vende focacce e non si sposterà finché non avrà il paniere vuoto. Ci sono soldati che devono fare il loro mestiere. Ci sono politici che non sanno che ordini dare.

È fortissimo, James Bond gli taglia le unghie dei piedi.
Gavin Hood lo ha fatto di nuovo. Dopo Ender's Game, ecco un altro film meno problematico di quanto vorrebbe sembrare, in cui sotto il dilemma etico si intravede una visione del mondo abbastanza solida: la guerra esiste e bisogna farla combattere ai soldati, che hanno competenze, nervi saldi, mani sensibili ma disponibili a sporcarsi. Mentre i civili, i politici, non ne capiscono niente: si commuovono al momento sbagliato, per la bambina sbagliata, perdono tempo, giocano allo scaricabarile, cercano disperatamente al telefono qualche superiore, qualche mamma o qualche Dio che li perdoni o si addossi le loro colpe. La democrazia è una perdita di tempo che non produce consapevolezza, ma falsa coscienza. I militari sono più bravi anche a farsi venire i dubbi - e a superarli - e a piangere per le vittime collaterali. Scordatevi i cecchini cinici di quel vecchio video di Wikileaks che dopo aver fatto strage di combattenti, fotografi e bambini si complimentavano per i "nice shots" e ridacchiavano per il cadavere caldo calpestato da un tank.

QUALCUNO LE COMPRI QUEL PANE
I soldati d'occidente di Gavin Hood non alzano mai la voce coi sottoposti; sono autorevoli, umani, anche fragili, e se premeranno un grilletto state ben sicuri che ci avranno prima pensato cento volte (continua su +eventi!)

Hanno già le armi più potenti e precise mai adoperate, ora reclamano anche di avere sentimenti raffinati e coscienze tormentate. Come il ragazzino di Ender's Game, a cui Hood non consentiva soltanto la licenza di sterminare una razza aliena, ma anche il privilegio di sentirsi in colpa e rimediare. Anche stavolta la voce più falsa è quella di una donna che fa appello ai buoni sentimenti; nella penultima battuta del film, il generale le fa il cazziatone. Io ho visto il mondo, ho raccolto i cadaveri di quattro attentati suicidi, non si permetta più di spiegarmi cos'è la guerra. Uno vorrebbe tanto che Hood fosse un po' meno militarista di così, perché bravo è bravo; o che almeno lo fosse in modo più onesto (alla Clint Eastwood?), senza confondere le acque, senza mimare la tenerezza e nascondersi dietro il velo quasi integrale di una povera bambina innocente. E invece anche stavolta si può andare a vedere il suo film convinti che si tratti di una parabola sugli orrori della guerra; si può tremare per un'ora sul destino della povera vittima collaterale, ma poi?

Non esistono razze superiori, salvo rare eccezioni
come gli attori britannici di una certa età.
Rickman e la Mirren sono perfetti e lo sarebbero
anche se interpretassero i droni.

Ma poi sulla strada di casa ti accorgi che i militari sono quelli che ne escono meglio. Sono attori di razza come Helen Mirren e Alan Rickman (nel suo ultimo ruolo), ma c'è anche tantissima varietà razziale, ci sono ragazze ispaniche e morette dell'Iowa con occhioni pronti a inumidirsi, c'è una coppia fantastica di spie kenyote, tra cui il Barkhad Abdi già visto di Captain Phillips. Sono tutti bravi, sono competenti, dicono le bugie solo a fin di bene ed è chiarissimo che non godono a uccidere la gente, anzi. Chi potrebbe mai pensarlo. Alan Rickman è molto preoccupato per la bambola che deve comprare alla nipote. Le vittime collaterali dovrebbero sentirsi fiere di essere uccise da gente così.

Per contro, i politici sono tutti bianchi e preoccupati. Sudano, strillano, si tolgono la giacca, il Ministro degli Esteri è al gabinetto a Hong Kong perché ha mangiato gamberetti - non che l'Occhio del Cielo non riesca a trovarlo anche lì, ma insomma Hood non rinuncia a nessun espediente per ridurre l'autorevolezza degli eletti dal popolo. Un discorso a parte gli americani, che non capiscono che tempo ci sia da perdere e preferirebbero sparare prima e farsi le domande poi. Eye in the Sky resta un film importante: forse il primo dramma da camera ambientato intorno al mondo. Semplicemente non è il film controverso che il trailer ci vende: è un film sulla guerra telecomandata e chirurgica, su come funziona bene e soprattutto su come funzionerebbe meglio senza troppi civili nella sala dei bottoni. Un eventuale ufficio propaganda delle forze armate britanniche non avrebbero saputo produrne uno migliore - anche per la pubblicità offerta ai mini-droni di ultimissima generazione

Finalmente hanno riaperto l'Aurora di Savigliano, che lo proietta alle 18:30 e alle 21:15, e il Cinelandia di Borgo San Dalmazzo (alle 15:15, alle 17:35, alle 20:15 e alle 22:35).
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La vera Squadra Suicida si chiama Warner Bros

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Suicide Squad (David Ayer, 2016).

Com'è che i nemici di Batman e di Superman scappano sempre di prigione? Non ci stanno mai più di qualche mese, se sciogli l'acido nell'acquedotto di Gotham City ti danno massimo tre settimane con la condizionale. Era ancora l'Età dell'Argento dei fumetti di supereroi, gli anni '60 nel mondo reale, quando qualche lettore cominciò a porsi il problema: è verosimile che Joker esca dal manicomio criminale ogni tre per due? Perché i lettori di fumetti sono così. Possono accettare che Superman abbia il superudito e la supervista, ma dev'essere calato in un contesto verosimile. E gli sceneggiatori questa cosa la capiscono, e invece di farsi due risate si sforzano di trovare spiegazioni, per esempio... c'è un superservizio segreto che arruola i supercriminali in missioni suicide in cambio di sostanziosi sconti di pena. Batman lo sa ma non ci può fare niente, ha le bat-mani legate.

Avete quindici minuti per incontrarvi, raccontarvi che siete uno più cattivo dell'altro, ammazzare gli altri cattivi
e sviluppare un maschio senso di cameratismo. 
Nasceva così lo Squadrone Suicida. Una banda di antieroi che possono anche morire ammazzati, un modo di riciclare vecchi personaggi prima che cadano nell'oblio, un minestrone con avanzi particolarmente speziati. Mezzo secolo dopo, chi abbiamo in cartellone? Il solito super-tiratore scelto (Deadshot), la ganza di Joker, un australiano che si fa chiamare Capitan Boomerang, un tizio squamato, una samurai letteralmente imbucata all'ultimo momento, altra gente abbastanza mostruosa che è lì per farsi ammazzare prima dei titoli di coda, glielo leggi in faccia (glielo leggi dai tatuaggi), insomma, chi è così disperato da aver bisogno di una squadra così?

La Warner Bros?

Da qualche parte ai piani alti della Warner Bros dev'esserci un gruppo di, come definirli, diversamente umani. Qualche figlio di, qualche ragazza di, qualcuno che passava di lì e aveva bamba per tutti, una squadra di iperattivi ipodotati che se hanno mai sfogliato un fumetto non riuscivano a decifrare le scritte nelle nuvolette; se mai sono entrati in un cinema, si sono addormentati dopo i trailer. Una gang di deficienti con una missione suicida: salvare il cinema da sé stesso. Perché andiamo, dopo 15 anni di cinecomics, non sentite anche voi una certa stanchezza? Nell'anno in cui abbiamo già visto Batman pestare Superman e incontrare Wonder Woman, i Fantastici Quattro horror, gli X-Men anni Ottanta, gli Avengers che litigano, Deadpool che scoreggia, e potrebbe andare avanti così per decenni, i calendari sono pieni di uscite fino al 2020, nelle fumetterie c'è un archivio di trame e personaggi praticamente inesauribile... chi può fermare il treno in corsa? Chi può salvare il cinema da tutto questo? La Warner può. La Warner può colarsi a picco prendendo i supereroi e i supercattivi più popolari del mondo e buttarli in film senza senso finché il pubblico non si stufa. Sembra impossibile, ma può funzionare.

"Zio la vetrina è il simbolo,
se non spacchi la vetrina non sei nessuno".
Uno potrebbe obiettare che insomma, stiamo parlando della Warner. I film li sapranno ben fare (sennò, cosa?) Se i cinecomics non sono il loro forte, hanno un sacco di esempi da imitare. E invece no. La Warner continua a fare di testa sua e continua a non capirne niente, è uno spettacolo a suo modo meraviglioso, e assai istruttivo. Alla fine uno il film non se lo guarda per il nuovo Joker con le protesi dentali o per Margot Robbie che fa le boccacce, ma per vedere la Warner che brucia milioni di dollari abortendo un universo cinematico, la Warner che prova a copiare la Marvel ma non ci riesce perché ci vuole un po' di impegno, un po' di applicazione anche a copiare. In dieci anni la Marvel ha messo assieme una ventina di personaggi, alcuni dei quali familiari al pubblico come vecchi amici: non c'è più bisogno di presentarli, niente flashback, bastano dieci minuti di Robert Downey Jr, cinque minuti di Scarlett Johansson, e nel frattempo si libera lo spazio per introdurre nuovi personaggi (meno costosi). Però la Marvel per arrivare a questi crossover ci ha messo dieci anni: su Downey/Iron Man ci ha imbastito una trilogia; alla Warner no, alla Warner hanno fretta, alla Warner ti danno un film solo per rilanciare Batman, presentare Wonder Woman e ammazzare Superman. Hanno troppa fretta di fare i film per fermarsi a farli decenti, è una cosa incredibile. Fanno i crossover prima di creare i personaggi, fanno le frittate senza uova e ne avrebbero di ottime in frigo, le uova più famose del mondo, ma non c'è tempo! Non c'è tempo per romperle! Anche i cattivi: tutti fuori in un film solo, via, che problema sarà mai? Sono cattivi, sono tutti tatuati e colorati, nei trailer sembreranno fighissimi.

Già, i trailer.

Ecco quel che sanno fare alla Warner: i trailer (continua su +Eventi!)


Per cui a un certo punto qualcuno deve aver proposto la cosa: ma perché non ce ne fottiamo della struttura del film, del ritmo, della costruzione dei personaggi, e non montiamo semplicemente una ventina di trailer movimentati e colorati? Ai ragazzini piacciono, magari riusciamo a non addormentarne qualcuno. L'idea che si possa sostituire una storia con la pubblicità della storia è di un'arroganza, di un'ignoranza spettacolari. Da qualche pezzo di trama che emerge qua e là in mezzo a questo carosello di esplosioni e smorfie si capisce che David Ayer una storia se l'era immaginata (uno squadrone di antieroi votati alla morte lo aveva già messo in scena in Fury). Forse era una storia troppo noir, poi Deadpool ha fatto il botto col suo umorismo da spogliatoio delle medie e ai piani alti hanno deciso di spazzare via tutto e lasciar per terra i rottami. Una giovane archeologa scopre in un sito antichissimo uno Spirito che la possiede e che vuole dominare il mondo: avvincente, no? No? Come dite? è la storia più vecchia del mondo, la Mummia, vi cascano le palle? Vabbe', la riassumiamo in un trailer di tre minuti e ci mettiamo un pezzone classic rock in sottofondo. Un assassino nato, siccome è impersonato da Will Smith, vuole riallacciare i rapporti con la figlia preadolescente. Originale, vero? È tipo la trama di tutti i film d'azione con maschi stagionati per protagonisti, da Liam Neeson a Kevin Costner? Non importa, tanto te la riassumiamo in due minuti e ci mettiamo su un altro pezzone rock, dai che siamo la Warner. E poi c'è Joker, già, Joker.


"Però stavolta cattivi".

Joker secondo me è il personaggio più facile del mondo. Ti metti una maschera e fai il matto. Non devi avere giustificazioni, non devi avere scrupoli, fai una risata e strabuzzi gli occhi. Jack Nicholson, certo. Heath Ledger, mi rendo conto. Ma solo perché nessuno ha mai pensato a Costantino Vitaliano, io credo che sarebbe stato un buon Joker anche la Gegia con il trucco e il parrucco adeguato. Non a caso, nel vecchio telefilm di Batman, i cattivi tutti-matti li facevano fare agli ospiti, una volta lo ha fatto pure Liberace divertendosi tantissimo. Qui c'è Jared Leto, e non ho pregiudizi contro Jared Leto: almeno voleva farlo un po' diverso. Ma non gli danno il tempo. Non fa neanche in tempo a picchiare la sua ragazza, cosa che succedeva persino nei cartoni animati in tv e dava un senso a entrambi i personaggi. Cinque minuti di smorfie e risatine e poi passiamo ad altro. La seduzione della sua psicologa, una storia potenzialmente fortissima e inquietante, bruciata in tre scene con la voce fuori campo, manco fossimo in piazza col cantastorie che mostra i pannelli col dito: GUARDA-IL-PERFIDO-JOKER-SEDURRE-LA-PROFESSORESSA. È un film veramente suicida, nel modo in cui brucia sul suo cammino decine di storie e situazioni interessanti. Manipolazione, amour fou, folie à deux... che palle però dover raccontare tutta questa roba. Che palle dover raccontare qualsiasi cosa. Troppi dialoghi! Troppe cause ed effetti, noi vogliamo le esplosioni! Però, attenzione, nessuno si deve fare troppo male. Esplosioni per famiglie.

A un certo punto Harley Quinn - Margot Robbie, di cui tutti parlano bene - spacca una vetrina con la sua mazza iconica, e a chi le chiede conto risponde: Beh, che v'aspettate? Sono cattiva. I cattivi fanno queste cose, no? Spaccano vetrine. In effetti è la cosa più cattiva che la ragazza di Joker fa in tutto il film. Suicide Squad è quel figlio di papà che si concia da Black Bloc quando gli passa il corteo sotto casa, e poi si eccita ribaltando un cassonetto: rivoluzione! Cattivo come i tatuaggi che informano i passanti che sei un duro, perché altrimenti non ci farebbero caso e anche tu, allo specchio, qualche dubbio te lo faresti venire.

Suicide Squad ha fatto il pieno subito - era il minimo, con tutto il battage che c'era intorno - ma non è il colpo grosso che la Warner si aspettava per ridurre le distanza con la Disney/Marvel. In patria è crollato alla seconda settimana, come Batman v Superman (a dire il vero un po' meno). Viva il passaparola, e viva anche la pirateria, che punisce i film-evento non all'altezza dell'evento. E viva anche gli squadroni di pagatissimi deficienti che mandano in sala catastrofi del genere. Sono la nostra unica speranza di sopravvivere ai supereroi. Suicide Squad è al Fiamma di Cuneo (20:05, 22:45), al Multilanghe di Dogliani (21:30) e al Vittoria di Bra (20:00, 22:30).

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L'uomo che batteva i nazisti (e i cavalli)

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Race (Stephan Hopkins, 2016).

Il trucco è che il colpo di pistola spaventava un po' il cavallo,
e intanto Owens era partito.
Qualche anno dopo aver vinto le famose quattro medaglie d’oro davanti a Hitler, Owens per campare sfidava sul rettilineo i cavalli da corsa. Avversari umani di livello non ne aveva più: era stato radiato subito dopo Berlino, per essersi rifiutato di seguire la squadra olimpica americana in un tour in Scandinavia. Aveva avuto voglia di tornare subito a casa, abbracciare la famiglia, assaporare il trionfo, quel tipo di cose. A New York in effetti diedero un grande ricevimento in suo onore al Waldorf Astoria - ma lo fecero entrare dalla porta sul retro. Il presidente Roosvelt, molto impegnato nella campagna per la sua rielezione, non lo incontrò mai. Owens del resto era un repubblicano, appoggiò ufficialmente il suo rivale. Quando gli chiedevano come mai Hitler non gli avesse stretto la mano, lui faceva presente che neppure Roosvelt gli aveva mai mandato nemmeno un telegramma. Poi per un po’ lo sport passò in secondo piano, Owens continuava a far figli e si arrabattava come poteva. Fu tra i fondatori di una lega di football americano per soli neri (le altre federazioni li escludevano), che fallì in pochi mesi. Aprì un lavasecco, dichiarò bancarotta, fu condannato per evasione fiscale. Ci sarebbero voluti diversi anni per ritrovarlo sulla panchina da allenatore degli Harlem Globetrotters. Quando a Città del Messico i vincitori americani dei 200 metri fecero scandalo alzando il pugno chiuso, Owens li criticò, per poi pentirsene pubblicamente. Prima di lasciare questo mondo, nel 1980, fece in tempo a protestare contro la decisione di Reagan di boicottare le olimpiadi di Mosca. Di tutto questo Race non parla - soltanto la scena in cui lo fanno passare dal retro del Waldorf Astoria, con la moglie, funziona da finale dolceamaro, mentre scorrono i sottotitoli: sembra tutto sommato un’offesa da poco, qualcosa da lasciarsi alle spalle.
Il ralenti sarà banale, ma con l'atletica funziona sempre.
Hopkins non lo usa, sembra che abbia fretta di mostrarti
le gare per passare ad altro.

(Quando capisci che un biopic non funziona? Per esempio, quando è meno avvincente della pagina di Wikipedia).

Come si fa a sbagliare un film su Jesse Owens? Da una parte un afroamericano che resta a ottant’anni di distanza uno dei più grandi atleti di tutti i tempi: dall’altra hai i nazisti e i razzisti dell’Ohio. Per trasformare l’atletica in tragedia e in spettacolo, puoi ripassare Chariots of Fire; per capire come parlare di razzismo e di sport, puoi rifarti ad Ali di Michael Mann. Quanto alle olimpiadi di Berlino, prendi la Riefenstahl e vai sul sicuro. Ma se tutte queste lezioni le ignori, se i dilemmi etici degli atleti li risolvi in discussioni di tre minuti, se il razzismo lo dai per scontato, se i tuoi nazisti sembrano cattivi da melodramma (sul serio, ogni volta che parla Goebbels partono i violini), se la Riefenstahl ti interessa solo come personaggio, il risultato finale si avvicinerà pericolosamente al livello di una fiction italiana, con un budget più alto, ma con meno personalità addirittura.

Il reverendo che sposò gli Owens aveva
i baffetti alla Hitler, il che mi fa impazzire.
Sbagliare un film su Jesse Owens è un’impresa incredibile, ma Stephan Hopkins ce l’ha fatta (continua su +eventi!).

Proprio lui che col suo biopic su Sellers aveva dimostrato di saper sfidare le regole del genere - quella però era un’icona che supplicava di essere profanata; con Owens, con la leggenda olimpica, non si scherza, e il risultato è anche che non se ne riesce nemmeno a discutere seriamente. Più che personaggi in scena ci sono delle figurine: hanno tutti obiettivi lineari (l’atleta nero vuole vincere, l’allenatore bianco vuole riscattare i suoi insuccessi, il dirigente olimpico vuole sconfiggere i nazi) e quando qualcuno o qualcosa si mette di traverso, s’ingrugnano, finché qualcuno non li sblocca, di solito con un bel discorso. Anche Hopkins è succube di questa moda del discorso taumaturgico, che tanti danni ha fatto negli ultimi anni (vedi il Lincoln di Spielberg). Ma nel suo caso l’ossessione rasenta il comico, perché molto spesso i discorsi non c’entrano nulla col conflitto in atto: ad esempio, quando Owens è incerto se boicottare o no i Giochi come gli ha chiesto un’associazione afroamericana, l’allenatore lo commuove spiegandogli che una volta si è schiantato con un aeroplano. Non c’entra tantissimo, ma nel frattempo è partita la base languida e pare che adesso funzioni così, ogni volta che un personaggio è frustrato e deve prendere una decisione tu inserisci un blocco di testo qualsiasi nel copione, un attore lo legge, i violini partono, voilà, la decisione è presa. Pazienza se il protagonista sembra non aver personalità, e oscillare a seconda dei discorsi che ascolta.



Luz Long è un gran personaggio, ok,
ma arriva dopo un'ora e mezza di film.

Il film tutto sommato tratta meglio Avery Brundage (un Jeremy Irons poco convinto), dirigente sportivo americano dalla carriera prestigiosa e controversa (dopo la guerra divenne segretario del CIO fino al 1972, quando si prese la responsabilità di far proseguire i giochi olimpici dopo che Settembre Nero aveva massacrato undici membri della squadra olimpica israeliana). Con una mossa che tradisce non si sa se più superficialità o provincialismo, Hopkins trasforma Brundage nell’eroe del mondo libero che persuade la compagine olimpica americana a non boicottare le olimpiadi, costringe i nazisti a non perseguitare gli ebrei (almeno durante i Giochi) e minaccia Goebbels: o Hitler stringe la mano a Owens, o non la stringe a nessuno. Poi però i due membri ebrei della staffetta americana, a malincuore, deve escluderli dalla finale, perché c’è un limite a quanto si può infiocchettare la storia. In realtà Brundage aveva opinioni moderatamente antisemite, come molti americani che prima di Pearl Harbor non guardavano a Hitler con troppa antipatia.

Lo sport è spesso ingrato coi suoi protagonisti: li piazza alla ribalta e poi cala il sipario all’improvviso. Il caso di Owens è esemplare anche perché ha sempre rappresentato quello che gli Stati Uniti vorrebbero essere - la patria multietnica che piglia Hitler a calci in culo. Se la storia finisse lì, se Owens non avesse poi dovuto interrompere subito la carriera e fare i conti col razzismo in patria, sarebbe una storia fin troppo edificante - probabilmente quella che aveva in mente Hopkins. Race torna sul grande schermo giovedì (ore 22) a Bra, frazione San Matteo, in occasione della rassegna Cinema d’estate in periferia

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Un'altra estate, un'altra Purga

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La notte del giudizio - Election Year (The Purge - Election Year), 2016, James DeMonaco.

L'allegro mistero per cui, in una notte in cui se esci per strada
sei carne da macello, invece di procurarsi un equipaggiamento
tecnico o almeno qualche vestito pratico, i Cattivi si concino
con le maschere meno pratiche possibili, e vadano in giro
come coglioni a gridare "Lo Sfogo! Lo Sfogo!"
Anche questo agosto rientrerà nei ranghi, e dovremo tutti ricominciare a comportarci bene. Andremo a vedere i film Pixar e Disney coi bambini, porteremo i preadolescenti a guardare supereroi travestiti che si picchiano per finta. Accompagneremo le compagne a vedere commedie romantiche, anche quelle italiane dove restano tutti seduti a tavola finché non finisce il film. E quello di Woody Allen che assomiglierà ad altre quaranta pellicole di Woody Allen ma ce lo faremo piacere. L'estate finirà e ci guarderemo tutto questo e ancora peggio - ma adesso è agosto, e La Purga è di nuovo nelle sale, con tutto il sangue e il piombo che ci serve. C'è un sacco di gente che sanguina e muore e la maggior parte sono stronzi che se lo meritavano, coraggio, purghiamoci. Riempiamo una chiesa di fanatici repubblicani bigotti e guardiamoli morire ammazzati. Dopo staremo meglio.

L'idea va avanti dal 2014. Un budget contenuto, un regista giovane che dal primo episodio si è liberato dell'ansia di strafare, un concetto originale anche se un po' passé: un carnevale per adulti, una notte in cui, in un'America futura appena un po' fascistizzata, tutti possono "sfogarsi" commettendo tutti i reati che vogliono. Con tutte le armi che vogliono. A un primo livello, abbiamo una satira dell'ossessione particolarmente americana per le armi da fuoco. E andrebbe già benissimo così. Ma la carta vincente della Purga (nella versione italiana lo traducono Lo Sfogo e fa ridere lo stesso) è la sua grezzissima ipocrisia: la scelta di stare sempre dalla parte delle vittime, encomiabile se non venisse da chi ha inventato il marchingegno di tortura.

A un certo punto si ritrova nell'ospedale del ghetto,
e al capezzale di un nero qualsiasi dice: Wow, non avevo
mai incontrato un gangster. Ecco, il film sogna questa
impossibile alleanza tra Lumpenproletariat e Hilary Clinton,
l'idea che per chiudere i negozi d'armi bisogna cominciare
a sparare in testa a chi le produce, ecc.
The Purge è ipocrita come tanti altri film in cui a prevalere dev'essere la Pace e la Tolleranza, ma prima deve scorrere più sangue che può. Per fare un esempio nobile e recente: The Revenant, due ore e mezza di saporita ricerca della vendetta e cinque minuti finali per dire che la vendetta è una cosa ingiusta. Ecco, The Purge fa la stessa cosa: mette da una parte i buoni, pacifisti e tolleranti; dall'altra dei personaggi che sono un po' repubblicani, un po' nazisti, un po' satanici, insomma il peggio del peggio del peggio, e non vedi l'ora che i pacifisti li massacrino. Naturalmente questi ultimi devono esitare un po', devono essere perseguitati e costretti, perché sono pacifisti. Ma quando alla fine succede, ecco, è una gran Purga, volevo dire un grande Sfogo. DeMonaco gioca col senso di colpa dello spettatore progressista con un cinismo d'altri tempi: dai, sfogati, ti senti in colpa? Lo sai perché ti senti in colpa? Perché sei un ipocrita. Sfogati un altro po', ti farà bene. E così via, episodio dopo episodio.

Quest'anno poi è tempo di elezioni, e The Purge non poteva assolutamente perdere l'occasione: si scopre così che, malgrado tutto finora ci lasciasse pensare il contrario, l'America di The Purge è ancora una democrazia, e che non c'è oligarchia satanica che non possa essere rovesciata dal voto popolare ogni quattro anni: basta conquistare gli anziani della Florida ed è fatta. C'è addirittura una candidata (Elizabeth Mitchell, la dottoressa di Lost) che promette di abolire la barbara usanza che pure ha aumentato l'indotto delle armi e della sicurezza, e ha ridotto drasticamente la disoccupazione. Ovvio che il partito al potere voglia farle la pelle, approfittando della notte della Purga. Nel frattempo trovi stranieri - turisti della Purga - che vanno in giro per la capitale degli Stati Uniti travestiti da Abraham Lincoln e da Statue della Libertà, per sfogarsi su innocenti passanti americani. In un vicolo qualcuno sta ghigliottinando qualcun altro, tutto regolare. Teeen-ager birichine vanno in giro cosparse di sangue brandendo seghe elettriche. Però chi va al cinema aspettandosi esattamente questo, un'ora e mezza di violenza folle e insensata, ci rimane sempre male, perché? Perché questa roba rimane sullo sfondo, è la spezia con cui DeMonaco attira gli spettatori al cinema. Ma poi li vuole intrattenere con qualcos'altro che è una specie di agenda politica, progressista a suo modo, e scorrettissima. (Continua su +eventi!)


Questi sono i Buoni,
multietnici come è giusto che sia.
Ammazzano tantissima gente,
ma per un buon motivo e senza
goderne troppo visibilmente.

I Cattivi sono gente vecchia e sanguinaria, tutti rigorosamente bianchi (sembrerebbe una proiezione distopica se non avessimo visto un pubblico del genere alla Convention repubblicana): adunati in una chiesa presbiteriana, conducono riti orgiastici che prevedono l'eliminazione di poveri e senzatetto. Quanto ai Buoni, sono tutti minoranze etniche, perlopiù afro e latinos, con facce che non vedi di solito a Hollywood e che gridano blaxploitation (Betty Gabriel). I soli bianchi dalla loro parte sono il candidato donna e il suo gorilla, l'efficiente e spigoloso Frank Grillo, l'unico sopravvissuto dal film precedente. Il candidato dei tristi satanici invece è un pretino, abbastanza simile ad alcuni rivali di Trump alle primarie - nemmeno un visionario come DeMonaco poteva immaginarsi Trump candidato. Il risultato non è semplicemente un sano film di fuga metropolitana che adatta i temi dei Guerrieri della notte o di 1997: fuga da New York ai nuovi tempi e allo spirito di fraternità interrazziale di Fast and Furious; è anche il manifesto politico più sfacciato che credo di aver visto in vita mia. Per un'ora e mezza non fa che dirti che i cattivi sono i bianchi ricchi, tranne quella che, con molta sensibilità e diplomazia, guiderà la rivolta dei ghetti. Non so quanto lo staff di Hilary Clinton possa apprezzare. Tanto le elezioni si vincono coi voti dei pensionati in Florida. Però quando un giorno i nostri figli ci chiederanno: papà, cosa hai fatto per evitare che vincesse Trump? DeMonaco avrà almeno la risposta pronta: con un budget medio-basso ho fatto il film di propaganda più smaccato di sempre. L'ho fatto con tutta la violenza che serviva per conquistare le sale dei quartieri più malfamati d'America. Di più di così un regista di genere cosa poteva fare? La notte del giudizio: Election Year è all'Italia di Saluzzo alle 20 e alle 22:15, e al Fiamma di Cuneo alle 21:15.
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I fantasmi dell'84 (non li cacci via)

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Ghostbusters 3d (Paul Feig, 2016)

C'è stato un tempo in cui avevamo paura dei fantasmi. C'è stato un tempo in cui ridevamo dei fantasmi. Oggi tutto questo è molto lontano, oggi i fantasmi siamo noi. Viviamo in un limbo di cose né morte né vive, cose che principalmente sono successe intorno al 1984, e per un bizzarro inghippo del destino non sono state dimenticate. Infestiamo questa casa, tirando orribili scherzi a chiunque prova a entrare per dare un'occhiata. La maggior parte bisogna dire che se lo merita, vogliono solo grattare qualche soprammobile vintage e rivenderlo, c'è un mercato pazzesco per queste cose. Altri invece sono solo curiosi, è tutta la vita che sentono parlare di questo benedetto/maledetto 1984, vorrebbero capire cosa si provava a entrare in una sala per vedere Ghostbusters e beccarsi i primi trailer di Indiana Jones e il Tempio Maledetto. Perché se davvero c'è stato un momento in cui tutto il nostro immaginario si è azzerato ed è ripartito, non può che essere l'anno di Terminator, Nightmare, Gremlins, Karate Kid, Amadeus, La storia infinita, Footlose, e potrei andare avanti. È successo qualcosa di pazzesco nel Palazzo Incantato del 1984, ed è normale che la gente voglia entrare per capire, per provare, anche solo per passarci la notte.

Ma non ne hanno il diritto, quel palazzo appartiene a noi. Li cacceremo via, li prenderemo a sassate su Youtube o Imdb. Come osano reclamare la proprietà intellettuale sui marchi dei nostri ricordi, su ciò che ci tiene vivi, ammesso che sia vita questa (se la passi a trollare le attrici di Ghostbusters 2016 probabilmente non lo è).

A un certo punto della leggenda dei sequel di Ghostbusters - leggenda che si perde ormai nella bruma dei tempi, è da trent'anni che il progetto restava nel limbo delle cose inevitabili quanto irrealizzabili - sembra che Bill Murray avesse dato l'ok per partecipare al terzo film, soltanto a un patto: avrebbe dovuto interpretare un fantasma. Era in effetti un'idea geniale, che inspiegabilmente Paul Feig ha lasciato cadere. Avrebbe dato una profondità a un film che sembra volerla evitare a ogni costo. È come se dopo aver rilevato un marchio che ha lasciato un segno indelebile su una generazione; dopo aver avuto l'idea forte, e commercialmente rischiosa, di investire su un cast femminile (e usare Chris Hemsworth come damigella in pericolo, più che un'idea una gag), Feig avesse tirato i remi in barca e pensato solo a ridurre i danni. Il marchio è pesante, il cast è controverso, il budget impressionante, il film è una commediola divertente che si comincia a dimenticare già prima dei titoli di coda. Tocca difenderla perché è stata messa sotto attacco dai troll maschilisti e razzisti, ma la difenderemmo più volentieri se Feig oltre a mettere le donne in primo piano ci avesse anche dimostrato che sono brave: che possono fare un Ghostbusters non dico migliore dell'originale, ma spassoso, potente, originale.

Purtroppo non è andata così, però sarebbe ingiusto prendersela con Feig per il fatto che il suo Ghostbusters non funzioni come quello del 1984. Non è colpa sua se certe merendine non torneranno più. C'è qualcosa di particolarmente irripetibile, nel successo del primo film, che lo rende un tesoro tanto prezioso della nostra preadolescenza. Nell'elenco sommario dei grandi successi del 1984, Ghostbusters spicca per un motivo che a prima vista magari non si vede: è l'unica commedia. Quasi. Altri film hanno grossi inserti di commedia, ma Ghostbusters è l'unico a nascere intorno a un gruppo di attori e autori comici - Aykroid e Ramis, che all'inizio pensavano a Belushi, e poi lanciarono cinematograficamente Murray. Il risultato fu un film che metteva insieme ingredienti instabili, mai mescolati prima, in un'alchimia probabilmente irripetibile: commercializzato come prodotto per le famiglie, convinse tanti decenni come noi a farsi portare al cinema, per vedere non solo le prime scene horror della nostra vita (gli effetti speciali sono ancora notevoli), ma anche la prima commedia per adulti - una scena in cui un'entità invisibile slaccia la cintura a Dan Aykroid nei coevi film di Bud Spencer non s'era mai vista.

Uscivamo dalla sala, nel 1984, con la sensazione di aver finalmente passato una serata coi fratelli maggiori, quelli che già fumavano e si portavano le tipe negli angoli: e non è che ci avessimo capito molto, ma ce l'avevamo fatta, nessuno ci aveva mandato via, nessuno ci aveva preso in giro, alla fine ci eravamo anche divertiti. Forse tra i troll maschilisti che hanno preso di mira le attrici del nuovo film c'è qualche mio coetaneo che visse quella proiezione del 1984 come un rito di passaggio all'età adulta; un rito che evidentemente non ha funzionato molto bene, ma di tutto questo Feig e il suo cast non hanno responsabilità. In un certo senso la scommessa di Feig conserva qualche tratto dell'impudenza dell'originale: Aykroid e Ramis volevano mescolare l'horror, l'action e il Saturday Night Live. Feig vuole mettere d'accordo i nostalgici degli anni Ottanta con i fan e soprattutto le fan delle migliori attrici comiche e monologhiste della sua generazione, e sulla carta è un'idea coraggiosa. Ma è proprio l'idea che non si realizza. In molti casi, semplicemente, le ragazze non sono divertenti come dovrebbero, come potrebbero essere. Specie se il film lo guardi doppiato, e due o tre sketch basati sui doppi sensi vanno a farsi benedire.

Ma forse il problema dell'adattamento è più profondo: pensate all'ultima commedia americana che avete trovato divertente (continua su +eventi!)

Scommettiamo che vi tocca risalire di almeno tre o quattro anni? Melissa McCarthy, un talento indiscusso, in Italia continua a essere conosciuta soprattutto come comprimaria in Una mamma per amica. E a proposito di serie: vi ricordate che una volta c'erano sit-com americane in prima serata sui canali generalisti e adesso ormai non ci sono più? È difficile da dimostrare, ma è come se la comicità americana nell'ultimo decennio fosse diventata meno esportabile, meno traducibile. Forse semplicemente c'è una generazione di autori che lavora più sulla parola e meno sulle situazioni. Il risultato è che le commedie in Italia ormai ce le facciamo in casa (con risultati alterni), e i film di Feig con la McCarthy li ritroviamo al cinema tra luglio e agosto.

Lo stesso ruolo di quest'ultima in Ghostbusters poggia su riferimenti che si perdono parzialmente nella traduzione: per lo spettatore italiano è facile scambiarla per la donna grassa e buffa (buffa perché grassa), mentre negli USA la sua è piuttosto la taglia standard, quella che vedi per strada e non al cinema e in tv. Non è una cicciona divertente, è la donna media che col suo buon senso e qualche dote sconosciuta riesce sempre a dimostrarsi migliore dei comprimari e antagonisti maschi. In questo film Feig la degrada a spalla: dopo averla presentata in una delle prime scene come la classica amica eccentrica, in seguito la usa come la più assennata del quartetto. È la vecchia amica a cui potevi raccontare i tuoi incubi da bambina, quella a cui non telefoni da 15 anni ma non esiteresti a tuffarti in un varco spazio-temporale per salvarla. Tutto questo però ti tocca indovinarlo perché Feig non lo racconta. Non calca sui rapporti umani, non calca sull'horror (del resto ormai sarebbe impossibile far spaventare il pubblico con un'invasione elementale di New York), non crea un antagonista inquietante, non si capisce veramente cosa faccia per 120 minuti - a parte insistere su quanto può essere scemo Chris Hemsworth e quanto è matta Kate McKinnon ingegnera protonica. Forse di questa occasione sprecata che è stato il Ghostbusters al femminile ricorderò soprattutto la scena in cui le ragazze, per tirarsi su il morale, scendono nel vicolo a provare nuove armi ammazzafantasmi: questa idea che non ci sia problema che non si possa risolvere provando qualche arma di grosso calibro dietro casa. Sarà una coincidenza, ma è già il secondo film del 2016 in cui vedo donne americane sparare al bersaglio per risollevarsi l'umore. Ghostbusters, solo in versione 3d, è al Fiamma di Cuneo alle 21:10 e al Multilanghe di Dogliani alle 21:30.
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Zootopia è un mondo impossibile, il nostro

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Zootropolis (Zootopia, Byron Howard e Rich Moore, 2016).

"E il lupo e l'agnello giaceranno insieme, ma l'agnello dormirà ben poco".

Secondo i più recenti studi di ciascuno di noi, vivere insieme è impossibile: d'altro canto è necessario. Siamo troppo diversi? Sì. Siamo programmati per diffidare del diverso e cercare di allontanarlo? Altroché. Il nostro cervello è naturalmente portato a processare gli impulsi e a ridurli in stereotipi, e agire rapidamente in base a pregiudizi? Senz'altro. Forse un giorno potremo superare queste ataviche diffidenze e vivere tutti insieme in pace? Chi lo sa. Abbiamo alternative?

No.

Qualche anno fa Luke Epplin, dell'Atlantic, notò come tutti i grandi cartoni animati in circolazione nei cinema in quel momento raccontassero la stessa storia profonda: un outsider (può essere una lumaca, un aeroplano spargiletame, un mostriciattolo divertente) lotta contro il proprio destino per vincere un gran premio, o un giro del mondo, o il titolo di mostro più spaventoso della facoltà. È il culto dell'autostima, scriveva Epplin: questi film stanno raccontando ai nostri bambini che hanno il diritto di diventare qualsiasi cosa vogliono diventare. Basta credere ai propri sogni. Peccato che non sia così.

Molti anni prima, quando l'autostima era ancora un lusso per pochi, Walt Disney portava nelle sale la sua silly simphony più controversa, The Flying Mouse. È la storia di un topolino che non riesce a darsi pace perché non ha le ali: finché non trova una fatina che gliele regala, solo per scoprire di essere diventato un enorme pipistrello, orribile a tutti e anche a sé stesso. È un cartone stranamente crudele, che lasciava perplessi anche i disegnatori a cui Disney chiedeva di infierire sul povero topo con alcune gag piuttosto sadiche. Sui forum dei vecchi appassionati c'è ancora qualcuno che si confessa segnato per la vita da quel cartone animato, o dal suo sinistro ritornello, "You're nothing but a nothing". ("Dite quel che volete su quel che dovrebbe significare, ma l'effetto che ha avuto su di me è che mi ha terrorizzato con l'idea di essere diverso dagli altri").

Ottantadue anni dopo, Judy Hopps soffre ancora dello stesso complesso del topo volante. Stavolta è una coniglietta che non vuole sentirsi chiamare "carina" (solo i conigli hanno il diritto di chiamarsi così, se lo fa qualcun altro è razzismo). Judy viene della Tana dei Conigli con un sogno: farà la poliziotta. Dopotutto, perché non dovrebbe riuscirci a Zootropolis (nell'originale Zootopia), il luogo dove predatori e prede vivono in armonia? Ma il punto è tutto qui: Zootopia non è l'utopia di un filosofo o di un profeta. È il mondo brulicante e complesso studiato dagli animatori della Disney, così caotico e stratificato che per un'ora e mezza di film ti sembra vero. Si capisce che in cattedra c'è ancora Lasseter, e sulla lavagna la lezione che ha portato dalla Pixar: non basta una storia, bisogna inventarci un mondo attorno. A Zootropolis i bei discorsi si infrangono subito nella prassi: prede e predatori convivono, ma diffidano, con conseguenze inattese anche se prevedibili: se i predatori sono la minoranza, è così sorprendente che qualcuno cerchi di speculare sulla paura che ispirano? (Continua su +eventi!)




A Zootropolis puoi diventare tutto quello che vuoi, ma più facilmente diventerai quello che gli altri si aspettano da te. Se davvero vuoi dare una svolta alla tua storia, hai bisogno di forzare le porte, di farti amici in ogni nicchia ecologica, dai bassifondi ai corridoi del potere: e di tanta fortuna, naturalmente. Zootropolis si presenta come un film progressista - il culto dell'autostima è temperato da un'altra lezione Pixar, l'importanza del lavoro di squadra - ma è talmente disincantato da rasentare lo scetticismo, e può essere apprezzato anche da chi alla società multiculturale non si rassegna - dopotutto chi può credere a un roditore che da grande sogna di diventare un elefante?

Zootropolis è un film che parla esattamente dell'America di oggi: un gelataio elefante che si rifiuta di servire la volpe sta approfittando di una legge molto simile a quella firmata in Indiana dal governatore Mike Pence (il vicepresidente che Trump si è appena scelto). Allo stesso tempo, è uno dei film più profondamente disneyani degli ultimi anni, dopo gli sbandamenti manga di Big Hero e i mondi pixellati di Ralph Spaccatutto. Judy ha gli occhioni di Tippete, il suo nemico/amico Nick è un degno discendente della volpe Robin Hood. Se Zootropolis ha un difetto, è il ritmo indiavolato con cui concentra in 100 minuti una trama che avrebbe potuto svilupparsi in una miniserie. Certe ambientazioni meravigliose, studiate fino al minimo dettaglio (la città dei roditori!), nel risultato finale resistono solo come sfondi per una o due gag. Certo, col successo che ha avuto i sequel non mancheranno. Vale la pena di vederlo sul grande schermo, martedì 18 luglio ai Cine Dehors dei Portici di Fossano, dalle 21:30.
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La cena delle notifiche

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Perfetti sconosciuti (Paolo Genovese, 2016)

Il dramma della Comunicabilità, la tragedia di una generazione che può permettersi l'Iphone ma non ha imparato a silenziare le notifiche. Li senti poi sui treni che chiacchierano con la suocera, pur di farci vedere che hanno relazioni umane: li vedi sui balconi mentre guardano nel vuoto e parlano con l'ex, o con la next; mentre attraversano gli incroci una volta, due volte, con l'auricolare; mentre sextano in coda al bagno pubblico e poi entrano per scaricare la fotina. Vogliono essere scoperti, questa è la verità. Come i serial killer. Vogliono essere osservati - che gusto c'è ad avere segreti se nessuno se ne accorge?

"Tante volte può essere il T9".
Nell'anno in cui il cinema italiano sembrava aver riscoperto il Genere, l'anno in cui il Racconto dei Racconti e Jeeg Robot si litigavano la maggior parte dei David di Donatello, alla fine il premio al miglior film l'ha portato a casa Perfetti sconosciuti, una specie di rivincita del Tinello, del cinema intimista coi borghesi che chiacchierano. E però a suo modo è un genere anche questo: le cene-che-degenerano tra l'altro stanno avendo un revival internazionale. C'è stato Carnage, c'è stato Le prénom che ha avuto anche una sua versione italiana. Ma mentre Il nome del figlio dell'Archibugi è la classica variante d'autore, in cui lo sforzo delle maestranze era rivolto soprattutto a calare il canovaccio in una situazione italiana (anzi romana), Perfetti sconosciuti è quel tipo di piccola idea geniale ed esportabile, che è ambientata a Roma per comodità, ma potrebbe svolgersi ovunque (continua su +eventi!)

"Son stato frocio due ore e m'è bastato".

Il nome del figlio riprendeva dall'originale francese l'idea di una borghesia ormai spaccata in due, così pronta alla guerra civile che la scintilla potrebbe scoccare in qualsiasi momento, anche a una cena tra amici. Di queste tensioni in Perfetti sconosciuti non rimane traccia: non c'è più toponomastica sociale, borgatari portatori di una sana vitalità o professori di sinistra isterici, grazie al cielo. Non c'è una guerra segreta tra post-berlusconiani e post-anti: c'è un liquido gruppo di amici, di cui sappiamo appena il mestiere, che credono di conoscersi finché una sera hanno l'imperdonabile idea di fare il Gioco della Verità 2.0: tenere i cellulari aperti, sul tavolo, per tutta la cena. C'è bisogno di dire che quel venerdì sera chiameranno tutti? Ma proprio tutti, non solo la figlia e l'amante incinta: anche l'ospizio, il gioielliere, fin oltre il dessert continueranno a sputtanare gli incauti commensali. Per quanto irrealistica, l'idea è originale, ma se funziona è merito degli attori, tutti in forma, e di una sceneggiatura che non lascia né a loro né allo spettatore il tempo di prender fiato e riflettere sull'assurdo della situazione. Buon cinema, ottimo teatro.

Non è un ingranaggio perfetto - verso la fine c'è uno svelamento che forse in una prima stesura funzionava da colpo di scena, ma a quel punto ormai siamo tutti esausti e non ci stupiremmo più di niente - però riuscire a trovare il ritmo giusto e non perderlo per quasi un'ora e mezza non è da tutti. E far sembrare fresca una commedia degli equivoci, nel 2016, strappa l'applauso. Poi c'è il finale, che fa qualcosa di molto raro nel cinema italiano: nel momento in cui ci aspetteremmo la risoluzione della crisi, un po' di quiete dopo la tempesta (persino Polanski chiudeva Carnage coi bambini che giocano assieme), Genovese fa un passo indietro, restituendo a tutti i loro segreti. E quando nell'ultima scena Battiston scende dalla macchina, ti accorgi che stai trattenendo il fiato.

Perfetti sconosciuti giovedì 14 è programmato in ben due rassegne di cinema all'aperto: il Cinedehors di Fossano (dalle 21:30) e il Cinema all'Arena di Alba (dalle 21:45).
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Siamo tutti figli di Cuarón

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I figli degli uomini (Children of Men, Alfonso Cuarón, 2007).

L'umanità è diventata sterile, l'Inghilterra è invecchiata e isolata. I più giovani - hanno sedici anni ormai - si radicalizzano, mettono bombe a casaccio, non si sa nemmeno cosa vogliano. I vecchi se la prendono coi migranti, nessuno ricorda più il perché. Succederà tra vent'anni - no, aspetta, nove sono già passati.


È vero che ci sono film più recenti in sala, ma se al Castello di Roddi sabato 9 luglio fanno I figli degli uomini, forse vale la pena di ridare un'occhiata per scoprire quanto poco sia invecchiato un film che dieci anni anni fa sembrava già una cosa notevole, se non proprio un capolavoro. Quel che è successo nel frattempo è che non solo le tematiche del film non hanno smesso un attimo di restare attuali - anzi, i rifugiati nei recinti e i campi profughi militarizzati somigliano sempre di più a una profezia - ma che lo stile sfoggiato da Cuarón nell'occasione è diventato tipico del migliore film d'azione. Nel 2007 esistevano già i found footage; Von Trier e Gus Van Sant ci avevano già assuefatto alla nausea da handicam; e però i piani sequenza insistiti (e truccati); la scenografia un po' Bagdad un po' videogioco sparatutto, sono cose che sono diventate moneta corrente dopo i Figli degli uomini, se non grazie ai Figli degli uomini (continua su +eventi!).



Non voglio dire che non avremmo avuto film acclamati il Figlio di Saul, o l'ultimo Mad Max, ma forse li avremmo apprezzati meno se nel 2007 Cuarón non ci avesse iniziato a un nuovo modo di girare l'azione, visionario e più immediato: anche questo film è in sostanza un solo lungo inseguimento; anche Cuarón è deciso a narrare soprattutto attraverso le immagini, riducendo al minimo gli spiegoni. Vedi l'intermezzo dell'"Arca delle Arti", un progetto che viene semplicemente menzionato e mostrato, senza che nessun personaggio o voce narrante si preoccupi di spiegarci cos'è: ce lo devono dire le immagini, e il maiale rosa sulla fabbrica e il David di Michelangelo con una gamba rotta, e ci riescono egregiamente. Del romanzo di P. D. James restano solo le suggestioni: la trama è stravolta anche da un punto di vista politico, senza troppe preoccupazioni per la logica (un'Inghilterra condannata a invecchiare sarebbe costretta a importare i lavoratori stranieri più che a scacciarli, e in effetti la James nel romanzo prevedeva dei campi di lavoro coatto). Cuarón la taglia a fette molto meno sottili: sceglie come nuova Eva (che all'inizio avrebbe dovuto essere Julianne Moore) una ragazzina d'origine africana con un pessimo gusto per i nomi: trova i sobborghi meno caratteristici di Londra e chiede ai suoi scenografi di messicanizzarli. Per lui il confine tra primo e terzo mondo ormai è un fronte mobile. Gli preme mostrarci un'Inghilterra senile e xenofoba, e dieci anni dopo è difficile dar torto alla sua intuizione.

In generale rivedere su un grande schermo I figli degli uomini potrebbe rivelarsi un'esperienza straniante per chi ha la sensazione che tutto stia precipitando all'improvviso: è un film che appartiene assolutamente al decennio scorso, all'era pre-crisi dei bond, ai tempi in cui il nemico numero uno era Bin Laden - la scena della bomba a Londra fu girata poche settimane dopo l'attentato suicida del 2005 - e ci mostra come tutti gli incubi che crediamo avere avuto negli ultimi anni ce li stiamo portando avanti ormai da più di dieci. Non è che i cinema siano già chiusi, ma non mi pare che questa settimana ci sia in giro qualcosa di più interessante e attuale dei Figli degli uomini. . Al Castello di Roddi dopo le 21, sabato 9 luglio.
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Prima sfasci le vetrine, poi ti deridono, poi vinci, poi continuano a deriderti

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Suffragette (Sarah Gavron, 2015).

Emmeline Pankhurst. "Fatti, non parole" era il suo motto.
Nel film esorta le proletarie a rompere le vetrine.
Rompono le vetrine per attirare l'attenzione dei media, fanno esplodere le cassette delle poste, resistono alle torture e rifiutano di nutrirsi in carcere. Hanno rinnegato le famiglie, gli affetti; hanno sacrificato la vita alla Causa. Sono... le suffragette inglesi di un secolo fa. Ridicolizzate in vita perché lottavano per il diritto di votare, snobbate in seguito perché il suffragio universale, una volta conquistato, sembrò quasi subito un diritto scontato. La regista Sarah Gavron partiva da un'idea forte: scrostare l'immagine rassicurante della suffragetta che ti offre un volantino e ti regala un dolcetto, e mostrare quanto toste fossero le attiviste del WSPU, disposte a farsi malmenare, imprigionare e nutrire a forza. La realizzazione però è talmente convenzionale da far sospettare un ripensamento, come se a un certo punto qualcuno avesse esitato a tirare le somme: chi ha bisogno di un film in cui le suffragette rompono le vetrine come i black bloc, cercano di attirare l'attenzione come le femen, e fanno esplodere cassette e intere case come gli anarco-insurrezionalisti? Sono pratiche fuori moda, nessuno le trova più eroiche ormai. Lo stesso suffragio universale non se la passa così bene (continua su +eventi!)

L'ultima battaglia di Emily Davison.

Peccato perché la storia da qualche parte c'era, e alcuni spunti di partenza erano fantastici - ad esempio a un certo punto il film mostra di sfuggita una suffragetta che spiega alle altre alcune mosse di autodifesa, ebbene, pare che una membra del WSPU fosse un'esperta di Ju Jitsu. La cosa muore lì, del resto sarebbe stato difficile far funzionare una scena in cui Carey Muligan o Helena Bonham Carter abbattono un bobby a colpi di Ju Jitsu. La Gavron non si accontenta della ricostruzione storica - quella ormai è a portata di qualsiasi produzione televiva - vorrebbe anche avere qualcosa da dire sul presente, al punto di rischiare l'anacronismo: l'astuto segugio di Scotland Yard che spia le mosse delle femministe ha un pallino per le fotografie, ne scatta tantissime alle manifestazioni e durante le cariche della polizia.

Un'altra occasione piuttosto persa è il taglio che dà alla scena della morte di Emily Davison. Perlopiù sconosciuta qui da noi, la Davison in patria è un personaggio leggendario, non tanto per i nove arresti o i ripetuti digiuni, ma per le circostanze in cui morì - travolta da un cavallo a un derby, e non da un cavallo qualsiasi: da quello del re. L'incidente le costò la vita, ma diede anche al suo movimento quella pubblicità che i suoi scioperi della fame non erano riusciti a ottenere: ma fu davvero un incidente? Se ne discute più o meno da allora. Aveva intenzione di farsi travolgere o voleva semplicemente attaccare una fascetta al cavallo, con uno slogan che chiedeva il voto alle donne? Era in grado dalla sua posizione di riconoscere il cavallo del re, o lo intercettò per pura (s)fortuna? Il film decide di sposare la tesi più semplice, facendo della Davison una militante suicida, che decide di sacrificarsi lì su due piedi, senza pensarci troppo. Forse il personaggio meritava più spessore.

Anche la leader del movimento, Emmeline Pankhurst, è resa da Meryl Streep in modo impeccabile ma un po' freddo: una che inneggia più o meno alla lotta armata, per dileguarsi svelta appena arrivano i bobby. Invece il personaggio di Carey Mulligan, la protagonista, è inventato: uno di quei ruoli abbruttenti che sembrano obbligatori per le attrici di livello internazionale (la smorfietta vezzosa ormai simile a un'emiparesi facciale alla Stallone). È l'operaia che all'inizio non sa cosa sia il suffragio e poi, a furia di essere accostata a queste amiche pericolose, picchiata con loro, arrestata con loro, finisce per radicalizzarsi. Suffragette è alla Sala Polivalente di Piasco giovedì e venerdì alle 21:10.
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Shane Black e il portaceneri gigante

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The Nice Guys (Shane Black, 2016).

Ryan Gosling è un mentecatto. Tanto per cambiare, già. Ryan Gosling è un ex sbirro che ha già dato il suo meglio, e da quel che ci è dato di capire, anche quel meglio non era un granché. È uno di quei personaggi che all'inizio dei vecchi film sonnecchiano sulla loro scrivania di detective privati, tra cicche e bicchieri vuoti, in attesa che arrivi un ispettore o una bionda fatale a svegliarli, a ributtarli nella mischia. All'inizio del film effettivamente Ryan sta dormendo immerso in una vasca da bagno, in giacca e cravatta, ma lo sveglierà sua figlia perché da qualche tempo in qua il regista Shane Black ha deciso che vuole portare al cinema anche la nuova generazione, e l'unico sistema che gli è venuto in mente è piazzare minorenni nelle sue storie - anche in quelle hard-boiled ambientate nel mondo della pornografia californiana. Funziona? Insomma. Ma è un trucco talmente vecchio che sembra quasi fresco, come certe barzellette che ti ricordi improvvisamente dopo trent'anni.



Shane Black a un certo punto dev'essersi creduto un autore, uno che ha una cifra stilistica tutta sua e la persegue a dispetto di logiche commerciali o del buon senso. Forse. È un'ipotesi, neanche la più triste. Sempre la California, fragile e letale - macchinoni che precipitano dentro villette prefabbricate - sempre gli stessi personaggi fragili e perdenti che però in un qualche modo alla fine portano a casa il risultato. Gente a cui è invariabilmente successo qualcosa di brutto e non ci vuole più pensare, piuttosto ci beve sopra fino a morirne. A metà di un film non memorabile, Ryan Gosling si ritroverà seduto a fumare sul trampolino di una piscina vuota, ingombra di mozziconi. Questo cos'è, gli chiederà Russel Crowe, un portaceneri gigante? Ho la sensazione che sarà l'unica scena che mi ricorderò del film (continua su +eventi!)

Shane Black ha gusto per i dialoghi surreali, ma non è Tarantino; sa costruire una scena d'azione ma non è Tony Scott; ha un po' di sincera nostalgia per la California anni '70 ma non ci sguazza come P. T. Anderson. Ma ci sono quei piccoli momenti in cui riesce a mostrarti la disperazione in un'immagine - un uomo in un portaceneri gigante, oppure una bambina seduta in un prato, con una torcia, che racconta una storia a delle bambole che non esistono più, ecco, quelle piccole spine nel cuore Shane Black le sa conficcare. Magari sarebbe diventato un autore davvero, se Hollywood si fosse fidata un po' di più. Magari non ci ritroveremmo davanti a un prodotto che sembra pensato apposta per l'estimatore di Shane Black (ma siamo così tanti?): un catalogo di situazioni che non erano originalissime neanche quando le usava in Arma Letale, nell'Ultimo boy scout, in Kiss Kiss Bang Bang e... basta, via, non è che abbia scritto tutti questi film Shane Black. Magari lui stesso avrebbe cose più interessanti da dirci, ma a questo punto è come il vecchio amico che ritroviamo in un bar, uno da cui vogliamo sentire esattamente le stesse storie, la stessa barzelletta, non perché ci faccia ridere ma perché ci consola sapere che si è rincoglionito almeno quanto noi. 

The Nice Guys è al City Plex di Alba alle 22:20; al Cinelandia di Borgo San Dalmazzo alle 20:15 e alle 22:45; all'Impero di Bra alle 22:30; all'Italia di Saluzzo alle 20:00 e alle 22:15; al Cinecittà di Savigliano alle 20:15 e alle 22:30.
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I mutanti non muoiono mai (quasi)

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X-Men: Apocalypse (2016, Bryan Singer)

I primissimi X-Men, quelli con la casacca
della Nocerina. Jean Grey sta già
battendo la fiacca.
Non è facile essere mutanti. Tutti ti odiano perché hai dei poteri incredibili che di solito non riesci a controllare. Ti verrebbe voglia di spaccare tutto - e invece di solito quella voglia è già venuta prima di te ai mutanti cattivi e tu sei nella squadra dei buoni. Il che significa, in linea di massima, che dopo esserti preso parecchie botte o fulmini in testa o raggi cosmici, riuscirai a trionfare sui cattivi ma arriverà l'esercito e ti darà la colpa di tutto il disastro e dovrai nasconderti da qualche parte in attesa del prossimo film. Ah, è facile che nel processo tu perda qualche amico/a che invariabilmente gli sceneggiatori faranno resuscitare, ma a quel punto magari sarai già morto tu. E non finirà mai. Finché i diritti ce li ha la Fox, e perché dovrebbe perderli? Basta fare un film ogni due o tre anni. Non c'è scritto da nessuna parte che debba essere un bel film.

Nei primi anni Sessanta, Stan Lee ottiene inconsapevolmente un dono da cui derivano grandi responsabilità: qualsiasi idea gli frulli per la testa, anche scema, si trasforma immediatamente in oro, tirature esaurite, ristampe, merchandising. E se Superman invece di essere uno solo fosse un gruppo, anzi una famiglia, ognuno con un potere specifico? Li potremmo chiamare... Fantastici Quattro! E se in ragazzino morso da un ragno radioattivo cominciasse ad arrampicarsi sui muri? E se uno scienziato durante un esperimento diventasse una belva irrefrenabile, grigia, anzi verde perché in quadricromia viene meglio? Sessant'anni dopo queste idee ancora funzionano, ancora ci tormentano, ancora macinano soldi. Ma nel 1963 Lee non lo sapeva. Poteva durare ancora pochi mesi, bisognava battere il ferro finché era caldo, la gente voleva leggere di teenagers trasformati in supereroi a causa di qualche incidente atomico o cosmico, ma Lee a un certo punto non sa più che incidenti inventarsi. Decide di buttarla in genetica, e si mette a inventare un gruppo di ragazzi che semplicemente coi poteri ci è nato. Mutati geneticamente, anzi, mutanti. È l'idea più inquietante che gli sia venuta, ma ci mette del tempo a ingranare: forse perché i primi costumini non erano un granché. Poi nel 1975 un giovane sceneggiatore (Chris Claremont) cambia i costumi e gran parte dei personaggi, ma soprattutto decide di dare ai suoi personaggi uno spessore emotivo.

La quintessenza di Claremont: perché
inventarsi dei nemici? I nemici siamo noi.
(Ho perso il conto di quante volte
Xavier ha ripreso l'uso delle gambe).
Scopriamo che tra una missione e l'altra sono tutti tormentati, tutti disperati, tutti innamorati quasi sempre della persona che o non li contraccambia o sta per perire eroicamente in un incidente cosmico. In sostanza i lettori dei giornaletti, in prevalenza maschi, cominciano a leggere telenovelas senza accorgersene: è la rivoluzione copernicana, da lì in poi tutti i supereroi dovranno avere una vita sentimentale tormentata. Gli X-Men, ex supereroi mutanti di serie B, trasformati in freak tormentati e vittime dell'intolleranza dei benpensanti, diventano i supereroi più popolari degli anni Ottanta. Poi Claremont viene sostituito da autori meno dotati e scrupolosi, che inevitabilmente ingarbugliano la novela a livelli insostenibili, ammazzando qualcuno dei personaggi più amati per resuscitarlo a turno. La situazione è già abbastanza compromessa, quando nel 1994 la Fox si compra i diritti, probabilmente al ribasso. Sono anni grami per il cinema di supereroi: anche Batman è finito nelle mani di Schumacher, che lo tratta con sufficienza, un deficiente in costume. Per arrivare al cinema i mutanti devono aspettare il 2000, e un nuovo approccio al genere, più affettuoso, inaugurato da Sam Raimi col primo Spider-Man. La loro prima trilogia non è altrettanto riuscita, né poteva andare altrimenti: troppi personaggi, troppi problemi; sono proprio i fans più affezionati, dopo aver chiesto di vedere in sala tutti i loro eroi e antieroi preferiti, a dichiararsi delusi da film che condensano in due ore saghe affollatissime di personaggi e sottotrame. La cosa più triste è che questo rapporto di amore-odio non si traduce in fallimento al botteghino, anzi il contrario: più sono brutti e confusi, meglio vanno (continua su +eventi!)

Gli X-Men del 2000, almeno in foto, non sembrano invecchiati
così male: ma non ho proprio voglia di controllare.
Del resto a metà anni Zero nessuno si aspetta che i film di supereroi siano belli. Finché non interviene direttamente la Marvel con gli Avengers: da lì in poi abbiamo tutti un po' cominciato a odiare la Fox, che non è mai riuscita a fare con gli X-Men quello che la Marvel ha ottenuto con una banda di eroi che in partenza erano meno popolari (Hulk a parte), meno interessanti - gli X-Men parlano di intolleranza e di eugenetica, gli Avengers sono i soliti bambolotti colorati, metà del primo film serve di solito a spiegare perché devono andare in giro conciati in quel modo ridicolo. In un mondo più giusto, gli X-Men avrebbero una saga cinematografica sensata, gli Avengers farebbero giusto la concorrenza alle Winx su qualche rete monotematica per gli undicenni, e Hugh Jackman farebbe il damerino nelle commedie sentimentali, non la belva assassina con gli artigli di adamantio. Ma in fondo è destino degli X-Men soffrire e pagare per gli errori altrui.

Negli ultimi anni la Fox le ha provate tutte per ridare smalto alla saga. L'idea migliore (anche se non troppo originale) è stata quella di giocare la carta vintage, retrodatando la saga agli anni Sessanta. Nel frattempo gli attori cominciavano a invecchiare, e bisognava trovare una scusa per cambiarli tutti tranne Jackman - che bisogna ammetterlo, ci crede tanto, s'impegna, fa palestra, dieta, insomma il successo se lo merita: anche se ogni volta che lo guardo mi sembra di sentire Andrew Lloyd Webber in sottofondo. Ovviamente, tra ripartire da zero facendo tabula rasa della prima trilogia un po' bruttina, e ingarbugliare tutto con un viaggio del tempo e una serie di paradossi temporali, non c'è mai stata scelta. Tutto questo ci porta all'assurdità della trama di X-Men: Apocalisse, dove nuovi mutanti simili a quelli vecchi ma con nomi e provenienze geografiche diverse combattono contro un cattivo mutante che vuole distruggere la Terra... negli anni Ottanta. Il che ci fa escludere a priori che possa esserci riuscito, assai prima che i nostri amici giovani mutanti riescano a coordinarsi e annientarlo, ops, spoiler. È il terzo film della seconda trilogia, e ancora abbiamo la sensazione che la storia debba cominciare davvero.

Quello che fa arrabbiare è che gli X-Men avrebbero tutto per essere il miglior gruppo di supereroi al cinema: la spensierata gioventù, ma anche la competitività scolastica e professionale. Gli intrecci sentimentali, l'interiorizzazione del conflitto razziale, eccetera eccetera... niente da fare. Alla fine in due ore la ricetta è sempre quella: trova un cattivo mutante nuovo, fallo attaccare i nuovi, distruggi un po' di mondo, e poi tarallucci e vino. A salvarsi sono i singoli numeri dei singoli eroi, alcuni ormai codificati al punto che sembrano già concepiti per essere ritagliati e condivisi su Youtube: la scena Hugh-Jackman-uccide-tutti, la scena Evan-Peters-corre-e-gli-altri-stanno-fermi, la scena Fassbender-s'incazza, qualcuno-fa-qualcosa-di-insensato-e-poi-si-scopre-che-è-Jennifer-Lawrence-mutaforma. Poi che dire, la Lawrence è meravigliosa anche quando è blu, Olivia Munn dovrebbe stare in scena più spesso (non solo in questo film), il nuovo Nightcrawler è simpaticissimo malgrado l'accento assurdo del doppiaggio: il classico ragazzo appena arrivato dall'estero che capisce metà di quel che succede ma ha tanta voglia di far bene e alla fine salva tutti un paio di volte. Ad alcune scene d'azione anche divertenti si alternano recitativi ridicoli, spiegoni scritti coi piedi, sotto la media di qualsiasi altro film supereroistico del 2016: e nota che è l'anno di Deadpool e di Batman Vs Superman.




16 anni dopo siamo messi così, e non è chiaro chi siano
gli X-Men e chi siano i nemici.
Poi c'è il solito problema di Magneto (che negli ultimi tre film è Fassbender), un nodo presente già nei fumetti che al cinema viene inevitabilmente al pettine. Magneto è un mutante cattivo che però si pente. Si pente sempre: non prima di aver ammazzato un numero indefinito di esseri umani. Nei fumetti c'è lo spazio per fargli provare dei rimorsi, per fargli spiegare le sue ragioni, dopotutto è un reduce da Auschwitz, ecc. ecc.: al cinema è tutto automatico, un momento prima stai distruggendo il mondo e un momento dopo sei diventato buono. Succede anche ad altri personaggi, ed è una cosa che ammazza la ricezione finale del film, perché anche lo spettatore meno raffinato non può impedirsi di pensare eh vabbe', però questi mutanti sono davvero inaffidabili. Per fortuna che non esistono, perché un film come Apocalypse di sicuro non ce li renderebbe più simpatici, anzi.

La morale forse è che di gente come Stan Lee o Chris Claremont ce n'è poca. Quando li leggi non è che ti sembrano particolarmente raffinati, in fondo facevano robaccia: fumetti per gli adolescenti, novelas con ragazzini in costume. Però sapevano farla. Sembra facile imitarli, e infatti ci hanno provato in tanti. E il mondo si è riempito di ragazzi in costume con storie complicatissime che muoiono buoni, risorgono cattivi, poi si convertono alla bontà, poi incontrano il loro clone cattivo, poi scoprono di essere cloni essi stessi, e così all'infinito. E il pubblico? Continua a comprare i fumetti, anche i biglietti al cinema da un po' di tempo in qua. Si vede che la qualità non è poi così importante dopotutto. X-Men: Apocalypse è al Cinelandia di Borgo San Dalmazzo in 2d alle 20:30 e alle 22:10, in 3d alle 22:20; al Multisala Impero di Bra alle 21:45 (2d); ai Portici di Fossano alle 21:30; al Bertola di Mondovì alle 20:30.

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Un autobus chiamato 63

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La pazza gioia (Paolo Virzì 2016).


Le pazze non sono simpatiche, le pazze sono pericolose. Agli altri e a sé stesse, e lo sanno. La notte si rigirano, telefonano alle solite persone sbagliate, ingollano valium clandestino, tengono lontani i cattivi ricordi a botte in testa. Le pazze, potendo scegliere, guarirebbero stasera. Ci fosse una terapia, un lavoro socialmente utile, una scossa a centoventi volt - o tornare da papà, o tornare dal bambino, tornare indietro. Le pazze vorrebbero solo essere felici.

Da quand'è che Virzì non sbaglia un film? Una volta capitava anche a lui. Ma dopo è come se avesse ingranato una marcia diversa: da lì in poi una serie positiva che fa quasi sgomento. Persino La pazza gioia, quante possibilità aveva di raccontare la malattia mentale senza indulgere al pietismo, senza inveire contro strutture coercitive che in effetti non esistono più, senza trasformare le sue matte in eroine depositarie di una Verità Più Profonda, sconosciuta ai sani di mente? I trailer alimentavano i peggiori timori: Valeria Bruni Tedeschi e Micaela Ramazzotti che fanno le matte, scappano in decappottabile e si divertono. Sta a vedere che Virzì ha sbagliato un film - beh, prima o poi doveva succedere. Via il dente, via il dolore.

"Il cinema italiano, non so se si rende conto".
Salvo che, ovviamente, La pazza gioia non è quel tipo di film. È una storia di matte che cercano la felicità, perché l'alternativa è l'elettrochoc, o buttarsi di sotto. Non sono simpatiche, non cercano la tua pietà, se potessero metterti le mani nella borsetta non ci penserebbero due volte. Se avessi letto di loro nelle pagine di cronaca, avresti scosso la testa e invocato il manicomio criminale; se stai piangendo da mezz'ora, è perché Virzì, maledetto, ci è riuscito anche stavolta...(Continua su +eventi!)

Con un senso dell'equilibrio che non ha paragoni in Italia, una mano mai tanto salda - sarebbe bastata una sbavatura, una parola di più, una caratterizzazione appena appena più marcata, una concessione a quei bozzetti grotteschi che una volta erano il suo punto di forza. Il confine tra commedia e tragedia è una lama su cui le protagoniste saltellano senza cascare veramente mai.

Si intuisce, dietro, un lavoro di osservazione quotidiana, di riflessione sulla malattia, che solleva il film di svariate lunghezze sopra ogni altro recente tentativo di fare cinema intelligente. Quando a un certo punto compare, in un mezzo secondo, il volumetto Einaudi di Un tram chiamato desiderio, più che una strizzata d'occhio ha tutta l'aria di un'ammissione: Virzì e Francesca Archibugi non hanno bisogno di citar nomi importanti per ricordare al pubblico di essere colti, ma nemmeno possono fingere che nel personaggio della Bruni Tedeschi non riviva il fantasma di Blanche. La Ramazzotti invece è una nuova Maria Farrar, l'infanticida di Brecht che nessuno ha voluto aiutare. Intorno a loro le figure maschili sono più evanescenti del solito: ex amanti, padri e mariti non hanno più nulla da dare, se mai hanno dato qualcosa. Per Virzì e per le sue attrici era forse il film più difficile, il passo falso che gli avremmo perdonato. Niente da fare, neanche stavolta. Tocca aspettare il prossimo.

La pazza gioia è al Cityplex di Alba alle 20:00 e alle 22:15; al Cinelandia di Borgo San Dalmazzo alle 20:10 e alle 22:35; al Multisala Impero di Bra alle 20:10 e alle 22:30; al Fiamma di Cuneo alle 21:00; all'Italia di Saluzzo alle 21:30; al Cinecittà di Savigliano alle 20:15 e alle 22:30.

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Perché Accorsi sembra uno sballato

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Veloce come il vento (Matteo Rovere, 2016)


O ma lo sai che stai facendo un film di merda?

Ma come lo stai girando, tutto perfettino, con gli stacchi giusti, le curve tonde, soccia, che due balle fai venire. Ma te, ti diverti mai quando giri? 


C'è un momento, diobono, in cui non pensi alla postproduzione, alla distribuzione, all'ipoteca che ti mangerà la casa se il film va di merda e tutte le altre balle? C'è un momento in cui ti gasi e basta? Lo sai di cos'hai bisogno, te?

Di benzodiazepina. Dodici gocce e poi vai liscio.
No, scherzo.

Te hai bisogno di Loris. E sei fortunato, eccomi qua.

(Però anche la benza non ti farebbe mica 
male  sai, anzi, se hai venti carte ci passo io in farmacia, all'Operaia mi fanno gli sconti).

Ho visto Veloce come il vento e ora nessuno potrà convincermi che Stefano Accorsi non abbia passato gli anni del suo apprendistato a imitare Vasco Rossi per far ridere i compagni; se non era proprio Vasco era lo scoppiato del quartiere. Poi da cosa nasce cosa, uno spot qua, un Muccino là e vent'anni dopo Stefano Accorsi è attore di livello quasi internazionale. Il primo a crederci poco è probabilmente lui, e questo è il motivo per cui in fondo è impossibile volergli male. Ogni tanto ci pensiamo: ma che fine ha fatto? Quand'è che torna a farsi vivo, con una delle sue genialate?

(Hanno tutti fatto uno spot ridicolo ma quello di Accorsi non ce lo dimentichiamo. Prima o poi hanno tutti avuto un'"idea", ma solo "un'idea di Stefano Accorsi" è diventato un tormentone. Non c'è un perché, Accorsi non sarà un grande attore ma non è nemmeno il più cane di tutti. Non diremmo mai di Accorsi quel che si dice di solito a scuola, che uno è bravo ma non s'impegna. Accorsi s'impegna pure, Accorsi non puoi mai dire che non ci stia provando).

Veloce come il vento era, sulla carta, un film suicida. Una storia vecchia come la Turbosedici nascosta nel casolare, implausibile come un manga fine anni Settanta, o una storia di Bug Barri di Basari e Giovannini, nessuno sa di cosa sto parlando. Una ragazza minorenne al volante di una Granturismo, che durante la prima gara resta orfana (il padre si piglia un infarto nei box, la madre è fuggita anni prima) e con un fratellino a carico. Tutto questo poteva forse essere verosimile sulle pagine del Corrierino o del Giornalino, ma verso il 2015 lo spettatore italiano è ormai abituato a standard di verosimiglianza molto diversi. Poi però succedono due cose.

La prima è che Jeeg Robot, un film ancora meno plausibile su un borgataro che beve la monnezza radioattiva del Tevere e diventa Supercoatto tiene le sale per un mese intero e si presenta alla consegna dei David di Donatello col carrello della spesa. E lo riempie. Segno che il pubblico e persino la critica stanno cominciando a fottersi della verosimiglianza e a manifestare interesse per qualcosa di diverso che in mancanza d'altro chiamiamo "film di genere" (ma ha ancora senso chiamarlo così come se fossero gli anni Settanta e lo spettatore medio andasse al cinema una volta alla settimana? (Continua su +eventi!)

La seconda è che la sceneggiatura di Veloce come il vento a un certo punto è arrivata ad Accorsi, che magari non ha sempre voglia di recitare e lo capisco, ma stavolta aveva voglia di divertirsi a fare lo Scoppiato Anni Ottanta per un'ora e mezza. Perché con tanto rispetto per il giovane Rovere che ha talento, e gira sorpassi e curve e inseguimenti che Ron Howard, per dirne una, non ne ha fatti di migliori; con tanta ammirazione per la giovanissima Matilda De Angelis che regge il volante e la scena senza sbavare, Veloce come il vento non filerebbe così bene - Veloce come il vento non filerebbe nemmeno se Accorsi non riempisse ogni buco e fessura di trama. Il suo sporc-drughè, struggente ed esilarante e completamente fuori le righe, chi ha condiviso un po' di anni Ottanta nei parchetti dell'Emilia-Romagna non potrà trovarlo famigliare - quando spalanca le braccia ti sembra di sentirlo puzzare. Non so se chi è nato a nord del Po e a sud degli Appennini possa sentire lo stesso turbamento: ma qui ce l'abbiamo tutti un fratello, cugino, zio maggiore ridotto così. Cioè: ce l'avevamo. E in un qualche modo lo rimpiangiamo. Perché è vero che era un deficiente e ci ha rubato pure le posate. Però era nel nostro sangue, e quando se ne è andato è come se ci avesse tolto il divertimento. Quello non torna più, le posate si ricomprano.

 

Veloce come il vento ce lo resuscita a tradimento come fanno i ricordi d'infanzia, tirando una coperta pietosa sugli aspetti più crudi. Sembra veramente una storia restata in garage per vent'anni: ambientata prudentemente in un casolare lontano dalla Storia, e in un'Imola dove ai tavolini del bar ci sono ancora dei "gran disgraziati" in chiodo che sembrano usciti da un Frigidaire o un Lancio Story. L'unico adeguamento è stato sostituire alle siringhe le bottiglie di plastica: per il resto, c'è l'idea che nessuna elettronica potrà migliorare quella bara volante che era la Turbosedici Peugeot; nessuna sopraggiunta mafia bielorussa potrà correre più forte dei disperati col fegato-fegato-fegato spappolato. Senza Accorsi Veloce sarebbe il compitino rigoroso ma freddo di un regista che prova a fare il film-di-genere-nel-2016, e per carità, tiferemmo comunque per lui, come abbiamo tifato per Jeeg. Però se il film vince, sulla distanza, è per quell'odore di salciccia e roulotte. Certo, in Veloce come il vento c'è anche la minorenne più cazzuta del cinema italiano ("Prendo le curve ai duezento all'ora e ti preoccupi se mi faccio una scopata in macchina?") e - colpo di autentico genio - il bambino meno empatico mai visto. Il che è fantastico, perché quel bambino siamo tutti noi, che tifiamo per la brava giovanissima attrice, tifiamo per il talentuoso giovane regista - ma in realtà abbiamo solo voglia di rivedere Loris, solo lui ci ha fatto divertire.

Alla quarta settimana di programmazione, Veloce come il vento regge ancora al Comunale di Barge (21:15), al Cinelandia di Borgo San Dalmazzo (20:10, 22:40); al Nuovo Lux di Centallo (21:00). Vai, vai, ballerino.
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Kate Winslet è il boss

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Codice 999 (Triple Nine, John Hillcoat).

Che fine ha fatto Kate?
Un gruppo di buoni attori, di quelli che li vedi in tanti film e vincono pure i premi, ma da soli non fanno il cartellone, avete presente? Un gruppo di buoni attori senza troppe pretese vuole fare un colpo al botteghino, un film di genere dove esplodono macchine e arti umani, e poi dividersi il bottino. Quante possibilità hanno di riuscirci? Poche, è un segmento molto inflazionato. Però, forse, pescando una sceneggiatura che era in ballo da anni... offrendo alla Winslet un ruolo diverso dal solito... attirando in un tranello Casey Affleck...

Codice 999 è un poliziesco corale, come a dire uno di quei film in cui bisogna incastrare gli impegni di sette od otto attori di primo livello e il rischio che si corre è di sembrare comunque un Heat dei poveri. Il punto di vista oscilla continuamente tra buoni e cattivi, ma è un oscillare del tutto meccanico: se Heat o The Departed ne approfittano per mostrare che i due fronti si assomigliano più di quanto dovrebbero, e che insomma il bene e il male son concetti relativi ecc., Codice 999 è semplicemente un canovaccio scritto così, perché si usa così. I poliziotti sono marci, e i cattivi sono ancora più marci - tanto che alcuni di loro sono poliziotti deviati. Perché sono marciti? Non c'è un perché - cioè, Chiwetel Ejiofor ha decisamente sposato la persona sbagliata (la sorella di una boss russo-israeliana), che tutto sommato può essere un motivo valido per far esplodere le persone. No, la gente marcisce perché sai, la società, tutti sono armati, c'è tanta violenza a New York, Los Angeles, Atlanta - beh, almeno la location è una novità. In realtà no, perché sai come va con le città americane, insomma, grattacieli e sobborghi coi latinos violentissimi che comunque svolgono solo crimini di bassa manovalanza.

Qui era fatto anche il fotografo
Ecco, la cosa più interessante di Codice 999, se non fosse Kate Winslet, sarebbe il modo in cui s'infischia allegramente del politically correct, e ti piazza una gang di afroamericani e latinos ricattati da una gang ancora più cattiva di (D*o ci perdoni), ebrei russi ma di stanza in Israele, che per mettere a segno il colpo impossibile decide di ammazzare l'unico poliziotto non marcio di Atlanta, che occasionalmente è quasi l'unico bianco rimasto sul set: Casey Affleck. (In verità c'è anche Woody Harrelson, suo zio, che è un capo della polizia marcissimo - tira i mozziconi di crack che trova sui luoghi del delitto - ma è ancora un bravo segugio e sa difendere la sua famiglia).

La cosa è talmente smaccata che fino a un certo punto ti aspetti il colpo di scena, cioè dai, è impossibile... (continua su +eventi!)

La cosa è talmente smaccata che fino a un certo punto ti aspetti il colpo di scena, cioè dai, è impossibile che i neri siano i cattivi, i latinos siano ancora più cattivi però cialtroni e iperviolenti che non ragionano, gli ebrei i più cattivi di tutti che tramano trame - e i bianchi quelli buoni, quelli che danno sempre il meglio, che vorrebbero "fare la differenza". C'è persino una poliziotta asiatica che è un mago al computer.

Si sa come vanno le sceneggiature in questi casi: prima ti fanno credere una cosa e poi... scommetti che alla fine salta fuori che in cima a tutta la piramide del Male c'era il capo Harrelson con la sua ridicola cravatta stellestrisce? E quella brava coi computer in realtà faceva finta? E invece? E invece non è che posso dire il finale ma insomma, forse è persino una buona notizia: finalmente un film in cui ai neri capita di essere i cattivi (però professionali), agli ebrei capita di fare i mafiosi (ok, non è una novità) e ai bianchi di salvare la giornata, e nessuno lo trova razzista. Neanche in patria sembra che ci siano state molte polemiche. C'è anche Gal Gadot in quota israeliana ed è uno spreco terribile - una truzza mafiosa senza qualità, serve a far risaltare l'intelligenza della sorella Kate.

Il film ha un buon ritmo ma non si ferma mai - soffre di quell'affanno tipico di sceneggiatura troncata perché è vero che Hillcoat ha fatto La strada, ma non è né Mann né Scorsese e non può concedersi quella mezz'ora in più per spiegare perché certi personaggi si comportino in certi assurdi modi. Il risultato, temo, è che tra un paio d'anni ci ricorderemo ancora tutti dei film di Mann e di Scorsese, e di Codice 999 resterà il vago ricordo di un film in cui Harrelson si re-inventava poliziotto marcio ma completamente diverso dal suo true detective, e soprattutto Kate Winslet si trasfigurava in imperatrice ebreorussa del male, un'Imma Savastano dove meno te lo aspetti.

Codice 999 è al Cinelandia di Borgo San Dalmazzo (20:15, 22:45); all'Impero di Bra (22:30); all'Italia di Saluzzo (20:00, 22:15); al Cinecittà di Savigliano (20:20, 22:30).
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Villeneuve non ha pietà

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Sicario (Denis Villeneuve, 2015).

Anche qui arriveranno i lupi e i macellai, non c'è confine o barriera che possa contenerli. Reggie e Kate sono due agenti FBI di stanza in Arizona, per lo più indagano sui rapimenti e tirano giù porte coi calci. Un giorno squarciano un muro di cartone e si ritrovano nell'inferno del narcotraffico messicano. La cosa migliore sarebbe farsi trasferire in una piccola città, un posto dove le leggi possano avere ancora senso, dimenticare tutto. Ma Kate ovviamente non può.

Quando qualche anno fa uscì Polytéchnique, un critico scrisse che il regista era riuscito a trasformare un massacro scolastico (ispirato a una storia vera) in un'esperienza estetica. Con Villeneuve si corre spesso questo rischio: storie agghiaccianti fotografate in un modo magnifico. Nessuno è mai riuscito a tirar fuori tanta arte dai profili delle tute antiproiettile stagliate su un tramonto: una ricerca estetica che rasenta il Kitsch e di solito ai registi statunitensi non interessa - rischia di distrarre l'attenzione dall'intreccio.

"Finisci di mangiare".
Villeneuve, canadese, ha il problema opposto: il suo intreccio non è proprio a prova di bomba. In compenso gira come un dio, e non è solo un'iperbole. Villeneuve se vuole può anche mostrarci una scena nei dettagli: scegliere un personaggio a caso e guardarlo con l'attenzione spassionata che un bambino può avere per una formica, un momento prima di schiacciarla. Ma più spesso ci mostrerà il mondo dall'alto: una delle frontiere più incredibili del mondo, come un segno tra due zolle di terra. Laggiù gli uomini si uccidono o mutilano per decidere chi controllerà il territorio. Vista da lontano, la violenza diventa un fuoco artificiale. Dipende anche da noi, scegliere se vogliamo vedere le cose soltanto da lontano, o prendere il tunnel sbagliato e scoprire come stanno le cose.

Il mondo di Sicario lo abbiamo già visto altre volte al cinema o in tv: eppure sin dall'inizio abbiamo la sensazione che stavolta sarà diverso (continua su +eventi!)

Non possiamo fidarci di chi ci accompagna: sicuramente non è chi dice di essere. Villeneuve sfida tutte le convenzioni del genere, e soprattutto nella prima straordinaria mezz'ora sembra concentrarsi su tutte le situazioni che un buon professionista hollywoodiano eviterebbe: riunioni a un tavolo dove nessuno dice nulla d'interessante, trasferimenti silenziosi in auto o in aeroplano, e poi quel briefing che sembra una presa in giro, tra agenti distratti e assonnati che pochi minuti dopo faranno una strage. Emily Blunt ci presta gli occhi, Brolin in ciabatte ci mette a disagio sonnecchiando e sgranocchiando noccioline, Del Toro è l'orco buono dietro a cui nascondersi, salvo che non sta scritto da nessuna parte che sia buono davvero. Sicario è la dimostrazione che si possono violare tutte le regole del cinema d'azione e fare lo stesso uno straordinario cinema d'azione - o meglio, che lo può fare Denis Villeneuve. Lo si può rivedere venerdì 22 al Nuovo Cinema Lux di Centallo (21:00).
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Batman contro Superman non ha senso (neanche se li costringi)

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Batman v Superman: Dawn of Justice (Zack Snyder, 2016).

Due città si dividono la baia, e se nessuno è ancora riuscito a inquadrarle assieme, forse c'è un motivo.

A est c'è Zackopolis, terra solare di Dei olimpici o aspiranti tali. I templi sono più ottone che oro, se vogliamo proprio dirla tutta, ma l'aspirazione alla grandezza è genuina. C'è un'attesa messianica, un senso del divino e della meraviglia, quella nota di fascismo che gli americani sulle prime non riconoscono - addolcito da quella spezia camp, appesantito da qualche cedimento pacchiano che possiamo scambiare per ironia. Di film di supereroi ne trovi a ogni cantone, ma nessuno li inquadra come Zack. Nessuno ci crede davvero, hanno tutti paura di passare per ragazzini e ci scherzano su.

Come hai detto che si chiama tua madre?
Solo lui riesce a stare serio di fronte a creature di calzamaglia con o senza superpoteri, solo lui è credibile, perché solo lui ci crede. Di Batman ce ne sono stati tanti, e Ben Affleck non partiva avvantaggiato: ma Zack riesce a renderlo il più spaventoso di tutti. Superman è l'eroe più antico, il più ingenuo e il più difficile - è onnipotente, e allo stesso tempo troppo fragile: non regge la kryptonite né il ridicolo. Passa il tempo a salvare la fidanzata, ha una copertura ridicola e quegli stivali da imbecille, solo Snyder può trasfigurarlo in un Michele Arcangelo. Nessun altro avrebbe potuto confezionarci un film come Batman v Superman - e allora perché non l'ha confezionato meglio? La risposta forse è dall'altra parte della baia.

Ho fatto il militare in Israele,
cosa volete che m'impressioni Doomsday
A ovest c'è Nolan City, una terra oscura, che rimedia alla mancanza di grandezza aggrovigliandosi in mille arzigogoli. Qui la linea più breve tra una scena e l'altra è lo scarabocchio, e smarrirsi è obbligatorio. Da Nolan City arrivano gli sceneggiatori che hanno ritagliato due o tre tavole delle loro storie a fumetti preferite, rimontandole in un intreccio completamente diverso, e ingegnandosi a complicare ogni raccordo con lo scopo preciso di stordire lo spettatore. Batman v Superman non è un Film Fatto Male - non sarebbe così grave - è un film Fatto Male Apposta. Un pasticcio meticolosamente organizzato a tavolino, da professionisti consapevoli.

"Clark Kent e Bruce Wayne!
Come mi piace mettere in contatto le persone"
Sarebbe bastata una sottotrama in meno, una sequenza in meno, due spiegazioni in più, e BvS sarebbe stato un dignitoso film di supereroi come ce ne sono tanti. Ma a Nolan City non si ragiona così. A Nolan City si deve complicare tutto - perché una sottotrama sola se ne puoi infilare tre? Perché l'ordine cronologico, se puoi mescolare gli eventi come in un mazzo di carte? Tutto questo lo facevano i grandi scrittori prestati al fumetto che amavamo, e che avevano cose da dirci, e lo fanno anche gli sceneggiatori di Batman v Superman, che con quelle storie sono cresciuti e forse non le hanno nemmeno capite - si ricordano solo una gran confusione che era bellissima da sfogliare, e certe frasi icastiche che copiano di pacca. "Il mondo ha un senso solo se lo costringi ad averlo". Bella, in effetti.

Peccato che a Nolan City si faccia più o meno il contrario.. (continua su +eventi!) Come ai tempi del Joker di Nolan, c'è di nuovo un cattivo pazzo con un piano che non ha senso, a volte sembra calcolato al millimetro e a volte improvvisato sul set. Il film sembra riscritto dozzine di volte con dozzine di priorità diverse: facciamo un Superman realistico, che si misura con la contemporaneità: un po' di undici settembre (e persino l'attentato a Massoud, che riemerge come in un sogno) No, anzi, facciamo il Cavaliere Oscuro di Miller, anche se ai tempi Superman era Ronald Reagan e Batman piegava già verso i neonazi... Ho cambiato idea, facciamo un universo cinematico come la Marvel! Un cameo a Wonder Woman, un altro per Flash, via che si va... dite che è roba già vista? Ok, giochiamoci la carta di Doomsday. Ma sentite, e se il cattivo lo facessimo fare a Zuckerberg? Non a quello vero, no, all'attore... Oppure facciamo tutto, mettiamoci di tutto, e speriamo che qualcuno confonda la complicazione con la profondità. Con Nolan dopotutto funzionava.

E funziona anche stavolta. Il terzo miglior weekend di sempre negli USA - ok, a lunedì si era già sgonfiato di parecchio, ma al miliardo di $ ci arriverà. Ed è solo l'inizio, perché è talmente scombiccherato che i nerd, il nocciolo duro, dopo averne parlato male per un mese correrà a ordinare il dvd con le Scene Tagliate che dovrebbero Spiegare Tutto e invece probabilmente Faranno Ancora Più Casino. In questo stesso momento centinaia di blogger convinti di avere un senso critico stanno lavorando a un pezzo sui Cinquantasette Buchi di Trama di Batman v Superman (il Quarantaduesimo Ti Sconvolgerà!) Quella è gente che un film del genere se lo merita. Lo guarderanno e lo riguarderanno fino a sognarselo, finché non lo costringeranno ad avere un senso, come i predicatori con la Bibbia. Magari il cinema dovrebbe essere un'altra cosa - anche quello di intrattenimento, anche quello coi tizi in mantello che volano e tirano raggi laser. Una cosa meno seriosa, meno inutilmente complicata. Poi vai a vedere gli incassi, e... Batman v Superman è anche questa settimana al Cityplex di Alba (21:00), al Cinelandia di Borgo San Dalmazzo (19:50, 21:10, 22:45), al Vittoria di Bra (21:00), al Fiamma di Cuneo (21:00), al Multilanghe di Dogliani (21:05), ai Portici di Fossano (18:30, 21:15), al Cinecittà di Savigliano (21:30).
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Cuore di un ragazzo che senza paura sempre lotterà

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Le macchine rallentano, c'è un tamponamento. Una macchina è rovesciata sul fianco, sta per prendere fuoco. Sul ciglio del raccordo una donna si riscuote dallo choc e si mette a urlare: lì dentro c'è mia figlia. I poliziotti la trattengono. Arriva un tizio in felpa nera: cosa può fare? Quello che vorresti fare tu, quello che farebbero tutti. Solleva la fiancata di peso, strappa la bambina alla morte e se la mette in braccio. Per quale altro motivo pensavate di essere venuti al cinema?

Lo chiamavano Jeeg Robot (Gabriele Mainetti, 2016).

Vai a vedere Jeeg Robot. Me l'hanno detto tutti per una settimana. Io nicchiavo, ero rimasto bruciato dal primo tentativo del cinema italiano di abborracciare un supereroe. In realtà Jeeg è agli antipodi del Ragazzo Invisibile, praticamente in tutto: al servizio di Salvatores si era messa una macchina industriale anche efficiente, ma che di supereroi non sapeva nulla e non ci teneva neanche troppo a informarsi - tanto è roba per ragazzini e i ragazzini si bevono tutto, no? No, sono anzi molto esigenti.

Invece Jeeg, per come ce la raccontano, è un progetto portato avanti in solitaria da un regista testardo che il target non lo ha studiato a tavolino, ma se lo porta tatuato su qualche organo interno. Jeeg è un film per il ragazzino che è rimasto intrappolato in ciascuno di noi. È un disadattato che si è arrangiato a vivere nel nostro condominio interiore - tutti i suoi amici o sono svaniti all'Apparir del Vero, o si sono trovati una famiglia e un lavoro - ma lui è ancora lì, rannicchiato su qualche puzzolente divano, vuole solo guardare porno e mangiare yogurt. Si esprime per citazioni misteriose, cartoni giapponesi, canzoni di vecchi Sanremo. Non farebbe male a una mosca ma allo stesso tempo è violento - la violenza è l'unico linguaggio che conosce - tanto violento quanto fragile.

Vai a vedere Jeeg Robot, mi dicevano. Avevano tutti la mia età, un brutto segno... (continua su +eventi!)
Vai a vedere Jeeg Robot, mi dicevano. Avevano tutti la mia età, un brutto segno. Perché noi quarantenni continuiamo ad andare al cinema a vedere questi tizi in calzamaglia, quando ce ne piace di solito uno su cinque, perché ci siamo intestarditi su una delle tendenze, diciamolo, più bimbominchia della storia del cinema? Dall’Uomo Ragno di San Raimi in poi, non ce ne siamo persi uno, e non ce n’è uno che ci abbia convinto per più di un film. Che cosa stiamo cercando esattamente? Abbiamo avuto l’approccio scanzonato alla Marvel, l’approccio serioso alla DC, il finto gotico di Burton, il bislacco Nolan. Film di genere, li chiamano: come se gli autori non avessero provato in tutti i modi a colonizzarli, a darci il supereroe intelligente, il supereroe tragico shakespeariano, il supereroe horror. Va’ a vedere Jeeg – e già sapevo più o meno cosa aspettarmi: una farsa in romanesco col coatto che “ci ha i poteri”, tante strizzate d’occhio citazioniste a chi è cresciuto a pane e anime. E invece?

E invece ho visto il tizio in felpa che riavvia una giostra e poi salva una bambina, e un inquilino della mia Tor Bella interiore si è messo a piangere come una fontana: finalmente! è questo che ho sempre voluto vedere, coglione. I supereroi non sono buffi, non sono seri, i supereroi fanno quello che vorresti fare tu se avessi la forza di schiacciare un termosifone. Non passano il tempo a strizzar l’occhio allo spettatore, a confortarlo sul fatto che è molto, molto più intelligente di così, ed è in sala soltanto per gentile concessione al suo bambino interno o esterno. I supereroi sono quelli che i bambini li salvano, afferrandoli un attimo prima che cadano nel burrone. Non sono invincibili, anzi ne devono prendere tante dai gemelli cattivi – e perdere pezzi per strada.
Andate a vedere Jeeg Robot. Anche se ormai ce l’ha fatta: è ancora in sala dopo dieci giorni, anche in provincia di Cuneo (ad Alba oggi alle 18:45 e alle 21). Claudio Santamaria e Luca Marinelli mettono l’anima in due personaggi straordinari e implausibili, ma è Ilenia Pastorelli che continuerà a tormentarvi anche a fine visione: con gli occhi e gli strilli insopportabili di tutti i bambini che dovevate salvare, e non ne avete avuto il coraggio, le forze.
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Non t'immischiare con Capitan Totomorto

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La XXth Century Fox, in associazione con la Marvel Enterteinment non si vergogna affatto di presentarvi il nuovo film di un qualche cazzone. Nei panni del supereroe, un coglione. Con la straordinaria partecipazione della gnocca di turno. Poi c'è un cattivo dal forte accento inglese, la spalla comica, un'adolescente musona, un personaggio completamente fatto al computer, un cameo gratuito. Prodotto da dei figli di buona donna, scritto dai veri eroi qua dentro, diretto da un automa superpagato. (Questa non è una recensione, questi sono i veri titoli iniziali - per inciso, la cosa migliore del film. Dopo Morena Baccarin).
Lei è Morena Baccarin.

Dopo i supereroi coi superproblemi, i supereroi dal destino tragico e dalle grandi responsabilità, i supereroi recalcitranti, finalmente arriva Deadpool, ed è soltanto un coglione. Non è una ventata d'aria fresca? Un po' lo è. D'altro canto, non basta ammettere di essere coglioni per smettere di esserlo. A volte è il primo passo. Ma può anche essere un passo indietro. Di solito è il modo in cui cercavamo di sfangarla al liceo.

A volte penso a quanto sono fortunati i ragazzini di adesso, con tutti questi supereroi al cinema che ai miei tempi te li potevi soltanto sognare. Altre volte penso a quanto dev'essere difficile crescere in un mondo in cui i genitori conoscono tutti i personaggi dei tuoi sogni. Prendi Star Wars. Trent'anni fa era un mondo nuovo, qualcosa che creava un'immediata frattura tra il tuo mondo e quello dei grandi. Tuo padre non sapeva chi fosse Luke Skywalker - non era previsto che lo sapesse. Anzi, era previsto che non lo sapesse e non lo capisse. Invece adesso noi maledetti grandi coi capelli grigi sappiamo tutto, tutto. Tutte le vite di tutti gli eroi. Per i buchi di memoria ci sono le ristampe, le antologie, se proprio butta male wikipedia.

Nel frattempo, in virtù di un calcolo di mercato neppure troppo oscuro, l'Universo Cinematico Marvel continua a insistere su storie di quarant'anni fa, che perfino noi abbiamo letto in ristampa. Vedi l'ultimo Avengers: contiene due personaggi irrimediabilmente datati, l'androide Ultron e il suo antagonista buono, Visione, un tizio col mantello. Non so se vi rendete conto: il mantello. E quell'incarnato magenta che probabilmente negli anni Settanta era più pratico da stendere in quadricromia. Qual è il senso di resuscitare situazioni così vecchie, a parte compiacere i genitori che portano figli e nipotini e vogliono mostrare di saperla lunga? Per fortuna che da qualche cassetto la Fox ha tirato fuori Deadpool.

Una mossa abbastanza disperata, da parte di una major che negli ultimi anni ha fatto tutto quello che poteva fare per sputtanare gli eroi Marvel di cui deteneva ancora i diritti. Un Uomo Ragno per ragazze, un X-Men che ha definitivamente incasinato la timeline, un Fantastici Quattro horror, e poi cosa?
"Ci sarebbe un assassino psicopatico onnisessuale che non tace mai".
"Stai scherzando?"
"Ryan Reynolds ci tiene tantissimo".
"Ah beh allora".
"È un personaggio autoironico, dice un sacco di parolacce, infilza la gente con le spade..."
"Non si può fare, lo vieterebbero ai minori".
"Magari così funziona".
"Dici?"
"Teniamo basso il budget e vediamo. Insomma qualcosa prima o poi dovrà pur funzionare. È la legge dei grandi numeri".

Beh, ha funzionato. Però resta un sospetto. Forse più dell'autoironia da quattro soldi, di quel turpiloquio da macchinetta delle merendine, più di quella cosa così sovversiva che è sfondare la quarta parete (che non è un valore in sé, se la sfondi solo per dire cretinate) Deadpool ha funzionato proprio perché noi vecchi non lo conosciamo. Chi è questo Deadpool, in fin dei conti?

Che è un po' come chiedersi chi è questo Eminem di cui tutti i parlano - sì, il personaggio nei fumetti fa sfracelli già da più di vent'anni. Ma noi lo abbiamo appena intravisto, quindi dev'essere l'ultimo arrivato. E come si permette di sbancare il botteghino?
Se Deadpool ha un merito - non sono del tutto sicuro che ce l'abbia - è proprio quello di tagliarci fuori. Finalmente un supereroe che non è fatto per noi. Il film non ha niente di originale - anzi, cavalca senza vergogna e con una certa foga tutti gli stereotipi del genere "origini di un eroe". Di buono ci mette uno script compatto, che mira al sodo e taglia tutto il grasso; si sente che stavolta gli sceneggiatori non provavano la solita ansia da primo episodio ("Oh mio dio devo raccontare le origini di questo famoso personaggio senza tradire i fans e trasformandolo in un eroe maturo a metà del secondo tempo"). Deadpool non è una leggenda, Deadpool è una barzelletta: era essenziale non tirarla in lungo. Detto questo, rimane pur sempre la storia della sfida mortale tra due galletti che ce l'hanno a morte perché hanno iniziato a sfottersi in un corridoio. Il target è più ristretto del solito: è un film che in patria è vietato ai minori di 16 e che nessun normodotato maggiore di 24 dovrebbe avere un motivo serio per guardarsi. Gli X-Men forniscono due guest star, si fa per dire, due avanzi di continuity che rappresentano abbastanza fedelmente l'idea che lo spettatore tra i 16 e i 24 ha della generazione successiva (una teen-ager musona che whatsappa durante il combattimento) e della precedente, ovvero Colosso. Ecco: il nobile Colosso, che finalmente ha recuperato il suo accento russo, è il personaggio in cui gli spettatori più grandi sono costretti a immedesimarsi. Per tutto il film non fa che chiedere a Deadpool di non fare il deficiente. Indovinate che figura ci fa.

Deadpool, tra le altre cose, è un segnale eloquente che mi manda l'industria cinematografica: la vuoi piantare di andare a vedere i film di supereroi e di uscire deluso? Cosa ti aspetti ancora alla tua età da dei tizi in maschera e tutina colorata? Da bravo, perché non vai a vedere i film intensi o di denuncia sociale o non porti semplicemente i tuoi popcorn ai piccioni nel parchetto più vicino? Niente di personale ma insomma ci spaventi i clienti veri. I ragazzini. Deadpool è al Citiplex di Alba (20:00, 22:15), al Cinelandia di Borgo San Dalmazzo (20:20, 22:40), all'Impero di Bra (20:20, 22:30), al Cinecittà di Savigliano (20:20, 22:30).
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Il romanziere più snobbato del Novecento

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Umberto Eco ha probabilmente fatto cose più importanti, ma prendiamo anche solo i primi tre romanzi. Eco è il romanziere più snobbato del Novecento: forse aveva venduto troppo per essere preso sul serio dai coetanei, mentre i più giovani avevano pudore di farsi vedere in compagnia di un professore. Resta il fatto che Il nome della rosa è uno dei più penetranti libri sugli anni di piombo, ed è una detective story ambientata in un monastero trecentesco. Il pendolo di Foucault è un libro di fine anni Ottanta che spiega il fenomeno del Codice Da Vinci vent'anni prima che Dan Brown si metta a scriverlo - basterebbe questo. Ma Il pendolo è molto di più: è anche il romanzo definitivo su quel fenomeno che crediamo nato con Internet, il complottismo cosmico. Eco lo aveva scoperto molto prima, bazzicando librerie equivoche ed editori senza scrupoli, e aveva anche capito che non si trattava di un episodio di secondaria importanza: no, i complottisti erano legione, avrebbero forse ereditato il mondo - col consenso magari divertito degli intellettuali.

Poi c'è l'Isola del giorno prima che, letto d'un fiato ancora fresco di stampa, ovviamente mi deluse, e riaperto qualche anno dopo mi convinse di trovarmi davanti al migliore romanzo di Eco e alla migliore istantanea di com'era vivere in Italia a fine Novecento, sulla linea esatta tra un ieri ormai incomprensibile, inereditabile e un domani che non arrivava: salvo che non era ambientato in Italia, ma dall'altra parte del mondo, e non a fine Novecento, ma nel secolo più letterariamente antipatico di tutti, quello della peste e dei lanzichenecchi. Umberto Eco ha fatto cose magari più importanti, ma quei tre libri sono un monumento di cui dobbiamo ancora apprezzare la vera grandezza. Credo.

D'altro canto, sono anche i romanzi con cui sono cresciuto. Il mio Montecristo, se avete presente cos'era Montecristo per Eco. Magari hanno difetti, anzi ne hanno tantissimi, ma quanto mi ci sono divertito. Adso e Guglielmo che mappano il labirinto dall'esterno, Causabon che cerca la password di Abulafia, i collages di citazioni di Belbo, e quel folgorante capitolo sull'Editoria A Proprie Spese che probabilmente mi ha salvato la vita e i risparmi. La lista della spesa dei templari, "ma gavte la nata", l'assedio di Casale, la digressione sulla longitudine - sono quelle cose che quando sei un ragazzino, in quegli anni in cui hai il cervello che si secca e si imbeve come una spugna, possono fare la differenza. Credo di essere stato davvero fortunato a crescere nel preciso momento in cui i ragazzini in edicola trovavano il tascabile del Nome della Rosa prima del Signore degli Anelli. Insomma per me sono libri bellissimi, formativi e indispensabili, e non ho intenzione di riaprirli per verificarlo. Non li tengo neanche in casa, per sicurezza.

Umberto Eco è stato molto di più di un romanziere divertente, però che romanziere che è stato. Mi è ancora più difficile del solito parlare di lui senza ritrovarmi a parlare di me: di come mi capiti di aprire Apocalittici e Integrati in media una volta ogni due mesi (ormai è un plico di pagine scollate), di perché penso a lui ogni volta che un deficiente su un giornale infila una tautologia crociana o un signora mia dove andremo a finire; di quanto sono debitore del suo stile schietto e affabile e vittima delle sue arguzie d'erudito che altri, comprensibilmente, non sopportavano. Come se davvero potessi fornire me stesso come dimostrazione di quanto bene Eco ha reso al mondo, quando è il contrario: Eco meritava discepoli molto migliori. E li ha avuti.
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Tutti gli uomini del Cardinale

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Il caso Spotlight (Spotlight, 2015, Tom McCarthy)

Alla fine per una buona metà del tempo
ci sono loro in un ufficio che si spiegano le cose. 
C'erano una volta i quotidiani. Uscivano una volta sola al giorno, e per stamparli serviva un sacco di gente. Alcuni andavano in giro per il mondo a intervistare persone, ad accorgersi dei fatti. Altri lavoravano per ore e ore chiusi in grandi sale illuminate, senza finestre. Nel seminterrato c'era un enorme archivio di ritagli. Lì c'era semplicemente tutto quello che era successo, anche se trovarlo non era facile. C'erano una volta i quotidiani. Scoprivano le cose. E ne dimenticavano altre.

Liquidato da alcuni come un film necessario, ma un po' troppo convenzionale, Spotlight è un oggetto molto più curioso di quanto non appaia a prima vista. Per essere un film sul più grande scandalo di pedofilia della Chiesa cattolica, è notevole quanto poco compaiano sullo schermo sia i bambini sia i preti. Non c'è nessun sadico bavoso in sottana, nessun paperino che piange nascondo rintanato in un angolo. L'orrore è del tutto verbale, riportato da vittime che non sono più bambini da un pezzo - uomini ingrassati, nervosi, non proprio quel genere di persona che ti muove all'empatia. Addirittura il regista sceglie di staccare prima che si mettano a piangere. È una scelta antispettacolare davvero inusuale: un film che invece di commuoverti vuole farti ragionare, pazzesco. Spotlight sulla carta si era scelto i cattivi più facili su cui infierire - i preti pedofili - e invece di segnare a porta vuota, decide di parlare d'altro: di giornalismo, soprattutto.

Buongiorno, sono una vittima. Non piaccio a nessuno. 
Spotlight parla di abusi dei minori ma potrebbe parlare di scommesse sul baseball, e lo farebbe con lo stesso stile procedurale e quasi documentario che tradisce il transito del regista in una delle officine più importanti e sottovalutate della fiction americana, Law and Order. Quei telefilm ubiqui senza scene d'azione o scene madri, tutti investigazione e procedura, che gratificano lo spettatore non tanto mostrando la punizione del cattivo, ma affermando che con tutte le sue imperfezioni, la Legge funziona e l'Ordine esiste. Come i detective e i magistrati di L&O, i giornalisti di Spotlight non hanno mai illuminazioni improvvise: non fanno che intervistare testimoni, passarsi informazioni, patteggiare con gli avvocati, spiegarsi le tecnicalità amministrative o giudiziarie. Certo, L&O va giù liscio che è un piacere in 40 minuti: confezionare due ore di investigazione senza annoiare invece è una sfida che forse McCarthy ha perso. In compenso è riuscito come pochi a descrivere una metropoli moderna, Boston, come una grande "piccola città": un organismo collettivo che convive col suo marciume interiore espellendo ogni tanto qualche "mela marcia", e che più dei suoi panni sporchi teme le minacce esterne (il nuovo direttore del Globe, ebreo e senza famiglia!)(continua su +eventi!)
Aspetta, forse ho sbagliato film.
Il momento storico è cruciale: nell'alba del secolo, la carta sta cominciando a cedere al digitale. Alcuni reporter non hanno ancora un cellulare: una fotocopiatrice accesa al momento giusto può valere uno scoop. Gli annuari stampati, gli immensi archivi di ritagli, tutto è ancora meravigliosamente analogico e cartaceo. Ma è un mondo agli sgoccioli. Il fastidio per il nuovo che avanza e non può più essere arginato è percepibile nel momento in cui crollano le Torri, e il team dei giornalisti è costretto a smembrarsi per seguire la Storia, mandando all'aria mesi di lavoro. È ironicamente proprio un prete sul pulpito a spiegare una delle possibili lezioni del film: no, dice, internet non ci ruberà il lavoro. Anche quando l'archivio diventerà grande come tutta la terra, e immediatamente disponibile, ci sarà sempre bisogno di sapere quel che davvero vuoi cercare. Dopo aver setacciato tutta la metropoli, il team investigativo del Boston Globe troverà le verità più scomode proprio nel proprio seminterrato. E il vecchio cronista scoprirà il nemico peggiore: sé stesso.

Spotlight si giocherà qualche oscar accanto a un film che gli somiglia come il gemello cattivo, The Big Short. A monte di entrambi c'è una sfida: raccontare al pubblico medio una storia importante e difficile. Completamente opposto è il modo in cui i due registi dispongono dei loro cast d'eccezione: McKay, il regista di Big Short, li lascia liberi di gigioneggiare a loro piacimento: McCarthy li mette al lavoro come se fossero onesti lavoratori di una fiction con un lavoro da portare a termine. Tanto è pessimista e sarcastico Big Short, tanto è composto e a suo modo epico Spotlight: il primo si guarda intorno disperato, accumula tentativi di spiegazioni e metafore inconcludenti. Il secondo regge la barra in mezzo alla tempesta e continua a dirti che ce la possiamo fare: il giornalismo può essere indipendente, può essere di qualità, può spiegarci le cose e migliorare il mondo. Anche per questo, più di Keaton o di Ruffalo il personaggio a emergere è il direttore, interpretato da Liev Schreiber e vicino all'ideale di boss che chiunque vorrebbe avere avuto - un tizio inflessibile e mite che ti propone un lavoro anche difficile, ti dà tutto il tempo che ti serve, e nel momento del dubbio ti dice le sole dieci parole che ti servono: non prendertela con te stesso, capita a tutti noi di brancolare nel buio per mesi e anni. Ma l'importante è ritrovare la luce, e tu stai facendo un ottimo lavoro. Sarà anche per questo messaggio, tutto sommato rassicurante, che Spotlight è piaciuto persino al nuovo cardinale di Boston.

O forse il fatto che i preti bavosi siano lasciati fuori dal cono di luce? Due anni fa, un altro film di denuncia come Philomena di Stephen Frears mi lasciò un gusto amaro: non avevo apprezzato l'apparizione finale di una suora mostruosa, l'incarnazione di tutto il male che fino a quel momento era stato soltanto descritto a parole: un modo un po' troppo facile, osservavo, di catalizzare l'indignazione del pubblico. Spotlight se non altro mi ha fatto capire meglio la scelta di Frears. È un film onesto, un film che non vuole tirar pugni allo stomaco ma spiegare quanto sia importante avere un giornalismo professionale, e direttori tutti d'un pezzo, alieni a qualsiasi condizionamento ambientale. Ma è pur sempre un film che parla di mostri senza neanche provare a mostrarne uno. Spotlight è al cinema Stella Maris - Moretta di Alba (21:00), al Fiamma di Cuneo (21:00) e all'Aurora di Savigliano (21:15).
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E Trumbo prese la macchina da scrivere

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"Papà, ma è vero che sei un comunista?"
"Mi appello al primo emendamento".
"La mamma è comunista?"
"No".
"E io?"
"Facciamo il test. Se a scuola un tuo compagno non ha la merenda, tu cosa fai? Gli dici di trovarsi un lavoro? Gli offri un prestito al cinque per cento?"
"Papà..."
"O condividi la tua merenda con lui?"
"Non credo che questo sia proprio il comunismo classico, sai".
"Ah no?"
"Il comunismo è quando i miei compagni senza merenda, essendo diventati la maggioranza, si impadroniscono delle merende di chi le ha e le collettivizzano".
"Vabbe' ma non è che dobbiamo proprio entrare nei dettagli".
"Papà, ma questo dialogo deve avvenire proprio mentre tu mi fai fare un giro su un pony nel nostro bellissimo ranch?"
"Che ti posso dire, io l'avrei scritto diversamente. Ma Hollywood ha sempre l'ultima parola, quando sarai grande capirai".

Trumbo (Jay Roach, 2015).

La sua posa iconica (gli hanno anche fatto una statua).
Purtroppo se ci provi col laptop rischi la vita.
Un bel giorno ci svegliamo, e il comunismo negli USA non è più un tabù. Bernie Sanders, il vincitore delle primarie democratiche del New Hampshire, non ha difficoltà a definirsi socialista, e qualche milione di americani non ha evidentemente grosse difficoltà a votarlo. Proprio in questo momento arriva nelle nostre sale Trumbo, la storia di come un grande scrittore e sceneggiatore americano sua sopravvissuto alla caccia alle streghe senza mai rinnegare il suo comunismo. Vuoi vedere che i tempi stanno davvero cambiando? Andiamoci piano.

Trumbo è uno di quei classici film con cui Hollywood si specchia in sé stessa, trovandosi non priva di difetti ma dopo tutto irresistibile - film che a noi sudditi di periferia non dicono un granché, ma che qualche nomination la portano sempre a casa. Stavolta è Bryan Cranston, più noto per i suoi ruoli televisivi (Breaking Bad), che si ritrova in lizza per l'Oscar tra Di Caprio e Fassbender. Come tutti i biopic più convenzionali, Trumbo è più interessante per le cose che decide di non raccontare: il protagonista compare in scena già fatto e finito, un radical chic che discetta di giustizia sociale mentre firma contratti milionari. Non interessa la traiettoria che lo ha portato fin lì, ma quel che accade dopo: la caduta in disgrazia di lui e degli Hollywood Ten, i mesi di detenzione che un atteggiamento più prudente e meno idealista avrebbe potuto evitare - e soprattutto la faticosa risalita, nei dieci anni di esilio in cui l'ex sceneggiatore-più-pagato-d'America si ritrova a sbarcare il lunario scrivendo robaccia per il mercato di serie B. Solo perdendo il suo snobismo - e il suo ranch - il Trumbo del film diventa un personaggio simpatico, un poveraccio che tira la carretta mentre i figli crescono e smettono di capirlo, un forzato della macchina da scrivere che deve dimenticare la lotta del proletariato e buttar giù ogni sera cento pagine di sparatorie e inseguimenti.

Così, dopo averlo allontanato e poi riabilitato, Hollywood si rimpossessa di Trumbo costringendolo a rinnegare il comunismo, non a parole ma nei fatti: trasformandolo in un caporale che smista il lavoro ai sottoposti, e la sua lotta per la libertà di opinione in una americanissima battaglia personale per rivedere il suo nome nei titoli iniziali. I dialoghi coi famigliari e col personaggio fittizio di Louis C.K. - un compagno arrabbiato che non riesce a rinnegare il suo radicalismo e cede al rancore e al cancro - puntano tutti lì: Trumbo deve partire comunista col ranch per finire come un eroe che paga ai figli il college e ambisce a una gloria puramente individuale, una bella statuetta e un applauso.

FOR THE MONEY AND THE PUSSY!
Ovviamente c'è un po' di Hollywood che ci fa una bella figura, mentre i personaggi negativi (John Wayne, la demoniaca Helda Hopper) sono abbastanza stemperati. Kirk Douglas è giustamente incensato per essersi preso il rischio più grosso: il suo kolossal sullo schiavo ribelle Spartaco sarebbe stato materia controversa anche se non avesse deciso di mettere il nome Trumbo nei titoli, poco distante da quello di Kubrick. La vera sorpresa è il tributo a due eroi misconosciuti, i fratelli King, produttori di film di serie B che ebbero l'onore di sfruttare Trumbo nel momento in cui era al verde, ma non lo tradirono. Con tutto il rispetto per Cranston, se c'è qualcosa che ricorderemo di questo film sono quei cinque minuti in cui John Goodman si mette nei larghi panni del volgare ma integro Frank King, e soprattutto la scena esilarante in cui riceve un emissario del Comitato per le Attività Antiamericane. Il tizio minaccia di boicottarlo, lui estrae la mazza da baseball: io produco spazzatura, dice: annuncia pure tutti i boicottaggi che vuoi, i miei spettatori sono analfabeti. "Sono in questo business per i soldi e la fregna, e stanno piovendo dal cielo!" 

Goodman è ancora una volta impiegato col contagocce, ma è il vero centro del film - anche perché la storia di Trumbo è affidata a Jay Roach, un regista che ha esordito con Austin Powers e proseguito con la saga di Ti presento i miei. Roach non è del tutto immune da un certo timore riverenziale, ma si capisce che l'idea che il celebratissimo Trumbo abbia passato anni a scrivere robaccia per gli analfabeti gli piace parecchio. Sarà stato anche un comunista, ma a salvarlo sono stati dei mezzi gangster ignoranti che volevano far soldi e picchiavano con le mazze da baseball - lo vedi figliola? Hollywood alla fine vince sempre.
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Uomo nero inferno bianco

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Nessun Gesù verrà a salvarvi 
The Hateful Eight (Quentin Tarantino, 2015)

Incredibile chi puoi trovare nella merceria di Minnie in una notte di bufera. Anziani generali del Sud, ex schiavi criminali di guerra. Cacciatori di taglie, sceriffi, boia e malviventi da impiccare, tutta la filiera della giustizia. Cowboy che tornano dalla mamma per Natale e stallieri messicani che sanno suonare il pianoforte. Gente di ogni tipo, razza e qualifica - anche se qualcuno magari non è proprio chi dice di essere. Ma nella bufera che differenza fa.

Sotto la neve saranno tutti uguali.

Starting to see pictures, ain't ya?
E se Tarantino a questo punto della sua carriera sbagliasse un film? Se riempisse un'intera sceneggiatura di frasi a effetto solo per il gusto di sentirle recitare in otto accenti diversi? Se abbandonasse gli intrecci romanzeschi, le prigioniere nei castelli dei suoi ultimi due lavori, per tornare al cinismo datato delle Iene - criminali più o meno paranoici che si torturano a vicenda? Se Tarantino facesse un film un po' meno ispirato del solito, ce ne accorgeremmo?

Non resteremmo comunque storditi dagli attrezzi di scena, da quel luccicante feticcio che è il 70mm, dal coraggio con cui questo figlio di Hollywood continua a ignorare le regole di casa e ricreare un cinema che non sarà il più originale del mondo, ma è completamente a sé? Da anni gioca in un campionato a parte, per forza vince sempre. Nessun altro regista avrebbe preso in mano soggetti come Basterds e Django, nessun altro sarebbe riuscito a farne due film non ridicoli. L'Odioso Ottetto, viceversa, sulla carta sembrava un'idea meno folle: un delitto nella stanza chiusa, calato in quel preciso contesto storico che continua a tormentare gli spettatori americani: la guerra civile tra le razze, mai dichiarata, mai terminata.


Ad avere dei dubbi, stavolta, era lo stesso Tarantino. Quando una bozza di sceneggiatura cominciò a circolare abusivamente, sembrava voler cogliere l'occasione per rinunciare al film. Due cose pare gli abbiano fatto cambiare idea: la prima fu una lettura pubblica che andò benissimo, e che ha lasciato fin troppo il segno nella realizzazione. L'Ottetto che alla fine Tarantino ha girato, malgrado la ricercatezza della fotografia, è quasi un radiodramma. Verso il finale, dopo un colpo di scena escogitato per prendere alle spalle chi ha letto la vecchia bozza, ci si sorprende a domandarsi come abbia fatto il regista ad arrivare a tre ore. La storia non è più complicata del solito, Tarantino semplicemente non ha fretta - lui può permetterselo - e anche i suoi infreddoliti attori sembrano innamorati delle frasi che recitano. Tutti se le rimasticano nel loro accento preferito. È un film di dialoghi che sembrano monologhi.


L'altro fattore che ha convinto Tarantino a girare l'Ottetto è stata l'insistenza di Samuel Leroy Jackson (continua su +eventi!). Così come Joy è un film che David O. Russell doveva a Jennifer Lawrence, The Hateful Eight somiglia a un compenso per tutti i servizi che questo attore grandissimo ha reso a Tarantino - che effetto fa rendersi conto che non gli aveva ancora dato un ruolo da protagonista? E ripensando alla carriera di Jackson tra Spike Lee, Star Wars e Marvel (Per il Guinness dei primati è l'attore più profittevole in attività), che effetto fa pensare che in vent'anni l'Academy Awards si sia vagamente ricordato di lui solo con una nomination per Pulp Fiction? Se la metti in questi termini, anche l'ultima polemica sulla mancanza di candidati afroamericani all'oscar sembra meno pretestuosa.

Ma l'esclusione di Jackson dal quintetto degli oscar era abbastanza prevedibile: se c'è una cosa che i giurati dell'Academy malsopportano non è tanto il colore della pelle, quanto l'ambiguità morale. Un cattivo può anche vincere l'oscar - Forest Whitaker ci riuscì impersonando un dittatore genocida - purché sia chiaro a tutti gli spettatori che è il cattivo. Non è il caso del maggiore Marquis Warren, che nel labirinto etico allestito nella merceria di Minnie si ritrova alla fine investito di una assurda missione di giustizia. Eppure è uno dei personaggi più inquietanti che Tarantino abbia mai inquadrato - ancora più inquietante quando scopri che nel primo abbozzo non era che una versione più matura e scatenata del vecchio Django. Il regista famoso per la violenza farà ancora esplodere qualche testa e colare tanto pomodoro alla vecchia maniera: ma il vero orrore sta nelle parole, l'inferno non è mai stato tanto verbale. L'inferno sono gli altri, diceva un suo collega: una baracca isolata nel gelo, dove un uomo nero racconta a un vecchio padre come ha torturato a morte il figlio. Stai iniziando a immaginarti la scena, vero?

The Hateful Eight è al Cityplex di Alba alle 16, 17, 19, 21 e 22; al Cinelandia di Borgo San Dalmazzo alle 15:40, 19:10, 21:30 e alle 22:30; all'Impero di Bra alle 18:30 e alle 21:30; al Fiamma di Cuneo alle 15:40, 19:10 e 22:30; al Multilanghe di Dogliani alle 21:35; ai Portici di Fossano alle 18:15 e 21:30; al Bertola di Mondovì alle 18 e alle 21; all'Italia di Saluzzo alle 15:30, 18:30 e 21:30; al Cinecittà di Savigliano alle 21:30.
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Non hai bisogno di un principe (quando hai un mocio miracoloso)

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Joy (David O. Russell, 2015)

Joy ha un sogno: spiccare il volo, portare luce nel mondo. Joy ha due ipoteche sulla casa, tre figli a carico, una madre rimbambita dalle soap e un ex marito appoggiato nel seminterrato che studia ancora da cantante. Joy ha un'idea: nessuna donna dovrà più strizzare il mocio con le mani. Joy ha incubo che si chiama famiglia: un padre che vuole insegnarle gli affari, una matrigna che sceglie male gli avvocati, una sorellastra invidiosa che paga le fatture sbagliate. Joy ha una via d'uscita: diventerà una star delle televendite, fonderà un impero, e poi busserà a Hollywood e si farà realizzare un film su misura - così che tutti sappiano che ha sempre avuto ragione lei. E tutti vivranno soddisfatti o rimborsati.

Joy è anche il terzo film che David O. Russell gira con Jennifer Lawrence, quello che finalmente sembra tagliato per lei. Come se il regista sentisse di doverle qualcosa: quando la provinò per il Lato Positivo stava cercando una 40enne. Lei aveva 21 anni, lo convinse e poi ci vinse l'oscar. Persino più bizzarra, benché indimenticabile, la sua presenza in American Hustle, dove recitava quasi un mini-film a parte. Stavolta i comprimari sono gli altri - Bradley Cooper, anche lui alla terza presenza di fila, è in scena pochi minuti (ma sono fondamentali). Fa piacere ritrovare anche De Niro: Russell sembra l'unico direttore che riesce a trovargli ruoli dignitosi. Il regista che era famoso per i litigi con gli attori sembra aver fondato una piccola compagnia - sarebbe bello se si aggregasse anche Isabella Rossellini. C'è aria di famiglia ed è proprio quella che serviva a dare il tono alla fiaba (continua su +eventi!)

Certo, spiace un po' che l'occasione a Russell di lavorare coi suoi attori preferiti stavolta sia stata fornita da una dea americana delle televendite, l'inventrice Joy Mangano: lei voleva né più né meno che un'agiografia sulla donna che si è fatta da sola, lui gliel'ha confezionata senza mezze misure. L'idea di base - una Cenerentola emancipata, che non ha bisogno di principi ma di brevetti magici - è portata avanti con tanta convinzione che ci si è pure inventati una matrigna e una sorellastra.

Qualche spezzone di finte soap dovrebbe esprimere l'autoironia dell'operazione, ma è un espediente meccanico, a un continente di distanza dalle finezze di un Ozon. Russell ha la mano un po' più pesante, non riesce a dissimulare un certo tono rancoroso così tipico delle autobiografie dei self-made men (e delle self-made women); nella seconda parte sembra cedere il microfono alla committenza.

Forse è il primo film che parla di televendite senza prendersene gioco: anche perché a cantarne le lodi non c'è una Vanna Marchi qualsiasi, ma un estatico Bradley Cooper: quando scandisce "Qualità, Valore, Convenienza", tu per un attimo ci credi, e in quell'attimo potrebbe venderti un set di coltelli. Niente di male, ma fa un certo effetto pensare che dietro la macchina da presa ci sia lo stesso regista di I Heart HuckabeesJoy magari è un film più riuscito - certo meno irrisolto - ma è anche quel tipo di spettacolo di cui Russell dieci anni fa ci avrebbe voluto mostrare gli strappi, le cuciture, le crepe.

Joy è al Cinelandia di Borgo San Dalmazzo (20:00, 22:35), all'Impero di Bra (20:10, 22:30) e al Fiamma di Cuneo (21:10).
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Un genio incompatibile (e il suo sceneggiatore)

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Steve Jobs (Danny Boyle, ma soprattutto l'ha scritto Aaron Sorkin, 2015).

Abbiamo mezz'ora e il copione, pardon, intendevo il software,
 è tutto da riscrivere.
Se fosse nato nel Quattrocento, avrebbe fatto l'artista. Avrebbe fatto impazzire tutti i committenti progettando per anni una statua equestre costosissima e irrealizzabile, i cui bozzetti però sarebbero ancora nei musei. Se fosse nato negli anni Quaranta avrebbe formato la sua band - senza saper suonare uno strumento e litigando con tutti i colleghi, ma creando una nuova dimensione musicale fatta di tante cose rubacchiate in giro. Se fosse nato negli anni Cinquanta e si fosse trovato nella Silicon Valley al momento giusto, si sarebbe improvvisato inventore di computer costosi che funzionano benissimo finché non li colleghi a nient'altro. Se invece fosse nato nei Sessanta avrebbe potuto scrivere per il cinema e la tv, costringendo i registi a inventare uno stile tutto per lui e rifiutando di riconoscere i contributi dei colleghi - finché non avrebbe litigato col network, licenziandosi o facendosi licenziare, e meditando immaginosi piani di vendetta.

Questo è Aaron Sorkin, acclamato drammaturgo e sceneggiatore di The West Wing, The Social Network e... no, scusate, questo è Steve Jobs. Ma è anche un po' Sorkin, che ha preso l'immensa biografia di Jobs e ne ha ricavato qualcosa di assolutamente personale e incompatibile con qualsiasi altro film nelle sale; un dramma in tre atti, ambientato nei backstage di tre teatri diversi. Sono pochi i film che ti fanno pensare: chissà come renderebbe su un palco. Steve Jobs sembra pensato apposta per una messa in scena alla vecchia maniera sperimentale: niente sipario, gli attori cominciano a parlare di quello che deve andare in scena, e lo spettacolo consiste in questo. Lo stesso regista Danny Boyle, un po' meno frastornante del solito, sembra aver fatto qualche passo indietro di fronte all'evidenza: Steve Jobs è una questione privata tra Aaron Sorkin e il suo (alter)ego.

Lisa questo è Mac, Mac questa è la tua sorellina, ora
disegnate un po' coi pennarelli e non rompete le palle a papà.
Steve Jobs non è il primo film biografico che taglia fuori gran parte della vita del suo personaggio per concentrarsi soltanto su pochi episodi; è l'evoluzione estrema di una tendenza che a Hollywood negli ultimi dieci anni ha dato soddisfazioni sia a chi vende i biglietti che a chi li compra. Ma di tutto quello che poteva scegliere di raccontare, Sorkin ha scelto con cura proprio quei momenti in cui il manager geniale potrebbe essere l'autore di un dramma che sta per andare in scena: i cancelli stanno per aprirsi, il pubblico per entrare, ma dietro le quinte c'è qualcosa che non va, c'è sempre qualcosa che va risolto all'ultimo momento. Un dialogo da cambiare, un dipendente mediocre da torchiare, un collega che vuol essere ringraziato quando sai che non se lo merita, i parenti con le loro beghe da parenti. Sorkin non è Steve Jobs, ma Steve Jobs è il Ritratto dello Sceneggiatore nei panni del Genio del Computer (continua su +eventi!)
"RICONOSCI LA MIA IMPORTANZA!" "AMMETTI LA TUA SUBALTERNITA''!"
Anche a Sorkin non interessava tanto la tecnologia digitale, né la generazione che l'ha immaginata, quanto il "comeback", l'odissea di un manager che viene scaricato dalla sua stessa azienda e poi torna e si vendica. È una parabola banale - la stessa descritta più convenzionalmente nel biopic di due anni fa - ma terribilmente congeniale all'autore che dopo aver divorziato da The West Wing non è mai riuscito a guardare una puntata della nuova gestione, e ha continuato a raccontarci storie di comeback. L'autore e il produttore di Studio 60, l'anchorman di Newsroom, sono tutti eroi caduti che tornano sui loro passi cercando di riprendersi quello che si meritano. Lo Steve Wozniak del film (Seth Rogen), che continua a chiedere a Jobs di essere ringraziato pubblicamente, più che all'inventore dell'home computer somiglia a Rick Cleveland che si sente umiliato perché Sorkin non riconosce che l'episodio che ha vinto l'Emmy era una sua idea. E così via.
Sorkin non ha mai rifiutato l'autoreferenzialità, ma nelle serie tv almeno la disperde su più personaggi, coinvolgendoci in scene corali che ci fanno dimenticare come tutti i colori provengano dallo stesso prisma. Stavolta il coro non c'è: sulla scena Fassbender è solo. La Winslet, ovviamente ottima, non è che l'appendice del protagonista, necessaria a far risaltare il suo ego. Jeff Daniels ha a disposizione pochi minuti, lungo tre atti, per evocare un tortuoso complesso di Edipo - del resto è un Sorkin formato cinema, tutti camminano e parlano come indiavolati. La versione italiana sarà probabilmente un macello, quella coi sottotitoli va bene se invece di guardare il film vuoi leggerti i sottotitoli.

E quindi? Chi voleva vedere un film sull'inventore della Apple, potrebbe restarci male - e sarà la seconda volta in due anni. Se invece interessa l'opera di un talento individuale che voleva specchiarsi in un altro talento e raccontarci com'è difficile essere grandi in un mondo di mediocri, Steve Jobs è il pilota di una serie che butteremmo giù tutto d'un fiato, e uno straordinario dramma in scena stasera anche al Cityplex di Alba (19:45, 22:10); al Cinelandia di Borgo San Dalmazzo (20:10, 22:40); al Vittoria di Bra (21:30); al Fiamma di Cuneo (21:10); ai Portici di Fossano (18:30, 21:15); al Politeama di Saluzzo (15:30, 17:45, 20:00, 22:15); al Cinecittà di Savigliano (20:15, 22:30).
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La vendetta è un piatto che si conserva a -40°

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 The Revenant (Alejandro González Iñárritu, 2015)

Il Sud Dakota secondo Iñárritu.
Dieci anni dopo il fattaccio, Hugh Glass cacciava ancora il castoro dalle parti di Williston, North Dakota. A chi gli pagava da bere raccontava la storia di quando si era trascinato per duecento miglia fino a Fort Henry, tallonato dagli Arikara, sospinto solo dal desiderio di fare la pelle ai due ragazzi che lo avevano abbandonato mezzo morto dopo lo scontro con l'orso. A ogni racconto la bestia diventava più grande, le ferite più profonde, gli agguati aumentavano, e la steppa si corrugava, rivelando al suo interno rilievi alpini, innevati nel mese di giugno.

Il Sud Dakota com'è davvero. 
"Ma poi li hai ammazzati?"
"Chi?"
"Quei due ragazzi, alla fine li hai ammazzati?"
"Fitzgerald e Bedger? Ah, no".
"E perché no?"
"Bedger era un ragazzino, e quanto a Fitzgerald..."
"Non avevano la stessa età?"
"...Si era già arruolato. Se gli avessi torto un capello mi avrebbero impiccato. Ci siamo messi d'accordo con 400 dollari, e mi restituì il fucile. Questo qui".
"Non erano 300 dollari?"
"Infatti".
"Ma hai appena detto 400".
"Mi sarò sbagliato. Figliolo, quando hai visto la morte in faccia, e hai sopravvissuto a una bufera di neve accucciandoti nella carcassa di un cavallo..."
"Ma era giugno".

(Se vi è piaciuto Il viaggio di Arlo, non perdetevi la versione per adulti, col mille per cento di sangue e cicatrici in più, e un'animazione digitale ancora più raffinata - l'orso sembra vero! Padre e figlio si scambiano le parti, c'è un po' più di sangue e di visioni dall'oltretomba, e Di Caprio presta la voce - il rantolo - a un mammuth ferito ma non domo).

Il salvaschermo più costoso mai realizzato
Per ritrovare la via verso Fort Henry, Glass aveva preso come riferimento la Thunder Butte, la Rocchetta del Tuono - una collina di 800 metri che è l'unico rilievo di rilievo nel Sud Dakota. Tutto il resto è pianura, pianura e ancora pianura. Per girare The Revenant, Iñárritu ha esplorato le cime innevate della Columbia Britannica, girando solo con la luce naturale a 40 gradi, col rischio di ammazzare Di Caprio di broncopolmonite - e quando è arrivato l'inverno ha semplicemente cambiato emisfero, spostando il set in Terra del Fuoco. Per sfuggire agli Arikara che controllano il fiume Missouri, i suoi attori si inerpicano su un sentiero alpino che li porta a un valico di almeno millecinquecento metri - non cresce più l'erba. In sostanza stanno scalando le montagne rocciose, contro ogni verosimiglianza, perché al regista interessava una storia vera di sopravvivenza e di vendetta, ma anche quei paesaggi mozzafiato da salvaschermo di windows.

A Iñárritu interessa il cinema vero, quello senza green screen e altri trucchetti, quello che si fa con la pellicola, e l'esposizione naturale, e gli animali veri, e le ferite e i colpi di tosse veri - come se tutta questa verità non costasse comunque milioni di dollari. Gli interessava il ritorno alla naturalezza, anche se l'orso che cerca di finire Di Caprio battendolo come un materasso è un prodigio di computergrafica. Con l'ipocrisia ingenua e inconsapevole di quei milionari che sognano il ritorno alla natura ma hanno più in mente il triathlon - a proposito, c'è anche il saggio capo indiano che si lamenta perché il viso pallido gli ha tolto tutto. E nessuno che gli dica: senti nonno, tra venticinque anni potrei anche capire, ma siamo nel 1820, "tutto" cosa? A momenti non c'è un solo viso pallido in tutto il Dakota, e comunque appena arriva lo scotenni e gli rubi il bottino di caccia, a chi la vuoi raccontare? Non ci hai fatto gli affari anche tu, coi visi pallidi, finché t'è convenuto? Eh, ma questi bianchi sono cattivi sul serio. Rubano le donne, impiccano per divertimento, aggiungendo un cartello di spiegazione come i nazisti - anche se nessuno sa leggere in un raggio di trecento miglia.

È difficile sfuggire a The Revenant, alla sua fotografia da National Geographic, al titanismo essenziale del suo eroe, maschiaccio di poche parole laddove pare che il vero Hugh Class fosse un affabulatore, magari pure un contaballe. Questa parte del suo ruolo se la prende Tom Hardy che prosegue il suo stato di grazia: un antagonista nervoso e rapace che non sta in scena per più di mezz'ora, ma ha più dialoghi di tutti gli altri personaggi messi assieme. Iñárritu ha coraggio da vendere, e anche stavolta non si può che dargliene atto. Dopo due ore senza una sola scena in interni, cominci a capire quello che intendeva Cimino mentre affondava sul ponte dei Cancelli del cielo: i film dovrebbero essere viaggi, dovrebbero prenderti di peso e portarti in un altro luogo, in un altro tempo.

Cosa sta succedendo allora a Hollywood, se Cimino sprofondò e Iñárritu ha preso 12 nomination? Siamo entrati in una nuova età del cinema, o il nuovo regista pazzo è un po' meno pazzo, un po' più paraculo di quanto non voglia sembrarci? Disprezza i fumettoni, ma il suo eroe sembra avere lo stesso fattore rigenerante di Wolverine. Vuole le luci naturali, ma sa che la gente verrà a vedere l'orso finto. Vuole la storia vera, ma poi se la reinventa da capo a piedi, ricattandoci col sentimento più a buon mercato - l'amor paterno. Il vero Glass era un fanfarone che si fece duecento miglia per trecento dollari e un fucile. Il Glass del film deve attraversare canyon e ghiacciai per vendicare un figlio. È una storia talmente costruita che alla fine Iñárritu se ne vergogna - e anche stavolta, come in Birdman, il finale manda un po' a gambe all'aria il film.

Vorrebbe essere profondo, vorrebbe essere autocritico, vorrebbe rivedere le sue stesse premesse. Ha fatto sanguinare Di Caprio, ha opposto bianchi sterminatori a pellerossa in armonia con la natura, e alla fine ci ha ricordato che la vendetta è un buon trucco per costruirci attorno un film - ma che resta sostanzialmente una cosa sbagliata, ragazzi, mi raccomando non vendicatevi a casa. Che gli puoi dire? Bravo è bravo. Ma resta lì sospeso nel bianco delle sue bufere fantastiche, né troppo pazzo né troppo furbo per arrivare davvero al punto. The Revenant è al Cityplex di Alba (21:30), al Cinelandia di Borgo San Dalmazzo (20:30, 22:10), all'Impero di Bra (19:45, 21:45), al Fiamma di Cuneo (21:00), al Baretti di Mondovì (21:00), all'Italia di Saluzzo (21:30), al Cinecittà di Savigliano (21:30)
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L'ultimo gigante

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Ettore Scola era l'ultimo. La commedia all'italiana, nella versione ripulita dagli errori di percorso che ci ha tramandato la tv serale e pomeridiana, in quel segmento aureo che grosso modo va dal 1955 al 1975, sembra il risultato del lavoro di un gruppo singolarmente ristretto di talenti. Cinque attori indispensabili, tutti nati nei primi anni Venti, cinque volti immediatamente riconoscibili dal pubblico, ma anche in qualche modo intercambiabili (in Riusciranno i nostri eroi era previsto che Manfredi desse la caccia a Sordi, ma il primo aveva più impegni e così si scambiarono i ruoli). Pochi autori e bravissimi, tra cui gli onnipresenti Age e Scarpelli (classe '19) e lo stesso Scola che comincia a scrivere a vent'anni e mette le mani in tantissimi film. Anche i registi sono una manciata: tra questi, Scola è l'unico nato dopo il 1930. Quando gira la Terrazza, i suoi eroi ingrigiti e terrorizzati dalla vecchiaia e dalla morte stanno intravedendo la boa dei sessant'anni; lui non ne aveva ancora compiuti cinquanta. Era destinato a essere l'epigono: se immaginiamo Risi e Monicelli come i due autori della tarda classicità, potremmo vedere in Scola il manierista - l'allievo precoce che ha saltato qualche classe e si ritrova circondato da compagni più grandi.

Dei tre è il più borghese, quello che meno si vergogna di esserlo: è difficile immaginare Risi e Monicelli alle prese con il manifesto antipauperista di Brutti, sporchi e cattivi (Pasolini invece pare che volesse girarne il prologo, magari una versione in pellicola dell'Abiura). È anche quello che ha più ambizioni autoriali: nel 1970 fora la quarta parete in Dramma della gelosia, ma forse il vero choc del film è che il sex symbol Mastroianni è un marito becco e ingrigito con un destino da straccione; l'anno dopo coinvolge Sordi nella rischiosa trasposizione cinematografica della Panne di Dürrenmatt, La migliore serata della mia vita. Non è che tutto fili liscio, ma si capisce che all'alba degli anni Settanta la commedia gli sta stretta. Ci lavorava da vent'anni; era parte integrante di un sistema che funzionava, che riempiva le sale (restava da conquistare la critica, ma quella ci mette sempre un po' più tempo). Avrebbe potuto riprodurre le stesse formule ancora per parecchio. Ma tutti i suoi uomini stanno invecchiando, e lui è il primo a rendersene conto. Lui e Germi, che muore nel '74 passando a Monicelli la pratica di Amici Miei. Nello stesso anno esce C'eravamo tanto amati. Le maschere della commedia all'italiana si scoprono le rughe; si staccano dalla ribalta del presente e cominciavano a guardarsi intorno: chi eravamo? Cosa siamo diventati? E ora cosa ci succederà?

Dovendo scegliere un film solo di tutto un periodo e di un genere, a malincuore sceglierei C'eravamo tanto amati, che pure non è così tanto rappresentativo. È davvero un film manierista, se non barocco. Dentro c'è tutto: il romanzo generazionale, il conflitto sociale, il gioco delle citazioni non solo cinematografiche ma anche teatrali e televisive, la quarta parete fatta a pezzi. È anche il primo vero film forrestgumpista, in straordinario anticipo rispetto agli epigoni italiani, indegni di comparire al suo cospetto (La meglio gioventù? Per favore, dai). Ogni volta che lo vedo ci trovo qualcosa di nuovo - o che probabilmente mi ero dimenticato, e di nuovo rabbrividisco al pensiero che una volta gli italiani sapevano fare film così. In realtà di film davvero così ce n'è uno solo, e forse si poteva realizzare soltanto in un periodo in cui gli italiani il biglietto l'avrebbero staccato comunque. Bastava che in cartellone ci fossero Gassman e Manfredi - e la Sandrelli, certo.

La commedia all'italiana mi piace tutta, dai Soliti ignoti fino alla Terrazza. È un amore nato davanti alla televisione; maturato con la serale complicità di Retequattro; integrato con qualche videocassetta. Ci ho messo parecchio a capire cosa mi piacesse davvero tanto in quei film, cosa invidiavo ai miei genitori che avevano vissuto in un mondo di mostri di bravura, anche se al cinema loro non ci andavano spesso. Non un attore in particolare, per quanto i loro volti ricorrenti mi rassicurassero; nemmeno un regista. Alla fine mi sono reso conto che sono i dialoghi di Age e Scarpelli, e un po' anche di Scola. Credo che la differenza con quello che è venuto dopo sia tutta qui. Non ho paura ad affermare che oggi in Italia ci sono molto più che cinque attori bravi, per tacere delle attrici (c'erano anche allora, ma lo star system era una cosa molto angusta). Anche i registi: ne abbiamo senz'altro all'altezza dei grandi degli anni Sessanta, se non altro perché sono seduti sulle loro spalle. Il problema è che questi bravi attori, ripresi da ottimi registi, molto spesso non hanno niente d'interessante da dire. Non c'è più Age, non c'è più Scarpelli, adesso non c'è più Scola. Dispiace? Sì, mica da oggi. È da 35 anni che non lavoravano più assieme. Nel frattempo altre due generazioni hanno provato a raccontarsi; il confronto è impietoso.
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La grande truffa dei mutui (che nessuno ha capito)

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La grande scommessa (The Big Short, Adam McKay, 2015)

A CHRISTIAN, FACCE L'ASPERGER! 
La crisi dei mutui subprime è semplicissima: nessuno immaginava che ci potesse essere una bolla nel mercato immobiliare, e così continuava a soffiarci dentro. La crisi dei mutui subprime è complicata: com'è possibile che nessuno si sia accorto di nulla; broker, banchieri, addetti al rating, giornalisti... Si poteva prevedere? Qualcuno in effetti l'aveva prevista. Ha scommesso contro di noi ed è diventato ricco - ma i soldi non danno la felicità, come si dice in questi casi.

Nel più grande film mai realizzato sui trucchi della finanza - che non è questo, ma più probabilmente The Wolf of Wall Street - ogni tanto Di Caprio ci guarda in camera e comincia a raccontarci uno dei suoi maneggi, per interrompersi subito: non avete capito niente, vero? Fa lo stesso, tanto voi siete qui per vedere il tiro al bersaglio coi nani, le feste al quaalude, il lancio d'aragoste contro i federali. Lasciate perdere la tecnica. Divertitevi.

Mi sa che stavolta non ce la pubblicano
Anche The Big Short vuole divertirci; ma ha la pretesa di spiegarci la tecnica. Con un approccio didattico che non è solo più ingenuo di quello di Scorsese, ma oltre a un certo limite è offensivo: alla quinta volta che ci provi con un esempio diverso, io spettatore magari non mi sarò ancora familiarizzato coi titoli tossici, ma senz'altro ho capito che qualcuno mi sta prendendo per uno scemo. Non escludo di esserlo, ma pensi che mi faccia piacere sentirmi trattato così? Il cuoco di fama internazionale (Bourdain) che mi fa la lezioncina riciclando il vecchio pesce nella nuova zuppa; Selena Gomez che mi spiega gli swap sintetici giocando a blackjack; la sceneggiatura sembra intestardirsi su alcuni dettagli tutto sommato non sono insormontabili - per abbandonarci poi, quando le cose si fanno complesse davvero.

È un po' lungo, ma non annoia, La grande scommessa (continua su +eventi!)
Nei suoi momenti migliori sembra uno spinoff televisivo del Lupo di Wall Street, come se si fossero detti ehi, qui da questa parte c'è materiale per una serie, proviamoci. È uno di quei film che ti servono a capire per contrasto quanto è grande Scorsese, e quante cose apparentemente semplici, così naturali quando c'è lui che guarda in macchina, non siano alla portata dei registi mortali. Non è che Adam McKay non ci provi, anzi forse il guaio è che ci prova troppo. Si prende dei rischi, gioca con quarta parete, con la voce fuori campo, coi salti di inquadratura dal mondo irreale della finanza a quello vero fatto di case invendute e barboni sotto i ponti. Tutto sembra gridare: non sono il solito regista di pilota tv. Io ho una visione.
 
Magari non è la più originale. Un po' confusa. Certo non cinica come quella di Scorsese. I miei eroi non bruciano i risparmi dei loro clienti in pillole e coca, anche a Las Vegas vanno a letto presto. Se si appartano con le lapdancer è solo per capire come gestiscono il loro eccesso di liquidità. Hanno tutti una famiglia o desiderano averla; si arricchiranno grazie alle falle del sistema, ma ogni tanto si sentono in colpa. È una visione un po' benpensante, ma forse è quella che ti può sbloccare il budget. Ci metti la critica sociale, ci metti un po' di valori rassicuranti, ma soprattutto ci metti Bale, Carell, Gosling e Pitt - chi ti potrà più dire niente? Certo, si poteva anche provare a dirigerli. Il film era già centrifugo di suo, forse andava evitata la sensazione di quelle orchestre all-star dove a turno i virtuosi fanno un assolo di dieci minuti. A Bale tocca l'Asperger di talento - ormai è un personaggio codificato, l'Arlecchino del Duemilaedieci: l'asociale stravagante che ha ragione ma non riesce a spiegare il perché. Brad Pitt si immobilizza saggiamente in una posa redfordiana e almeno non dà fastidio. Gosling, nei panni dell'unico vero rampante senza scrupoli, continua a prendersi in giro: è il terzo ruolo antiparodico in tre anni, come se il suo adorabile faccino cominciasse a pesargli. Carell sarebbe sorprendente se non ci avesse già sorpreso in Foxcatcher. Dovrebbe essere il vero perno drammatico del film, ma il copione non lo aiuta: s'incazza a casaccio, e si sorprende di tutto quello che gli succede, come se fino al giorno prima avesse diretto un hedge fund a Disneyland.

Il film va comunque visto, perché gli americani quando cercano di spiegarsi come funziona il loro mondo sono sempre interessanti. A volte ci riescono, a volte annaspano, ma ogni tentativo va incoraggiato. Certo, con un po' di cattiveria in più. Con qualche scrupolo in meno. Che film sarebbe stato. Ma non può farli tutti Scorsese. La grande scommessa è al Cinelandia di Borgo San Dalmazzo (20:10, 22:40), al Fiamma di Cuneo e al Multisala di Bra alle 21:15.
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L'alieno che cadde a casa mia

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Una volta questa internet era molto più semplice. Ogni tanto ci lasciava una persona famosa, e a tutti veniva voglia di scrivere due pensierini su quanto fosse stato importante per la propria vita. Molto spesso parlavamo più di noi che di lui, credo sia inevitabile. Non è cambiato particolarmente nulla, salvo che è tutto moltiplicato per mille, e questo rende i lutti on line ridondanti, fastidiosi. Me ne rendo conto. Ma sono un tizio all'antica e non me ne andrò da qui prima di aver scritto due pensierini su quanto è stato importante per me David Bowie. Mi scuso per il disturbo, ma nessuno vi trattiene.

Un'altra cosa inevitabile, è che anche stavolta la musica passerà in secondo piano. Lo chiameranno icona di stile e camaleonte, glorificheranno la sua capacità di aggiornare la sua immagine - tutto assolutamente vero, ma una volta ogni tanto si potrebbe anche segnalare che prima di ogni cosa Bowie è stato un musicista straordinario, un interprete originalissimo e un compositore dallo stile assolutamente peculiare - uno dei motivi per cui poteva permettersi di cambiare maschere e costumi era proprio il fatto di avere una personalità forte e immediatamente riconoscibile, qualsiasi cosa decidesse di fare.

All'inizio dei '70 stava rischiando di diventare semplicemente un cantante rock. The Man Who Sold the World era un disco robusto, giocava nello stesso campionato di Cream e Led Zeppelin, credo che si tratti del disco di Bowie preferito da Kurt Cobain. Toni Visconti in più occasioni ha dato l'impressione di volersi attribuire la paternità dei pezzi, che a suo dire uscivano soprattutto dalle jam session con Mick Ronson, mentre Bowie sembrava sprofondato nell'apatia e faticava a staccarsi dalla moglie appena sposata e a alzarsi dal divano per cantare qualcosa - non sembra già una scena dell'Uomo che cadde sulla terra? Bowie però ha sempre rivendicato la paternità delle canzoni del disco. Guardate i cambi di accordi, diceva. Solo io li scrivo così. Ecco, ogni tanto mi piacerebbe leggere - oltre al solito storytelling sul periodo glam, il periodo berlinese, la deriva degli anni '80, ecc. ecc. - un bel pezzo tecnico su Bowie musicista, perché su questa cosa degli accordi credo che avesse ragione. Solo lui scriveva canzoni pop o rock con certi passaggi, e questo ha continuato a farlo per tutta la sua carriera, indifferentemente dal genere che aveva deciso di mutuare o inventare.

Certo, se ti accosti a Bowie perché t'interessa il trasformista - e non c'è niente di male in questo, sia chiaro - probabilmente fai più caso ai continui cambi di registro: dalle ballate al glam al r'n'b alla disco (il lato B di Diamond Dogs!) al krautrock eccetera. Ma se hai orecchio per gli accordi ti rendi conto che c'è qualcosa di costante in tutta la sua carriera. Sotto la maschera spesso disorientante degli arrangiamenti c'è una dimensione armonica che rende Absolute Beginners o Heroes o Starman molto più simili di quanto vorrebbero sembrare. Non so più dove ho letto che a un certo punto Bowie era incerto se diventare l'Iggy Pop inglese o il nuovo Jacques Brel. Anche il lascito di Kurt Weill va ben oltre il ripescaggio di Moon of Alabama. Bowie era l'unica rockstar degli anni Settanta ad avere queste radici continentali. Te ne accorgi dall'enfasi di certi ritornelli fuori dal tempo, che incastonati in pezzi rock suonano caricaturali - prova a immaginare Sinatra che canta il refrain di Starman. Forse quello che suonava alieno, sotto il cerone argentato o iridescente, non erano che le progressioni armoniche di un passato neanche tanto lontano, ma ormai oltre l'orizzonte dei baby-boomers.

Io però sono cresciuto negli '80 - non è colpa mia. David Bowie faceva parte del paesaggio, molto più di tutti gli altri dinosauri rock pre-77: per esempio, in edicola c'era sempre la sua faccia. Rockstar lo metteva almeno su una copertina all'anno, che uscisse con un disco o no. Era un mondo musicale molto diverso: esisteva soltanto il presente. I video avevano ucciso le star della radio e alzato un argine invalicabile tra il mondo del passato e il nostro. Il nostro era un mondo a colori: canzoni e videoclip erano la stessa cosa, e Videomusic non trasmetteva pezzi anteriori al 1982. Credo che il video più antico fosse proprio China Girl (la versione censurata, ovvio). A metà anni Ottanta non avevo mai ascoltato gli Zeppelin e più di una canzone dei Pink Floyd; avevo una nozione vaghissima di Beatles e di Rolling Stones; Bowie era l'unico eroe del passato che riconoscevo al primo colpo. Soprattutto sapevo che dietro di lui c'era una storia lunga e complicata, che prima o poi qualcuno mi avrebbe raccontato. Nel frattempo però capivo che il passato era una terra straniera - e probabilmente più intrigante del presente: quel poco di Bowie che passava in tv (Heroes, Ashes to Ashes, Let's Dance, Look Back in Anger) era completamente diverso da tutto il resto. Suonava strano, o come si diceva allora, "poco commerciale".

Questa opinione di preadolescente scemo, Bowie ovviamente non la condivideva, come ho scoperto più tardi. Non è colpa mia, ma sembra proprio che io abbia conosciuto B. nel suo periodo peggiore. Lui nelle interviste parla malissimo del sé stesso anni '80 e dei brutti dischi che faceva. È un giudizio che riguarda senz'altro Never Let Me Down, ma non ho mai capito se lo estendesse anche alle colonne sonore di Absolute Beginners o Labyrinth o Tonight - per me quella roba era in effetti incredibile, distante mille miglia dai suoni di allora che mi sembravano falsi come la plastica. Quello che mi sorprendeva sempre di Bowie era il modo che aveva di incastrare strofe e ritornelli che sembravano non avere nulla in comune. Prendi Let's Dance. La strofa è puro Nile Rodgers, avrebbe potuto stare in un disco degli Chic di tre anni prima. Il ritornello se ne va dalle parti di Brel, con tutto l'annesso melodramma: because my love for you could break my heart in two. Poi si materializza dal nulla un coretto alla Twist and Shout, e quando stai per intonare Shake it up baby, ritornano gli Chic. Nel video intanto esplodeva una bomba atomica. Anche nel mio cervello. Ci sono altri pezzi di quegli anni che nessuno vi citerà tra i migliori di Bowie - Loving the Aliens, Underground, in cui succede qualcosa del genere. Avventure musicali di quattro minuti. Erano cose da classifica, ma mi sembravano esperimenti di un pazzo. Mi piacevano. David Bowie era la mia risposta preferita al paradosso dei viaggi nel tempo: se sono possibili, perché nessuno viene a visitarci dal futuro? E un viaggiatore del futuro catapultato negli anni '60, che altro avrebbe potuto desiderare di diventare se non una rockstar decadente? 

In seguito, come avevo previsto, qualcuno mi raccontò la storia per esteso. Conobbi i personaggi, Major Tom, Ziggy Stardust, il Duca Bianco e tutto il resto. Oggi la mia idea di Bowie si sovrappone con quella del quarantenne medio europeo che esprime il suo cordoglio su facebook. Ho naturalmente le mie idiosincrasie - preferisco il lato B di Diamond Dogs a quello di "Heroes" - ma non è che siano così interessanti. Il Bowie che vorrei salvare è l'alieno che precipitò nella mia infanzia, coi suoi accordi stranamente familiari ma diversi da quelli di chiunque altro. È stato davvero lui a insegnarmi a fare quel che mi pare, con la chitarra e sulla pagina, mescolando alto e basso, George Orwell e la disco? Non lo so. Di sicuro lui in quegli anni c'era. Tanti altri erano già scomparsi, o poco accessibili. Lui c'era, e non se n'è mai davvero andato - sempre diverso da tutti, uguale a sé stesso. L'idea che stavolta ci abbia lasciato davvero mi turba più di quanto non dovrebbe.
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Nessuno ci odia più di Checco

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Quo vado? (Gennaro Nunziante, 2015).

C'è un mondo là fuori. Può essere la giungla africana o il circolo polare, ma è sempre un mondo più civile. Laggiù, sapeste! non si suona il clacson appena il semaforo è verde. Non ci si fa svegliare dalla mamma a quarant'anni. Non si critica un film comico soltanto perché ha fatto più di venti milioni in meno di una settimana. Non lo si rimpalla tra destra e sinistra, non si approfitta dello spazio di una recensione per parlare di Renzi o della storia della commedia all'italiana. C'è un mondo là fuori, e avremmo tutti una gran voglia di andarci, anzi di esserci già! e invece restiamo qui. Nessuno sa perché. Forse è il prezzo delle ciliegie.

Quelle che alcuni non perdonano a Checco sono in sostanza le regole d'ingaggio della satira di costume. Certo, Checco proietta i nostri difetti rendendoli più tollerabili. Certo, si offre al pubblico più vasto possibile con un prodotto che ha almeno due livelli di lettura - un occhiolino a chi non sopporta più le auto in seconda fila, un cenno d'intesa a chi l'ha parcheggiata sul marciapiede del cinema. Come se questa doppiezza non fosse la formula della commedia all'italiana dai Soliti ignoti fino a Fantozzi e alle sue derive cinepanettonesche. Il fatto che si rimproveri a Zalone di fare bene il suo mestiere significa come minimo che non siamo più abituati a vedere qualcuno che quel mestiere sappia farlo. Che dovrebbe fare un comico, a parte farci ridere mentre suggerisce che come popolo siamo da rottamare? Pretendiamo qualcosa di più? Deve entrare in  politica, pure lui? E dopo saremo contenti?

Alcuni si premurano di informarci che Checco non è Totò, né Alberto Sordi - grazie, correvamo il rischio di confonderci - ma il confronto andrebbe fatto con quel che passa in convento negli anni Dieci. Checco continua a sembrare uno dei pochi che ha capito che l'Italia non è un giardino fiorito stuprato da consorterie di uomini cattivi, politici e imprenditori. No, l'Italia è quel che è perché gli italiani sono così. I politici - vedi Lino Banfi, retrocesso con affetto a caratterista - non sono che emanazioni di una civiltà che è da buttar via e rifondare da capo.

A un certo punto del film c'è un bambino razzista. (Continua su +eventi!) 

A un certo punto del film c'è un bambino razzista. I bambini di solito nei nostri film sono creature naturalmente buone, che dicono sempre la verità. Nel film di Checco no. Ci sono bambini educati (in Norvegia), che credono in qualsiasi Dio o anche in nessuno, e poi ci sono bambini razzisti. E sono proprio i tipici bambini italiani pettinati da calciatore, che giocano a pallone in piazza e non ti fanno entrare in squadra se non parli il loro dialetto. Veltroni non li vede, Checco sì. Checco vive nella mia Italia, Veltroni non so. Poi dite che è di destra. Un film in cui i cattivi sono i bambini pettinati da calciatori, e i buoni sono gli scienziati con la famiglia aperta. Un personaggio comico che continua a ribadire, film dopo film, che gli italiani non possono più vivere alle spalle dei genitori e dei figli; che devono cambiare: non perché lo impone il Politico cattivo o l'Euro assassino, ma perché oltre a essere necessario, sarà bello. A un comico così si perdona anche il fisiologico calo del secondo tempo (del resto il primo era partito a razzo), e il finale coi lacrimoni e i buoni sentimenti e l'Africa e la medicine.

Checco non sarà Sordi, ma il minimo che si possa dire è che si sta impegnando. A questo punto della favola Luca Medici e Gennaro Nunziante potrebbero riempire un'ora e mezza di pellicola di gag da quattro soldi, e invece insistono a cercare cose nuove, a cambiare situazioni e ambientazioni. Potrebbero restare anche loro nel casolare in campagna, e invece vanno al circolo polare a scherzare sul riscaldamento globale. Un esempio qualsiasi: non si ride quasi più dei gay. È un dettaglio, ma pensate a quanto era centrale la figura dei gay in Cado dalle nubi. Qualcun altro al suo posto avrebbe replicato la ricetta (per dire, sui gay di Cado dalle nubi hanno girato uno spinoff l'anno scorso senza Checco ma con Belén). Invece Medici e Nunziante, con un solo personaggio a disposizione hanno già fatto quattro film senza ripetersi. Villaggio e Salce con Fantozzi non ci sono riusciti.

Farei prima a scrivere i cinema in cui non proiettano Quo vado. La sala Lux di Busca, ad esempio (fanno Timbuktu), onm il cinema San Giacomo di Roburent dove c'è Star Wars. Invece al Cityplex di Alba (17:30, 19:30, 20:00, 21:30, 22:00), al Cinelandia di Borgo San Dalmazzo (14:15, 15:20, 16:20, 17:30, 18:30, 20:20, 20:40, 21:00, 22:35, 22:45), al Multisala Impero di Bra (20:20, 22:30), alla Sala Borsi di Ceva (16:00, 18:00, 21:00), al Fiamma di Cuneo (15:30, 17:40, 20:30, 22:40), ai Portici di Fossano (18:30, 20:30, 22:30), al Bertola di Mondovì (18:00, 21:00), all'Italia di Saluzzo (20:00, 22:15), al Cinecittà di Savigliano (20:20, 22:30) c'è Quo Vado. Tanto ci siete già andati
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Chi ha ucciso Woody Allen

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Irrational Man (Woody Allen, 2015)

– Woody Allen ha ucciso qualcuno. Impossibile stabilire chi e perché. Un'amante che sapeva troppo, un ricattatore, un semplice passante che non doveva essere in un certo posto proprio in quel momento. Woody Allen ha pagato un sicario, oppure lo ha ucciso con le sue mani: e il rimorso lo tormenta da allora - ma non si costituirà mai. Però ce lo sta dicendo da più di vent'anni - Crimini e misfatti è del 1989, e a ben vedere sotto il travestimento è una confessione fatta e finita. Da allora è tornato sullo stesso soggetto quante volte? Settembre, Pallottole su Broadway, Match Point, Cassandra's Dream, e adesso Irrational Man: tutte variazioni sul tema. Come si fa a non notare l'ossessione, come si fa a non sentire il muto grido di dolore sepolto sotto il rassicurante tappeto di fotografia elegante e swing d'epoca? Woody Allen è un assassino. Oppure:

– Woody Allen è morto. Impossibile stabilire chi è stato e quando. Un'amante che sapeva troppo, un ricattatore, un semplice psicopatico che lo ha trovato in un certo posto nel momento sbagliato. Woody Allen ci ha lasciato da un pezzo, ma il piccolo carrozzone che ha messo assieme in più di quarant'anni di carriera, la sua piccola Disney per anziani, doveva in un qualche modo andare avanti. Un film all'anno, niente che il pubblico pagante non si aspetti già. All'inizio hanno usato qualche vecchio copione scartato. Poi hanno iniziato a scriverne di nuovi alla sua maniera. Ultimamente usano un software che riesce a simulare anche l'invecchiamento di Woody Allen, per cui per esempio il 'suo' ultimo film, Irrational Man, sembra veramente scritto da un ottuagenario molto preoccupato di farsi capire a spettatori altrettanto rintronati. Joaquin Phoenix è un insegnante di filosofia morale depresso e alcolizzato: lo si potrebbe indovinare dagli occhi disperati, dal pancino alcolico, ma anche dal fatto che tira continuamente fuori una fiaschetta di scotch (la offre anche alle studentesse in mezzo al campus), e dalla voce fuori campo che martella ogni due minuti. ERO DISPERATO. LA VITA NON AVEVA PIU' SENSO. INFATTI AVEVO VOGLIA DI MORIRE. DA UN PO' ERO ANCHE IMPOTENTE. VI AVEVO GIA' DETTO CHE ERO MOLTO DEPRESSO? Così per un'ora. Nel frattempo Emma Stone si innamora di lui. Lo si capisce dal modo in cui sgrana gli occhioni, dal fatto che accetti di passeggiare con lui in mezzo al campus, che lo inviti alle feste dei compagni e a casa dei genitori,, dalle scuse che racconta al suo ragazzo ufficiale, nonché da dialoghi del tipo OH PROFESSORE HAI CAPITO CHE MI SONO INNAMORATA DI TE? ORA TI FICCO LA LINGUA IN BOCCA FAMMI UN CENNO SE TI ARRIVA IL MESSAGGIO. Woody Allen, insomma, è morto. Questa almeno è la mia ipotesi preferita, ma ce ne sono anche altre.

– Woody Allen sta benone, (continuava su +eventi!) rilascia interviste lucidissime. Ultimamente ha compiuto 80 anni e un sacco di gente su facebook si è divertita a stilare la sua lista dei cinque film migliori. È un gioco che funziona con Allen meglio che con qualsiasi altro regista, perché chiunque ne sappia almeno un po', senza sforzo riesce a ricordarsi una ventina di titoli. Tanta prolificità ha anche il suo lato oscuro, e infatti a un certo punto per il puro istinto di distinguermi ho pubblicato la classifica dei film di Allen che mi erano piaciuti di meno. Se ci riflettete, ha molto più senso, perché nessuno ci ha fatto vedere tanti film mediocri come Woody Allen – qualsiasi altro autore, dopo un paio di mosse false lo avremmo abbandonato. Invece da lui siamo tornati anno dopo anno, sempre sperando di assistere al miracolo di un nuovo Harry a Pezzi, un nuovo Zelig. E ci siamo sciroppati Another Woman, Vicky Cristina Barcelona, Magic in the Moonlight, senza neanche lamentarci troppo.
In questo senso Woody Allen è un po' come Bob Dylan, che oltre ai suoi capolavori, è riuscito a venderci una discreta manciata di dischi talmente scadenti che nessun altro artista ci avrebbe potuto propinare senza perdere la sua credibilità: dischi così orrendi che li ricordiamo con affetto. Alla fine chi ascolta Dylan, o chi guarda un film di Allen, ha soprattutto voglia di ritrovare un vecchio amico – non importa quanto sia fuori forma. Woody Allen magari è in perfetta forma, ma a questo punto si preoccupa dell'inevitabile invecchiamento del suo pubblico. Si chiederà: ma che razza di rincoglioniti tornano in sala a vedere qualunque cosa io faccia? Meglio non rischiare, meglio l'usato sicuro: ancora Dostoevskij, ancora un Raskolnikov (pazienza se rischia di sembrare quel tipo di studentessa di un suo film, che di ogni autore conosceva solo una citazione a effetto). Il protagonista deve essere un misantropo disilluso. Forse è meglio ribadirlo ogni due o tre minuti, metti che qualcuno in sala si addormenti – ehi non è uno scherzo, fare film di Woody Allen è una scienza, magari si sono addormentati durante un focus group.
Il protagonista deve commettere un omicidio, perché da sempre questo è l'unico modo che hanno i personaggi di Allen di votarsi al Male – omicidi e al limite le corna, ma queste ultime da un pezzo sono state derubricate a peccato veniale. Tutto il resto non conta - ad esempio farsi corteggiare da una studentessa davanti a colleghi e compagni di lei, per Allen è un comportamento normalissimo, accettato anche da superiori e genitori: ed è anche l'indizio più forte del fatto che ci troviamo ancora nell'universo mentale dell'autore e vecchio satiro Woody Allen, e non in quello di un software in grado di produrre intrecci verosimili.
Come in Pallottole su Broadway ci dev'essere un artista irresponsabile, irrazionale, assassino, e un piccoloborghese che lo ammira ma non potrà seguirlo per la sua strada: non si tratta di una vera e propria scelta, semplicemente la via del Male (ma anche dell'Arte) non è per lui/lei. Rispetto a dieci o vent'anni fa, la novità di rilievo non è tanto la colonna sonora più blues, ma l'atteggiamento sempre più didascalico, ai limiti dell'autoparodia. La trama che occupava una mezz'oretta di Crimini e Misfatti è dilatata sui novanta minuti. Allen può lavorare con gli attori migliori sulla piazza, e quello che vuole da loro ormai è che vestano una specie di costume kabuki e continuino a ripetere al centro della scena: SONO DISPERATO. VOGLIO MORIRE. TUTTO È ASSURDO. MA SE AMMAZZO QUALCUNO LA MIA VITA CAMBIA. AMMAZZO QUALCUNO. ECCO LA MIA VITA È CAMBIATA. SONO FELICE. HO FAME, RIESCO ANCHE A SCOPARE. Il risultato è un prodotto che oltre a funzionare in sala – ma in sala ormai ci andremmo in ogni caso – avrà un senso anche sul digitale terrestre tra un annetto o due, al pomeriggio, mentre stiriamo o diamo la polvere: quelle fiction che riesci a seguire anche se guardi una scena ogni tre.

Woody Allen a ottant'anni ci conosce meglio di noi stessi: ha capito che cominciamo a perdere colpi e si sta adeguando. Continua a macinare film che nessun altro sa fare, e che forse a nessun altro perdoneremmo. D'altro canto prima o poi ci regalerà qualche altra perla, anche solo un Whatever Works. Nel frattempo Irrational Man è al Cityplex di Alba (21:10), al Cinelandia di Borgo San Dalmazzo (15:10, 17:20, 20:10, 22:20), al Baretti di Mondovì (21:00) e al Cinecittà di Savigliano (22:30). Prego notare che è alla terza settimana di permanenza in sala; ed è quella tra Natale e Capodanno. Whatever works.
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Veri detective (in Andalusia)

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La isla mínima (2014, Alberto Rodríguez).

Il franchismo è finito, la palude è rimasta. In paese ogni tanto qualche ragazza scompare, è normale: qui a parte la vendemmia e il contrabbando non c'è niente. Nessuno ne parla volentieri. Ogni tanto qualche ragazza ricompare, a pezzi, riaffiorando dalla laguna. Anche di questo nessuno parla.

Chi è già in crisi d'astinenza da True Detective potrà trovare un efficace placebo in La isla mínima, un thriller arrivato nelle sale spagnole l'anno scorso, che non fa nessun vero sforzo di sottrarsi al paragone con la serie americana uscita sei mesi prima. Persino i baffi del protagonista - l'accigliato Raúl Arévalo, un ispettore naturalmente in rotta di collisione coi superiori - sembrano ricalcati su quelli che si fa crescere Rust Cohle. Invece il suo collega (meno idealista e più praticone, ovviamente) è uno Javier Gutiérrez un po' troppo in forma per sembrare davvero un ex boia franchista cirrotico che cura i rimorsi e l'insonnia con l'alcool.

Il vero protagonista in questi casi è la cornice... (continua su +eventi!) quella foce del Guadalquivir che soffoca nei suoi miasmi tutto il pittoresco che ci aspettiamo dall'Andalusia. Le case coloniche abbandonate, le ville in mezzo al niente; il labirinto dei canali e delle strade sterrate su cui Seat e Diane si sfidano a sorpassare vecchi trattori. Tutto questo - se lo sai fotografare - funziona benissimo e costa anche poco. Ispirandosi a un reportage del fotografo Atín Aya, il regista ha fatto incetta di premi in patria, creando persino un'attrazione turistica: nei mesi successivi la regione andalusa ha creato una "Ruta Isla mínima", che porta nei luoghi del film. 

Rispetto alla fiction americana la trama è ovviamente più lineare; gli spunti soprannaturali ridotti al minimo, col rischio di farli apparire gratuiti (i fantasmi di Gutiérrez si manifestano sotto forma di uccelli: bella trovata, purtroppo non sviluppata). Quello che un film spagnolo può permettersi di aggiungere alla formula USA è la metafora politica. Gutiérrez e Arévalo si ritrovano in una Spagna profonda dove il franchismo non è stato sconfitto, ma è stato lasciato decomporre con infinita pazienza. È un passato putrido e sempre meno confessabile che pesa sulle coscienze di tutti: anche i meno compromessi sanno di portarselo con sé. Vivere con gli assassini; lavorare ogni giorno con loro, stringer loro la mano e ritrovarsi a bere alla loro salute. Eppure a volte fa comodo averne uno bravo che ti copre le spalle. 
La isla mínima è al Multisala Vittoria di Bra domenica alle 18:15 e alle 22; martedì alle 22:00.
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Come fate a cascarci con Shyamalan?

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The Visit (M. Night Shyamalan, 2015)

Uno di quei film in cui i ragazzini non spengono la videocamera
neanche se i mostri se li mangiano? Sì, però fatto bene.
Rebecca e Tyler non hanno mai conosciuto i loro nonni. Vivono nella provincia lontana dove il cellulare non prende. Quindici anni prima la loro madre fuggì per non tornare. Ora le hanno scritto, vorrebbero tanto conoscere i loro nipotini. Perché non ce li mandi per una settimana? Cosa potrebbe mai andare storto? Non credo di poter raccontare altro senza farvi capire che qualcosa non va.

Del resto è un film di M. Night Shyamalan, che dopo alcuni disastri produttivi si è ritrovato retrocesso nella serie B dei film horror a basso budget, in quella che però è la situazione più congeniale al suo cinema: senza più i divi capricciosi che gli hanno commissionato After Earth, senza effetti speciali, chiuso in una casa di campagna con due macchine finto-amatoriali, l'ex maestro del suspense contemporaneo dovrebbe riuscire a mostrare le sue vere qualità. Ce la farà?


Dei tanti modi in cui si possono dividere gli esseri umani, e in particolare gli spettatori al cinema, uno mi sembra più indicativo degli altri e riguarda M. Night Shyamalan. Vi sono infatti due gruppi: quelli che ultimamente erano molto delusi, ma che apprezzarono molto i suoi primi film, talvolta acclamandolo come un maestro e un innovatore del genere thriller, se non proprio il nuovo Hitchcock - e quelli che dopo cinque minuti avevano capito che Bruce Willis è un fantasma.

Insomma, in quel film nessun adulto gli rivolgeva la parola. Nessun adulto. Come fa uno a non accorgersene?

Io ai tempi mi arrabbiavo pure perché insomma - quando appartieni a quel gruppo di persone, tu rifiuti l'idea che il mondo si divida in due gruppi di persone. No, tu credi che ci sia solo un gruppo giusto - ovvero quelli che hanno gli occhi collegati al cervello - e che quelli che appartengono all'altro gruppo devano essere rieducati. E non importa se si intendono di cinema, ci dev'essere un equivoco perché come si fa a intendersi di cinema quando non ti accorgi nemmeno che Bruce Willis è un fantasma? Come fai a goderti un film se hai capito come va a finire dopo cinque minuti? Devi veramente avere voglia di cascarci (continua su +eventi!) 

Col tempo ho capito che è davvero così. Chi ama il cinema è animato soprattutto da una grandissima Voglia di Cascarci. È quella magia che unisce tutti i cinefili, sia quelli dei Cahiers che hanno appena votato Mia Madre film dell'anno (sembra una presa in giro), sia quelli che stanno cambiando le pile alle loro spade laser per la prima di Star Wars VII. Se non hai Voglia di Cascarci, non riuscirai mai a prendere sul serio certe cose. Potrai studiare tanto ma non diventerai mai un cinefilo. Per esempio, se non hai Voglia di Cascarci, anche quest'ultimo film di M. Night Shyamalan ti lascerà freddo. Probabilmente anche questa volta dopo cinque minuti avrai già capito esattamente cosa non va nella situazione; tutti quei particolari dissonanti che dovrebbero metterti a disagio, li troverai piuttosto prevedibili (anche se qualche geniale traduttore ha deciso di rendere "rumours about the hospital" con "pettegolezzi dell'ospedale". Pettegolezzi).

Il proverbiale twist alla Shyamalan, il colpo di scena che negli ultimi 10 minuti dovrebbe farti rileggere tutto il film in una chiave diversa, tu l'hai già subodorato dopo i primi 20, e adesso devi restare lì in sala a subire i trucchi del mestiere degli horror a basso budget prodotti da Jason Blum; niente da dire, Blum sa il fatto suo e Shyamalan è probabilmente il miglior regista che ci ha lavorato; nelle sue mani anche uno strumento abusato come il found footage si scrolla via la polvere e ritrova i suoi giorni di gloria. Poi finalmente arriva il twist, intorno a te senti gemiti e respiri affannosi, e tu sei solo contento perché il film sta finendo. Le persone si dividono in due gruppi e forse ha ragione il gruppo che si è fatto mettere ancora una volta nel sacco da M. Night Shyamalan. Noialtri possiamo consolarci raccontando che avevamo capito subito, insomma era chiaro, no? Ma la verità pura e semplice è che ci divertiamo di meno.
Questa settimana The Visit è al Cinelandia di Borgo San Dalmazzo (15:30, 17:40, 20:30, 22:40) e al Vittoria di Bra (20:15, 22:30).
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Colpo grosso in provincia di Barletta

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Loro chi? (2015, Francesco Miccichè, Fabio Bonifacci)


Trani è in subbuglio, corre voce che il Grande Regista TV sia scontento. Sta scegliendo le location, le comparse, il catering. L'anno prima Barletta ospitò una fiction e il turismo registrò il 200% - insomma è un'occasione da non mancare. Il sindaco gli sta pagando l'albergo, frantoi e viticoltori litigano per invitare il Grande Regista a pranzo, persino la camorra locale ha da piazzare il suo raccomandato. E allora cosa c'è che non va? Forse che la città non è fotogenica abbastanza? "No, Trani è bella", dice. "Ma non so se funziona per l'action".

Il Grande Regista, in realtà, è un piccolo truffatore. Ma il colpo che mette in scena a Trani è talmente verosimile che una volta tornato a casa mi sono messo a cercarlo su google: "falso regista fiction". Per ora ho trovato solo un tizio che a Brindisi convinceva delle tizie a spogliarsi per dei falsi provini, una cosa abbastanza deprimente. Invece le avventure di Edoardo Leo e Marco Giallini nella ridente località pugliese sono l'episodio più scoppiettante del film - e anche quello più rivelatore. Se ogni film è una truffa, un film di truffe è sempre un gioco di specchi: non sei mai sicuro di ciò che stai guardando. È un buon film di truffe inverosimili, o è un film inverosimile e basta? Le ragazze che suonano in playback a un concerto rock stanno recitando male o stanno recitando bene la parte di chi suona per finta?


Alla fine ho deciso che lo compro - e se i registi mi hanno fregato, peggio per me (continua su +eventi!) Anche se lavorano nel cinema da una vita, Loro chi? è il loro primo vero lungometraggio; gli unici difetti che mi sembra di notare sono quelli che lamentava il Grande Regista TV a proposito di Trani: belle cartoline, ma l'action? Non puoi fare un film di truffe senza piazzarne almeno un po'. Inseguimenti, conflitti a fuoco: l'unica strada è girarli inverosimili e poi rivelare che erano falsi, tutta una truffa appunto. Pazienza se un film distribuito dalla Warner in più di 300 sale sembrerà un prodotto a basso budget.

Quel che funziona meglio in Loro chi? è il ritmo, che dopo una partenza indiavolata riesce a contenere le inevitabili cadute. Da Roma a Trento a Trani, poi di nuovo a Trento, Leo e Giallini si spostano da un set all'altro come in un film di spionaggio. Le stangate diventano via via più improbabili, ma ci si diverte. Bonifacci si conferma come uno degli sceneggiatori più interessanti in circolazione, anche solo per il coraggio con cui si allontana dai temi e dai luoghi più frequentati della commedia italiana.
E sì, Trento e Trani sono più cinematografiche di quel che ci aspettavamo.
 
Uno di questi week end, quasi quasi...

Loro chi? è al Cityplex di Alba, al Cinelandia di Borgo San Dalmazzo, al Fiamma di Cuneo, ai Portici di Fossano e al Cinecittà di Savigliano. Buona visione!
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La delocalizzazione è un film già visto, davvero

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La legge del mercato (La loi du marché, Stéphane Brizé, 2015).

Me ne sto qui impalato, faccio finta di lavorare,
magari a Cannes mi danno una palma.
Thierry è un cinquantenne che ha perso il lavoro quando l'azienda, non ci credereste mai, ha delocalizzato. Il resto è un film che forse avete già visto. Buona parte della sua liquidazione andrà a ingrassare il racket statale dei corsi di formazione professionale senza sbocco professionale. Thierry ha una macchina in panne, una rata arretrata, una moglie preoccupata, Thierry ormai farebbe qualsiasi cosa. Qualsiasi cosa. O no?

"C'è questa offerta che potrebbe interessarti".
"M'interessa di sicuro".
"C'è un regista che cerca un cinquantenne che abbia perso il lavoro a causa di una delocalizzazione".
"Non m'interessa più".
"Guarda che paga bene".
"Grazie, non sono disperato".
"Ma..."
"Non così tanto disperato, perlomeno".
"Guarda che non devi imparare a recitare, vuole solo seguirti con la cinepresa mentre..."
"...mentre cerco lavoro, mentre non trovo lavoro, mentre incontro gli ex colleghi e non andiamo d'accordo, quando vado in banca a chiedere un prestito, credi che non lo sappia? L'ho già visto un film così. L'hanno visto tutti un film così".
Uno spettatore si è addormentato in seconda fila, che faccio?
"Sì però..."
"Lasciami indovinare. Alla fine trovo un lavoro ma per superare il periodo di prova devo far perdere il posto a qualcun altro, non è vero? Cioè è il film dei Dardenne dell'anno scorso, in pratica".
"Ma non è proprio come quello dei Dardenne, perché..."
"Mi aggiungono anche una sfiga peculiare? Qualcosa che mi dia uno spessore diverso? La tizia dei Dardenne soffriva di depressione, a me che sfiga affibbieranno?"
"Vorrebbero abbinarti un figlio, ehm..."
"Un figlio?"
"Handicappato".
"Ah però".
"Embè? Hai qualcosa contro gli handicappati?"
"Sì, quando servono a ricattare gli spettatori".
"Senti, non so se ti rendi conto della fortuna... non devi recitare. Devi soltanto vivere le tue giornate noiose mentre un tizio le riprende da qualche metro di distanza. Come un reality".
"La mia vita non è noiosa!"
"Ah no?"

(Continua su +eventi!) 
"Ho un sacco di cose da fare dalla mattina alla sera! Inseguo il lavoro ovunque, giro per le corsie dei supermercati scartando le offerte speciali farlocche, la sera vado a ballare con mia moglie..."
"Yawn".
"...ma so già che 'sto tizio ha intenzione di girare tutto con meno stacchi possibili, e riuscirà a trasformare in qualcosa di mortalmente noioso anche un corso di rock'n'roll. Chi è poi che se li guarda questi film, io vorrei capire".
"Sono film di denuncia".
"Sono film lenti e deprimenti che nessun neoproletario scucirà mai sei euro per guardare. È roba esotica per i ricchi, sì? Vanno a vederli ai festival per solleticare i loro sensi di colpa?"
"Va bene, lasciamo perdere".
"Io sopo una giornata intera a fare il disoccupato con moglie a carico e figlio handicappato, io la sera voglio vedere cose allegre! Voglio identificarmi con un Liam Neeson che all'inizio di un film è un cinquantenne disoccupato come me e alla fine del film ha fatto fuori tutta la mafia irlandese".
"Ma i film di denuncia..."
"Al limite, proprio al limite, posso accettare un film di Ken Loach dove però succedono tante cose, ci si diverte e ci si ammazza, non un finto reality coi colloqui di lavoro girati senza neanche il controcampo, perdio".

Le scene più interessanti della Legge del Mercato sono le soggettive delle videocamere del supermercato che spiano i clienti - tutti potenziali ladri. Nessuno è al di sopra del sospetto, i ladri non hanno età né sesso né razza, e queste videocamere scorrono veloci, scartano di qua e di là, zoomano, hanno tutta quella gioia cinetica che il cineasta Stéphane Brizé si è fatto amputare quando ha deciso di fare i film che piacciono a chi di mestiere si lamenta di chi ha perso il suo mestiere.
La legge del mercato è al Cinema Moretta di Alba fino a martedì alle 21, il protagonista ha vinto la sua palma a Cannes, tutti ne hanno parlato bene, e nessuno lo guarderà più.
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Litigare con don Pasolini

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Una di queste notti mi sarebbe piaciuto riprendere i fili del discorso un po' confuso che avevo fatto su Pasolini l'altro giorno (visto che ha suscitato un minimo d'interesse) - però tutto sommato è giusto che rimanga confuso. Pasolini è per me, come per molti, un feticcio polemico da una vita. Anch'io posso passare serate intere a litigare idealmente con Pasolini. Se non sto attento mentre do l'aspirapolvere puoi notare che muovo le labbra, sto insultando Pasolini. Quel suo atteggiarsi a profeta, a Geremia di un genocidio immaginario - che nervi l'Abiura a rileggerla.

Alla fine poi che colpa ne ha avuto lui. In qualsiasi altro periodo storico avrebbe trovato la sua nicchia abbastanza presto, e invece a causa di una guerra mondiale e altri equivoci si è ritrovato in una sezione bolognese del PCI invece che in seminario. Che prete ci siamo persi, ma soprattutto che vita da prelato si è perso lui. La sua passione per le dispute dottrinali gli avrebbe ispirato dotte dissertazioni teologiche che lo avrebbero reso uno dei protagonisti del concilio - vuoi mettere anche solo per un attimo, tra litigare coi lefebvriani o col Gruppo '63? Nel frattempo avrebbe potuto cullare la sua sensibilità decadente coltivando la poesia, la scrittura, l'arte, senza la necessità di impastoiarle con categorie marxiste che non c'entravano poi parecchio. Le periferie sottoproletarie, le avrebbe potute frequentare con molta più libertà, nessuno ci avrebbe avuto niente da ridire - son cose che a Roma si fanno da secoli e chi siamo noi per giudicare un alto prelato, un benefattore. Le sue naturali pulsioni avrebbero trovato molta più tolleranza in Curia che in certe sezioni di partito un po' retrograde. Le sue inchieste sulla sessualità degli italiani le avrebbe potuto condurre in modo assai più capillare nel confessionale. Nel frattempo avrebbe saputo diluire in comode omelie settimanali il suo presentimento dell'apocalisse, del genocidio culturale, della massificazione indotta dalla tv, dalla legalizzazione dell'aborto, dalle maschere di Halloween, le lucciole! cosa hanno fatto alle lucciole! Persino in Africa avrebbe più convenientemente potuto andarci da missionario; che prete sarebbe stato Pietro Paolo Pasolini, e invece gli è andata così. Eppure chi ancora si inginocchia al suo santino è sempre di un prete che sembra aver bisogno, uno che ti faccia le predica sulle false lusinghe della modernità, sul vuoto dei valori, uno che ti dica "io so", anche se non è chiaro come faccia a saperlo - ma già, il confessionale - in ogni caso i preti sanno sempre tutto, bisogna stare attenti, perché verrà un giorno... Don Pasolini, così come fra Lindo Ferretti, è uno di quei personaggi che in Italia abbiamo sempre avuto, forse addirittura il frutto dell'evoluzione, dell'adattamento a un certo tipo di ambiente; la novità è che seminari e conventi sono meno diffusi di una volta e così a gente che sembra nata per spiegarti il mondo da un pulpito capita di ritrovarsi scrittore, regista, cantante, comico, e non se la cavano neanche così male in verità. Sempre però un po' predicatori, se ci fai l'orecchio.

Per dire che Muccino un po' lo capisco.

Però poi ogni volta che vedo qualcuno cedere al mio stesso impulso, e di attaccare una tirata antipasoliniana, mi rendo conto che è vittima di un equivoco, se non di tanti. Ad esempio vedo in giro roba del genere.



E ci rido pure sopra, però intanto penso: ma uno che ha scritto una battuta del genere, l'avrà mai davvero sentito parlare, avrà letto qualcosa di Pietro Paolo Pasolini? Non solo il fatto che in realtà un film come Ricordati di me gli sarebbe davvero potuto piacere; una volta assorbito lo choc di un ritmo action che ai suoi tempi non esisteva nemmeno nei film di 007, figurati in un prodotto cosiddetto intimista, credo che avrebbe potuto vederci una conferma delle sue tesi sul vuoto della neoborghesia. Ma lasciamo stare: come fai a immaginare Pasolini che risponde "mi pulisco il culo"?

Se hai anche solo aperto a caso le Lettere Luterane, se hai ascoltato distrattamente la voce del corvo di Uccellacci e Uccellini, come fai? Ma neanche in una vignetta. Te lo immagini, boh, Hitchcock che dice la stessa cosa in una vignetta? Moravia? Viene il sospetto che nel modellare il feticcio PPP le giacche di pelle abbiano avuto più peso delle pagine di Empirismo Eretico dove Pasolini si permetteva eleganti frecciatine sul prognatismo di Sanguineti, ma non avrebbe mai usato il sintagma "pulisco il culo".

Forse funziona così: oggi la gente in giacca di pelle che va in tv a parlare di qualsiasi cosa è, boh, Scanzi? E così ci immaginiamo che Pasolini sia stato uno Scanzi dei suoi tempi; che di fronte a una provocazione si sarebbe comportato come lui: fanculo, stronzi, ecc. Di solito quando parliamo di lui non abbiamo la minima idea di quello di cui stiamo parlando. Anche quando lo citiamo, lo fraintendiamo; lui poi perlopiù parlava in una lingua che abbiamo messo via, il marxismo; una lingua che maneggiava un po' disinvolto, se non proprio alla carlona, perché gli era capitato di esser marxista per accidente, era semplicemente il clima culturale in cui era nato e aveva imparato a discutere - e di discutere aveva una gran voglia e un gran bisogno e non solo coi sottoproletari: anche e soprattutto coi suoi pari, intellettuali, artisti. Lui poi era convinto che i sottoproletari stessero per scomparire, parlava di genocidio, non si vergognava di scomodare Hitler per un po' di speculazione edilizia - ma non aveva previsto che anche il suo milieu culturale si sarebbe prosciugato nel giro di due decenni, al punto che oggi non c'è uno che mentre ti cita Pasolini ti dia la sensazione di aver capito quello che stava dicendo. Equivocano tutti, un po' perché devono tirare acqua al loro mulino (lui stava dalla parte dei poliziotti! Non è vero stava coi pankabbestia!), un po' perché davvero, leggerlo è troppo sbattimento.

Poi se la prendono con Muccino. Lui almeno ha una tesi: una volta il cinema italiano era un'industria, poi c'è stata una crisi strutturale, non sarà stato per caso Pasolini? Secondo me no, Pasolini in certi casi faceva un cinema di nicchia, "di poesia", insomma era un autore nel senso che la parola aveva già in quegli anni; in altri casi stava sperimentando soluzioni che oltre ad avere un successo immediato (il Decameron), aprivano le porte a nuovi linguaggi che sarebbero diventati di massa: in sostanza stava aprendo le porte al porno, col vecchissimo alibi dell'esotismo medioevale o terzomondista (da questo punto di vista certi stilemi amatoriali hanno un senso che Pasolini non vedeva e Muccino non coglie; il motivo per cui a lui piacevano gli attori non professionisti in pose discinte è simile a quello per cui noi digitiamo "amatoriale" in determinati siti). Però sia quando faceva Teorema per il pubblico dei festival, sia quando girava i Racconti di Canterbury - e in giro c'era una tale fame di nudità medievali che in sala era già uscito un seguito apocrifo al Decamerone - Pasolini era perfettamente organico all'industria cinematografica in cui lavorava - molto più di quanto se ne rendesse conto. Quando se n'è reso conto si è molto arrabbiato. Poi quell'industria è crollata per altri motivi - banalmente, la tv - e oggi non riusciamo nemmeno a capire che Teorema era pensato per un certo pubblico e Canterbury per un altro. Sono due film talmente diversi da quelli che vediamo nelle sale, che potrebbero averli girati i Lumière o Giotto di Bondone. È roba strana, da intellettuali. Niente che valga la pena rivedere - finché Muccino non ne parla male, allora guai a chi ce la tocca.

"Ma hai finito con l'aspirapolvere?"
"Perché?"
"È la seconda volta che lo passi in cucina".
"Scusa, ero sovrappensiero".
"Con chi stai litigando stavolta?"
"Con nessuno".
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Muccino e la Pasoliniexploitation

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L'altra sera, proprio quando i detrattori più moderati di Pasolini sembravano aver conquistato il campo, si è svegliato mano-lieve Muccino e ha dato un ceffone all'arbitro.



Quel che è successo poi potrebbe persino far storia: un'intera nazione di appassionati di cinema si è scossa dal torpore ipnotico dei trailer di Star Wars rallentati alla ricerca di qualche dettaglio rivelatore sul destino di Jar Jar Binks, e si è stretta intorno al suo maestro e ispiratore, il geniale cineasta Pietro Paolo Pasolini. A quarant'anni dalla sua scomparsa (e dalla distribuzione di Salò), l'amore del pubblico per il suo beniamino è tale che l'account facebook di Muccino sembra essere stato sospeso per eccesso di insulti. E io ho scoperto di vivere nell'universo dei miei sogni, dove le piattaforme sociali non servono per litigare sugli spintoni tra Valentino Rossi e Marquez, ma per dibattiti sull'estetica, perdio, sulla tecnica cinematografica! Vi rendete conto, possono bannarci mentre litighiamo sull'uso del carrello o del controcampo.

Ok, proviamoci.

Però facciamo finta di saperne qualcosa per favore - cioè davvero, potete avere mille motivi per odiare Muccino, ma per difendere Pasolini dovreste almeno aver visto un film suo. Sennò come potete essere sicuri che non ci abbia azzeccato? Definire Pasolini amatoriale non è cosa campata così in aria. Il suo primo approccio diretto con la macchina da presa fu abbastanza garibaldino. Era già uno scrittore affermato, aveva collaborato con Fellini, quest'ultimo intuisce del potenziale e gli propone di produrre Accattone - ma quando vede i primi tentativi blocca tutto, erano inguardabili. Pasolini comincia così, saltando a piedi pari tutto l'apprendistato del regista (anche se può contare da subito su un collaboratore preparato come Bernardo Bertolucci). E potendo contare sulla sua reputazione extracinematografica - tanto che quando alla fine Accattone arriva a Venezia, viene contestato da gruppi di estrema destra che gettano inchiostro sullo schermo. È appena il 1961: gli anni di piombo molto in là da venire; Pasolini è già in qualche modo un personaggio che attira l'attenzione qualsiasi cosa dica o faccia.

È interessante che nel suo primo comunicato antipasoliniano (poi prontamente cancellato da facebook), Muccino raccontasse di aver cominciato a detestarlo molto presto - è così che funziona, no? Se ti piace Pasolini (o Kubrick, o i Vanzina) te ne accorgi a 16 anni. Il resto della vita ti serve a trovare i motivi, le giustificazioni, le pezze d'appoggio. Muccino - chi sa un po' di cinema non ha nessuna difficoltà ad ammetterlo - è uno dei registi italiani più dotati della sua generazione, che è anche il motivo per cui in questo momento twitta dalla California. È facile risolvere la questione tracciando una retta: da una parte l'approccio amatoriale di Pasolini, che con scarsa o nulla conoscenza del mezzo riesce comunque a mettere in scena un'opera prima apprezzata in tutto il mondo; dall'altra la professionalità di Muccino, il campioncino nazionale dei carrelli circolari. Facile, no? Già, troppo facile.

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Pasolini amatoriale                                               Muccino professionale

Perché è vero anche il contrario: Pasolini arriva in regia sapendone poco o nulla, ma è determinato a fare del cinema la sua dimensione - tanto che si mette molto presto a teorizzare di semiotiche e di cinémi - quanto a Muccino, avrà fatto i suoi compiti, ma il modo in cui liquida Pasolini dimostra una scarsa conoscenza della storia del cinema italiano.

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Muccino praticone                                                     Pasolini accademico


L'eredità di Pasolini.
Cosa direbbe Pasolini dell'accusa di essere "sgrammaticato"? Probabilmente la rivendicherebbe (facendo però sfoggio di un'ottima grammatica), così come rivendicava l'"ingenuità" che gli aveva affibbiato Umberto Eco. "Che io sia ingenuo, non c'è dubbio: e anzi, poiché non sono - con tutta la violenza di un maniaco anche nel non voler esserlo - un piccolo-borghese - non ho paura dell'ingenuità: sono felice di essere ingenuo, e anche magari qualche volta ridicolo" (Il codice dei codici, in Empirismo eretico).

Ricapitolando: da una parte il cinema contemporaneo, professionale ma del tutto inconsapevole della storia che ha alle spalle. Un cinema senza tempo e senza luogo, che potrebbe farsi dovunque e infatti si fa in California. Dall'altra la visceralità di Pasolini, ma anche lo strutturalismo di Pasolini. L'ingenuità, ma anche la Cultura con la C. Il sottoproletariato urbano, ma anche l'intellettuale organico e/o declassato. Tutto quello che ci siamo lasciati alle spalle nel Novecento, dopo quella famosa frattura antropologica. Ma non è ancora troppo facile, così?

È da ieri che cerco ovunque un'intervista che sono sicuro di aver visto, una mattina, a un "montatore di Pasolini" (Nino Baragli?) Ormai mi sono convinto che sia in questa teca rai che non si riesce ad aprire. Mi ricordo questo signore mentre spiega in romanesco come si montava ai suoi tempi, con lo sputo: cioè prima di incollare i pezzi di pellicola con l'acetone, in un primo momento era sufficiente applicare un po' di saliva. E poi quando spiega che i raccordi di Pasolini li faceva un po' diversi da quelli degli altri film, perché sembrassero strani, perché sembrassero 'artistici': gli spettatori dovevano avere la sensazione di trovarsi di fronte all'opera sofisticata del poeta Pasolini, mica, chessò, la robaccia di Sergio Leone. L'artigiano della cabina di montaggio aveva perfettamente introiettato gli stilemi di quel Cinema di Poesia che secondo Pasolini stava sorgendo "contemporaneamente in tutte le cinematografie mondiali" ("l'alternarsi di obbiettivi diversi, un 25 o un 300 sulla stessa faccia, lo sperpero dello zum, coi suoi obiettivi altissimi, che stanno addosso alle cose dilatandole come pani troppo lievitati, i controluce continui e fintamente casuali con i loro barbagli in macchina, i movimenti di macchina a mano, le carrellate espressive, gli attacchi irritanti, le immobilità interminabili su una stessa immagine ecc. ecc.") (Il cinema di poesia, in Empirismo eretico).

Quando vidi per la prima volta il Decameron in cineteca a Bologna, approfittando del corso monografico del Dams, mi fu preventivamente spiegato che l'approccio di Pasolini era "poetico" - e già la cosa mi innervosiva, provenendo io da un altro corso di studi: perché mettere la poesia nel Decamerone, che è prosa? E l'approccio poetico, poi, consisterebbe nel fatto che i raccordi sembrano tutti sbagliati, gli attacchi irritanti, le immobilità interminabili, ecc. ecc? E aggiungi gli attori non professionisti sempre sul punto di mettersi a ridere. Cioè, insomma, "poetico" significa "fatto male apposta"? Probabilmente avevo la stessa età in cui Muccino cominciò a detestarlo.

I HAVE NO IDEA WHAT I'M
Però a leggere più attentamente il saggio di cui sopra, non è che Pasolini rivendichi il "cinema di poesia" per sé. Lo isola nei film di un gruppo di cineasti della sua generazione (Antonioni, Bertolucci, Godard), e ne propone immediatamente una spiegazione politica: "la formazione di una traduzione di "lingua della poesia del cinema" si pone come spia di una forte e generale ripresa del formalismo, quale produzione media e tipica dello sviluppo culturale del neocapitalismo". Pasolini stava assistendo alla nascita del moderno cinema d'autore - e non ne sembrava poi così entusiasta. Lui forse puntava in altre direzioni. E però i film vanno quasi mai nella direzione del proprio regista: specie se i cabina di montaggio c'è un praticone che ha deciso che il ritmo è lento, perché il tuo è un film d'artista e al tuo pubblico piacerà di più così.

Muccino è convinto che Pasolini abbia inferto un colpo mortale alla cultura cinematografica italiana - dopo di lui qualsiasi inetto avrebbe deciso che bastava munirsi di cinepresa e montare spezzoni a caso per fare cinema poetico ("improvvisati registi che non sapevano come comunicare col pubblico"). È andata così? Da qua non sembra. Sotto l'ombra del monumento che gli è cresciuto addosso in questi anni, sfugge forse quanto Pasolini fosse organico all'industria cinematografica che Muccino rimpiange - ricordiamo: comincia a lavorare con Fellini, esordisce con Bertolucci, all'inizio non ha ben chiaro che lenti montare ma si circonda di maestranze di primissimo livello: realizza film non convenzionali ma nemmeno assimilabili a quelli autoriali di Antonioni o Godard; film che fanno discutere, ottengono premi e - particolare cruciale - a volte riempiono le sale.

A Muccino forse manca un dettaglio: la trilogia della vita fu un successo al botteghino. Successo che imbarazzava Pasolini per primo, e che lo portò nel suo ultimo anno di vita a una tragica abiura. Oggi lo ricordiamo come un grande intellettuale fuori dagli schemi e dalle mode, ma l'effetto immediato del successo del Decameron fu precisamente la nascita di un vero e proprio filone, il cosiddetto decamerotico. Sono fenomeni difficili da indovinare oggi. che andiamo al cinema molto meno: nel giro di pochi mesi c'era già un Decameron II apocrifo in circolazione; quando l'anno successivo uscì I racconti di Canterbury, gli artigiani della pasolini-exploitation avevano già provveduto a confezionare Gli altri racconti di Canterbury, che arrivò nelle sale in contemporanea. Secondo Muccino senza Pasolini non avremmo avuto Nanni Moretti; mi sembra molto discutibile, invece è abbastanza pacifico che senza Pasolini non avremmo mai avuto Quel gran pezzo dell'Ubalda tutta nuda e tutta calda.  Persino l'abiura totale di Salò, così disperata e senza compromessi... Persino Salò diede vita a una rapida vague di film di serie B a base di nazisti sadici.

Tornando al Decameron: è il film di Pasolini con cui ho più familiarità, per via della mia abitudine a proiettare in classe (con un certo sprezzo del pericolo) la novella di Andreuccio di Perugia. Non è che abbia fatto pace con gli attacchi irritanti e le immobilità interminabili, ma per mostrare uno scorcio di medioevo urbano non saprei trovare di meglio. È anche utile per fissare nella memoria le condizioni igieniche nel tempo - Ninetto Davoli che sprofonda nella merda è il miglior antidoto a qualsiasi visione fiabesca del medioevo. Ma soprattutto c'è qualcosa di arcaico, di irriconciliabile con la modernità, che è poi la sensazione che vorrei suscitare quando insegno storia.

Quando la primavera scorsa è uscito Il racconto dei racconti, sono entrato in sala con molte speranze. Basile è un altro autore che bisognerebbe affrontare alle medie - altrimenti quando? Per qualche minuto ci ho creduto davvero. Più o meno finché gli attori hanno aperto la bocca, dichiarandosi per quel che sono: attori di una fiaba in costume. Molto professionali, per carità.

In quel momento mi è venuta nostalgia di Pasolini, e di quei non-attori sempre sul punto di mettersi a ridere.
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Perché stanno tutti ridendo, Mr Bogdanovich?

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Noccioline agli scoiattoli! 
Tutto può accadere a Broadway (She's Funny That Way, Peter Bogdanovich, 2015).

Hai presente i vecchi amici, quelli con cui ti faresti volentieri una risata, ma ormai li vedi solo ai matrimoni e ai funerali; e ultimamente non si sposa più nessuno che conosci. Così quella risata finite per farvela fuori dai cancelli del cimitero, mentre la gente esce alla spicciolata coi fazzoletti stropicciati già riposti nelle tasche. Come stai? Da quanto tempo. Ma ti ricordi di quella volta. I ricordi si addensano in aneddoti, gli aneddoti scadono in barzellette. Chi vi passa vicino resta un po' perplesso: non è soltanto il fatto che stiate ridacchiando ai margini di un camposanto; è che niente di quello che raccontate è davvero così spassoso. I soliti equivoci, le solite figuracce, canovacci unti e bisunti, a chi volete raccontarla? Non vi state divertendo. I denti vi battono dal freddo, dall'angoscia, dalla paura.

Io invece per il giorno dei morti volevo andare al cinema a vedere qualcosa di davvero divertente. Mi avevano parlato bene di Tutto può succedere a Broadway. La premessa sembrava irresistibile - Wes Anderson e Noah Baumbach che decidono di produrre il film di un grande regista a cui devono tantissimo, Peter Bogdanovich, e quest'ultimo che sceglie di girare un film assolutamente inattuale, una screwball comedy, una pochade, una di quelle commedie di una volta dove tutti sono su di giri e si incontrano assurdamente tutti nel posto sbagliato - ristoranti, corridoi d'albergo, qui pro quo a non finire e un lieto fine con tanto amore per tutti. Ero andato al cinema per questo.

They laughed at me wanting you, said I was reaching for the moon
E mi sono ritrovato alle soglie di un cimitero, alla fine di un servizio funebre. Un capannello di signori raccontava vecchie storie tentando di ridacchiare. Ma era tutto freddo e implausibile. Non capivo. Owen Wilson interpreta un regista di teatro con un debole per le escort - però romantico. Le porta fuori a cena a Manhattan, a pochi isolati dal suo luogo di lavoro, il che ovviamente causerà divertenti complicazioni. Anche in carrozza a Central Park. Ed è un tenero amante e appassionato; e dopo una notte elargisce 30.000 $ alla fanciulla che prometta di cambiar mestiere. È una cosa che gli succede spesso. Si vede che è ricchissimo. D'altronde è una commedia brillante d'altri tempi, è normale che siano tutti su di giri, no? Che le premesse siano un po' implausibili. Già.

Ma allora cos'è questo freddo che sento. Imogen Poots è l'ultima ragazza salvata dal regista pigmalione, ed è ovviamente adorabile. Lei sogna di recitare, e indovinate chi incontrerà al provino. Attenzione però: un suo cliente ossessionato - un anziano giudice! - la sta facendo pedinare da un detective altrettanto anziano, che è anche l'autore della commedia che il regista sta realizzando. Tutto qui? No: il giudice e Imogen Poots sono in cura presso la stessa analista, Jennifer Aniston - che è fidanzata con l'autore della commedia. Divertente, no? Immagina - che so - che il giudice inviti a cena l'analista ma che al ristorante si imbattano nell'autore che ha invitato Imogen Poots e nel regista che è uscito con sua moglie. Che scena ne verrebbe fuori, eh?

E allora perché non sto ridendo?

Continua su +eventi!

Ok, sono le solite buone vecchie cose che faceva pure Vanzina (aggiungendo le puzzette): gente che urla Cielo mia moglie e nasconde l'amante nel box doccia. Siccome poi siamo nel 2015 l'amante è semplicemente una escort - ma è comunque tutto studiato nei minimi dettagli per funzionare, da gente che il suo mestiere lo conosce alla perfezione; e invece non funziona. Cominciavo a pensare che fosse colpa mia. Poi è saltato fuori l'unicorno.

Senza un apparente motivo, a un certo punto l'autore della commedia mostra a Imogen Poots il quadro di un unicorno e gli spiega che era un simbolo della purezza femminile, che nei tempi antichi bla bla la spiritualità e l'erotismo non erano ancora separati - scusate, non stavo più ascoltando. Pensavo all'unicorno. Bogdanovich. Unicorni. La purezza femminile. Da qualche parte in testa mi si è aperta una porticina. A casa ho controllato su Wiki - e mi si è scoperchiato un mondo. She's Funny That Way non è l'innocua screwball comedy che segna il ritorno del grande regista dietro la macchina da presa - o meglio, She's Funny è l'innocua screwball che il grande regista ha scritto dieci anni fa con la sua allora moglie, Louise Stratten - mentre cercavano fondi per ricomprare (per la seconda volta?) i diritti del film che Bogdanovich considera il suo capolavoro, They All Laughed.

They All Laughed, che effettivamente è un bizzarro gioiellino (uno dei film preferiti di Tarantino!) girato alla garibaldina per le strade di New York con Audrey Hepburn e Ben Gazzara, è anche il film sul cui set Bogdanovich si innamorò della sorella di Louise, Dorothy Stratten, playmate dell'anno 1980. Non solo, ma la convinse a lasciare il marito, quel ragazzo possessivo che le aveva scattato le prime polaroid e le aveva spedite a Hugh Hefner; che la faceva pedinare da un detective privato (proprio sul set di un film di detective privati); che alla fine riuscì a convincerla a incontrarlo per un'ultima volta nella loro casa, e in quell'occasione ne abusò, la uccise e si suicidò. Louise era ancora una bambina - Bogdanovich le finanziò gli studi. Su Dorothy hanno girato due film, uno è Star 80 di Bob Fosse. Bogdanovich invece ci scrisse un libro,L'assassinio dell'unicorno, che fece venire un colpo a Hefner (non in senso figurato) tanto gravi erano le accuse che conteneva. Nello stesso periodo il regista dichiarava bancarotta: la decisione di comprare i diritti di They All Laughed e distribuirlo nelle sale con un'etichetta indipendente gli aveva fatto perdere più di quattro milioni di dollari. C'è altro? Lo spunto iniziale che sembrava così implausibile - un regista che va in giro riscattando prostitute - è ispirato alla lavorazione dell'altro film maledetto di Bogdanovich, Saint Jack, ambientato tra i bordelli di Singapore.
 
She's Funny That Way è insomma il film apparentemente spensierato in cui un anziano regista decide di scoperchiare i suoi fantasmi. Il risultato è più macabro che divertente: come di una risata protratta a lungo, senza motivo, ai cancelli di un camposanto.
Lo trovate all'Aurora di Savigliano alle 21:15.
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La fabbrica dei sogni che non crede ai sogni (ma crede alle fabbriche)

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"Sveglia ragazzi..."
"Ragazzi a chi? Ma come ti permetti?"
"È già lunedì!"
"Fantastico!"
"Peccato, un altra settimana se n'è andata".
"...e non abbiamo ancora visto un film per la provincia di Cuneo!"
"Evviva! Dobbiamo vedere un film!"
"No! È tardi! Non faremo più in tempo!"
"Sta' buono, Paura..."
"Penseranno che siamo inaffidabili! Ci toglieranno un contratto! Dovremo trovarci un lavoro!"
"Ce l'abbiamo già!"
Ed è bellissimo... ma perché non siamo andati a vedere un film, alla fine? Adoro guardare i film".
"È colpa di Paura".
"Che ha combinato?"
"Il solo pensiero di vedere The Walk lo ha gettato nel panico".
"Povero Paura, un po' lo capisco".
"Ma che povero e povero... è un maledetto imbranato che ci toglie ogni occasione di divertimento".
"Ha parlato l'anima di tutte le feste, ha parlato".
"Che cazzo vuoi? Io ci so stare in società".
"Legato. Ti leghiamo ogni volta che ci andiamo, in società".
"Che bel siparietto! Siete troppo forti! Sentite, ho un'idea. Recensiamo Inside Out".
"Ma sei scema?"
"Sono Gioia".
"Appunto. Hai notato che Inside Out è uscito un mese fa?"
"E allora?"
"Penseranno che non siamo più andati al cinema! 
"Che siamo malati! Ci eviteranno come gli scabbiosi!"
"Paura, calmati, perdio".
"E chissà se non hanno ragione... non lo sentite anche voi il prurito?"
"Sì, è la voglia di mollarti due ceffoni".
"Quindi è deciso. Si recensisce Inside Out".
"Ma chi ha deciso che decidi tutto tu?"
"Non ci sono solo io. C'è anche Tristezza. A Tristezza è piaciuto tanto, vero?"
"..."
"Dai Tristezza, coraggio. A noi puoi dircelo".
"...sì, mi è piaaaaciuUUUUAAAAH È COSI' TRISTE! NON TORNERA' MAI PIU' IN MINNESOTA! MAI PIU'".
"Tristezza, nessun prepubere sano di mente ha mai voluto tornare in Minnesota".
"Snif".
"Vedete? A Tristezza è piaciuto, a me è piaciuto, e al Cinelandia lo programmano ancora. Siamo la maggioranza".
"Due su cinque non è la maggioranza".
"Lo è..."
"Nel mondo di Matteo Renzi, forse..."
"Anche in questo cervello, se voi tre non vi mettete d'accordo. E voi tre non vi metterete mai d'accordo".
"L'avete sentita?"
"Un po' ha ragione, Rabbia... voglio dire, di base io e te nemmeno ci parliamo".
"Renziani. Dappertutto. Anche in questo cervello di demente. Va bene, fate quel cazzo che vi pare".

Inside Out (Pete Docter, 2015)

La Pixar nel decennio scorso ci ha viziato. Soprattutto in quei tre anni in cui ci elargì, senza sforzo apparente, Ratatouille, Wall-E e Up. Tre film che non assomigliavano a nessun cartone animato già visto; che si prendevano rischi enormi e hanno lasciato segni nella storia del cinema non solo d'animazione. Inside Out ha le sue radici proprio in quel triennio d'oro: se ci ha messo ben sei anni ad arrivare in sala non è per una sola questione di perfezionismo, di progettazione, di rendering 3-D. Successe la stessa cosa con Ratatouille: ai film della Pixar capita di bloccarsi per anni nella fase di scrittura. L'idea era buona, anche se non originalissima - ma imbastirci sopra una storia ha richiesto quattro anni, sette canovacci diversi. E una passeggiata domenicale in cui il già acclamato regista di Monsters & Co. e Up, disperato, mentre meditava sul suo fallimento artistico e sulle dimissioni che avrebbe dovuto rassegnare, scoprì quasi per caso il vero protagonista del film. Quella notte al telefono tirò giù dal letto i suoi collaboratori: abbiamo sbagliato tutto, accanto a Gioia non c'è Paura. Quella al massimo è una spalla comica. Ma il segreto motore di tutto è Tristezza. Certo. Perché non lo abbiamo capito prima? Avevamo paura di far piangere il pubblico? Ma siamo la Pixar, siamo quelli di Up e Toy Story 3, si può dire che ormai la gente viene in sala apposta (continua su +eventi!)

Questa recensione è talmente tardiva che arriva dopo quella di Goffredo Fofi, ingiusta ai limiti della paranoia: là dove se c'è una fabbrica di sogni che non si omologa ai discorsi imperanti è proprio la Pixar. Certo, lo fa all'interno di una logica industriale, non come piccola etichetta indipendente. Eppure continua, a dispetto di ogni logica - dopo l'acquisizione della Disney si è persino radicalizzata. La Pixar non ci piace per i pupazzetti, quelli ormai li sanno fare in tanti e in certi casi sono assolutamente competitivi. La Pixar ci conquista ogni volta perché è l'unica che ha una sua ideologia, chiara e quasi immediatamente riconoscibile. Ed è un'ideologia che va in direzione ostinatamente contraria a tutti gli altri, che si ostinano a immaginare e disegnare eroi fragili che hanno un sogno e con tanta dedizione lo realizzano. La Pixar in questa cosa non ci ha mai creduto, sin dai tempi dello struggente monociclo rosso: i sogni ti illudono. Un mostro buffo non può diventare spaventoso, un topo non diventerà uno chef stellato. Inoltre l'infanzia non è per sempre, i sogni della giovinezza sbiadiscono e continuare a coltivarli non è sempre ragionevole. La Pixar continua a dirci tutto questo, occupando porzioni di multisala dove tutti, americani o no, continuano a gridarci il contrario. La Pixar produce sogni senza credere troppo ai sogni; è un'azienda di successo che nel successo ci crede fino a un certo punto.

L'unica cosa in cui crede la Pixar - e ce lo urla forte in ogni film - è il lavoro di squadra. Inside Out ha pecche e pregi, ma è pixariano al 100% nel suo dipingere il cervello umano come un luogo di lavoro dove nessuno (nessuno!) ha il quadro completo, e tutti hanno una maledetta importanza, un ruolo a cui non possono rinunciare. Persino l'incubo infantile incatenato nel subconscio, o l'elefante peloso che quella bambina ha già dimenticato. Che siano fantasmi della mente, membri di un racing team, di una famiglia di supereroi o di una confraternita di mostri sfigati, l'unica via per la Pixar è sempre e solo quella: collaborare.

Questo inno alla collaborazione che ci arriva dall'azienda di animazione digitale più avanzata del Paese più individualista del mondo, io se fossi in Fofi lo ascolterei con più attenzione. La Pixar è uno degli artisti collettivi più interessanti in circolazione - lo è anche se in cinque anni ha concesso solo repliche non sempre ispirate. Basta che ogni tanto azzecchi una storia nuova, e a volte ci vogliono anni. Ma ne vale sempre la pena.

(...nel frattempo Inside Out è uscito dalle sale di Cuneo e provincia. Forse torna nel week-end. Se non l'avete ancora visto, portatevi i fazzoletti).
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(Sprofonderemo saturi) Suburra

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Suburra (Stefano Sollima, 2015).

Certe serate
È stato quattro anni fa, noi chissà dove eravamo. Più facilmente in coda a un semaforo, e intanto tutto intorno a noi stava finendo. Sotto la pioggia il parlamento stava per sciogliersi, Berlusconi scappava dalla porta di servizio, il Papa meditava di abdicare, e per qualche giorno Roma non è più stata di nessuno. In quel momento magico avrebbe potuto spuntare qualsiasi cosa: anche una Las Vegas tra le baracche di Ostia. Quattro anni dopo eccoci qui, a domandarci cos'è cambiato. Al cinema però c'è un buon film italiano, ecco, questa è una relativa novità. Da cosa si riconosce che è un buon film?

Sicuramente non dalla fotografia.

Certe cerette 
Che è smagliante e impeccabile, ma appunto, è quello che potremmo dire per qualsiasi film italiano degli ultimi cinque anni. Soggetti fritti e rifritti, dialoghi inverosimili, musiche pretenziose e ingombranti, fantastica fotografia. Una maledizione. Persino il Ragazzo Inguardabile aveva delle inquadrature memorabili. Sprofonderemo saturi e patinatissimi. Suburra forse è un buon film perché all'ottima fotografia dopo un po' non fai più caso. C'è altra carne sul fuoco, e attenzione, non è tutta roba necessariamente nuova o di buona qualità. Ma funziona.

Forse è un buon film proprio per l'arroganza con cui arriva per ultimo nei luoghi tra più frequentati da cinema e tv, guarda tutti a grugno duro e fa capire che non pagherà nessun debito, anzi: tocca agli altri alzarsi e fargli spazio. Ci saranno feste danzanti e fogge cardinalizie - ma non ci sarà tempo per pensare alla Grande Bellezza. La folla circonderà Palazzo Chigi senza nessun riferimento al Divo o al Caimano. Se entri aspettandoti Gomorra - il film o la serie - dopo un po' ti accorgi che non ci stai pensando più. Anche Romanzo Criminale è in qualche modo lontano (continua su +eventi!)

Eppure Sollima è esattamente lui, continua ad appoggiarsi su quei tappeti sonori asfissianti - quelle basi elettroniche o postrock che negli episodi di Gomorra ti danno il minutaggio preciso, quando parte la chitarra o il tastierone è come se l'hostess ti avvertisse "allacciate le cinture, tra dieci minuti è tutto finito". Al cinema può contare su facce più conosciute, ma è un vantaggio discutibile, se a Favino e a Germano è chiesto di ridurre l'espressività a quelle tre o quattro smorfie - e ad Amendola di imbalsamarsi. Così che prevedibilmente le figure più memorabili restano i comprimari, gli assassini nati Greta Scarano e Alessandro Borghi, o Adamo Dionisi nei panni firmati di un cravattaro zingaro che vorrebbe accreditarsi come boss ma non riesce a far silenzio nemmeno in quel soggiorno che è la migliore invenzione del film, e lo racchiude: Roma come un open space in cui i bambini giocano a palla coi cani mentre i mafiosi torturano i sequestrati, a un divano di distanza.
Sollima si può persino permettere - come già in Gomorra - il lusso dell'anticlimax nelle scene d'azione, inquadrate con un realismo che castra ogni tentazione epica. Nella città di Suburra ci si ammazza solo alle spalle, e non c'è un gangster che non faccia almeno un numero da fesso. Il più furbo di tutti gira senza scorta, provando a dare un senso a tutto il caos. Ma le variabili sono troppe e sono tutte impazzite. Suburra non è quella riflessione sulla decadenza dei costumi che qualcuno cerca di vendervi - il suo pessimismo è quello dei noir d'ordinanza - ma non è nemmeno un semplice film di genere. Non sarà un capolavoro, ma quest'anno è uno dei migliori film che ho visto in sala - non solo tra gli italiani. Questa settimana è al Citiplex di Alba, al Cinelandia di Borgo San Dalmazzo, all'Impero di Bra, al Fiamma di Cuneo, all'Italia di Saluzzo e al Cinecittà di Savigliano.
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Dovevate lasciarlo su Marte (ovvero: e se The Martian fosse il prequel di Interstellar?)

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Qualche anno più tardi, quando sulla Terra le piante cominciarono a morire devastate dalla Piaga, e la NASA scoprì un wormhole al largo di Saturno, l'ex Marziano fu tra i fautori delle missioni Lazarus: l'umanità avrebbe potuto trovare una patria in una nuova galassia. Il Dottore fu tra i primi a partire in esplorazione...

Interstellar
Avevamo lasciato Matt Damon in un casco d'astronauta, mentre rischiava di estinguere l'umanità per tornare a casa. Lo ritroviamo in un casco non molto diverso, mentre le prova tutte per salvarsi. Cosa fai quando per errore ti lasciano solo su Marte? Ti lasci morire di sete o esplodi mentre provi a produrre acqua dalla combustione dell'idrogeno? Muori di fame o concimi un orto di patate con la tua stessa merda? Ti rassegni al freddo dell'universo o ti adegui a scaldarti con le scorie radioattive? Fai testamento o implori via radio che spendano l'equivalente di diversi prodotti interni lordi nazionali per venirti a riprendere?

Mark Watney sembra non avere dubbi. Lui ha il diritto di vivere, Marte non collabora ma dovrà adeguarsi. Nel suo diario di nove mesi non c'è spazio per la disperazione, né per la manifestazione di un minimo dubbio esistenziale: ma valgo davvero la pena? Cos'è alla fine la mia vita, perché i colleghi ne rischino molte di più per salvarmi? Perché la NASA sconvolga il suo programma spaziale, e la Cina rinunci ai suoi segreti scientifico-militari? Sul serio sono così importante? Così insostituibile?

(continua su +eventi, sì! la rubrica cinematografica più ignorante della provincia di Cuneo è tornata!)

Se solo Interstellar fosse arrivato dopo The Martian – se il progetto avesse languito per qualche mese in più sulla scrivania di Spielberg prima di finire nelle mani di Nolan – forse oggi avremmo un elemento in più per amarlo: potremmo immaginarcelo come un sequel del film marziano di Ridley Scott, in cui Mark Watney si ritrova di nuovo solo, stavolta in una galassia perduta – e stavolta sbrocca davvero. La stessa ostinazione a vivere che lo ha portato a scaldarsi con gli isotopi del plutonio e mescolare la merda dei compagni, e a farsi saltare in aria su un razzo decappottato – non è la stessa forza cieca che nell’altro film lo spingerà a truffare i compagni, e l’umanità, per un banale istinto di sopravvivenza? Dopodiché, d’accordo, The Martian è un film più compatto e sicuro del film di Nolan – nonché scientificamente inappuntabile – però dopo due ore di umani che collaborano, che non si fanno mai prendere dalla disperazione, che prendono continuamente decisioni all’unanimità, e sono sempre le decisioni giuste – dopo due ore del genere, vien voglia davvero di rivalutare gli astronauti di Nolan che invece fanno errori su errori per rimediare ad altri errori: astronauti che litigano, che non vanno d’accordo, che nelle proprie equazioni non riescono a eliminare pulsioni come l’amore o il senso di colpa. Astronauti più simili a quelli quasi veri di The Right Stuff di Kaufman: superuomini non immuni da sentimenti come l’invidia o il panico.

Certo, se un giorno andremo davvero su Marte, ci farà molto comodo poter contare su uomini come Mark Watney: dei Fonzie interplanetari che trovano sempre una via di uscita e non se la prendono mai. Ma dovremo essere anche pronti a sacrificarli – ed e qui che The Martian svela la sua debolezza: è la ricostruzione molto realistica di uno scenario inverosimile. Un astronauta perso, è perso. Nello spazio ogni risorsa è incredibilmente preziosa, e la tua lotta per la sopravvivenza, per quanto eroica, non può costare milioni di dollari ai contribuenti. Al cinema, beh, al cinema è diverso.

The Martian (in italiano Sopravvissuto) è al Cityplex di Alba (20:45), al Cinelandia di Borgo San Dalmazzo (in 2D alle 20:30 e alle 22:35; in 3D alle 21); ai Portici di Fossano (in 2D alle 18:30 e alle 21:15); al Cinecittà di Savigliano (in 2D alle 21:30); all’Impero di Bra (in 3D alle 22).

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Io robot, tu fatti da parte

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Ex machina (2015, Alex Garland)

A volte i robot hanno gli incubi. Sognano di non essere più robot, ma esseri umani con un cuore e i vasi sanguigni. Si svegliano e cominciano a smontarsi, strato dopo strato, finché sotto la pelle sintetica non emerge il verde confortante della scheda madre. 


Idee semplici e perfette.
Il fatto è che malgrado ne fosse prevista l'estinzione già da tempo, nessuno può essere sicuro che qualche umano non sia ancora in mezzo a noi. Un sistema per capire se il tuo interlocutore è umano è sottoporlo al cosiddetto test anti-Turing: se le sue risposte non sono prevedibili secondo nessun algoritmo noto, chi ti sta parlando è un umano. Oppure lo sta diventando. Ma forse è più semplice forarlo e verificare se sanguina. 

Negli anni Duemila la fantascienza al cinema era un genere innocuo e fracassone, ancora ingombro dei blockbuster catastrofici di Michael Bay e Roland Emmerich. Poi qualcosa è cambiato. Credo che sia tutto cominciato con Moon, il piccolo film di Duncan Jones del 2009 che affrontava il genere con un approccio minimale: una sola location, un solo attore, effetti speciali semplici e poco invasivi, un paio di idee veramente buone. Moon è piaciuto a tutti, è stato immediatamente scopiazzato da qualche grossa produzione di Hollywood, ma soprattutto è stato per la fantascienza quello che Paranormal Activity è stato per l'horror: ha mostrato a tutti che se l'idea è buona, il budget può anche essere piccolo. E se il budget è piccolo, non c'è più bisogno di piazzare combattimenti ed esplosioni per in grande pubblico quindicenne. Si possono fare film un po' più adulti, film che ragionano, film che ti turbano e ti lasciano un po' perplesso anche a mesi e anni di distanza.

NON HO IDEA DI COSA STO FACENDO.
Gli ultimi anni sono stati una vera primavera del cinema di fantascienza: non solo per le grandi produzioni hollywoodiane (Oblivion, Edge of Tomorrow, Interstellar), che in certi casi hanno ripreso l'approccio minimale (Gravity, Mad Max), anche se non sempre sono state all'altezza delle premesse. Film altrettanto interessanti sono arrivati dalle periferie del cinema mondiale: alcuni, come il teuto-australiano Cloud Atlas, e l'israeliano The Congress, sono pastrocchi incredibili e per niente minimali - ma hanno comunque qualcosa di straordinario che lascia il segno nello spettatore. Anche dalla Spagna ci è arrivato un bel film di robot in fuga (Automata). Dall'Australia i fratelli Spierig hanno saputo rileggere in modo geniale un racconto classico di Heinlein (Predestination). Nessuno di questi film è un capolavoro, ma sono tutti interessanti, e in molti casi imperdibili (continua su +eventi!)

Ah, io farei la stessa cosa.
Uno degli aspetti che caratterizzano queste produzioni è la creatività con cui si superano i limiti di budget. Ex Machina, l'esordio alla regia del britannico Alex Garland (autore di The Beach, sceneggiatore di 28 giorni dopo e Sunshine), meriterebbe una menzione nella storia del cinema anche solo per l'idea semplice e geniale con cui ha risolto uno dei problemi più difficili - mettere in scena un umanoide credibile. Le forme della dolce e gelida Alicia Vikander sono state parzialmente cancellate via rotoscope, ottenendo un automa familiare e inquietante al tempo stesso, semplicemente perfetto. Lo vedete sulle locandine e vale già il biglietto.

Poi c'è la storia. Anche stavolta, quattro attori e una location, e un'idea semplice ma di sicura presa: il test di Turing. Benché abbia esordito come scrittore, Garland si è impadronito del mezzo cinematografico al punto che per portarci nel suo mondo non ha bisogno di una di quelle fastidiose "spieghe", i monologhi iniziali che affliggono quasi sempre i film di fantascienza. Non è che tutto funzioni sempre: l'eleganza della confezione nasconde diversi difetti di trama e di logica. Ma con tutte le sue magagne, Ex Machina ti lascia addosso un segno potente. Oscar Isaac è Nathan, l'imperatore di internet, una figura che fonde Jobs, Zuckerberg e i creatori di Google. Nel suo castello ai confini del mondo sta lavorando all'intelligenza artificiale, il gradino successivo dell'evoluzione, con la stessa incoscienza infantile con cui Pollock rovescia colori sulla tela. Non gli dispiacerebbe essere Dio, ma sa anche di non avere scelta: i robot prima o poi si evolveranno, non è più una questione di "se", ma di "quando". Domhall Gleeson, un anno dopo Frank, veste di nuovo i panni del nerd che pensa di essere più furbo di quanto non sia e combina grossi guai. Ex Machina arriva nelle sale italiane proprio nella settimana in cui gli scienziati lanciano un allarme contro lo sviluppo di intelligenze artificiali in campo bellico, ed è la più bella sorpresa di questa estate rovente. Lo trovate al Cinelandia di Borgo San Dalmazzo (20:10, 22:40) e al Multilanghe di Dogliani (21:30).
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La spia che pesava

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Solo per i tuoi occhi
Spy (Paul Feig, 2015)

Le spie vere, ci avete mai pensato? Chissà come sono fatte. Di sicuro non assomigliano a James Bond. Più facilmente a un'impiegata delle poste. E però devono avere competenze e riflessi eccezionali. Immaginati un'impiegata sovrappeso che all'improvviso salta il desk con un balzo e atterra tre clienti con una mossa di arti marziali. Ecco, quello sarebbe un film interessante, invece del solito 007. Che idea. Però l'ha già avuta Paul Feig. E ovviamente ha chiamato Melissa McCarthy.

L'attrice in Italia è conosciuta soprattutto come la migliore amica di Una mamma per amica. Due anni fa aveva già prestato le sue forme importanti alla commedia d'azione in un altro titolo di Feig, The Heat, (Corpi da reato). Là faceva la poliziotta cattiva, in coppia con Sandra Bullock. Qui si cala in un ruolo di spia, con risultati esilaranti. Spy però non è il film in cui ci si prende gioco della grassona - in fondo la McCarthy ha le dimensioni dello spettatore medio americano, quello che nei film non vediamo quasi mai ma che incontriamo appena attraversiamo il fiume Hudson. Il film è concepito come una rivincita della donna qualunque - la segretaria impacciata ma competente, che all'inizio della storia sbava per l'agente Jude Law, si dimostrerà nel corso della pellicola una vera macchina per uccidere. C'è almeno un paio di sequenze (un inseguimento e un combattimento) che funzionerebbe anche in un action serio, dove la stazza della protagonista scivola in secondo piano. Susan-Melissa cresce per tutto il film, non in peso ma in consapevolezza delle proprie capacità. Gli uomini che all'inizio le impedivano di esprimersi si riveleranno generalmente fatui e inaffidabili: quanto agli antagonisti seri, sono tutti donne come lei; una donna è anche il suo capo (Allison Janney) e il suo braccio destro (Miranda Hart) (Continua su +eventi!)

Product placement esilaranti

Malgrado la locandina italiana schiacci la McCarthy tra i due comprimari di lusso, tradendo un certo nervosismo dei distributori, il film è davvero posato sulle sue spalle capaci. Jude Law fa solo un cameo, il tempo per ribadire che ci siamo persi un Bond possibile; Statham compare qua e là per tutta la pellicola in un ruolo esplicitamente autoparodico, che tutti hanno trovato divertente e io boh: forse non ho visto abbastanza film di Statham, o forse è il doppiaggio; la sensazione è che il film potrebbe farcela benissimo senza di lui. Non mi stupirei se le sue sequenze fossero state aggiunte in un secondo momento per aggiungere un nome grosso al cartellone. Ne sarà valsa la pena, visti i risultati al botteghino. Il film sta andando bene anche in Italia, benché scivolato tra i saldi di fine stagione. (Come in ogni film di spionaggio che si rispetti, la trama si snoda in location da cartolina, tra cui Roma. Si capisce che è Roma perché all'uscita dall'aeroporto c'è gente che passa in Ferrari ai duecento fischiando a ogni obiettivo femminile. Per fortuna si passa quasi subito al lago Balaton).

Il successo di Spy è una buona notizia non solo per gli inevitabili sequel, ma per il prossimo progetto di Feig, quel famoso Ghostbusters con il cast tutto femminile che sta facendo impensierire gli appassionati. E invece sapete? Io che di Ghostbusters non ho mai voluto vedere il sequel, adesso che so che dirige la Feig e ci sono la McCarthy e la Hart, comincio a pensare che sarà un film interessante.

Da vedere a. Spy è al Cinelandia di Borgo San Dalmazzo alle 17:30, 20:10, 22:40; al Multilanghe di Dogliani alle 21:30.
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Giovani non ci si improvvisa

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Passa ai ruoli drammatici, dicevano.
Si suda di meno, dicevano.
Giovani si diventa (While We're Young, Noah Baumbach, 2014)

Hai presente quel dolorino al ginocchio che non riesci nemmeno a ricordare quando è cominciato - quel dolore trascurabile che se ne sarebbe andato presto, e invece a un certo punto non sei più riuscito a salire in bicicletta, e il medico ti ha prescritto una medicina per l'artrite? L'artrite? C'è in giro una nuova generazione di artrite che colpisce i giovani? Ok, tu non sei tecnicamente più un giovane, ma l'artrite, suvvia, tuo padre soffriva di artrite. A quarant'anni... Perché, tu invece quanti anni hai?

Hai presente quel dolorino? Non se ne andrà mai più.

Giovani si diventa non è Duri si diventa, anche se sono usciti la stessa settimana. In Duri si diventa c'è Will Ferrell che deve imparare a fare il duro perché sa che andrà in prigione. Dirige Etan Cohen che non è Ethan Coen, occhio all'H. In Giovani si diventa c'è Ben Stiller che deve imparare a sembrare giovane perché improvvisamente non lo è più - cose che succedono soltanto nei film, per fortuna. Un attimo prima era un documentarista ribelle di belle speranze, un attimo dopo è un vecchio frustrato col cappello sullo sfondo di feste a cui non lo invitano.

Naomi che balla l'hip-hop però vale tutti i $ che è costata.
Dirige Noah Baumbach e la sensazione è che qualcuno, dopo avergli fatto i complimenti per Frances Ha, gli abbia detto: peccato che manchi la trama. "Il prima e il dopo. Questi vogliono gli americani. Un prima e un dopo". Lo stesso refrain sentirete due volte nel film, all'inizio e verso la fine. Forse Baumbach se l'è presa, al punto di decidere di autosabotarsi: dite davvero che gli americani vogliono più storytelling? E io ve ne darò più che posso: invece di limitarmi a ritrarre un personaggio umanissimo che scopre di invecchiare, gli darò un antagonista, un giovane con tutti i vezzi della fauna di Williamsburg, tranne la barba. Un compagnone supersimpatico, ma chissà se sotto sotto non è il più opportunista di tutti, eh, chissà. Vi darò l'indagine, i tradimenti, i colpi di scena, perfino gli inseguimenti (ma coi pattini. Il destino del Ben Stiller maturo è andare a rotelle). Il lieto fine, vi darò pure quello, con tanto di nota agrodolce. E con tutto questo, riuscirò a incassare meno che con Frances Ha, che era un prodotto artigianale e ha portato a casa 5 milioni di $ netti. While We're Young partiva con un budget di dieci milioni (che oltre a Ben Stiller a rotelle includono Amanda Seyfried e Naomi Watts che balla l'hip hop) e fin qui è riuscito appena a recuperarli. Volevate un prima e un dopo? Toh. Adesso mi farete fare i film come piacciono a me? (Continua su +eventi!)
Baumbach è uno dei registi più interessanti della nuova mia generazione. Il fatto che nemmeno lui riesca a darne un ritratto corrosivo senza cadere nel macchiettismo sfoggiato da Sam Mendes in Away We Go un po' preoccupa. In molte sequenze di While We're Young lo troviamo a sparare ai pesci nel barile: le ossessioni naturiste delle neo-mamme e dei neo-papà che vanno in aspettativa, quelle analogiche degli hipster viziati con una parete intera di 33giri, l'angoscia dei quarantenni che non riescono più a trattenersi dal consultare lo smartphone al ristorante. È un film che poteva graffiare e si limita a mostrare le unghiette. Alcuni riferimenti alla filmografia di Woody Allen, più che voluti inevitabili, non fanno che darci la misura del baratro - e dire che se c'è un regista che avrebbe qualche chance di colmarlo nei prossimi anni, è proprio Baumbach. C'è da sperare che il ritratto del regista terrorizzato dall'ansia di fallire al punto da minare la propria carriera sia il meno autobiografico possibile. Giovani si diventa è al Cinelandia di Borgo San Dalmazzo alle 20:20 e alle 22:35.
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Nel tempo si viaggia da soli

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Predestination (Michael e Peter Spierig, 2014)

Bisogna trovare quello che è tornato indietro nel tempo
per impedire che quei cappelli andassero di moda e
fermarlo (lei è bravissima comunque).
Per noi che ci muoviamo liberamente in tre dimensioni - mentre la quarta ci sposta inesorabilmente in una sola direzione - un cerchio è semplicemente l'insieme di punti equidistanti dal suo centro, senza inizio né fine. Immagina ora che esistano creature bidimensionali, in grado di pensare e guardarsi attorno, ma che percepiscano la Larghezza come noi percepiamo il Tempo: qualcosa che si può percorrere soltanto in una direzione. Intorno a loro vedrebbero soltanto filamenti che si avvicinano e allontanano. Non sarebbero in grado di immaginare un cerchio, o forse sì, ma nel suo tornare al punto di partenza vedrebbero qualcosa di mostruoso, di contronatura. La stessa cosa proviamo noi di fronte a un fenomeno che sembra causa o conseguenza di sé stesso - lo rifiutiamo. Siamo abituati a vedere gli eventi allontanarsi e avvicinarsi a noi, e abbiamo imparato a descriverli in termini di causa ed effetto, di prima e di dopo. Qualcuno a volte riesce ad astrarsi abbastanza da immaginare che esista un'ulteriore dimensione, dalla quale anche il Tempo si possa osservare da più punti di vista. Da lì forse scopriremmo che anche le catene filiformi di eventi in cui siamo avvolti, in realtà sono loop circolari: che causa ed effetto non sono che archi degli stessi cerchi; che tutto accade perché tutto accade, nello stesso spazio-momento. È quello che alcuni chiamano predestinazione.

Predestination è un film australiano tratto da un racconto di Robert Heinlein che fareste bene a non aver letto, o ad aver dimenticato. Un agente segreto (Ethan Hawke) viaggia nel tempo per sventare gli attentati di un terrorista che viaggia pure lui nel tempo e che riesce sempre a prevenirlo, e a questo punto o vi siete già distratti, o siete appassionati di paradossi temporali e avete già formulato il sospetto più ovvio.

Questo è il principale problema di Predestination e in generale di tutto il cinema di fantascienza, che pure in questi anni ci sta regalando soddisfazioni non piccole: il fatto di rivolgersi a un pubblico già selezionato ed esigente, che conosce i trucchi meglio di chi li mette in scena - non è come l'horror; in sala non sono tutti adolescenti a bocca aperta incapaci di rendersi conto che Bruce Willis è un fantasma anche se nessuno gli rivolge mai la parola. Anche se non conosci il racconto originale, persino se ignori Heinlein e la sua ossessione per i loop temporali, se ti piace la fantascienza hai l'occhio allenato per queste cose - e dopo dieci minuti di girato hai già capito quello che i gemelli Spierig vorrebbero rivelarti al novantesimo. (Continua su +eventi!)

Il film resta ugualmente godibile, un bell’episodio lungo di Ai Confini della Realtà. Gli Spierig non sono i Wachowski ma hanno mutuato qualcosa della loro follia, nel bene e nel male – una fascinazione per l’androgino e la metamorfosi del corpo che è ancora merce rara, ma che purtroppo anche qui come in Cloud Atlas non riesce a tradursi in forme cinematograficamente plausibili: anche se in questo film non ci sono trucchi altrettanto imbarazzanti, la pur brava Sarah Snook semplicemente non è abbastanza credibile nei panni maschili che si trova addosso per metà film. In compenso la macchina del tempo è la più minimal mai vista al cinema, e forse anche la più elegante e suggestiva. Il film si mantiene per una buona metà estremamente aderente al racconto di Heinlein, senza nemmeno correggerne il sessismo molto anni Cinquanta, a costo di disorientare lo spettatore meno esperto che si ritrova in un passato alternativo con cadetti spaziali che quando fu descritto era semplicemente un futuro prossimo. Poi, cercando di confondere le acque, i gemelli scelgono di raddoppiare l’intreccio già arzigogolato, aggiungendo riferimenti al terrorismo che invece di attualizzare la storia la sospendono ancora di più nello spazio e nel tempo: non è che torni tutto, e se vi ha innervosito la logica circolare di Interstellar forse è meglio che vi teniate alla larga. Se invece qualche volta vi viene di pensare a come dev’essere il Tempo visto da una quinta dimensione, Predestination è il film fatto per voi. O forse eravate voi fatti per lui. Probabilmente vi verrà voglia di vederlo e rivederlo, anche al contrario.

(Quando sono entrato in sala ero solo. Se c’è un film da guardare da soli, è questo. Dopo un po’ è entrato qualcun altro, qualcuno che ho evitato rigorosamente di osservare. Non so se era un uomo o una donna, ma ho avuto la sensazione che mi somigliasse).

Predestination è al Cinelandia di Borgo San Dalmazzo alle 20:30 e alle 22:45, e poi chissà dove andrà a finire.
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La morte ti cerca su Skype

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Unfriended (Levan Gabriadze, 2014)

O ma t ricordi Laura???
Quella stronza ke poi a un certo punto qualcuno ha messo su youtube il video in cui fattissima si era cagata addosso?? 
E che lei dopo dalla vergogna si è sparata (ke COGLIONA)? 
Ti ricordi quanto abbiamo pianto al funerale, e quando ci intervistavano dicevamo che era nostra amica e mai avremmo potuto immaginare e insomma eravamo sconvolti? 
Ma il video invece ti ricordi ki lo aveva fatto? 
Eri stata tu? 
Ero stato io? 
No io forse lo avevo solo postato. 
Boh. 

Unfriended è un piccolo film con un'idea fortissima - trasferire sul grande schermo il desktop di un computer portatile, e raccontare tutta la vicenda da una finestra all'altra, in apparente presa diretta. I personaggi dialogano su skype, la colonna sonora è una playlist su itunes, gli indizi si cercano su google, il passato galleggia su youtube e facebook - lo spettatore condivide il punto di vista della protagonista e a un certo punto la frustrazione di non riuscire a controllare il cursore col mouse (visto su un portatile dev'essere tremendo, anche al cinema viene costantemente la tentazione di aprire la posta o twitter o qualche altra minchiata).

Il tema ovviamente è il bullismo 2.0 - Gabriadze, regista di origine georgiana, sembra abbastanza persuaso che l'inferno siano gli altri, cioè internet. Classe '69, in un'intervista ha candidamente affermato che il nonnismo subito ai tempi del servizio militare nell'Armata Rossa non è nulla rispetto a quello che può capitare oggi ai ragazzini sui social network. Unfriended descrive questo mondo col candido cinismo che si può permettere un regista horror: i cinque personaggi, tutti variamente antipatici, saranno messi l'uno contro l'altro dal fantasma della loro vittima. Sì, il modo di raccontarla è finalmente un po' diverso, ma la storia è la più banale del mondo (continua su +eventi!) Gabriadze, che comunque ha avuto un colpo di genio, ha anche il pregio di non tirarsela affettare ambizioni autoriali: Unfriended non finge nemmeno per un istante di essere qualcosa di più profondo del solito film per 16enni sul divano che limonano o almeno ci provano (l'apparentemente inutile conversazione iniziale, in cui la protagonista promette al suo ganzo un rapporto finalmente completo per il Ballo di Fine Anno, è il momento in cui il film sembra davvero specchiarsi nel suo pubblico di riferimento).

Chi 16enne non è può lamentarsi dello spreco: le idee originali sono così rare oggigiorno. D'altro canto Gabriadze con un misero milione di dollari di budget ne ha già portati a casa 45: che gli vuoi dire? Magari i sequel avranno un approccio meno scontato. Il film è l'ennesimo colpaccio di Jason Blum, produttore specializzato nei film a bassissimo costo e altissimo rendimento: non sono mai capolavori (tranne il caso un po' particolare di Whiplash), ma sono sempre idee originali. Merce sempre più preziosa, anche a Hollywood.

Unfriended è al Cinelandia di Borgo San Dalmazzo (20:40, 22:40); all'Italia di Saluzzo (20:00, 22:15); al Cinecittà di Savigliano (22:30).
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Mai abbastanza denti

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Jurassic World (Colin Trevorrow, 2015)

In principio furono due fauci: così si chiamava in originale lo Squalo di Spielberg, Jaws. Spuntarono fuori da una spiaggia di Long Island 40 anni fa e cambiarono per sempre la storia del cinema USA. L'estate era un brutto periodo per le sale, anche laggiù - ma i tempi stavano cambiando, ormai in tutte le città aprivano mall climatizzati. Ai ragazzi che non potevano permettersi di passare i pomeriggi in spiaggia, Spielberg avrebbe offerto il brivido di una consolazione fredda e dolciastra (e tolto ogni voglia di tuffarsi per mesi o anni). Jaws fu distribuito il 20 giugno in più di quattrocento sale: a quei tempi era la strategia che si usava per minimizzare i danni delle cattive recensioni, e non è escluso che anche l'Universal avesse molti dubbi sul prodotto - lo squalo finto era così poco credibile che il giovane regista aveva deciso di esibirlo il meno possibile, compensando con la suspense la povertà degli effetti speciali. Fu un successo micidiale, che nel giro di qualche mese si mangiò al botteghino tutti i record precedenti - L'esorcistaIl padrino, la Stangata, finirono tutti nelle fauci del predatore. Era nata una razza di film (i blockbuster estivi, e i blockbuster in generale), che nel giro di qualche anno si sarebbero mangiati la Nuova Hollywood. Mostri dal budget pesantissimo, eppure in grado di adattarsi a qualsiasi ambiente: avrebbero espugnato ogni botteghino al mondo, e covato uova di mostri ancora più grossi, perché gli spettatori comunque dopo un po' si annoiano. Vogliono più sangue. Più denti. E qualcuno prima o poi glieli dà.

Quarant'anni dopo, lo squalo che terrorizzava le spiagge di Amity Island non è che un bocconcino per il nuovo Mosasauro. Jurassic World è quel classico film ipocrita che solletica il pubblico e un attimo dopo gli fa la morale: è colpa vostra se siamo costretti a darvi mostri sempre più grossi, facendo strame delle più recenti teorie paleontologiche (Niente piumaggi, anche se nel Giurassico vero c'erano: ma non c'erano nel Jurassic Park di Spielberg e Crichton, e quindi niente da fare). O pubblico viziato, che cerchi il conforto dei vecchi brand ma ti aspetti anche novità a tutti i costi, perché non resti bambino per sempre? Perché non ti accontenti di due diorama e una cavalcata su un baby stegosauro? Sei irrequieto come il complesso militare-industriale. Tu vuoi più denti perché ti annoi, loro vorrebbero qualcosa di più performante di un drone. E se ancora non lo vogliono, domani lo vorranno, e prima o poi qualcuno glielo darà. Forse lo spunto più interessante del nuovo congegno dentato di Casa Spielberg è la naturalezza con cui mostra un parco di divertimenti svelarsi in un esperimento militare. La gente vuole sempre più Sicurezza, ma anche più Divertimento - è chiaro che ogni tanto qualcosa va storto. 

Riguardo ai personaggi, sarebbe ingiusto aspettarsi più tridimensionalità di quella consentita dagli occhialini - più o meno come pretendere profondità dalle ganasce del vecchio Squalo. C'è da registrare il passaggio del caro vecchio T. Rex dalla parte dei buoni (continua su +eventi!) proprio come accadeva a Godzilla a un certo punto della sua saga, non più il nuovo mostro da combattere, ma quello vecchio che ci difende dai nuovi mostri inaffidabili. Perché la gente è insaziabile ma è anche sentimentale, dopo averti visto per due o tre film non le importa quanti esseri umani hai schiacciato o divorato: si affeziona. Meno interessanti gli esseri umani, ridotti a figurine un po' più stilizzate del solito: più che esprimere un carattere, lo evocano, sono citazioni ambulanti. C'è un Bambino Saputello e Boccoloso che sintetizza in pochi tratti tutta la poetica della Amblin (se non ne è la caricatura); un Fratello Maggiore In Preda Agli Ormoni che quando non guarda le ragazze si ficca nei guai; l'Algida Donna in Carriera che ha capito che il pubblico vuole cose più grosse, il Magnate Visionario che le commissiona allo Scienziato Irresponsabile che non si pone troppi problemi, il Sergente Ottuso che spera di farci la guerra. Tutte sfaccettature dell'uomo bianco contemporaneo e pasticcione, tutti a turno fanno qualcosa di tragicamente stupido. Chi ci salverà dalla fatale spirale Marketing-Scienza-Guerra? Il Cowboy, l'unica figurina positiva di tutto il film. L'uomo che sa domare i velociraptor, ma non vuole plagiarli. Chris Pratt fa quel che può per entrare nei suoi panni, ma è un po' troppo giovane e palestrato per assumere con naturalezza quell'autorità morale che avremmo conferito a un John Wayne - insomma alla fine risulta meno credibile del tirannosauro.

Altri hanno già sottolineato la curiosa misoginia del film, che sembra suggerire che una donna in carriera senza figli sia contronatura più o meno quanto un animale geneticamente modificato; resta da annotare un ultimo dettaglio, abbastanza imbarazzante: per quanto sia un film derivativo, ipocrita, maschilista e prevedibile, Jurassic World è anche maledettamente divertente. Non c'è niente da fare, i denti funzionano sempre. Lo trovate al Citiplex di Alba alle 21:00 (2d); al Cinelandia di Borgo San Dalmazzo alle 20:10, 21:30, 22:45 (2d), alle 20 e alle 22:35 (3d); al Vittoria di Bra alle 21 (3d); al Fiamma di Cuneo alle 21 (2d); al Multilanghe di Dogliani alle 21 (2d); ai Portici di Fossano alle 21: 15 (2d); all'Italia di Saluzzo alle 20 e alle 22:15 (2d); al Cinecittà di Savigliano alle 21:30 (2d)
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Come invidiare Sorrentino

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Youth - La giovinezza (Paolo Sorrentino, 2015)

Non so quanti siano, e quanta barba sfoggino. Me li immagino seduti in poltrona, o distesi su un tappeto. Stanno scrivendo il nuovo film del grande regista italiano. Da qualche parte comunque c'è un piattino con qualche ammenicolo - un paio di dadi, un mazzo di tarocchi, il libro di I Ching, e soprattutto una manciata di baci perugina. Quando la storia non va avanti, e la battuta non si trova, e i tarocchi dicono picche, e i dadi sempre due, il più giovane scarta un cioccolatino.
Bravissimi, per carità, ma Boldi e De Sica
avrebbero aggiunto quel quid.
"Checcescritto?"
"Torno sempre alla casa del padre".
"Sì, ma sotto?"
"Novalis".
"Suona bene".
"Scrivo?"
"Aspe', scartane un altro per sicurezza".
"Nessuno si sente all'altezza".
"Questo è vero".

Ma chi l'ha poi detto che uno debba lasciare a casa i propri pregiudizi. I pregiudizi sono divertenti. I pregiudizi ci aiutano a vivere meglio. Forse il miglior modo di guardare Youth è bersi nell'anticamera una coppa amara di pregiudizio - bene, ecco la giovane promessa del cinema italiano, che per due o tre anni sembrava avere inventato un nuovo modo di raccontare le storie, e poi all'improvviso un giorno si sveglia Venerato Maestro e comincia a scaracchiare fellinate imbarazzanti su sfondi pittoreschi per la gioia dei turisti. E sbanca i botteghini. E porta a casa Oscar e Goldenglobe. E quindi, insomma, adesso chi lo fermerà più? Quanti altri vecchietti saggi e perplessi ci somministrerà, quante piscine e giraffe e fenicotteri? Ecco, se uno si siede in poltroncina con queste premesse, alla fine rischia di rivalutarlo, Youth. Cioè alla fine non è così male, dai. C'è pure una scena action con le esplosioni. Adesso però non so andare avanti, cosa dice l'I Ching?

"Tutta invidia".

Sì.


Ma guarda che invidiare è il mio mestiere. Dal latino in-video, "guardo contro", ma quell'"in" all'inizio voleva dire "dentro". Nessuno sa guardarti dentro come un invidioso, perché nessuno ha così tanta voglia di guardarti. Sì, Sorrentino, siamo tutti invidiosi.
Io perlomeno non riesco più a passarti nulla ormai. Non c'è nulla che si dicano o facciano i tuoi personaggi che non mi suoni falsa. Il grande compositore che dirige le vacche al pascolo. Miss Mondo che si esibisce in una scena che sembra un calco di un Vanzina, ma non prima di aver impartito una lezione di vita, non prima di averci mostrato che è anche intelligente. Bambini saggi, massaggiatrici ambigue, Maradona obesi, lama volanti, avanspettacolo. E dire che io sono uno di bocca buona, mi piacciono i film di robot. Persino il Kitsch, una volta che hai accettato che è Kitsch, posso apprezzarlo in quanto tale. Metti il buon Baz Luhrmann. Lui non si vergogna di nulla, però sta anche molto attento a coprirsi. Ad esempio, è maniacalmente fedele ai classici. Come se ti dicesse, vedi? Non sono io a essere Kitsch, è Shakespeare. È Francis Scott Fitzgerald. È la vita, insomma, che ci parla attraverso i baci perugina. A me va bene anche il Kitsch, se lo sai fare, eppure a Sorrentino non glielo perdono. Lui non vuole semplicemente fare un film sul Sublime, lui pensa di poter andare dritto al punto (continua su +eventi!)
Ci prova davvero. Poteva usare la Montagna Incantata come canovaccio, magari un sottile gioco di rimandi rarefatti alla Wes Anderson - no, niente, per fare il sottile gioco di rimandi bisogna leggere il libro, roba da intellettuali. E noi non vogliamo essere intellettuali, gli intellettuali non hanno gusto, lo ha scritto Stravinskij su Wikiquote. Quindi si va in villeggiatura, si annotano i tic dei villeggianti, ed eccoci massimi esperti in Umanità. Cos'è la Vita? Cosa sono i Ricordi? E l'Amore sopravvive alla Morte? Sicuri? Non soccombe talvolta anche solo alla Lunga Degenza? Dopo i temi importanti, veniamo alle rubriche: Quanto è Importante essere Bravi a Letto? Non Crederai Mai a Quello Che È Capace di Fare Questo Lama Tibetano! Miss Mondo Senza Veli, gli Scatti Esclusivi! E il nuovo video di Pamela Faith.

No, Sorrentino non si accontenta di girare intorno al Sublime. Lui vuole essere Sublime. È convinto che sia alla sua portata, perché no? In fin dei conti basta riflettere un po' sulla Vita, sparare due massime più o meno originali, e metter su la canzone giusta. Qui in un qualche modo l'invidia si ribalta in ammirazione, perché quello che Sorrentino cerca di fare nel finale del film è una spacconata incredibile, senza precedenti almeno alla portata della mia memoria. Quando in letteratura ci si inventa un artista, di solito un grande artista, ci si premura sempre di lasciare le sue opere sullo sfondo, dando per scontato che siano grandi, che siano belle, ma siccome nessuno le ha scritte davvero non ce le possono mostrare. Mann mica poteva comporre le sinfonie del Doktor Faustus. Sorrentino, lui sì. Lui si inventa un compositore e poi commissiona a David Lang il suo capolavoro, che ci vuole? E poi ce la fa ascoltare. Il soprano è vero, l'orchestra è vera, in platea c'è una sosia della regina, dirige Michael Caine. E com'è questo capolavoro, che dovrebbe dare un senso a una carriera, a un matrimonio, a un film, com'è?

Mah.

Il riff somiglia un po' a Sweet Child Of Mine.

Sorrentino alla fine è davvero sublime, a modo suo, e io lo invidio. Non ho la competenza né il talento per sdraiarmi sui vostri tappeti, ed è un bene, perché sarei quello che vi boccerebbe tutto. Questa battuta è troppo banale. Questa sembra profonda, ma guardate che in realtà non vuol dire niente. Questa è una citazione inconsapevole. Questa è troppo consapevole. Questa scena è pacchiana. La scena non diventa commovente se mostri un personaggio che piange, è un trucco volgare. Nulla, non vi passerei nulla. Fosse per me il film non si farebbe; fosse per me, non si farebbe più nessun film. Perché io non sono all'altezza, voi non siete all'altezza, nessuno è all'altezza. E invece eccolo qua, Youth di Sorrentino. Com'è? Credevo peggio, dai.

Youth è al Citiplex di Alba (20:00, 22:15); al Cinelandia di Borgo San Dalmazzo (20:10, 22:40); all'Impero di Bra (20:15, 22:30); al Fiamma di Cuneo (21:10); ai Portici di Fossano (20:15, 22:30); all'Italia di Saluzzo (20:00, 22:15); al Cinecittà di Savigliano (21:30).
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Il drago italiano è + buono, + sano

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Mangia solo drago italiano.
Il racconto dei racconti (Matteo Garrone, 2015)

C'era una volta un regista, seduto su un sofà, che non sapeva più che storia raccontare. Le conosco tutte, ahimè! diceva. Se solo potessi tornare bambino e rivederle con l'occhio di chi è appena venuto al mondo. Io so che c'è ancora quel bambino dentro me, ma non so da che parte tagliare per farlo venir fuori. E piangeva, e strepitava, e prometteva la luna e le stelle al mago che avesse saputo levare quel bambino da lui, scorticandolo se necessario. Finché un giorno non si presentò un signore magro magro, lungo lungo, con un vecchio libro polveroso, e gli disse: sfoglia qui, da qualche parte c'è il rimedio che tu cerchi.

"Ma è napoletano, non si capisce niente".
"Fatti scrivere un riassunto"

Del Racconto dei racconti avevo visto due trailer. Uno prima di Mia madre: sembrava una cosa tra Dune e Alien. Il secondo l'ho visto prima degli Avengers: sembrava Fantaghirò. A quel punto la mia naturale ritrosia per i draghi era stata vinta dalla curiosità: sarebbe riuscito Garrone a camminare su un filo tra due sponde tanto distanti? E da quale parte avrebbe sbandato più spesso? La risposto l'ho avuta dopo un paio di minuti di film: quando al termine di una fuga tra stupendi corridoi, un attore meravigliosamente agghindato da re ha aperto bocca e ha detto una cosa del tipo: "Farei qualsiasi cosa per farti felice".

Farei qualsiasi cosa per farti felice.

Era na vota no cierto re de Longa Pergola, chiammato Iannone, lo quale, avenno gran desederio de avere figlie, faceva pregare sempre li dei che facessero 'ntorzare la panza a la mogliere; e, perché se movessero a darele sto contiento, era tanto caritativo de li pellegrine, che le dava pe fi' a le visole. Ma vedenno all'utemo che le cose ievano a luongo e non c'era termene de 'ncriare na sporchia, serraie la porta a martiello e tirava de valestra a chi 'nce accostava.

Però bisogna avere perso il cuore da qualche parte nella foresta, e aver riempito il buco con un riccio di castagna, per parlar male del Racconto dei racconti; e di un regista che invece di oziare a palazzo raccontando per altri dodici film storie di mala e di uomini contemporanei psicotici e infelici, bevendosi la stima di villici e cortigiani, monta a cavallo ed esce nel bosco. È sicuro che si perderà; che non sarà all'altezza dei mostri che evoca; che maghi e criticoni non saranno necessariamente dalla sua parte; ma perdio, è un giovane cavaliere coraggioso, come si fa a volergli male? Ed è un coraggio di cui tutti abbiamo bisogno; non è la sventatezza criminale di chi senza cultura fumettistica decide di punto in bianco di inventarsi un supereroe italiano, una cosa che se non è mai esistita un motivo ci sarà. È l'audacia di chi ha un tesoro da parte, e deve soltanto trovare il modo di metterlo a frutto. Chi ha mai deciso che il cinema italiano debba ridursi a commedie di quarantenni e drammi su sessantenni che imprevedibilmente invecchiano? Mentre i nostri ragazzi, in tv e al cinema, si consegnano senza fiatare ai mostri e alle fate venuti da lontano? Non abbiamo mostri noi, solo nonni e genitori in tinello?

Altroché se li abbiamo. Abbiamo gli orchi DOP e abbiamo le fate originali. Pure Cenerentola è cosa nostra, salvo che la nostra spezzava la noce del collo a una matrigna col coperchio d'una cassapanca, altro che topolini e cinguettii. Sepolto sotto tonnellate di melassa industriale c'è un mondo di mostri e magia e crudeltà che mozzano il fiato, una vena più barocca che gotica, ma è comunque sangue buono. Basta scavare, e non avere paura - non averne troppa. Le stelle sono favorevoli: in tv i draghi vanno forte anche presso il pubblico esigente; al cinema Hollywood propone fate e principesse a spron battente, problematizzate e modernizzate quanto basta per metter d'accordo le sorelle pre e postpuberi. Se a questa gente riuscissimo a confezionare un film di fiabe, attenzione, non un fantasy che non è roba nostra: un vero film di fiabe violente e senza consolazione, forse attireremmo l'attenzione di chi mangia pizze surgelate da una vita e non ha mai annusato l'origano su una focaccia appena levata da un forno a legna. Con l'industria non potremo mai rivaleggiare, ma se riusciamo a raccontare a tutto il mondo che siamo gli Artigiani originali, siamo l'Eccellenza, insomma la vecchia fiaba del Made in Italy, forse, forse (continua su +eventi...)

S’erano raccorete drinto a no giardino dove avea l’affacciata lo re de Rocca Forte doi vecchiarelle, ch’erano lo reassunto de le desgrazie, lo protacuollo de li scurce, lo libro maggiore de la bruttezza. Le quale avevano le zervole scigliate e ’ngrifate, la fronte ’ncrespata e vrognolosa, le ciglia storcigliate e restolose, le parpetole chiantute ed a pennericolo, l’uocchie guize e scalcagnate, la faccie gialloteca ed arrappata, la vocca squacquarata e storcellata e, ’nsomma, la varvea d’annecchia, lo pietto peluso, le spalle co la contrapanzetta, le braccia arronchiate, le gamme sciancate e scioffate e li piede a crocco…

E magari funzionerà. Io lo spero tanto che funzioni, perché l’idea era quella giusta al momento giusto: e il rischio di sbagliare altissimo, anzi neppure un rischio era, una certezza: Garrone e i suoi secondi si sono messi in strada sapendo che l’unica speranza era trovare per strada un tesoro, un mago, una strega che premiasse il loro buon cuore. Ma è gente che vuole qualcosa in cambio, chi bazzica le fiabe vere lo fa. Nessuna zucca ti si fa carrozza gratis; puoi avere un miracolo, ma devi sacrificare qualcosa. Era inevitabile che a farne le spese fosse il testo originale, Lo cunto de li cunti, che oltre a essere la prima raccolta di fiabe di valore letterario, è una straordinario, caotico dizionario di napoletano cortese e popolano. Garrone, in altri casi tanto rispettoso per le forme del vernacolo, forse timoroso che i dialoghi troppo coloriti distraessero l’attenzione dalla fotografia e dagli effetti speciali, non ha avuto pietà: ha fatto scorticare lo Cunto finché dalle spoglie sanguinanti del Tratteniemento de peccerille non è uscito The Tale of Tales: un montaggio di tre fiabe senza tempo e senza luogo, e soprattutto senza dialetto.

Vladimir Propp magari approverebbe: in fondo, a saperle sfogliare, tutte le fiabe sono uguali. Sì, ma all’omologazione, alla globalizzazione, alla riduzione della fiaba in hamburger buono per ogni palato, c’è arrivata già Hollywood: The Tale of Tales è un prodotto artigianale che nella comprensibile ansia di piacere a più bocche possibile, elimina una delle spezie più importanti, lasciando nello spettatore un certo senso di vuoto; è un libro illustrato meraviglioso e a tratti spaventevole, che ricorda davvero Alien o Dune, ma coi dialoghi di Fantaghirò. È un film che dimostra per contrasto – se ce ne fosse bisogno – l’astuzia messa in campo da Pasolini nella trilogia della vita: quando si tratta di fiabe e novelle, un attore dilettante a un passo dal mettersi a ridere può rendere più servizio di un attore professionista che si ingegni di dare peso e verosimiglianza a dialoghi assurdi. C’è un momento del film in cui un re cerca di convincere la figlia dell’ineluttabilità delle sue nozze con un orco. Una scena così grottesca non si può recitare come un qualsiasi diverbio tra padre e figlia; e non basta il panorama unico al mondo di Castel del Monte per creare lo straniamento necessario. Una lingua un po’ più fiorita, un po’ più distante dall’uso, avrebbe attenuato l’effetto Raifiction. Non era evidentemente la priorità di regista e produttori.

«Dove, dove te nascunne, gioiello, sfuorgio, isce bello de lo munno? Iesce, iesce sole, scagliente ’mparatore! Scuo­pre sse belle grazie, mostra sse locernelle de la poteca d’Ammore, caccia ssa catarozzola, banco accorzato de li contante de la bellezza! Non essere accossì scarzogna de la vista toia! Apre le porte a povero farcone! Famme la ’nferta si me la vuoi fare! Lassame vedere lo stromiento da dove esce ssa bella voce! Fà che vea la campana da la quale se forma lo ’ntinno! Famme pigliare na vista de ss’auciello! Non consentire che, pecora de Ponto, me pasca de nascienzo co negareme lo mirare e contemprare ssa bellezzetudene cosa!».

Il Racconto dei racconti finisce per confermare un terribile sospetto sui limiti del cinema italiano contemporaneo. Non sono gli effetti speciali – lì ci difendiamo ancora tutto sommato. Non è sicuramente la fotografia. L’unica vera zavorra del Racconto – e di tanti altri film italiani di ogni genere – è la scrittura. Proprio quella cosa che non richiede budget stratosferici; quello che dovrebbe fare la differenza tra un prodotto di massa globalizzato e un prodotto artigianale e di qualità. In teoria dovremmo essere più bravi a scrivere dialoghi che ad animare dei draghi. Se avviene il contrario – e nel Racconto avviene il contrario – secondo me siamo nei guai.

Il racconto dei racconti è al Cityplex di Alba (21:00); al Cinelandia di Borgo S. Dalmazzo (20:00, 22:45); all’Impero di Bra (22:30); al Fiamma di Cuneo (21:00)

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Max è ancora Max (più matto che mai)

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MAD MAX 4: THE MEGAN GALE REDEMPTION.
Mad Max: Fury Road (George Miller, 2015)

Alcuni lo davano per morto, che era la conclusione più logica visto il mondo là fuori. Per quanto altro tempo avrebbe potuto vagare di oasi in oasi, scappando da questo e da quello, col suo magnetismo animale per i guai? Qualcuno prima o poi se lo sarebbe pur mangiato - non prima di averne spremuto il prezioso sangue - per spolparne le ossa e distillarne idrocarburi. Non è il destino di tutti, in fondo?

Altri non si rassegnavano, e col tempo ci avevano imbastito una religione. Avrete notato che funziona quasi sempre così. C'è gente che continua a ricordare un passato, e sperare che prima o poi le cose si sistemeranno, qualche radiazione si dimezzerà, la pioggia non sarà più così acida e la terra ricomincerà a sputar semi buoni da mangiare. È l'idea del paradiso, che a ben vedere crea solo illusioni, civiltà e ogni altra sorta di problemi. Per alcuni è un luogo nel tempo, per altri nello spazio: un walhalla da qualche parte in cielo, o un'oasi al di là della salina. Se hai benzina per duecento giorni di viaggio arrivi ai cancelli dell'Eden: là hanno i prati verdi per giocare a golf e le televisioni con gli show, e state a sentire, per alcuni George Miller è salito su un aereo ad alta quota ed è fuggito laggiù e fa il regista di show con gli animali. Maialini parlanti. È una leggenda così stramba che rischia di essere vera, perché andiamo, chi sarebbe così pazzo da inventarsela? Maialini parlanti, e poi cosa? Pinguini ballerini? (Continua su +eventi!)

Io sono di quelli che non credono né a una versione né all'altra. Per me il pazzo George non è morto e non è in paradiso ad animare cartoni. Secondo me è semplicemente da qualche parte nell'outback radioattivo, che continua a girare in tondo e fuggire dai suoi incubi di medico della mutua australiano che disinfettava le piaghe dei motociclisti. Ogni tanto scappa da qualcuno che lo vuole mangiare, ogni tanto salva donne e bambini da un prepotente. In realtà ormai donne e bambini sono mutati abbastanza da difendersi da soli, e non c'è Fanciulla in Pericolo che all'occorrenza non sappia caricare un ak47 e usarlo, se le rompi le ovaie. Però il pazzo George continua in qualche modo a salvare e scappare: è il suo destino. Secondo i vecchi calendari dovrebbe avere più di 70 anni, ecco anche a questo io non credo: il tempo è fuori i cardini da un pezzo, e il vecchio George non conosce un tempo che non sia l'altro ieri. Il mondo può appassire più o meno rapidamente, ma lui è ancora in giro a scappare e sparare e sbandare e ingrugnire, e da questo lo riconoscete incontrandolo: dalla scia di sangue non digitale che si lascerà dietro. Oppure sarà davanti a voi, e in quel caso alzate le mani e sbarrate gli occhi, non è il caso di opporre resistenza. Lui non usa chroma-key, lui puzza di latte e benzina e sudore polvere da sparo e no. Era il migliore all'inizio dei tempi; e a differenza dei tempi, non è peggiorato. L'ultraviolenza distopica degli anni '70, l'immaginario post-bomba anni '80, l'ipercinesi della generazione millennial, per lui sono una sola cosa, un unico film, un solo inseguimento.

Se lo incontri e hai bisogno di lui, non offrirgli baci, sa di non meritarli. Il latte materno per lui non ha sapore; ancora più dell'acqua, quel che cerca benzina e munizioni, munizioni e benzina. Non ti aiuterà per amore o per giustizia, ma perché ha una gabbia davanti agli occhi e pensa che tu forse puoi staccargliela. In un mondo di pazzi innamorati della morte, lui non è meno pazzo degli altri; ma ha scelto di sopravvivere. Chi gli farà cambiare idea non è ancora nato.

Al Cinelandia di Borgo S. Dalmazzo (20:20, 22:40 in 2D, oppure, in un inutile 3D, alle 20 e alle 22:35). Sempre in 2D al Fiamma di Cuneo (21:10); al Multilanghe di Dogliani (21:30); ai Portici di Fossano (21:15); al Cinecittà di Savigliano (16:00, 18:10, 20:20, 22:30).
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Liam Neeson ha fatto cose orribili

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Run all night (Jaume Collet-Serra, 2015)


Liam Neeson ha fatto cose orribili in passato. Cose di cui si vergogna. Mission? Schindler's List? E perché mai. La minaccia fantasma? Le cronache di Narnia? Uno deve pur campare. Film di Luc Besson in cui ammazza sequestratori e terroristi che hanno mediamente un terzo dei suoi anni, una dozzina alla volta? Non c'è dubbio che sia una svolta curiosa, proprio alla boa dei sessant'anni. Ma per sua stessa ammissione, sono stati proprio questi ruoli action a distrarlo dall'alcolismo in cui si trascinava dopo la scomparsa della moglie. Liam Neeson ha fatto cose terribili, film scemi in cui massacra centinaia di stranieri cattivi per salvare ex mogli e figlie in pericolo. Ma li ha sempre fatti con un piglio tutto personale e un certo sprezzo del ridicolo, ottenendo risultati incredibili al botteghino (Taken magari non vi dice niente, ma ha fruttato più di 200 milioni di dollari) e fondando un vero e proprio genere: dopo di lui gli action polizieschi sono stati invasi da attori di prestigio sulla soglia della terza età o decisamente oltre, in gruppo (la saga di Red) o da soli (Kevin Costner, anche lui ripescato da Besson in qualche tonnara). Neeson però è stato il primo, e ogni volta che imbraccia una pistola più o si accende una sigaretta con un ghigno triste sembra trionfare a modo suo sull'ingiustizia che lo ha fatto crescere nell'età sbagliata: è vero, è stato il patriota Michael Collins e il sessuologo Kinsey, ma era nato per i western. C'è una scena in Run all night in cui entra in un saloon e li fa secchi tutti - ok, è un pub a Manhattan, un covo della mafia celtica - ma insomma lo spirito è quello.


La cosa è ormai tanto evidente che gli autori si possono permettere di strizzare l'occhio agli spettatori: all'inizio di questa storia Liam è Jimmy Scavafosse, un ubriacone che sonnecchia nello stesso saloon alla vigilia di Natale. Ha bisogno di soldi, e per ottocento dollari d'onore il figlio del boss lo costringe a indossare un costume rosso da Babbo. Liam ubriaco travestito da Santa Claus, circondato da bambini perplessi dal suo odore, è una metafora non troppo sottile, ma efficace... (continua su +eventi!) Anche perché di lì a poche ore suo figlio,  il suo unico figlio che lo disprezza, si ritroverà in grossi guai, e Jimmy si ricorderà di essere stato il più grande pistolero di Manhattan, ingaggiando una guerra all'ultimo sangue con tutta la mala irlandese. L'alba non troverà superstiti. Il tutto per salvare questo ragazzo che non fa che ripetergli quanto sia stato un pessimo padre - e in effetti nel corso della notte Jimmy Scavafosse dimostra di poter inseguire le macchine della polizia a sirene spiegate (in un divertentissimo inseguimento a parti rovesciate), uccidere poliziotti a sangue freddo, strozzare amici di famiglia nei bagni della metropolitana, friggere il volto di killer più professionisti di lui. Il tutto sempre con quell'aria sofferente che lo rende più plausibile dei soliti attori action. Neeson è il padre che tutti vorremmo essere/avere, un tizio che si fa vedere poco e magari ha Fatto Cose Terribili, ma all'occorrenza è pronto a sterminare chiunque ti dia fastidio.

Questi film Neeson li fa o con registi francesi della scuderia di Besson, o con lo spagnolo Jaumet Collet-Serra, che può contare sulle maestranze hollywoodiane e quindi cerca di mantenere un tono un po' meno fracassone, ma ogni tanto la mano gli scappa. Dietro all'esibita pacchianeria di certe scelte c'è una mano insicura: più volte i personaggi si infilano in qualche vicolo cieco e buio e non si capisce, nella scena seguente, come ne siano usciti. Anche la storia, malgrado sfrutti un canovaccio solidissimo, che ricalca senza vergogna l'ormai dimenticato Road to perdition (Era mio padre), a ben vedere è piena di buchi: Johnny Scavafosse sembra un consumato artigiano del crimine ma in realtà commette continuamente errori da novellino e fa tutto per trovarsi esattamente nel luogo dove i nemici lo troveranno. Con tutti questi limiti, Run All Night resta un film scorrevolissimo e divertente, tra i migliori di questo sottogenere action per attori in prepensionamento. Nell'età dei superuomini muscolosi o cromati, fa piacere ogni tanto vedere un vecchio ubriacone che incassa pugni e pallottole mentre fa fuori la sua vecchia gang per salvare onore e famiglia.

PS: Mentre entravo in sala per vedere Run All Night è passato il trailer di un film in cui Sean Penn è un ex killer professionista, e all'inizio dice: Ho Fatto Cose Terribili Nella Mia Vita. Non so se vado a vederlo.

Run all night è al Cinelandia di Borgo San Dalmazzo (15:15, 17:40, 20:15, 22:40); al Vittoria di Bra (20:00, 22:30); al Cinecittà di Savigliano (20:20, 22:30). Buona visione. 
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Se anche Moretti ha perso le parole

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Mia madre
(Nanni Moretti, 2015).

Spesso penso di non avere grande capacità, per questo mestiere. Supplisco girando molte inquadrature, lavorando con gli attori, ma non credo di avere molto talento. Peccato.

Almeno una volta Nanni Moretti credeva di avere sbagliato film. Reduce da una malattia grave, si era messo a girare una cosa molto semplice, un corto da proiettare in un solo cinema; alla fine un po' perplesso si ritrovò in mano un film intero e lo presentò a Cannes. Vinse la palma d'oro.

Qualche anno dopo gli capitò di andare a una manifestazione senza niente da dire. La manifestazione era male organizzata e lui veramente non sapeva cosa stava facendo lì. Gli chiesero di salire sul palco, di dire due parole. Dieci minuti dopo era il leader dei girotondini.

 "Scusa, sono un po' agitato. Non sono abituato, non mi rendo nemmeno bene conto di quel che è successo. È successo, così. No, no, non ero arrabbiato. Ero stupefatto, poi ero sul palco, poi ho parlato. Ho parlato molto?" No, non molto, due minuti. "E cosa ho detto esattamente?"

È un problema più nostro che suo: abbiamo bisogno di Nanni Moretti, più di quanto lui abbia bisogno di noi. Il perché non è chiaro ma potrebbe trattarsi di una ragione banalissima - la statura. È un bell'uomo, alto, che senza sforzo apparente attira l'attenzione su di sé. È il primo a saperlo e a soffrirne. Quel tipo di sagoma rassicurante da cui ci aspettiamo parole serene, tranquille, ponderate, che lui quasi sempre non ha. Lui poi ha un alto senso della dignità, che gli impedisce di abbassare la guardia come una volta. Non può più dare di matto, anche se era la cosa più divertente, né scappare disperato all'inseguimento delle merendine che furono. Al suo posto metterà un alterego trasparente e più fragile, Orlando o Piccoli o la Buy. Per sé ritaglierà un ruolo laterale, sempre più simile all'immagine mentale che abbiamo tutti del Nanni Moretti adulto: un superego distinto in un maglione con le toppe che affronta i problemi della vita con serenità; e se va a pezzi, lo fa con molta dignità, su una panchina.



Però anche questo signore sulla panchina a un certo punto ce lo dice molto chiaro: non sa più cosa dire (continua su +eventi!) Non è la politica che ci sta togliendo le parole. Non è il neoliberismo e le bieche multinazionali che si comprano le fabbriche in cui non siamo mai entrati davvero. Ad ammutolirci è la vita, la normalissima vita fatta di bollette del gas e lavatrici che perdono acqua e rovinano il parquet, rapporti di coppia che non vanno da nessuna parte, genitori che muoiono senza chiedere il permesso e figli che non si applicano e non capiranno mai Lucrezio, ammesso che sia importante capire Lucrezio o anche soltanto discuterne. La vita ci riduce a uno schifo, e non c’è niente che Moretti possa farci, tranne un altro film su un lutto (il terzo contando Caos Calmo) – d’altro canto ci ha promesso solennemente di parlare soltanto di quello che sa, e quindi parlerà per l’ennesima volta di un regista come lui, di nuovo alle prese con un film che non sta venendo bene. A un attore metterà in bocca che il cinema fa schifo, che è una perdita di tempo; e il regista un dittatore incapace a cui dicono tutti di sì anche se in realtà non sanno cosa vuole, e non lo sa nemmeno lui. Ma sul serio credete che io sia bravo? Che io sappia dirigere? Si vede che non ne sapete niente di cinema. Probabilmente.

D’altro canto forse non abbiamo davvero voglia di vedere bei film. Forse abbiamo più voglia di sapere come stai. Ti abbiamo sempre voluto bene, non ci è chiaro il perché ma è così. Magari davvero sei quel compagno di classe alto dietro al quale amavamo nasconderci quando la prof interrogava. Ogni tanto ci piacerebbe venirti a trovare, ascoltare i fatti tuoi e raccontarti i nostri, perché qualche volte ci hai dato l’impressione di interessartene, ci hai fatto sentire importanti. Ci hai regalato parole e immagini di cui non hai idea di quanto avessimo bisogno – anche quando sostenevi di non aver niente da dire, buttavi lì una mezza frase e ci restava in mente per anni; non si è mai capito come facessi, ma ha sempre funzionato. Ci dispiace che se sei triste, ci dispiace che hai perso la mamma; anche un po’ egoisticamente per noi, che speravamo in un film un po’ più allegro, e adesso dovremo aspettare chissà quanti altri anni. Di cinema, davvero, non ci intendiamo, ma anche quando ti gira male dai sempre l’impressione di essere il migliore sulla piazza, sai? Non abbiamo neanche il coraggio di chiedertelo, ma ci piacerebbe tanto se la prossima volta osassi un po’; se per una volta provassi a parlare di qualcosa che non conosci. Un film di astrofisica, ti immagini Margherita Buy che non riesce ad avere relazioni di coppia, però nella stazione spaziale orbitante? Oppure Il ritorno della mamma di Freud, o Cataratte 2, o il canovaccio di Militanza Militanza però ambientato in un MeetUp grillino. Qualunque cosa tranne l’elaborazione del lutto, ecco, con l’elaborazione del lutto siamo a posto così, davvero, grazie.

Mia madre è al Cityplex di Alba (20:00, 22:15), all’Impero di Bra (20:20, 22:30) e al Fiamma di Cuneo (21:10)
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Gira di notte e ti succhia l'anima

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Lo sciacallo (The Nightcrawler) Dan Gilroy, 2014


"Qualcuno una volta ha detto che non capisco le persone. La psicologia, insomma. Posso garantire che non è così. Io passo il tempo a capire le persone. Mi mescolo tra loro, osservo i loro comportamenti, ascolto i loro discorsi, e imparo. Non ho avuto un'istruzione convenzionale, ma imparo molto in fretta. So contrattare. Sono in grado comprendere rapidamente le attese del mio interlocutore, il che mi consente di calibrare con più efficacia i miei messaggi e ottenere in breve tempo quello che mi serve. Perciò è errato sostenere che non capisco le persone".

È solo che non mi piacciono.

Lo sciacallo è un alieno... (continua su +eventi!) Uno serio, intendo, non di quelli che dopo un po’ diventano sentimentali e si affezionano. Molto più credibile della Johansson in Under the Skin, Jake Gyllenhaal non solleva mai la maschera. La prima volta che lo vediamo sta rubando il rame in un cantiere, alla base della catena alimentare. Ma ha già quegli occhi finti che sembrano dipinti su palpebre chiuse. Non ha famiglia né origine; è rapido e spietato, si adatta alle situazioni e non si accontenta mai. Dal furto di oggetti a quello di immagini sul luogo del disastro, il passo è quasi logico. Ma parassitare le nostre peggiori abitudini mediatiche non gli basta: lui vuole andare oltre, mostrarci la via.

Qualcuno ha paragonato la prova di Gyllenhaal a quella di De Niro in Taxi Driver, e soprattutto in Re per una notte: la caricatura del self made man germinato dal nulla e disposto a qualunque cosa, strano fungo cresciuto una notte nella jungla sociale. Gyllenhaal purtroppo non può contare su una storia altrettanto buona: Dan Gilroy, al suo esordio in regia, si preoccupa forse eccessivamente che passi il messaggio polemico nei confronti del sensazionalismo della cronaca nera; in realtà mostra più talento per le scene d’azione (fantastici inseguimenti) che per la didascalia sociale. Il finale è un po’ ridondante, ma almeno non è il tipico finale hollywoodiano. Gli alieni sono in mezzo a noi, come noi, in certi casi siamo noi.

Lo sciacallo è al Cinema Aurora di Savigliano oggi 15 e domani 16/04/2015, alle 21:15. Buona visione!
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È lunga la strada per Selma

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Selma (Ava DuVernay, 2014)

Il tuo maestro e modello ti fa salire nella sua macchina. Mentre guida a velocità di crociera ti spiega che non ne può più; che non è sicuro di quello che sta facendo; che per colpa sua anche stavolta qualche brava persona si farà male o verrà uccisa; che malgrado questo anche stavolta probabilmente non cambierà niente; e che quindi forse bisognerebbe ripensare tutta la strategia; ma ci vorrebbe del tempo; e quel tempo lui non l'ha, è troppo stanco.


E ti chiede come la pensi. Te lo ricordi immenso, quando eri un ragazzino nella folla che stava ad ascoltarlo: adesso è lì in macchina con te, ti apre il suo cuore e ti mostra che è marcio. Cosa facciamo adesso? Ti avanza un po' della fede che distribuiva ai vecchi tempi? Selma è stato salutato come un "film necessario". Purtroppo i film necessari non sono necessariamente buoni film. D'altro canto prima o poi qualcuno doveva spezzare l'incantesimo per cui la figura più importante della comunità afroamericana, l'uomo per cui si chiudono scuole e uffici ogni terzo lunedì di gennaio, non era ancora stato celebrato nelle sale cinematografiche. Ancora negli anni Novanta era paradossalmente più facile realizzare film su personaggi controversi come Malcolm X o le Pantere nere, piuttosto che mettere a fuoco l'uomo-immagine del movimento per i diritti civili. Evitare il taglio agiografico era impossibile, e forse lo è ancora.

A quasi sessant'anni di distanza Martin Luther King, jr continua a essere un simbolo più che un uomo. Anche in sede storiografica non si nota una grande esigenza di sottoporre il mito a una revisione; il peggio che si osa dire su di lui è che gli piacevano più donne di quante un reverendo sposato avrebbe dovuto permettersi, ma il biografo che ha osato definirlo un "donnaiolo" si è poi pentito, è stato frainteso, ecc.. E siccome il pubblico non sembra pronto (né negli USA né altrove) per un leader sessualmente esuberante, anche stavolta non lo vedremo rialzarsi in mutande da un letto non suo. È vero che telefonava a tarda notte a donne sposate (l'FBI aveva accesso ai tabulati), ma solo perché aveva bisogno di sentire un gospel dal vivo. L'adulterio è ammesso, ma non esibito - d'altronde è così importante? In un certo senso sì, uno degli aspetti della grandezza di MLK è proprio il fatto che sopravvisse ai ricatti dell'FBI di Hoover che credeva di poterlo inchiodare alle sue scappatelle sessuali. Il reverendo impersonato da Daniel Oyelowo di fronte alla moglie non nega e non si difende: assume la sua smorfia contrita d'ordinanza e va avanti. Lo stato disastrato del suo matrimonio non è che una tra tante ragioni di frustrazione. È un MLK perennemente imbronciato, insicuro, disilluso, ed è probabilmente l'unico MLK umano che Ava DuVernay poteva permettersi di mettere su pellicola. Di un MLK più machiavellico, che di concerto con Lyndon Johnson manda freddamente bambini e anziane signore in prima linea contro i peggiori sceriffi dell'Alabama - e nel frattempo combina anche qualche festicciola in albergo - per ora nessuno sente l'esigenza.


È un film necessario, si diceva; una certa gravitas era indispensabile, ancorché un po' soporifera; più che al botteghino Oprah Winfrey, Brad Pitt e gli altri produttori guardavano alle scuole che lo proietteranno intensamente nella seconda settimana di gennaio. Ma è proprio qui che Selma delude, ed è un peccato... (continua su +eventi!) perché tutto sommato offre un buon ragguaglio sulle tecniche di non-violenza, e sui sacrifici che comportano (non a caso gran parte dei leader sono ministri di culto: del resto se il tuo metodo di lotta implica la possibilità di ritrovarti inerme davanti a poliziotti armati e fanatici razzisti, la fede in una trascendenza non è obbligatoria ma può aiutare). Il guaio è che Selma regge la prova ferro-da-stiro, ovvero è un film che si può tranquillamente guardare mentre si è in tutt’altro affaccendati, senza perdersi nessuno snodo fondamentale. Al massimo qualche primo piano di Oyelowo corrucciato, o di Carmen Ejogo corrucciata, o Tom Wilkinson perplesso (fa il presidente Johnson, e il film a quanto pare non gli rende onore) o Tim Roth governatore cattivo.

Il film ha il torto di dare per scontata l’attenzione del pubblico, dopo un paio di scene madri iniziali di fronte alle quali commuoversi è obbligatorio. Parlo da insegnante: un film del genere non lo proietterei in un’aula magna: se passa la prova ferro-da-stiro, passa anche la prova smartphone. Per parlare degli stessi argomenti ricorrerò a Mississippi Burning, che ormai ha trent’anni ma almeno offre una chiave per decifrare l’odio di quei razzisti che in Selma sono raffigurati più o meno come orchetti di Tolkien, senza storia né psicologia; oppure li fregherò con Alì, che col pretesto dell’epica sportiva racconta di Emmett Till e dei musulmani neri; e integrerò con qualche scena di Amistade da calcio nello stomaco – quel tipo di calci che i ragazzini sanno apprezzare. Niente di personale: ma se Selma mi ha un po’ annoiato, figuratevi i miei studenti.
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A Tom Hardy non gli tocchi il cane

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Chi è senza colpa (Michaël Roskam, 2014)


Un cane è una grossa responsabilità, Bob Saginowski non è sicuro di volerne uno. Ha già i suoi casini con il cugino ex gangster che non riesce a tirare i remi in barca, la mafia cecena che gli ha rilevato il bar e lo usa come copertura, un detective che non ha niente di meglio che stargli addosso, e il diavolo che ogni mattina gli ricorda che nessuno è senza colpa, e lui in particolare. Se a tutto questo aggiungi un cane a cui insegnare dove fare i bisogni, un cane da sfamare tutti i giorni, un cane da difendere dallo psicopatico che lo ha ficcato in un bidone della spazzatura e ora vuole riprenderselo, insomma Bob Saginowski non è sicuro di essere pronto. È un passo importante.

La locandina di The drop si gioca la carta di Dennis Lehane, caso esemplare di autore noir conosciuto meno per i suoi libri che per le versioni cinematografiche che hanno ispirato. Mystic River, Gone Baby Gone; persino Shutter Island lasciava intravedere tra gli sbraghi di sceneggiatura la consistenza dell'intreccio originale. The drop conferma la qualità del narratore, ma ha il respiro più corto: non è tratto da un romanzo ma da un racconto, e si nota. È una piccola storia che Roskam sposta da Boston a Brooklyn ma che avrebbe funzionato anche a Scampia, Marsiglia, o in qualsiasi quartiere difficile in cui le grandi catene di distribuzione del narcotraffico hanno soppiantato le buone vecchie piccole gang radicate nel territorio (continua su +eventi!)

Senza preoccuparsi di muoversi tra i più frequentati luoghi comuni del genere, il regista belga Roskam (Bullhead) manda avanti il film con una certa scioltezza, inciampando due o tre volte in scelte discutibili ma mantenendo la tensione alta fino alla risoluzione finale, prevedibile ma godibilissima. Gran parte del merito va ovviamente agli attori, ma chi entra in sala per dare l'ultimo saluto al grande Gandolfini dovrà rassegnarsi a vederlo relegato in un ruolo da comprimario, reso con la sicurezza di un caratterista di eccezione. Più a fuoco è un Tom Hardy imbambolato, che si aggira bofonchiando per i set con un'andatura da soggetto borderline. È bravissimo, anche se un po' troppo bello e giovane per essere davvero in parte (tra lui e il "cugino" Gandolfini ci sono quasi vent'anni). Noomi Rapace porta anche stavolta sulla pelle i segni di un passato difficile, anche se qui è inverosimilmente retrocessa a damigella in pericolo. Matthias Schoenaerts, connazionale del regista, si ritrova un po' a caso nella parte dello stalker psicopatico e almeno decide di non calcare i toni. Chi è senza colpa è una bella storia che scivola via molto rapida, lasciando agli spettatori almeno una scena memorabile. Al Cinelandia di Borgo San Dalmazzo alle 20:20 e alle 22:45.
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Sono stanco di leggere cazzate su Whiplash

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Whiplash (Damien Chazelle, 2014)

Altro che autostima, sette ottavi e pedalare.

"Hai fatto un buon lavoro". Quante volte te lo sei sentito dire. Quante volte ci hai creduto davvero? Dopotutto, se il tuo lavoro fosse così buono, non sarebbero così contenti. Comincerebbero ad aver paura di te - è pericoloso, chi sa fare un buon lavoro. Ma tu non ti preoccupare, perché hai fatto...  Un buon lavoro. La senti l'intonazione? La senti sul serio? E allora dimmi: ci senti invidia o condiscendenza? Un buon lavoro. Forse una sfumatura di gratitudine, perché il tuo non è un lavoro così buono dopotutto. È un lavoro passabile, un lavoro che non farà sfigurare i loro lavori mediocri. "Hai fatto un buon lavoro", che frase criminale. Quanti talenti ha sedotto e sviato. Tu non vuoi fare un buon lavoro. Tu puoi fare di meglio. Ma poi?

Quando in giro si è cominciato a parlare di Whiplash come di un gran bel film - e non c'è dubbio che lo sia - molti musicisti si sono premurati di informarci che il mondo della musica non è così atroce e competitivo, e soprattutto il jazz non è così - lo stesso Bird non veniva preso a piatti in testa se sbagliava un assolo, come racconta per giustificarsi il demoniaco maestro di musica del film. Era una polemica tutto sommato prevedibile, anche se già un po' surreale. Probabilmente anche ai tempi dello Squalo qualche ittiologo si sentì il dovere di scrivere ai giornali che i pescecani non attaccavano i motoscafi.

In Italia la discussione è scesa a livelli avvilenti. Goffredo Fofi su Internazionale lo ha definito "una favola per gonzi di destra", anche se ha ammesso che "tecnicamente, è un buon film". Però antipatico, perché racconterebbe "per l’ennesima volta la smaniosa logica americana della lotta per diventare qualcuno, per emergere, nella distinzione mostruosa che quella cultura fa tra winner e losers". È un'analisi un po' semplice: forse se per affrontare la cultura USA si deponesse ogni tanto il modellino "maggioritario e a tratti totalitario", e ci si addentrasse un po' nei dettagli, si potrebbe notare nel film lo scontro tra due concezioni educative: il cosiddetto "self-esteem movement", che ha portato le scuole americane a distribuire medagliette per ogni "buon lavoro" svolto, e il fantasma di un approccio diverso, militaresco e pseudo-darwiniano, che più che a scuola vediamo trionfare nei posti di lavoro e soprattutto nei talent show.

Che parlino di musica o di ristorazione, il motivo per cui guardiamo i talent è il motivo per cui ci siamo fatti ipnotizzare dal maestro di Whiplash: i professori sadici sono terribilmente sexy. Vederli tormentare le loro vittime è uno spettacolo per cui paghiamo decoder e biglietti di cinema. Forse ci piacciono proprio perché sono all'opposto dei nostri ex prof, empatici e condiscendenti, sempre pronti ad applaudire ogni nostro minimo sforzo. Noi poi abbiamo sempre la sensazione di non essere diventati quei personaggi di successo che i nostri maestri vedevano in noi, e a quel punto forse ce la prendiamo con loro, troppo buoni, troppo illusi, e rimpiangiamo di non avere avuto caporali che ci prendessero a ceffoni in pubblico. È un'ipotesi come un'altra.

In ogni caso, non c'è dubbio che certe società siano più competitive di altre: e se quella americana lo è, perché un film non dovrebbe raccontarla? Fofi però sembra non aver fatto caso al distacco critico con cui Chazelle guarda al protagonista del film e alla sua ossessione per la batteria. Un "winner"? Soltanto perché [spoiler] alla fine del film riesce a suonare davanti al pubblico un assolo di Buddy Rich, a portare a termine il suo numero da pappagallino ammaestrato? E poi che succederà? Nei film di "winner e losers", di solito parte la fanfara e il pugile suonato ma glorioso chiama il nome della moglie o fidanzata. Il batterista di Whiplash non ha la fidanzata, non ha un amico, ha un papà comprensivo che disprezza e un maestro stronzo che difficilmente lavorerà più con lui. Sul serio la sua è una success story? Sarebbe come prendere il caporale di Full Metal Jacket per un personaggio di propaganda... ah, ma Fofi lo fa.

"Il meccanismo è lo stesso dei film di guerra con il sergente cattivo e il soldato debole che grazie a lui si fa forte (e spietato) e “ce la fa”. Kubrick ne mostrò un prototipo in Full metal jacket".
Il film in cui il soldato debole [SPOILER!] si tira un colpo in testa prima ancora di arrivare al fronte, non prima di aver fatto fuori anche il sergente cattivo... uhm, forse Fofi ha preso un abbaglio. D'altronde capita ai migliori.

Proprio mentre sto archiviando Fofi, ecco piombare da Wired un articolo che definisce Whiplash, mettetevi seduti, "ideologicamente sbagliato".

Il tizio che scrive questa roba (“Sì perché alla fine, più che l’opera d’arte in sé, il raggiungimento della perfezione espressiva, sembra che il protagonista, il giovane batterista, abbia come obiettivo quello di essere il migliore e basta. E questa non è la pulsione di una personalità genuinamente ispirata quanto patologicamente ambiziosa“)… il tizio che scrive questa roba, dicevo, ha appuntato in petto la medaglietta di “Staff Editor della Sezione Idee” di Wired. Purtroppo essa non riesce a trattenere neanche un milligrammo del timore reverenziale che provo per il maestro Fofi, sicché la mia prima reazione sarebbe piantarmi davanti a questo Staff Editor e dirgli: ma cosa hai scritto, ma ti rendi conto? Nel 2015? “Ideologicamente sbagliato”? Sei un viaggiatore nel tempo? Una Guardia Rossa ibernata nel ’69 e scongelata in circostanze da chiarire? Lo sai cosa vuol dire ideologia? Credi che ce ne siano di giuste e di sbagliate? Sapresti definire la tua ideologia? Ammesso che tu ne sia in grado, pensi che al lettore medio di Wired fotta sega della tua ideologia? Eh? Eh?

Il problema è che la follia di Whiplash, come dicevo, non è sentita, ma parte di un prodotto ben confezionato e che alla fine lascia non dico delusi, ma freddi. Non aggiunge nulla, nel cuore dello spettatore, su quello che già sapeva della vita.

Grazie, ma basta cazzate adesso.

No, ma buon lavoro, davvero. Signor Staff Editor Sezione Idee, probabilmente della vita ne sai già troppo per farti insegnare qualcosa da Whiplash, però… ti aspettavi di uscire “caldo” dalla storia di un ragazzo che per suonare meglio di chiunque altro rinuncia agli affetti, al rispetto dei compagni, alla salute, a ogni altra cosa? Non ti ha assalito nemmeno per un istante il sospetto che il film non sia una success story ma la sua parodia? che il “freddo” di cui tu parli sia l’esatta sensazione che Chazelle voleva farti sentire, dopo averti fatto ascoltare e soffrire un monumentale, inutilissimo assolo di batteria di nove minuti? Ma a te piacciono gli assoli di batteria? Li ascolti mai? Non li ascolta nessuno. Secondo alcune teorie hanno inventato il tasto skip apposta. Questo è “l’opera d’arte in sé?” “il raggiungimento della perfezione espressiva”?

Whiplash non è un film particolarmente originale, ma ci si domanda se poteva essere migliore di così, come certe partiture di jazz dell’età dell’oro. Ha semplicemente il ritmo giusto; non c’è una nota messa lì senza un motivo, senza che prima o poi sia ripresa nel tema principale. Finché dura non esiste nient’altro: un attimo dopo cominci a pensare: ma cosa ho ascoltato? Non è un raccontino a tema, per quanto Fofi e i suoi allievi si arrangino a vederlo così. È un film che ti pone delle domande: sul serio vorresti un maestro che tirasse fuori la bestia che hai in te?  Sei sicuro che sarai felice, dopo? La risposta tocca a noi, ma non dobbiamo per forza portarcene una già pronta da casa. 
Whiplash si può finalmente vedere a Cuneo, alla Sala Lantieri, venerdì sabato e domenica alle 21. Speriamo che si senta bene. 

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Quando Hollywood riscrive la Storia (Oscar 2015)

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The Imitation Game, regia di Morten Tyldum. Oscar per la migliore sceneggiatura originale.

Più che un film a tesi, The Imitation Game è un film a suggestione: Alan Turing avrebbe passato il test di Turing? L'inventore del computer non era in un qualche modo un computer anch'esso, un "autistico ad alto funzionamento"? Dietro alla sua passione per la crittografia, non covava forse la frustrazione di non riuscire a decodificare i normali messaggi degli uomini? Tutto ciò che della biografia dello scienziato non si concilia con questa suggestione viene completamente eliminato o stravolto: persino la sua omosessualità, tema tutt'altro che marginale, è sacrificato in nome della necessità di trasformare Turing in un automa incapace di relazionarsi con gli umani. Gli autistici tendono a compensare la carenza di interlocutori inventandosi amici immaginari, e quindi Turing deve battezzare il computatore col nome del suo unico amico, “Cristopher” – non risulta da nessuna biografia, per tutti il computatore era noto col nome “The Bombe”. Non era un amico immaginario, né il perduto amore, né il figlio impossibile: era un progetto messo in piedi già dai servizi polacchi, che Turing riprese e reinterpretò genialmente. Nel frattempo seguì altri progetti, ma sui manuali c’è scritto che gli Asperger si concentrano soltanto su un progetto alla volta, e quindi l’esperienza di Turing alla base di Bletchley Park viene semplificata: addirittura esiste un solo computatore (in realtà ne vennero costruiti centinaia). La scena dell'illuminazione al pub è un classico esempio di come anche un buon biopic possa per esigenze drammatiche offendere l'intelligenza dei suoi spettatori: l'idea che Turing afferra in quell'occasione (bisogna trovare una frase ricorrente!) è in sostanza l'abc della crittografia.




La teoria del tutto, regia di James Marsh. Oscar al migliore attore protagonista (Eddie Redmayne)

Se The Imitation Game si sforza di trasformare un uomo in un calcolatore, La teoria del tutto può irritare per il motivo opposto: hai uno dei più grandi fisici teorici di tutti i tempi, e decidi di raccontarne solo la vita sentimentale? Per di più, affidandoti alla biografia di un'ex moglie - chi mai appalterebbe il proprio biopic a un'ex moglie? A Stephen Hawking è successo anche questo, e pare che il risultato gli sia persino piaciuto. Ci troviamo dunque davanti a un film accurato? No, pare di no. La teoria del tutto non solo preferisce alle equazioni i sentimenti, ma anche di questi ci dà una versione edulcorata, soprattutto ai danni di Jane (che è forse il motivo per cui Stephan ne è rimasto contento). Del tutto omessa è la carriera accademica di quest'ultima. Completamente stravolti, rispetto al testo, sia il primo incontro che l'episodio della riconciliazione finale.


Selma, regia di Ava DuVernay. Oscar alla miglior canzone (Glory).

Rispetto ad altri film degli ultimi anni, Selma sembra insolitamente fedele alla storia che racconta, anche a scapito della riuscita spettacolare. Raramente si era visto un leader così amletico e scoraggiato come il Martin Luther King di Oyelowo, proprio nel film che dovrebbe cantarne il coraggio e la determinazione. La principale critica che viene mossa agli sceneggiatori riguarda la figura del presidente Johnson, che da saggio politico bianco invano cerca di convincere MLK a un atteggiamento più prudente e attendista. Ai collaboratori di Johnson, neanche a farlo apposta, risulta il contrario: il presidente e MLK stavano lavorando assieme, anzi MLK organizzava le sue marce su diretta indicazione di Johnson. Resta il fatto che nel medesimo periodo la FBI stalkerava casa King con lettere e telefonate minatorie. Un'iniziativa di Hoover, o l'ordine partiva da più in alto? Può darsi che i tentennamenti del personaggio Johnson nascano da un'esigenza narrativa: è quasi l'unico uomo bianco del film dotato di una coscienza. Gli altri odiano senza nemmeno ricordare bene più il perché. Se non ci fosse Johnson, sospeso tra Hoover e MLK, non ci sarebbe un vero conflitto, un vero campo di battaglia.
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Il giorno della pecora

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Shaun - Vita da pecora: Il film! (Richard Starzak, Mark Burton, 2015)

Quando eravamo cuccioli ci innamoravamo di tutto, la felicità era a portata di zampa come un osso o un ciuffo d'erba. Quando eravamo cuccioli tutto era perfetto e indistruttibile come in un cartone animato di plastilina. Ma poi il cartone animato è andato avanti, le puntate sono diventate stagioni, le stagioni sono volate, e adesso ci costa così fatica anche soltanto recitare la sigla. Come ogni mattino il gallo canterà, il Fattore ti schiaccerà il naso con la porta, e insieme verrete a scortarci verso un altro giorno inutile. Se solo esistesse un altrove dove poter scappare. Il primo colpo di genio bussa a film appena iniziato: la sigla del cartone televisivo (che ogni habitué di Rai Yoyo non può non conoscere a memoria) destrutturata e interpretata dai suoi protagonisti con sempre minor convinzione. La tv come recinto da evadere, il cinema come spazio di fuga. Ma attente, pecorelle: oltre il recinto potrebbe attendervi una gabbia anche peggiore...

Me and the farmer like brothers, like sisters

Comparsa per la prima volta in un episodio di Wallace e Gromit, la pecora Shaun è ormai il personaggio di maggior successo della Aardman Animations: ma se il vostro amore per gli studios di Bristol e per la loro stopmotion fuori dal tempo si è sviluppato al cinema, grazie a Galline in fuga o la Maledizione del Coniglio Mannaro, è possibilissimo che la pecora fin qui vi sia sfuggita. Chi invece per motivi famigliari si ritrova spesso il telecomando bloccato sul 43, guarda a Shaun con reverenza e gratitudine: è senz'altro il personaggio meno infantile di tutto il palinsesto. In effetti non è ben chiaro che ci faccia tra Peppa Pig e i Teletubbies. Shaun non è soltanto pensato per un pubblico più grandicello: è proprio la sua comicità a non entrare negli stampini con cui si produce oggi l'intrattenimento per le fasce protette.

I cartoni di oggi sono in sostanza tutti sit-com in miniatura: i personaggi, spesso animali antropomorfi, sono inseriti in un contesto sociale modellato sulla famiglia contemporanea, hanno amici con cui litigano e fanno la pace e nel giro di tre-quattro minuti commettono qualche marachella e imparano la lezione. I migliori - quasi sempre inglesi, come Peppa - aggiungono al modello uno humour che li rende più tollerabili ai genitori, ma si guardano bene dal sovvertire la formula. Shaun guarda semplicemente altrove, al surrealismo comico dei Looney Tunes e ancora più indietro. Shaun non parla; vive nel mondo muto e pieno di rumori delle comiche in bianco e nero. Non è un bambino, è una pecora geniale in un mondo di adulti carichi di difetti e frustrazioni. In una delle mie puntate preferite, le pecore si travestono per salvare la festa in maschera organizzata dal Fattore. In qualche modo la cosa funziona, il Fattore balla e beve, e dopo un po’ comincia a provarci con la pecora più grossa. Esatto, lo fanno vedere su Rai Yoyo più o meno verso l’ora di cena. Pensate sia il caso di avvertirli?  Il film porta le pecore nella Grande Città – una meravigliosa metropoli di plastilina, tentacolare e familiare a un tempo – e offre anche al Fattore una mezza giornata per riscattarsi dalla mediocrità. Il tema dell’evasione si conferma essere uno dei più congeniali per gli animatori della Aardman: i pochi minuti che Shaun e il cane Blitzer trascorrono nella cella dell’accalappia-animali comunicano un senso di angoscia che non è comune trovare in un prodotto per bambini. 

L’equivoco è sempre lo stesso: Shaun non è esattamente un prodotto per bambini, ma probabilmente se alla Rai se ne fossero accorti in Italia nessuno lo conoscerebbe, e oggi non sarebbe nemmeno nelle sale. In realtà un po’ di comicità vecchio stile ai bambini non può che far bene – certo, rinunciare ai dialoghi significa privarsi dello humour di altre produzioni Aardman, ma la pecora è comunque divertentissima e gli ottanta minuti volano. Verso la fine accade il solito misfatto: smettiamo di ammirare ogni fotogramma per quello che è, un capolavoro di tecnica artigianale, e ci concentriamo sull’azione, dando per scontato che quelle forme di plastilina siano vive e dotate di passioni e sentimenti. Poi le luci si accendono, parte la sigla: la grande fuga è finita. Shaun è al Multisala Impero di Bra (20:20), all’Italia di Saluzzo (17:00), al Cinecittà di Savigliano (20:20). Beeeeeeeh!

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Un giorno da cretini

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Italiano medio (Maccio Capatonda, 2015)

Essere un cretino, almeno per un giorno. Non dirmi che non ne hai mai avuto voglia. Guardati intorno. In tv c'è Sanremo, e non ti piace una canzone. Al cinema c'è 50 sfumature di grigio, ti annoia già dal titolo. Non dirmi che non ci hai mai pensato: se stasera fossi un cretino allora sì che mi divertirei. Riderei di qualsiasi cosa, mi accoppierei con qualsiasi cosa; guiderei un macchinone in mezzo alla carreggiata perché sì; sarei felice. Magari non tutta la vita, ma se ci fosse una pillola e avesse un effetto di due ore, non la prenderesti?

Italiano medio è il film non troppo deludente di Maccio Capatonda, un comico che negli ultimi anni ha rischiato parecchio tra youtube tv e radio, oscillando tra l'abisso di non essere capito e quello di finire a lavorare allo zoo di 105. Non è poi così strano che dopo tanti rischi, nel momento di portare il suo mondo al cinema, abbia prevalso una certa prudenza: se Italiano medio ha un difetto è proprio di essere esattamente il film di Maccio Capatonda che un po' tutti ci aspettavamo. Non poteva mancare Herbert Ballerina, ovviamente c'è Ivo Avido, e tutta la compagnia di giro che rafforza la sensazione di trovarsi davanti a una puntata speciale di Mario, un po' meno folle di quelle che vanno in rotazione su Mtv. Del resto, avercene. Cioè non è che la situazione del cinema italiano (e non solo di quello) sia tale da farci sputare sopra a una puntata speciale di Mario. Il buon successo di Italiano medio non va solo letto in assoluto, ma anche confrontato con quello delle solite-commedie-italiane che stanno uscendo in questo stesso periodo e che scompaiono dai radar già alla seconda settimana. Maccio è andato molto meglio di Belen, questo forse un mese fa non era prevedibile - in realtà non ho niente contro Belen attrice, ma se in giro c'è un film che mentre ti fa ridere ti piazza qualche riferimento a Franzen o Palahniuk, non è una buona notizia?

Italiano medio è anche un compendio di tutto quello che Maccio ha fatto fin qui. Com'è noto, il film sviluppa le premesse di uno dei finti trailer che lo fecero conoscere negli ultimi anni di Mai dire Goal. Il trailer in questione per la verità è un po' più tardo (2012), ma il film che ne scaturisce potrebbe essere stato scritto anche dieci anni fa (continua su +eventi!) per come inquadra una serie di bersagli che oggi sono già un po' sfumati all'orizzonte: i calciatori scemi e le veline, i tronisti e i privé. Come già in Mario, Maccio qui dà libero sfogo a un antiberlusconismo viscerale come al cinema forse non abbiamo mai visto: l'arrivo della tv commerciale è considerato alla stregua della cacciata dal paradiso terrestre. La doppia identità del suo eroe, Giulio Verme, è un risultato di quello choc primigenio: da una parte un neobarbaro lobotomizzato, dall'altra un moralista sterile incapace di qualsiasi attrito con la realtà. Già questa piccola analisi, buttata lì in un film che non si vergogna nemmeno un istante di far ridere con scoregge e giochi di parole, sta qualche metro sopra alla capacità di autoanalisi delle commedie sofisticate che si fanno giù a Roma, dove essere berlusconiani o anti è semplicemente una questione di status, molto spesso ereditato o ricevuto in dote. Maccio è più viscerale, ma anche più interessato al concetto del "berlusconi in me": si capisce che è alla ricerca di una sintesi, e che è molto scettico sulla possibilità di raggiungerla (in questo senso il finale è sì, sorprendente, e ti riconcilia col senso del film). Forse ha qualche compromesso da rimproverarsi (lavora per uno dei programmi radiofonici più trucidi, gira film con la Medusa). Nel frattempo ti abbozza anche un'idea del grillismo, la solidarietà di un gruppo di freak che nel deserto sociale si ritrova insieme contro tutto senza nemmeno bene ricordarsi il perché. Pacifisti violenti, complottisti creativi, imbecilli che ci fanno sentire intelligenti, ex vip qualunque non rassegnati all'oblio, non manca nessuno. Non so se Italiano medio farà ancora ridere tra vent'anni, ma sicuramente tornerà utile per farci ricordare come ci sentivamo. Circondati da cretini, invidiosi dei loro trionfi, disperatamente disposti a dialogare con loro.

Alla terza settimana, Italiano medio è ancora al Cinelandia di Borgo San Dalmazzo (sabato solo alle 22:40; da domenica a venerdì alle 22:40 ma anche alle 20:30).
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Il lungo e folle volo di Iñárritu

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Questa per esempio non si sarebbe potuta mai fare,
perché è troppo scura - non c'erano luci se non
quelle su Broadway
Birdman, o l'imprevedibile virtù dell'ignoranza (Alejandro González Iñárritu, 2014)

Ma guarda che cesso di posto. Chissà se qualcuno viene mai a spolverare questo buco di merda. Come siamo arrivati fin qui, Alejandro?
Noi non apparteniamo a questo posto. Perché non siamo a LA a bere ginger ale su un terrazzo mentre leggiamo copioni drammatici sui destini incrociati di persone qualsiasi? Cristo Alejandro, c'era una sola cosa al mondo che sapevi fare bene, e te la stai fottendo, lo sai vero? Ti stai fottendo la carriera, sapresti dirmi per cosa esattamente?
"Mr Iñárritu quando vuole uscire siamo pronti a girare".
Non ascoltarli. Lo sai che mentono. Non sono pronti e lo sai benissimo. Non saranno  mai pronti per questo film, perché questo film è impossibile da girare e tu lo sai, come lo so io. Chi ti credi di essere, alla fine?

 Non è che non apprezzi, è che la cosa meritava
 secondo me un maggiore approfondimento,
magari uno spin off, una serie tv in due o tre stagioni.
Senti, io ti conosco da così tanto tempo, e te lo devo proprio dire. Sono l'unico che ti vuole bene qui dentro. L'unico. Gli altri hanno paura di te, o sperano in te come un naufrago spera in un canotto anche se ha già visto che è forato. Ti diranno tutti che sta andando tutto bene, che il film funziona, che l'idea è geniale, e non è vero un cazzo. L'idea è irrealizzabile e loro hanno una paura fottuta di sbagliare. Il tuo protagonista non fa una parte importante da vent'anni, e anche a quel tempo usava una maschera. Ma almeno è riuscita a tenersela per un sequel. Sempre meglio di quello giovane, che non è più giovane da un pezzo, ed  riuscito a farsi cacciare a calci pure dall'universo cinematico Marvel, ti rendi conto? Sai cos'ha fatto di importante negli ultimi dieci anni? Il re lebbroso, anche lui rigorosamente mascherato. Lo capisci che sono fantasmi, vero? Gente di cui ci stiamo tutti dimenticando il volto? È con questa gente che ti stai riducendo a lavorare, Cristo, tu hai ancora il numero di Brad Pitt in rubrica e invece lavori con Naomi Watts. Sai cosa faceva Naomi Watts nell'ultimo suo film? La nonna. Ora dimmi di chi è l'idea di farle baciare Andrea Riseborough, la cosa più gratuita che ti ho mai visto girare - coraggio, dimmi che non l'hai fatto per il panico, per avere almeno qualcosa di stuzzicante da mettere nei trailer, dimmi che non hai piazzato un bacio lesbo inutile perché hai la paura fottuta che questo film non se lo guardino nemmeno i critici in copia di valutazione (continua su +eventi!)

Ma cosa c’è che non va, Alejandro? Con Biutiful hai incassato un quinto di Babel, sarà questo? Non ha nessuna importanza finché hai ancora un piede a Hollywood. Ma quel piede devi tenercelo sul serio. Devi fare le cose che sai fare, le cose che la gente si aspetta. Destini incrociati, montaggi serrati, la gente vuole il dramma ma soprattutto vuole saltare di scena in scena senza troppe menate. Sono bambini iperattivi, anche se si danno arie d’adulti. Si stancano subito, non lo vedi che a metà proiezione si mettono a twittare? Cosa pretendi da loro, un piano sequenza di due ore? chi cazzo ti credi di essere, Sokurov?



Signori qui se qualcuno sbaglia una battuta tocca rifare una ripresa di dieci minuti.

Perché non ti rassegni a mettere la maschera che ti sei fatto? La gente vuole quella. La gente ha bisogno di maschere, sono comode. Si riconoscono da lontano. Perché vuoi provare a fare cose che nessuno sa ancora come fare? Cosa ti porta verso il disastro esattamente? Non puoi accettare di essere Iñárritu, il regista messicano dallo stile abbastanza riconoscibile? Stai girando un film per chi, esattamente, qualche milione di palati raffinati in tutto il mondo la cui sola preoccupazione è dove andranno a mangiare dopo la proiezione? Credi che a qualcuno di loro gliene fotta realmente qualcosa di te? E diciamocelo in faccia, Alejandro, non lo fai per amore dell’arte. Lo fai perché vorresti essere nei manuali di Storia del cinema, vorresti essere davvero Qualcuno. Come se non ci fosse là fuori un mondo pieno di gente che lotta all’ultimo sangue per essere Qualcuno – ma per te nemmeno esistono. Accadono cose continuamente, in luoghi che tu sei fiero di ignorare, e in quei luoghi tu sei già stato completamente dimenticato. Stai facendo tutto questo perché l’idea di non importare più a nessuno ti spaventa a morte, come chiunque altro, e sai cosa? Hai ragione. Non importi più a nessuno. Non sei nemmeno qui. Non sei che un puntino minuscolo sull’ultimo foglio di carta igienica su cui è tratteggiata la storia dell’umanità. Se pensi che il tuo suicidio professionale sia uno spettacolo artisticamente rilevante, perché non vai davanti al tuo pubblico di figuranti e non ti spari direttamente un colpo in testa?

“Mr Iñárritu, mi ha sentito?”.
“Arrivo, arrivo”.
(Birdman era un film impossibile da fare, finché Iñárritu e tutti gli altri non lo ha fatto e adesso è uno dei più bei film degli ultimi anni, che vale assolutamente la pena di andare a guardare, stasera, al cinema Fiamma di Cuneo alle 21:10).
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Il film più spaventoso che guarderò quest'anno

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Still Alice (Richard Glatzer, Wash Westmoreland, 2014)

Dici che sei mia figlia e sei un'attrice, uhm, la seconda mi lascia molto perplessa.
Una volta ho letto di un paesino in Olanda che in realtà non è un paesino vero, è un'enorme casa di cura per malati di quella malattia, quella che ti mangia i ricordi. Poche cose mi fanno più paura. All'inizio sembri soltanto un po' più sbadato del solito. Ti distrai, cambi argomento e sembra quasi che lo fai apposta. A volte lo fai apposta per non far capire che non ti ricordi più di che argomento stai parlando. La tua mente elabora strategie per tenerti in sella anche se non reggi più il ritmo di una banale conversazione. Finché a un certo punto non ti ricordi più esattamente con chi stai conversando, chi è quella brava giovane? Qualcuno ti ricorda che è tua figlia. Ah. Ma certo, naturalmente.

Still Alice è un film misurato, mettiamola così. Descrive un inferno dal vestibolo. D'altro canto, qualcuno ha davvero voglia di entrare a guardare com'è fatto l'inferno? La persona a te più cara potrebbe svegliarti nel cuore della notte e non riconoscerti. Tutte le notti. Quanti ricordi devi perdere prima di non essere più te stesso? Una volta ho letto di un paesino in Olanda, appunto, che in realtà non è un paesino vero, ma un'enorme casa di cura. Telecamere in tutte le strade. E un sacco di personale di servizio - giardinieri, vigili urbani - che in realtà sono dottori e infermieri. È una storia che mi ha scosso perché, effettivamente, come posso essere sicuro di non vivere in un posto del genere già in questo momento? E come puoi esserne sicuro tu che mi leggi? Ti ricordi cosa stavi facendo cinque minuti fa? A cosa stavi pensando un attimo prima di cliccare qui sopra?

D'altro canto come faccio a essere sicuro che tu esisti. Se io vivessi laggiù mi avrebbero tolto internet da un pezzo. Però avrei ancora l'illusione di scrivere, magari su una rete chiusa al pubblico, con qualche infermiere che viene a complimentarsi nei commenti. Probabilmente scriverei lo stesso pezzo all'infinito, senza mai pubblicarlo. Oppure lo pubblicherei una dozzina di volte, con qualche variazione. Di cosa stavamo parlando?



Still Alice (Richard Glatzer, Wash Westmoreland, 2014)

Mia figlia d'accordo, ma un'attice?
Siamo seri, su.
Quanti ricordi puoi perdere prima di smettere di essere te stessa? Still Alice è un film misurato, mettiamola così. Il tema - una delle malattie più spaventose - si prestava a tutta una serie di possibilità cinematografiche che i registi hanno scartato, optando quasi sempre per le soluzioni più banali (i ricordi sono girati, indovinate, in super8). In sostanza è un film dove Julianne Moore - ovviamente bravissima - perde la memoria. Alec Baldwin rimane forse un po' troppo ingessato nel ruolo del marito che a un certo punto non ce la fa più. Kristen Stewart invece è la figlia di Alice, un'attrice fallita - la sua migliore interpretazione, ah ah ah - no, in realtà almeno nella versione doppiata i suoi monologhi sono un po' imbarazzanti. Molte scene sono efficaci nell'esprimere un orrore quotidiano che è più spaventoso di quello di tanti horror contemporanei, ma alla fine la sensazione è che i registi si siano contentati di descrivere un inferno dal vestibolo. I malati possono comportarsi in modo molto più osceno di così. Possono picchiarti perché nel cuore della notte si svegliano e non ti riconoscono. Possono prendere un figlio per un padre, un nipote per un marito. I malati di quella malattia.

Quella che mi fa più paura di ogni altra al mondo.


Quant'era piccolo il Manitoba all'inizio
C'è un posto in Olanda di cui ho sentito parlare, dove i pazienti sono convinti di vivere una vita normale. Hanno le loro case, i loro amici. Ma le case sono quartieri di una clinica, gli amici sono altri pazienti, e i dottori sono giardinieri e vigili travestiti. Pare che vivano meglio così, più a lungo e con meno medicine. Mi domando se ci possa essere internet, in un posto così. Magari una rete interna. In effetti i primi stadi della malattia somigliano in un qualche modo alla nostra esperienza on line. Tu accendi per controllare la data di scadenza del bollo e, wow, guarda che video di gattini! Postato dalla Columbia Britannica. Che poi tra parentesi dov'è? In Canada credo, fammi controllare - giusto. Ma perché si chiama così? Ah, ma a un certo punto anche gli Stati Uniti dovevano chiamarsi "Columbia", ecco, questo non lo sapevo! Un attimo.

Perché sto controllando la voce Columbia di wikipedia? (Continua su +eventi)

In questi casi a volte lambiccarsi è inutile, meglio andare a controllare la cronologia. Dunque. Kristen Stewart?
Perché sono andato a controllare la bio di Kristen Stewart? Non mi piace nemmeno.
Ha sempre quel broncetto che - no, un momento. Diamo un'occhiata all'ultimo film che ha fatto. Ah, certo, naturalmente.
Posso anche credere che tu sia mia figlia, ma un'attrice la so ancora riconoscere che ti credi


Still Alice (Richard Glatzer, Wash Westmoreland, 2014)

Quanti ricordi puoi perdere prima di smettere di essere te stessa? In uno dei momenti più tranquillamente atroci del film - il film più spaventoso che ho intenzione di vedere quest'anno - il dottore spiega ad Alice che i pazienti intellettuali rendono più difficile il lavoro ai dottori. La memoria se ne va lo stesso, più o meno alla stessa velocità, ma la mente dell'intellettuale conosce più trucchi per tenersi in sella. Forse la cultura, l'istruzione, in fin della fiera consistono in questo: un repertorio di trucchi per ricordare meglio le cose. Se hai studiato sai come girare intorno a un argomento all'infinito. Dopo un po' la gente penserà che ci stai scherzando su. Tu stesso penserai che ci stai scherzando su, e che se solo volessi potresti ricordare benissimo quella parola. Quella data. Quel volto. Quel ricordo.

È un po' come quando ti perdi su internet - esiste un posto in Olanda dove i pazienti vivono in una clinica a forma di paesino - beh, immagino che passino il tempo a discutere un po' come noi discutiamo su Facebook, di tutto e di niente. Non si sa bene chi abbia cominciato la discussione, ogni tanto in cima compare un video di gatti e ci mettiamo tutti a guardarlo, poi ci rimettiamo a parlare di qualcosa o di qualcos'altro ma senza mai concludere nulla, e del resto che dovremmo concludere? Non ci ricordiamo neanche bene come siamo arrivati qui, e però adesso ci siamo e almeno non stiamo picchiando qualche famigliare perché non lo riconosciamo più.

Still Alice si sporge sul bordo dell'inferno, ma non guarda troppo a fondo e forse è un bene. Non c'è niente di davvero interessante laggiù. L'aspetto realmente spaventoso della malattia è il suo primo manifestarsi, con una dimenticanza occasionale, un lapsus, una parola che hai sulla punta della lingua. E allora controlli internet - uh, guarda, c'è un video di cani che interrompono i padroni mentre fanno yoga. Sono buffi.



D'altro canto se continuo a guardare video su internet la recensione quando la scriverò?
La recensione di cosa, poi? Devo ancora guardare il film.
Scusate, è un periodo che sono così distratto - facciamo che se ne riparla domani.

(Mentre cercavo di scrivere la recensione in effetti Still Alice è sparito dalle sale di Cuneo. Lo trovate ancora a Moncalieri alle 19:50).
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Non parlerai di Gaza il 27

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27 gennaio - Giorno della memoria, "al fine di ricordare la Shoah (sterminio del popolo ebraico), le leggi razziali, la persecuzione italiana dei cittadini ebrei, gli italiani che hanno subìto la deportazione, la prigionia, la morte, nonché coloro che, anche in campi e schieramenti diversi, si sono opposti al progetto di sterminio, ed a rischio della propria vita hanno salvato altre vite e protetto i perseguitati" (legge 211/2000).

Aveva le orecchie a sventola.
Una storia del genere capita forse tutti gli anni: quest'anno è capitata a Magenta (MI). Una mostra dal discutibile titolo "Shoah di ieri shoah di oggi" è stata prima patrocinata dal comune, poi precipitosamente annullata quando esponenti della comunità ebraica hanno fatto notare che esporre foto dei campi di sterminio tedeschi accanto a disegni dei bambini di Gaza avrebbe potuto creare "confusione su due piani storici e di consistenza differenti” (Daniele Cohen, assessore alla cultura della Comunità ebraica di Milano). Nel frattempo la proprietaria della libreria che aveva promosso la mostra si dichiara scossa dalle mail di odio ricevute.

Il Giorno della memoria si celebra in Italia ormai da quindici anni. Come tutte le ricorrenze, ha generato in breve tempo i suoi automatismi: la Shoah si è fatta spazio nei palinsesti tv e nei manuali scolastici; persino la programmazione dei cinema ne risente. Chi passa quotidianamente davanti alla vetrina di una libreria conosce la sensazione: a Natale renne e uomini di neve, un mese dopo stelle di David e filo spinato. Ha persino un senso: dopo la festa della bontà obbligatoria, il ricordo di quanto possiamo essere crudeli. De Bortoli qualche anno fa cominciava a sentire una certa stanchezza, avvertiva "un pericoloso scivolamento nella retorica o nella ritualità dei ricordi". Ma retorica e ritualità sono entro un certo livello inevitabili, quando si decide di fissare un evento sul calendario per tutti gli anni a venire. E funzionano: per ogni De Bortoli che si stanca di leggere o scrivere il solito temino, ci sono nuove classi che ogni tanto si affacciano sui banchi di scuola, e di una certa dose di retorica e di ritualità hanno bisogno.

Allo stesso tempo, retorica e ritualità non sono i migliori custodi dei ricordi che loro affidiamo. Così come il Natale non è nato festa dei bambini, e di renne volanti per secoli non si è parlato, anche la giornata della memoria tra un secolo non sarà quella che oggi immaginiamo. Credo che sia inevitabile che col tempo certe narrazioni più rassicuranti, come La vita è bella o Il bambino col pigiama a righe, scacceranno le meno concilianti e più crude. Per ora, si registra il tentativo di respingere le interpretazioni 'attualizzanti'. Mescolare il passato col presente, suggerire come la libraia di Magenta che "i bambini, ebrei e palestinesi, hanno gli stessi sogni", è sbagliato. Come dichiara il suo vicesindaco: "Promuovere quella mostra è stato un grave errore, ci scusiamo eliminandola dal programma. Parlare dei bambini palestinesi il 27 gennaio non è opportuno in quanto è un dramma diverso dal punto di vista storico e di dimensione". 

È un'opinione che tutto sommato condivido: sono convinto che il paragone sballato tra territori occupati e lager nazisti non abbia mai giovato alla causa palestinese. Purtroppo è un paragone che non si può evitare. Ovvero: io posso rispondere di me stesso. Ma non posso evitare che qualcun altro lo faccia (la libertà di espressione, ricordate?) È un paragone sbagliato, proprio dal punto di vista storico e "di dimensione": ma è un paragone inevitabile, com'è inevitabile confondere parole molto simili dal significato anche diverso. Ebrei sterminati in un recinto, israeliani che alzano un recinto. È sbagliato accostare le due immagini, anche se sono simili. È sbagliato istituire correlazioni causa-effetto, ma il nostro cervello funziona così: vede cose simili e cerca di capire se una è la causa dell'altra. Dobbiamo chiedere al nostro cervello di sospendere un attimo la cosa, per favore, perché è controproducente. Una volta sistemata la questione col nostro cervello, dovremmo anche provare a convincere quello degli altri: da bravi, "parlare dei bambini palestinesi il 27 gennaio non è opportuno". Tutti gli altri giorni va bene: il 27 magari evitate. Non è un giorno come gli altri.

Io non credo che la libraia di Magenta sia antisemita, come le hanno scritto a quanto pare in tanti. Mi chiedo spesso a che serva l'etichetta di antisemitismo, se la si banalizza così. Si minaccia in un qualche modo il popolo ebraico esponendo disegni di bambini di Gaza? Si lede l'immagine di Israele e quindi la sua economia e quindi si congiura contro la sopravvivenza del suo popolo? C'è qualcuno che la pensa seriamente così? E se invece esporre disegni non danneggia in nessun modo concreto né Israele né l'ebraismo, cos'è esattamente questo "antisemitismo" che si esprimerebbe solo in pensieri e non in azioni, uno psicoreato? (continua sul Post)

Secondo me la libraia non ha fatto che applicare un principio sul quale veniamo martellati da quindici anni: chi non ha memoria non ha futuro, chi non ricorda il passato è condannato a riviverlo ecc.. Ovvero: ricordare il passato ci dovrebbe servire a interpretare il presente e modificarlo. Cercare a Gaza i lager moderni è un’operazione ingenua, ma in un qualche modo automatica: il risultato del modo in cui insegniamo e studiamo la Storia sin dalla più tenera età. La insegniamo e studiamo come museo degli errori, sollecitando continuamente l’alunno a istituire paragoni con la sua contemporaneità, a domandarsi: tutto questo a che mi serve? Può capitare anche a me? Posso fare in modo che non mi ricapiti? Così, di fronte alla Shoah, scatta automatica la domanda: esistono Shoah oggi? Dove esistono? Come posso combatterle?

A questo punto scatta una obiezione, anche questa ormai automatica: se proprio si devono cercare situazioni paragonabili alla Shoah, perché proprio Gaza? Con tutto il mondo a disposizione? Perché i bambini di Gaza possono esporre in una libreria italiani e di quelli che a pochi chilometri di distanza vivono la tragedia della Siria non ci interessiamo? Giusto. Ma l’obiezione si può anche ribaltare: se la libraia avesse esposto disegni di Kobane invece che di Gaza, la comunità ebraica avrebbe protestato ugualmente per il paragone indebito? Voglio pensare che sì; che se è indebita la Gaza recintata e saltuariamente bombardata dagli israeliani, sarebbe indebita anche Kobane occupata dall’Isis. Che non si tratta di difendere le politiche di Israele, ma di salvare la specificità della Shoah, tragedia assoluta senza termini di paragone.

D’altra parte, a questo punto possiamo domandarci: che ce ne facciamo di una tragedia assoluta se non possiamo usarla come termine di paragone? Che senso ha ricordare l’orrore nazista se poi dobbiamo subito puntualizzare che nessun orrore sulla terra può essere paragonato a esso? O qualche orrore può essere paragonato a esso, senza che nessuno si offenda? È una domanda non retorica. La comunità ebraica è oggettivamente investita della responsabilità non leggera di decidere cosa si debba ricordare nel Giorno della Memoria e cosa no. Il paradosso per cui il 27 gennaio rischia di diventare il giorno in cui tante altre cose devono essere temporaneamente dimenticate, per evitare paragoni sbagliati, era forse prevedibile già nella lettera della legge 211/2000, che definiva la Shoah “sterminio del popolo ebraico” e prescriveva di ricordare “gli italiani che hanno subìto la deportazione, la prigionia, la morte”. Nessun cenno alle altre minoranze sterminate: omosessuali, Testimoni di Geova, zingari sono universalmente riconosciuti come vittime dei lager, ma nella legge non se ne faceva menzione. (Eppure se quindici anni fa avessimo cominciato a riflettere più seriamente su come avevamo trattato zingari e omosessuali durante la seconda guerra mondiale, forse oggi vivremmo in una società diversa. Pensate soltanto a quanti italiani sono passati nelle nostre scuole negli ultimi quindici anni).

La legge insisteva invece sulla tragedia degli ebrei e anche questo ha un senso (un senso “di dimensione”, direbbe il vicesindaco, e suona goffo ma non saprei trovare un’espressione più felice). Nessun genocidio ha le dimensioni di quello ebraico; nessun altro dimostra la geometrica efficienza dell’uomo nell’eliminare il prossimo. Nessun altro mette in gioco la facoltà cruciale della memoria, configurandosi come una sfida alla Storia che, se avessero vinto i nazisti, sarebbe stata riscritta eliminando un intero popolo. Tutto questo è eccezionale e merita che ogni anno ci fermiamo a rifletterci, anche se certi anni non ci verrà in mente niente da dire e ci affideremo alle stampelle della ritualità e della retorica. Ma il dubbio rimane: che senso ha ricordare una cosa che ci è successa, se ogni anno ci dobbiamo affrettare ad aggiungere che è stata eccezionale, non paragonabile a nulla di presente e vivo?

Oggi è il 27 e in molte scuole si tratta di scegliere che film guardare, che brano leggere. Per orientarmi in mezzo a una produzione vastissima io di solito faccio tre mucchi: c’è la Shoah delle vittime, la Shoah degli spettatori e la Shoah dei carnefici. Alcuni prodotti (Schindler’s list) sono abbastanza complessi da rientrare in qualche modo in tutti e tre. La Shoah delle vittime può essere molto cruda (il Pianista), ma conserva di solito un impianto rassicurante: lo spettatore è indotto a immedesimarsi nella vittima, il che lo riempie momentaneamente di angoscia ma lo tranquillizza sulla propria condotta: i cattivi sono gli altri. La Shoah degli spettatori è ambigua, e adatta a un pubblico un po’ più cresciuto, al quale viene chiesto di immedesimarsi in personaggi né vittime né carnefici, che a un certo punto devono fare una scelta. La scelta di solito è di opposizione al nazismo, e quindi anche queste opere si chiudono su una nota rassicurante. La Shoah dei carnefici è quasi improponibile nelle scuole, ma credo che da un certo punto in poi dovrebbe essere l’unica a interessare chi ebreo non è, e non è omosessuale o zingaro, o testimone di Geova o handicappato: il passato che rischiamo di rivivere, se non stiamo attenti, è quello in cui gente come noi non fu vittima, ma volenterosa esecutrice.

Credo che un film come quello di Spielberg andrebbe visto almeno tre volte: da ragazzini, per immedesimarsi nella bambina col cappotto o i bambini nascosti nella latrina; più in là nell’adolescenza, quando cominciamo a sentire i pruriti di Oskar Schindler per le belle ragazze e i bei vestiti (e abbiamo ancora bisogno di qualcuno che ci perdoni, se nel finale ci scioglieremo in lacrime); a vent’anni, per specchiarsi in Amon Goeth. Si spera poi nella vita di non dover essere nessuno dei tre, ma è Goeth quello da cui ci dovremmo guardare con più attenzione. Se continuiamo a dirci che è stato eccezionale, il monstrum dei latini, un caso straordinario a cui nessuno è (in)degno di paragonarsi; se non riusciamo a intravedere nei suoi occhi un bagliore simile ai nostri, allora sì, può darsi che il rito davvero non stia funzionando; che la retorica stia girando a vuoto.
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Il prof Lo Cascio è sempre più laido

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Il nome del figlio (Francesca Archibugi, 2015)

"Se lo avete odiato
nel Capitale Umano e nei
Nostri Ragazzi, non perdete
le sue nuove figure di m."
Luigi Lo Cascio è un intellettuale di sinistra che un tempo era idealista è adesso è soltanto frustrato. Ancora? Sì. È il terzo film in un anno in cui fa si ritrova nello stesso personaggio, e ogni volta riesce a metterci dentro qualcosa di più ributtante. Stavolta per esempio è schiavo di twitter, e la fatica di pensare in segmenti di 140 caratteri, gli impedisce di aiutare la moglie a sparecchiare e assolvere ad altri doveri coniugali. Ora io capisco che casting che vince non si cambia, ma tra un po' siamo alla Commedia dell'Arte; c'è il serio rischio che al prossimo carnevale tra le maschere di Arlecchino e Balanzone spunti quella di Lo Cascio Prof di Sinistra Frustrato. Il suo antagonista è, per la seconda volta in sei mesi, Alessandro Gassman Pariolino Apparentemente Arrogante ma Dal Cuore d'Oro.


Ci lamentiamo di Hollywood che fa troppi sequel, ma il Nome del figlio rischia di presentarsi come I nostri ragazzi 2 - il ritorno. Ancora una cena, ancora parole grosse tra parenti, guest star Micaela Ramazzotti che indovinate, fa la coatta (stavolta, purtroppo, non bisessuale, ma ci auguriamo sia un'eccezione), Valeria Golino ancora una volta madre amorevole ma oberata dagli impegni, Rocco Papaleo musicista. I nostri ragazzi era tratto da un thriller olandese, Il nome del figlio da una commedia francese: è strano che si somiglino. Vorrei però confortare chi ha espresso il timore che il film risulti incomprensibile fuori dal Raccordo Anulare. In realtà il rifacimento italiano di Le prénom non è poi così lontano dal testo originale, e lo si può serenamente apprezzare anche se si ha un'idea molto vaga del Pigneto e di Casal Palocco. Francesca Archibugi e Francesco Piccolo si sono impossessati del testo in modo più sottile, ricavandone un film secondo me più interessante di quello francese, proprio per come si allontana dal modello pur rispettandone apparentemente le strutture.


Lo sai cosa sei? Sei un paguro! (Giuro).
Considerato che si trattava della riduzione di un testo teatrale su due coppie (e mezza) che si rinfacciano le peggio cose a cena, il rischio di un film 'urlato in faccia', alla Baciami ancora, era altissimo. Il modo in cui l'Archibugi lo ha sventato ha del miracoloso: è commovente vedere attori italiani che riescono a litigare per più di un'ora sbroccando soltanto quand'è davvero il momento, senza sbavate inutili. Lé prenom era un film molto più autoindulgente verso le sue origini teatrali; un tipico buon prodotto della borghesia francese per la borghesia francese (l'unico elemento estraneo, un fattorino porta-pizza, veniva scacciato al terzo minuto). In scena andava un classico gioco delle parti tutto interno a quel milieu: intellos arrabbiati contro neogollisti goderecci e rampanti. Una contrapposizione molto meno netta e divaricata di quella tra postcomunisti e postfascisti italiani. Quello che nel Prénom era una discussione oziosa e astratta sul tabù di Hitler e sul narcisismo della sinistra, condotta da benestanti contenti con un bicchiere in mano, nel Nome del figlio viene presa più sul serio: metà dei personaggi diventano ebrei figli di un reduce di Auschwitz, l'altra metà è declassata affinché il conflitto sociale scoppi davvero. Il personaggio del musicista, che nella versione francese era un trombonista svizzero un po' fuori del mondo, nel film diventa letteralmente il figlio della serva. Ma la differenza più spettacolare la fa ovviamente Micaela Ramazzotti.

Il Pigneto non è un arrondissement. Non può e soprattutto non vuole diventare un mondo a sé; non se la passa certo male ma sotto sotto si vergogna di non essere come Tutti, e quindi li invita a cena sotto forma di una scrittrice coatta di best-seller.  Nell'originale francese il suo personaggio era un'algida manager di una maison di moda: con questa trasformazione il film ottiene almeno tre risultati molto interessanti. Il primo è far entrare effettivamente un po' di aria fresca. La seconda è infilare tra una riga e l'altra del canovaccio francese un'ode alla spontaneità dei neoprolet di borgata, loro sì che sanno come si racconta una storia, mica noi borghesi e parassiti di borghesi (il fatto che questa ode la intoni forse Piccolo è un cortocircuito meraviglioso). La terza è caricare ulteriori frustrazioni sulle spalle del repellente Lo Cascio, che ovviamente invidia la scrittrice di successo perché il suo libro invece non se l'è comprato nessuno.

Forse parlo da uomo ferito, però l'accanimento nei confronti dello stereotipo locasciano dell'intellettuale di sinistra comincia a sembrarmi eccessivo. (continua su +eventi!) Se Le Prénom riservava qualche frecciata a tutti i personaggi (mostrando le unghie più che graffiare davvero), la sua versione italiana sembra molto più sbilanciata nel distribuire difetti e responsabilità. Alcuni finiscono per uscirne quasi esenti. Su Lo Cascio invece si infierisce senza pietà, quasi dovesse chiedere scusa per sempre per aver dato il volto dieci anni fa a un progressismo sorridente e ottimista nei film di Giordana. Uno stereotipo altrettanto irritante, d’accordo, ma non è colpa sua se quel progressismo ha mostrato nel frattempo tutti i suoi limiti. D’altro canto in Lo Cascio si rispecchia una fascia di spettatori che pratica orgogliosamente l’autocritica, ridendo volentieri dei propri difetti, e che al cinema ci va già. Quindi tanto vale continuare a prenderlo di mira, tanto più che bisogna attirare altre fasce di mercato: stuzzicare i coatti, confortare i borghesi, proporre pariolini simpatici, insomma andare verso il centro, verso quelli che votavano Berlusconi e non vogliono sentirsi dire che si sono fatti prendere in giro per vent’anni anche se sono i primi a sospettarlo. Vogliono vedere Renzi che se la prende coi dinosauri di sinistra, vogliono leggere Piccolo che se la prende coi radical di sinistra, vogliono vedere al cinema un tipo di sinistra come se lo immaginerebbero Sallusti e la Santanché al telefono, un disadattato schiavo di twitter che si riempie la bocca di imperativi categorici e non sa neanche dove sua moglie tiene le posate, un parassita che sicuramente insegna cose inutili (ha appena finito un corso di “metrica ariostesca”). E Lo Cascio si presta, ma a questo punto forse dovremmo smettere di prestarci noi.

Intellettuali e cognitari di sinistra, uniamoci! Facciamo sentire la nostra voce mentre diciamo chiaro e tondo che questo è l’ultimo film di Lo Cascio intellettuale frustrato che abbiamo intenzione di vedere. Come riparazione esigiamo un film in cui l’intellettuale di sinistra lo farà Argentero a torso quasi sempre nudo, dottore di ricerca in filologia romanza, irresistibile tombeur de femmes costretto dalle circostanze della vita ad affrontare a mani nude un commando neonazista pariolino che ha preso in ostaggio un asilo nido – un film così ci porto le classi a guardarlo, anche a prezzo ridotto è un affare, rifletteteci. Va bene voler piacere a Tutti, ma ogni tanto vi conviene piacere anche a Me.

Trovate Il nome del figlio al Cinelandia di Borgo San Dalmazzo (20:30, 22:40); all’Impero di Bra (20:20, 22:30); ai Portici di Fossano (20:30, 22:30); all’Aurora di Savigliano (21:15). Buona visione!

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Il cecchino pasticcione

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American Sniper (Clint Eastwood, 2014)

Invece di sparare subito al bambino potresti tirare a un metro per dissuaderlo. Ci hai pensato anche solo un istante?
"Figliolo".
"Papà".
"Devi sapere che le persone si dividono in due categorie: pecore e lupi".
"E i cani pastore?"
"Sono contento che tu mi abbia fatto questa domanda. Devi sapere che a un certo punto alcuni lupi si sono accorti che le pecore erano risorse non rinnovabili, insomma, se ogni lupo pretendeva di continuare a mangiarne a pranzo e cena presto sarebbero finite, e sarebbero morti tutti".
"Quindi decisero di cambiare dieta?"
"Ah ah ah ah, no. Cominciarono ad ammazzarsi tra loro".
"E le pecore?"
"Qualche lupo cominciò a offrire a greggi intere la propria protezione. Meglio consegnargli un agnellino ogni tanto che farsi sbranare da branchi inferociti, no? E questi divennero i cani pastore".
"E i lupi?"
"Se li troviamo li facciamo fuori".
"E se non ce ne fossero più?"
"Li andiamo a cercare. Anche dall'altra parte del mondo se necessario. È vitale che ci siano i lupi. Se le pecore smettono di avere paura dei lupi, è la fine".
"Papà, ma quindi noi chi siamo?"
"Pecore non siamo".
"Allora siamo lupi o cani pastore?"
"Dipende, figliolo".
"Dipende da cosa?"
"Dal mirino del tuo fucile. Se c'è inquadrato qualcuno, è un lupo: e tu sei il cane. Quindi spara".
"Quindi noi... siamo i cani".
"Finché nessuno ci mette nel mirino".
"È complicato, papà".
"Tu spara, capirai col tempo".

Appena tornato dalle vacanze ho chiesto in classe se qualcuno per caso avesse visto il Ragazzo invisibile, giusto per verificare la mia triste opinione. Nessuno. Non l'aveva visto nessuno. Invece tutti non vedevano l'ora di andare a vedere American Sniper. I fratelli Kouachi avevano appena massacrato i redattori di Charlie Hebdo, ma probabilmente l'ultimo film di Eastwood non aveva necessità di un lancio di questo tipo per mettere d'accordo cinquantenni cinofili, trentenni fascistoidi, decenni in crisi d'astinenza post-natalizia da playstation. American Sniper è quel tipo di film che non potrebbe andare male al botteghino neanche se ci si impegnasse: ci sono le scene da sparatutto in soggettiva, c'è quel patriottismo americano che piace tanto anche da noi, la retorica dei corpi d'élite, le classiche scene preparatorie in cui gli addestratori urlano stronzate demenziali mentre tartassano le reclute con torture assurdamente incongrue (secchi d'acqua gelida sul pacco per prepararsi al deserto iracheno?) E poi dirige Clint, che a ottant'anni continua a guardare dall'alto un po' tutti. Specie perché stavolta non si tratta di gruppi vocali in falsetto, ma di guerra in Iraq: una situazione in cui il suo nome non funziona soltanto da suggello di garanzia, ma anche da pungolo per lo spettatore critico, perché dopo tanti anni e tante guerre e tanti film veramente non lo sai cosa potrebbe dirti stavolta, il vecchio Clint. Il patriota tutto d'un pezzo di Gunny che però ci ha anche lasciato Flags of Our Fathers e Lettere da Iwo Jima, cosa ne pensa della storia del più letale cecchino americano? Eh.

Probabilmente entrare in sala con questa domanda è il miglior modo per uscirne delusi. Non che Eastwood non abbia qualcosa da dirci. Non che non ce lo dica con l'asciuttezza e l'eloquenza consuete. Ma sembra in qualche modo distratto anche lui, come quel veterano che quando ci parli è sempre evasivo e non ti guarda dritto in faccia volentieri. Come seduto sul tappo di un vespaio che non ha intenzione di aprire mai più.

Lo si può apprezzare se non altro per l'onestà: American Sniper non è uno di quei film furbetti che si scrivono oggigiorno, ambigui quanto basta per consentire a qualsiasi spettatore di rispecchiare le sue idee (quando uscì Zero Dark Thirty, Michael Moore lo salutò come un film che denunciava la tortura: ve ne eravate accorti?) Sarebbe bastato poco per confezionare un prodotto così. Non sarebbe stato nemmeno necessario inventarsi qualche crepa nel monumento che Chris Kyle si era costruito da solo nella sua autobiografia piena di dettagli inverosimili e mai verificati: bastava evidenziare quelle che c'erano già. Approfondire il rapporto col padre (che scompare dopo cinque minuti) o col fratello (scompare dopo un'ora). Evitare insomma che l'unica vera voce di inquietudine fosse Mrs Kyle, una Sienna Miller che alla decima volta che dice "Amore tu non sei davvero qui" farebbe venir voglia di tornare in Iraq anche me che non ho mai fatto il militare.

Ma non sei qui con me perché pensi sempre alla guerra, o ti sei trovato una guerra perché non hai voglia di stare qui con me a rispondere alla domanda che ti ho appena fatto? Ehi? Mi senti? Ti ho chiesto se sei qui con me perché pensi sempre alla guerra o...
Il film invece sceglie di smussare tutti gli spigoli, scartando anche opportunità spettacolari, in funzione di un messaggio elementare: l'eroismo è necessario, ma è un fardello pesante. Tutto qui? Tutto qui. Se non la pensate così, peggio per voi: il vecchio Clint non ha nessuna intenzione di venirvi incontro. Ma se la pensate come lui forse vi aspettavate qualcosa di più. E invece Clint distoglie lo sguardo, risponde a monosillabi, sembra che abbia voglia di chiudere la conversazione il prima possibile.

La spiegazione potrebbe essere delle più banali: il film è diventato suo solo in un secondo momento. Il progetto, fortemente voluto da un Bradley Cooper in cerca di Oscar (e infatti è in lizza anche come produttore), passa a un certo punto per le mani di Steven Spielberg, che nel soldato Ryan aveva già tratteggiato una figura di cecchino indimenticabile. Spielberg forse si accorge che l'autobiografia di Kyle, oltre a fare un po' acqua quanto a verosimiglianza, è priva di un elemento fondamentale a ogni epos: un Nemico identificabile, qualcuno con cui misurarsi ad armi pari. Nasce così la figura del cecchino nemico, intorno alla quale Spielberg costruisce uno script di 160 pagine che spaventa la Warner. Il duello di cecchini sulla carta non poteva non ricordare quello ambientato a Stalingrado nel Nemico alle porte di Jean-Jacques Annaud, un film che tanto doveva al Soldato Ryan - specie nella spaventosa sequenza in cui i nazisti massacrano le reclute sovietiche. Ma prima di quella sequenza c'è quella iniziale, in cui il padre di Jude Law insegna al figlio come si tira all'orso: la stessa scena che ritroviamo, un po' prevedibilmente, all'inizio di American Sniper. Quando nell'agosto del 2013 Spielberg rinuncia al progetto, Eastwood viene contattato immediatamente e mi piace immaginarlo mentre si infila il berrettino e si dice Coraggio, portiamo a casa questo cazzo di film. La sua versione non rinnega del tutto la visione spielberghiana: sopravvive il personaggio del cecchino nero, l'uomo che Kyle deve uccidere per riportare davvero la testa a casa dall'Iraq. È un'idea più romanzesca che biografica, ma ormai era scritta e il regista non poteva o voleva perder altro tempo a ripensare la storia.

Il Kyle che esce dal film è ancor più tagliato a metà (continua su +eventi...) quando è a casa sembra il protagonista di un reality sulla sindrome post stress traumatico; quando è in Iraq si dedica a una caccia all’uomo ossessiva e tatticamente abbastanza disastrosa. Tutto il film si svolge in una strana bolla temporale: Kyle decide di arruolarsi dopo gli attentati alle ambasciate del ’98, ma non è pronto per il fronte fino alla guerra in Iraq (2003!) I “turni” all’inizio durano sei settimane, al termine delle quali un figlio appena nato può già camminare sulle sue gambe e discutere col padre (ma continuate pure a lamentarvi di Interstellar). I cattivi sono cattivi perché sono cattivi: e siccome ai buoni capita di tirare ai bambini, la cattiveria dei cattivi prevede l’uso del trapano contro altri bambini. Nessuno si domanda mai, nemmeno retoricamente, perché Kyle e i suoi compagni si trovino in Iraq per difendere gli USA da un’organizzazione terroristica basata tra Afganistan e Pakistan. L’Iraq peraltro è un enorme set di Call of Duty in cui l’esportazione massiccia di democrazia sembra non ottenere nessun tangibile effetto.

Su questo set, Chris Kyle si dimostra tiratore tanto magnifico quanto soldato pasticcione. Almeno una volta disobbedisce platealmente agli ordini; si improvvisa interrogatore e negoziatore e dirige commandos senza averne le competenze – e infatti combina disastri: quello che lo tormenta una volta a casa potrebbe essere stress post-traumatico, ma anche un banale senso di colpa per aver più volte trascinato i compagni a morire in situazioni inutilmente pericolose. Malgrado gli effetti sonori, i siparietti domestici finiscono per farlo assomigliare a un qualsiasi workahoolic durante la crisi del fine settimana: ora che faccio? chi sono? perché non sono in ufficio/in cantiere/in prima linea? In ogni caso la soluzione al suo male di vivere non è così complessa: la fine tragica e assurda di Kyle avrebbe potuto fornire un finale molto più inquietante, ma Eastwood preferisce congedarsi con serenità, riuscendo se non altro a ottenere il massimo di patriottismo con il minimo di retorica.

American Sniper è ovunque – copritevi le spalle. Al Cityplex di Alba (21:00); al Cinelandia di Borgo S. Dalmazzo (20:00, 22:45); al Vittoria di Bra (21:30); al Fiamma di Cuneo (21:00); ai Portici di Fossano (20:00, 22:30); al Cinecittà di Savigliano (21:30).
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Il ragazzo inguardabile

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Il ragazzo invisibile (Gabriele Salvatores, 2014)

Michele Silenzi vorrebbe tanto fare il supereroe, ma non può permettersi un costume americano. Neanche cinese - è allergico all'acrilico. Non gli resta che l'opzione più disperata: sarà il primo supereroe italiano. Che tipo di supereroe? Invisibile, pensa. Mal che vada passerà inosservato. Michele non sa che la gente lo vede benissimo, ma preferisce guardare da un'altra parte...

È in missione per fregare le soluzioni delle verifiche di Mate dal cassetto della prof.

Questa settimana pensavo di scrivere qualcosa sul Ragazzo invisibile di Salvatores, prima che un film un'operazione commerciale coraggiosa ai limiti della spavalderia. Purtroppo Il Ragazzo era già scomparso dalle sale di Cuneo e provincia. Oggi è riapparso a Fassano, sennò bisogna salire a Moncalieri, ed è l'unica sala in tutta la provincia di Torino - nel capoluogo lo danno in altre due. Anche a Milano non è che la situazione sia molto più rosea. Il Ragazzo è uscito due settimane fa, a Natale, pigliandosi in pieno la botta di Big Hero 6, un film Disney-Marvel in 3d concepito più o meno per lo stesso pubblico. Com'è andata?

Siccome prima che di un film stiamo parlando di un'operazione commerciale coraggiosa (ai limiti dell'imprudenza), più che delle opinioni personali valgono i numeri. È un film costato otto milioni; in due settimane ne ha recuperati quattro, ma nelle sale comincia a latitare. Qualsiasi confronto con le altre pellicole italiane (tutte commedie più o meno panettonesche), o coi bluckbuster americani non ha senso: il Ragazzo correva da solo, in un campionato a parte. L'impressione personale - spassionata, addolorata, di un vecchio fan di Nirvana - è che questa corsa il Ragazzo la stia perdendo. Magari se fosse stato un buon film di supereroi fatti in casa, con pochi ma efficaci effetti speciali e tanto amore... alla fine sarebbe andato male comunque; ma il fatto che sia un compitino distratto, svolto svogliatamente da maestranze poco convinte, non aiuta.

Proprio perché si trattava di un'operazione coraggiosa ai limiti della follia (infilarsi una calzamaglia e sperare che i ragazzini ti prendano sul serio), nell'esecuzione ci si sarebbe aspettato di vedere all'opera tutto questo coraggio, tutta questa follia. Se hai davvero deciso di fare un film di supereroi; se hai deciso di lottare contro la Marvel e la Warner per il cuore dei ragazzini, sai dal principio che le possibilità di vincere sono nulle; ma anche che se solo riuscirai a segnare un punto - un punto solo, come Bud Spencer in Bulldozer - sarà una cosa epica, da raccontare ai nipoti. Il Ragazzo quel punto non lo segna, il che era prevedibile; ma il guaio è che nemmeno ci prova. Nirvana almeno ci provava - certo il cyberpunk era un filone più congeniale al regista. Il Ragazzo gioca in difesa tutto il tempo sperando di ridurre i danni, invano. È davvero un ragazzino finito per imprudenza in un mondo molto più grande di lui, persuaso in qualche modo che un costume aderente e un superpotere gli sarebbero stati sufficienti per avere una chance.

"Però che fotografia!"
Servirebbero invece trucchi, armi segrete, e non ne abbiamo. Certo, l'effettistica hollywoodiana non possiamo permettercela, ma se ci impegnassimo potremmo isolare singoli aspetti di un genere codificato negli USA ed esagerarli fino al grottesco - come fecero con risultati straordinari, in tempi ormai lontani, Leone o Bava. Un esempio più contemporaneo è Luc Besson che pestando a tavoletta il pedale della tamarraggine è riuscito a creare l'EuropaCorp, una macchina da euro che ultimamente riesce a succhiare persino i dollari degli spettatori americani. Purtroppo Salvatores non è Besson, non ci tende e non ci tese mai. Non fa action, non ci ha nemmeno mai provato. Quando Besson girava le soggettive delle pallottole lui faceva sparare in aria Silvio Orlando in Sud: riuscite a immaginare film più diversi? Più o meno la differenza tra un rapper gangsta e un alternativo del Leonkavallo; ognuno ha i suoi gusti, ma a chi dei due fareste girare il vostro film di superoeroi?


Un'altra possibilità era trovare una storia originale. Qualcosa che gli americani ancora non hanno e che in seguito ti copieranno, così come copiano noir svedesi, horror norvegesi, manga dal Giappone.  Purtroppo il Ragazzo va esattamente nella strada opposta, verso un cinema di serie B superderivativo (che se fosse davvero di serie B e non costasse i milioni farebbe simpatia) adottando con rassegnazione più che entusiasmo il canovaccio tipico di ogni racconto di formazione supereroistica da Stan Lee in poi, con un uso delle citazioni esibito, bonelliano. Tanto valeva bussare direttamente alla Bonelli Editore e chiedere se qualcuno per caso non avesse una storia già pronta, e migliore - se di solito i supereroi ci collaudano per decenni sulla carta prima di passare alla pellicola, forse c'è un motivo. Dico Bonelli perché è la principale industria dei sogni italiana, assolutamente autoctona, e sta reggendo quasi da sola una crisi infinita continuando a vantare numeri paragonabili a quelli degli omologhi americani. Non è certo roba raffinata, ma se si cercava qualche artigiano in grado di buttar giù dialoghi credibili bisognava cercarlo lì.

Invece gli sceneggiatori del film – neanche gli ultimi arrivati, purtroppo – si trovano più volte nell’evidente imbarazzo di non sapere cosa mettere in bocca ai loro personaggi. Sono quei momenti in cui la citazione non è più una strizzata d’occhio, ma l’ancora di salvataggio per tirarsi fuori da vuoti improvvisi di idee: come facciamo a rendere il panico di Michele durante la festa in maschera? Boh, come farebbe un ragazzino in quella situazione? E chi lo sa, chi li ha mai visti i ragazzini. Buttiamo lì una scena di Shining, i genitori capiranno e i bambini magari si spaventeranno (il film di Kubrick ritorna pigramente almeno un paio di volte: del resto alla festa in maschera delle medie della classe ’00 non c’è un solo mostro che un cinquantenne non riconosca al volo).  
Salvatores gli vuol bene teneramente a quel personaggio come fosse il suo figlioletto: ”guarda quant’è adorabile quando diventa invisibile” (Jackie Lang)

Terrorizzati dall’idea di osare qualche effetto speciale in più, gli autori scelgono il superpotere meno spettacolare per definizione – l’invisibilità – nonostante costituisca un problema non da poco per la messa in scena (un problema a cui Salvatores non trova una soluzione coerente: a volte ce lo mostra anche se è invisibile, a volte no). L’invisibilità si presta poi a tante scipite metafore con la condizione giovanile… ecco, questa poteva essere un’idea: ma è stata immediatamente smarrita per strada. Michele non è il classico ragazzino invisibile che si aggira tra scuola e famiglia senza che nessuno lo noti o ne intuisca le potenzialità. L’esatto contrario: la madre lo cerca dappertutto, a scuola i bulli lo prendono di mira: che non è evidentemente il problema di chi si sente invisibile. A casa è servito e riverito, la mamma lo marca stretto, è naturalmente la migliore del mondo e ha sempre tempo e cinquanta euro per lui (sul paternalismo dominante si è espresso già Jackie Lang sui 400 Calci; siamo davanti a un film per ragazzini che non ha nemmeno il coraggio di prendere un po’ in giro i genitori).Con la scusa che è introverso, Michele tace il più del tempo e non fa nessuno sforzo di sembrarci simpatico – nei fatti non lo è. Non solo ha le tipiche reazioni esagerate dei teenager cinematografici italiani (“MI HAI LAVATO IL COSTUME NON SEI LA MIA VERA MADRE TI ODIOOOOOOOH!“), ma ha un maggiordomo Alfred che è una bambina di otto anni, non proprio l’ideale come spalla comica: del resto non è la sola a esprimersi per didascalie (“Sei-un-supereroe”, “Devi-dire-la-verità-alla-ragazza”). Completamente ignorata la lezione dei migliori film Marvel, dove tra una sequenza action e l’altra il ritmo è quello sincopato delle commedie e tutti un sacco di cose da dirsi. Neanche i superpoteri renderanno Michele umanamente migliore: quel che riesce a scoprire sui suoi compagni non lo induce a farseli amici, ma a scavalcarli con supponenza sbattendo loro in faccia i problemi più intimi; del resto chi ha bisogno di amici quando può conquistarsi la ragazza coi risultati (rubati!) della verifica di matematica. Insomma pare che dai grandi poteri derivino grandi opportunità di circuire il prossimo: il che fa davvero di Michele il primo supereroe italiano – ma speriamo anche l’ultimo.

Ora se voi pensate che i ragazzini si bevano una roba del genere perché tanto sono ragazzini, magari con la scusa della difesa dell’italianità, temo che abbiate frainteso la situazione. I ragazzini non sono il vostro parco buoi – ovvero, probabilmente puoi fregarli su tante cose, ma sui film di supereroi no. Ci sono cresciuti in mezzo – sono nati quando Sam Raimi reinventava Spiderman – e se li sono visti tutti, presto o tardi, in dvd o in streaming. Può darsi che non capiscano nulla di politica e di musica e di sentimenti, ma quando si arriva a parlare di supereroi e superproblemi sono dei cazzutissimi esperti, dei sommelier; non puoi annacquare aceto in una damigiana e raccontare che è il migliore spumante italiano, un’eccellenza slow food da difendere. Se davvero lo fai, sei coraggioso oltre i limiti della onestà.


Il ragazzo invisibile a Cuneo e provincia è quasi scomparso. Qualcuno dice di averlo visto ai Portici di Fossano verso le 20:30.
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Turing: uomo o computer?

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The Imitation Game (Morten Tyldum)


Se proprio vogliamo giocare a trovare una data, potrebbe essere il 1994. L'anno in cui Alan Turing - morto da 40, forse suicida - cessò di essere considerato malato perché aveva rapporti sessuali con persone del suo sesso e cominciò a essere considerato malato perché divideva la verdura nel piatto a seconda del colore, o non comprendeva l'intonazione ironica delle domande dei colleghi. Nel 1994 usciva la quarta edizione del Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali (DSM-IV), il primo in cui l'omosessualità non era più considerata una malattia, nemmeno nella sua variante ego-distonica. Proprio nella stessa edizione compariva per la prima volta il nome di una sindrome dello spettro autistico destinata ad avere un certo successo nella pubblicistica e nella narrativa: Asperger.

Più o meno in quel periodo dagli archivi del Regno Unito cominciavano a uscire i documenti de-secretati che mettevano a fuoco il ruolo cruciale di Turing nel progettare l'enorme "computatore" che aveva consentito agli Alleati di decifrare i messaggi radio nazisti e vincere la Seconda Guerra Mondiale. Incidentalmente, era lo stesso momento in cui tutti cominciavamo a comprarci un computatore domestico, molto più potente e leggero della bestia preistorica che aveva vinto la guerra, ma pur sempre una Macchina di Turing. È da metà anni Novanta che il prima semisconosciuto Alan Turing è diventato uno degli eroi che hanno plasmato il  mondo in cui viviamo: non più suicida perché depravato, ma martire di un osceno perbenismo. È una buona storia (o "narrazione", come si dice adesso), e non ha veramente nulla che non vada: Turing non ha proprio vinto la guerra da solo, come il film di Tyldum ci suggerisce, ma ha dato un contributo importante; e se ci toccasse per esigenze scolastiche o divulgative eleggere un "inventore del computer", nessun nome ci sembrerebbe più giusto del suo - specie se l'alternativa vulgata è Steve Jobs.

Però è pur sempre una storia. È semplificata, drammatizzata, distorta quanto basta per poterla disporre su un arco narrativo, di quelli che ci piace ammirare in un buon film nel 2015. È soprattutto una storia che ci raccontiamo adesso, e che tra vent'anni potrebbe non reggere più - l'Asperger potrebbe uscire dal DSM proprio come ne uscì l'omosessualità vent'anni fa, e le difficoltà sociali di Turing potrebbero tornare a essere interpretate come le vedevano molti dei suoi contemporanei: stravaganze più o meno tollerabili di uno scienziato molto concentrato nel suo lavoro. Quel giorno il film di Tyldum sarà visto con la stessa divertita perplessità con cui a volte diamo un'occhiata a vecchi film in cui gli omosessuali sono sempre freak disperati: davvero occorreva insistere sull'innocua mania di dividere le verdure, sugli scherzi dei compagni di scuola, o su una presunta sociopatia pure smentita da altre testimonianze?

In futuro rideremo anche della convenzione cinematografica per cui l'unica matematica del gruppo dev'essere per forza una strafìca.

Turing ebbe grandi amici, anche quando lavorava per i Servizi inglesi; ma gli Asperger fanno fatica a farseli, e quindi per buona parte del film deve diventare un nerd insensibile. Gli Asperger tendono a compensare la carenza di interlocutori inventandosi amici immaginari, e quindi Turing deve battezzare il computatore col nome del suo unico amico, "Cristopher" - non risulta da nessuna biografia, per tutti il computatore era noto col nome "The Bombe". Non era un amico immaginario, né il perduto amore, né il figlio impossibile: queste sono tutte storie che ci raccontiamo. Era un progetto messo in piedi già dai servizi polacchi, che Turing riprese e reinterpretò genialmente, anche quando i nazisti cambiarono sistema e dovette ricominciare tutto da capo. Nel frattempo seguì altri progetti, ma sui manuali c'è scritto che gli Asperger si concentrano soltanto su un progetto alla volta, e quindi l'esperienza di Turing alla base di Bletchley Park viene semplificata: addirittura esiste un solo computatore (ne vennero costruiti centinaia).

La necessità di trasformare la biografia di Turing in un caso di Asperger da manuale passa sopra qualsiasi esigenza, perfino quella di farne un martire gay; forse perché i manuali non individuano nessuna correlazione tra omosessualità e autismo, e quindi la doppia vita dello scienziato esce quasi del tutto dall’obiettivo. È la causa più probabile della sua tragica morte, eppure non c’è spazio in tutto il film non dico per una puntatina in un locale equivoco, un bacio, un abbraccio, ma nemmeno uno sguardo che tradisca desiderio; solo nei flashback dei tempi di Cambridge è consentito al giovane collegiale di avere una vita sentimentale. Poi basta perché sui manuali gli Asperger non ne hanno quasi mai. Solo l’amica fidanzata-schermo, perché è pur sempre un film e un posto per Keira Knightley bisogna trovarlo (ne vale anche la pena, diciamolo).

La narrativa ‘aspergeriana’ si ritrova a disagio con certi dettagli (anche il suicidio è solo un titolo in sovraimpressione) e ne cancella altri su cui avevano fantasticato i biografi più sensibili alle tematiche omo: scompare del tutto così la leggenda della “mela di Biancaneve”, secondo cui Turing, appassionato in modo ossessivo del film di Disney, avrebbe deciso di suicidarsi iniettando il cianuro in una mela. Tutto quel che si sa davvero è che c’erano i resti di una mela in cucina, ma Turing ne mangiava una al giorno. Però immaginate che spunto incredibile per un film: lo scienziato già brillante che contempla il suo corpo trasformato dalla castrazione chimica, il seno che gli sta crescendo, Specchio, Specchio delle mie brame… No, niente da fare, è una cosa per niente Asperger. Non c’è spazio nemmeno per le derive complottarde (Turing era al corrente di segreti di guerra), eppure le circostanze del suicidio non sono del tutto chiare (forse l’ingestione o inalazione del cianuro fu del tutto incidentale). C’è spazio per una sola ipotesi portante: Turing ha inventato la Macchina perché sin da bambino non era in grado di comunicare coi suoi simili.

Il Turing di Cumberbatch (bravissimo, va da sé) non sarebbe che l’ennesimo supereroe con superproblemi della stagione cinematografica. Lui solo può decidere quali battaglie vincere e quali perdere, perché non prova le emozioni dei normali mortali; un suo collega lo supplica di salvare il fratello nel mirino dei tedeschi (storia completamente inventata), lui non può. Non capisce il dramma dell’individuo, solo la statistica. La sua reazione alla violenza non è istintiva, ma mediata da un ragionamento, perché così fanno gli Asperger sui manuali, e pur di mostrarlo ci inventiamo la scena in cui un collega gli rompe il naso e lui continua la lezione. Questo film, che ha l’ambizione di presentarsi come un enorme test di Turing (Era un Uomo o un Calcolatore?) in realtà contiene in sé la risposta e il suo corollario: se fosse stato solo umano la guerra l’avrebbe persa. Per fortuna che il Messia dei Computatori si è fatto provvisoriamente uomo per darci la luce, il suo figlio Cristopher, padre di tutti gli ammennicoli digitali che abbiamo in casa. Fidiamoci di loro. Non capiscono le nostre battute, a volte si piantano e sono davvero irritanti – ma sono la nostra unica speranza contro il caos là fuori, in tutte le battaglie e i bombardamenti che ci aspettano.

The Imitation Game è al Cityplex di Alba (17:00, 19:30, 22:00); al Cinelandia di Borgo S. Dalmazzo (15:10, 17:40, 20:15, 22:40); al Vittoria di Bra (21:15); all’Italia di Saluzzo (20:00, 22:15); al Cinecittà di Savigliano (20:20, 22:30). Buona visione e buon Anno!
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Che pasticcio, mitica Amy!

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Gone Girl (David Fincher, 2014)

Io e te ci vogliamo bene e non ci lasceremo mai. Soprattutto non ci volteremo più le spalle, mai più. Mai più tempi morti - nessuno resterà in casa da solo quella mezz'oretta necessaria a organizzare un piano di fuga. Gli oggetti appuntiti piano piano scompariranno - non tutti in una volta, ciò potrebbe insospettirti. Le videocamere di sorveglianza faranno il resto. Buffo, ormai inquadrano più gli interni che gli esterni.
Le hai riconfigurate tu?
Hai fatto bene.

Caro Babbo Natale: non chiedo molto per cominciare il 2015. Forse mi basterebbe una mezz'ora da solo con qualcuno che lavori nella distribuzione italiana. Non gli chiederei le solite cose come "Perché avete tradotto Gone Girl con l'Amore bugiardo?", perché la risposta la so e se ci fossi io al posto suo per riempire due sale in più l'avrei chiamato Se mi tradisci scompaio, o Tutti pazzi per la Mitica Amy. Non gli chiederò semplicemente il motivo per cui l'uscita è stata ritardata quanto basta da permettere a tutti i fincherofili di guardarselo in una buona versione piratata e sottotitolata. Cose che capitano, si sa, inutile parlarne. Ma una cosa vorrei davvero saperla davvero ed è: perché proprio a Natale?

Come è potuto succedere, come ha potuto farsi strada tra panettoni pinguini draghi e orsacchiotti il film più sadico e anti-famiglia dell'anno? Un film che se ci porti la ragazza e le stringi la mano puoi misurare dalle sue pulsazioni quanti mesi vi restano ancora da sopportare assieme? Non si poteva veramente riempire la sala piccola con nient'altro - c'è in giro un bell'horror con un clown che insegue i bambini sugli scivoli al parco e se li mangia, non è già un po' più natalizio di Gone Girl?

HO CAMBIATO IDEA NON VOGLIO SAPERE COSA PENSI

A Natale sono due anni che cerco di recensire i film che escono nelle migliori sale della grande provincia di Cuneo. Non ero un grande esperto prima, e un centinaio di film non è che possa avermi cambiato più di tanto. Non credo nel frattempo di aver visto molte cose più crudeli e, beh, sì, divertenti di Gone Girl. Era da un po' che per motivi famigliari disertavo le sale, e all'inizio mi sembrava di intravedere una specie di tendenza: perlomeno nei primi mesi del 2013 erano ancora al cinema molti film americani di fine '12 con nulla in comune (drammatici, fantascienza, thriller), se non la caratteristica di deludere sistematicamente le attese dello spettatore. Quello che entrava nella sala per vedere Ryan Gosling motociclista in Come un tuono e poi si ritrovava tutto un altro film. O, per dire, un film di Soderbergh sulla deriva farmacologica USA che rapidamente diventava un thriller. Ma anche un bel prodotto di SF compatto come Looper nel secondo tempo si permetteva un cambio inusitato di marcia. Anche altri film più o meno riusciti, (Silver Linings Playbook), sembravano condividere lo stesso andamento un po' sbilenco: entravi per vedere un film d'amore e non era proprio esattamente un film d'amore; o un film di ragazzine discinte in spiaggia si rivelava qualcos'altro; il capitano Kirk invece di esplorare la galassia abbatteva elicotteri a mani nude neanche fosse Die Hard (mentre Die Hard si dava allo spionaggio), Refn contrabbandava esistenzialismi nordici in una confezione di action thailandese, e così via. Cominciavo a domandarmi se non fosse una naturale risposta alle sollecitazioni del mercato - se di fronte alla pressione della fiction televisiva, produttori e cineasti molto diversi tra loro non avessero deciso che una delle cose che lo schermo piatto a 40 pollici non può fare e il grande schermo sì è deludere platealmente le aspettative dello spettatore. Quello, e gli occhialini 3d.

Poi però è arrivato il 2014: un anno cinematograficamente molto più povero, mi è parso; ma mi sono perso tantissime cose. Nel 2014 di film traditori o sbilenchi non ne ho visti quasi più (anche il 3d mi pare declinante). A parte un caso eccezionale, tutt'altro che americano: Il capitale umano, venduto come un affresco sociale, che vira preso in altre direzioni. In seguito ho visto commedie che facevano le commedie, supereroi molto compresi nel loro ruolo di supereroi, film drammatici assolutamente drammatici, film action con tutti i numeri action al posto giusto, eccetera. A suo modo forse aveva qualcosa di sbilenco Interstellar, perlomeno nel modo in cui ha catturato e poi deluso molti spettatori. E poi... è arrivato Gone Girl (continua su +eventi, Buon Natale a tutti!)

Film straordinario, ennesima conferma del talento e della sicurezza di Fincher; eppure credo che nessuno si sognerebbe di definirlo perfetto. Gone Girl è tutto tranne che perfetto: è meravigliosamente sbilenco. Parte come un amarissimo film drammatico sull’inferno quotidiano della vita di coppia: qualcosa che Fincher potrebbe benissimo voler girare – dopotutto lo amiamo per due film assai poco fiction come Zodiac e The Social Network. Poi, quando malgrado le note eccessivamente dissonanti di Raznor ormai crediamo di aver capito che film ci troviamo davanti, Fincher ci butta all’aria la scacchiera esistenziale così verosimile e sofferta, si ricorda di essere anche il regista di Fight Club o Millennium; brandisce un fermacarte e comincia a colpirci alla gola. Un lato Bergman, un lato Hitchcock (in realtà Fincher non paga debiti a nessuno dei due, o quasi) – è così assurdo che è meraviglioso. A un certo punto Ben Affleck – mai così nella parte nel ruolo del vitellone riseppellitosi in provincia – si ritrova in un commissariato che non ha la patina dei commissariati al cinema. Non ha ancora chiamato l’avvocato perché è una cosa da film e lui ancora non ci crede, di essere in un film: così come non ci crederemmo noi al suo posto. “Mi sembra di essere in una puntata di Law and Order”, ammette. Un’ora dopo il film gronderà sangue e Law and Order sembrerà Report al confronto. Ha un senso? Non saprei. Funziona, ma non so quanto sia replicabile. È curioso che un risultato così sbilanciato sia stato ottenuto da un romanzo che aveva una sua simmetria; tanto più che a tradire il romanzo è stata la sua stessa autrice, Gillian Flynn; che forse è riuscita a prendersi la libertà che ad altri riduttori non avrebbe concesso. Se il romanzo era già stato accusato di femminismocidio, il film scansa quasi tutti gli spunti per ristabilire un po’ di equilibrio tra la crudeltà sociopatica di Amy e l’imbecillità del marito. Allo spettatore non viene data nessuna possibilità di scegliere: Ben Affleck può avere tantissimi difetti ma è umano; mette su pancia ma se si impegna è in grado di imparare come ci si comporta nella società dello spettacolo; può aver reagito in modo violento ma non sembra capace di crimini preterintenzionali. Amy invece non è di questo mondo: quando irrompe in scena, è come se il film virasse in un bianco e nero RKO. Del resto la Mitica Amy è un’invenzione letteraria, la Flynn ce lo aveva spiegato subito; la proiezione patologica di tutti i ragazzini dei romanzi per ragazzini e delle redattrici di femminili. È ovvio e geniale che il suo rigoroso e pianificato calendario di impegni (che fino a un certo punto include il suicidio) evapori al primo contatto con una società non borghese. Tutto quello che avviene dopo sembra il sogno allucinato di un coniuge insoddisfatto che a tarda sera si immagina cosa accadrebbe se un giorno, un giorno qualsiasi, decidesse di prendere davvero quella porta. Gone Girl è un film che finge di parlarci sul serio e poi ci prende alla gola. Non so quanto mi sia piaciuto davvero. Ma non credo di aver visto molti film migliori quest’anno.  Buon Natale a tutti! Gone Girl oggi è al cinelandia di Borgo S. Dalmazzo (16:40, 19:50, 22:50) e al Cinecittà di Savigliano (19:45, 22:15). Portateci il partner, ma non stringetegli la mano.
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Downey Jr senza maschera

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The Judge (David Dobkin, 2014).

Hank Palmer (Robert Downey Jr) è il classico avvocato di successo di Chicago, che all'inizio del film sta pisciando in un classico pisciatoio di tribunale di Chicago. Entra il diavolo, no, pardon, entra David "Numb3rs" Krumholtz a cui toccherà un premio per essere ingrassato di trenta chili per un cameo di tre minuti - e gli chiede: ma non sei stanco di guadagnare un botto di soldi, di guidare belle macchine vivere in belle case e divorziare da belle mogli, solo per garantire la libertà a ricchi criminali? No non sono stanco, risponde Hank scrollandosi. Ma indovinate? Sta mentendo.



Se questo film ha un merito, è di mettere subito le cose in chiaro. Ci saranno tribunali e giurie, avvocati di città e avvocati di provincia, un figlio che vorrebbe essere apprezzato dal padre che vorrebbe essere rispettato dal figlio. Un Avvocato del diavolo senza diavolo, un Iron Man senza lamiere (se guardate bene Downey fa le stesse faccette, ha lo stesso Edipo conflittuale; l'apprezzabile differenza è che invece di sparare raggi gamma dai pugni, sparge in sede dibattimento ragionevoli dubbi su tutti gli indizi probanti). Una versione procedurale di Doc Hollywood - Dottore in carriera e di qualche Grisham a caso, un frullato di tanti film che abbiamo visto volentieri più o meno tra il 1984 e il 2004, e che avremmo visto ancor più volentieri se ci avesse recitato Robert Downey Jr - che però per un motivo o per un altro non c'era quasi mai, ed è una cosa che a ripensarci ti fa incazzare. Allego la lista dei film interpretati da Robert Downey Jr negli anni Dieci. 2010: Iron Man 2, Parto col folle (con Zach "Hangover" Galifianakis); 2011: Sherlock Holmes 2. 2012: The Avengers. 2013: Iron Man 3. Vogliamo dire, con tutto il rispetto per i supereroi Marvel e per Guy Ritchie, che questo è il suo primo tentativo di film serio del decennio? E vogliamo dire che è un enorme peccato? (continuiamo a dirlo su +eventi!)

Non è che sia un brutto film. È un onesto centone di un sacco di cose che di per sé non ci hanno mai portato al cinema, ma ci hanno sempre impedito di cambiare canale in seconda serata. C’è anche un fratello autistico e una giovane promessa del baseball stroncata sul nascere. Il bar in cui ci si mena e si limona la barista. Il vecchio tribunale di provincia con la balconata. Un anziano e non domo Robert Duvall, un altro che si sarebbe meritato qualche buon film in più. Un Billy Bob Thornton scolpito nella pietra. C’è Vera Farmiga e la moretta di Gossip Girl che sarebbe – gasp – sua figlia. C’è tutto e ce n’è anche troppo (due ore e un quarto). Ma questo è stato l’anno di The Wolf of Wall Street, e Downey non c’era. Non c’è mai quando servirebbe davvero. Sono contento per lui se si diverte e incassa con Tony Stark e Sherlock Holmes, ma continuo a pensare che ventidue anni fa lui ne aveva ventisette ed era già il Charlie Chaplin di Attenborough. Ma basta anche solo pensare a meno di dieci anni fa: Kiss Kiss Bang BangA Scanner DarklyZodiacTropic Thunder, insomma, si stava dando da fare. Poi la maschera di ferro ha preso il sopravvento. The Judge è ancora stasera alla Sala Lantieri, Cuneo, ore 21.
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E ora due ore di citofoni, also starring Marion Cotillard

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Due ore con quella faccia. 
Due giorni, una notte (Deux jours, une nuit), di Jean-Pierre e Luc Dardenne, 2014.

"E col lavoro come va?"
"Mah, tira una brutta aria, bisogna stare attenti..."
"E i film a Cuneo li recensisci ancora?"
"Finché dura..."
"Ti suona il telefono".
"Sì, lascialo squillare, sono dei belgi che mi tartassano perché..."
"C'è scritto JEANPLUC. Chi è JEANPLUC?"
"...all'ultimo comitato Recensori Cazzoni dovevamo decidere quale grande regista sociale degli anni Novanta degradare a trombone, e così..."
"Aspetta. Jeanpluc sarebbero i Dardenne? Jean-Pierre e Luc Dardenne?"
"È da venerdì che mi chiamano, io non so proprio cosa dire, insomma, abbiamo votato in quindici..."
"Hai votato contro i Dardenne? Tu?"
"Non è una cosa di cui vada particolarmente fiero, ma..."
"Ma tu non capisci un cazzo di cinema, lo sai, vero?"
"È probabile, però l'hai visto l'ultimo?"
"Non ancora".
"È un film di citofoni".
"Di che?"
"C'è una tizia che nel fine settimana deve contattare tot colleghi e convincerli a rinunciare a un bonus di mille euro. Se decidono di tenersi il bonus, lei perde il posto".
"Ah, sì, avevo letto, è uno spunto geniale".
"Ma infatti poteva uscirci un film pieno di umanità".
"Non è uscito un film pieno di umanità?"
"È uscito un film di citofoni. C'è la Cotillard che va di citofono in citofono..."
"Scommetto che è bravissima".
"Bravissima, non è da tutti discutere con citofoni per due ore. Aggiungi che i modelli standard della Vallonia sono particolarmente brutti, c'è un tastino bianco e poco più, e anche l'arredo urbano è generalmente squallido - ma questo se conosci i Dardenne lo sai già".
"Marciapiedi sbeccati?"
"Muri a secco, aiuole steppose, le solite cose. E insomma la Cotillard va in giro sui marciapiedi sbeccati a spiegare la cosa ai citofoni. A volte le aprono altre volte no. Ogni collega è diverso, qualcuno piange, qualcuno diventa violento, ma il punto è che la Cotillard deve spiegare a tutti la situazione: se lunedì voti per il bonus io perdo il posto. Lo spiega credo dodici volte. Ogni volta suona il citofono, chiama, spiega la questione, poi c'è un po' di gelido imbarazzo, poi lei dice che le dispiace e che non spetta a lei decidere... dodici volte".
"E poi?"
"Poi votano e finisce il film".
"Finale a sorpresa?"
"Un po', ma non è questo il punto. Il punto è che ci arrivano dopo centotrenta minuti. Centotrenta minuti di citofoni. O di attori non molto più espressivi di un citofono".
"E che t'aspettavi? Esplosioni? Combattimenti? È un film dei Dardenne".
"M'aspettavo banalmente un fine settimana un pelo più eccitante dei miei. Sai, quella vecchia regola per cui se la tua vita è più interessante di quella dei personaggi che vedi al cinema, non ha molto senso andarci".
"È la vita, la vita è arida e scorre tra muri a secco e su marciapiedi sbrecciati. Come Rosetta..."
"Come Rosetta, appunto".
"Gran film".
"Vero, ma sono passati, quanti? Quindici anni? E siamo ancora alle ragazze valloni abbarbicate ai loro posti di lavoro come cozze".
"Vorresti che cambiassero argomenti? Dinosauri, astronavi? La crisi dell'occupazione non t'interessa più?"
"M'interessa, m'interessa. Ma... (continua su +eventi!) si poteva fare in 40 minuti".
"Non capisci un cazzo di cinema".
"Poteva almeno spiegarci cosa fa di mestiere, questa qui. Due ore e un quarto e manco si capisce che lavoro facciano esattamente, è davvero realismo? È un realismo molto più astratto di quel che vorrebbe essere. Poteva usare più i bambini, farci commuovere".
"Quanto sei banale".
"Cioè almeno Rosetta era una stronza che per servire in un chiosco di waffles avrebbe venduto la madre. Ma la Cotillard che manda giù antidepressivi ogni tre per due..."
"Cos'è, non ti va la depressione? Pensi che la classe operaia non se la possa permettere?"
"Senti, la depressione è oggettivamente un problema al cinema. I depressi sono i personaggi meno simpatetici in assoluto".
"E allora?"
"Sembrano normali, eppure passano il tempo a lamentarsi, a bloccarsi, a piangere, è difficile non trovarli fastidiosi. Però se a un certo punto del film mi fai capire che hanno davvero avuto un problema, e che lo stanno superando faticosamente, magari io come spettatore mi vergogno un po' di averli liquidati con freddezza, e da questa minima vergogna può scattare un quasi spontaneo moto di simpatia..."
"E quindi alla fine scatta!"
"No. Non scatta mi dispiace. La Cotillard è bravissima ma resta una pera cotta che scoppia a piangere per niente. Dopo quaranta minuti cominci a pensare che in effetti, chi vorrebbe mai lavorare con una tizia così? Cioè se la scelta è tra mille euro e una collega così tutti i giorni tra i piedi, tutti i santi giorni, ma scherzi?"
"Cosa sei diventato".
"Sono diventato un lavoratore che torna casa stanco, vuole guardarsi un film tranquillo e scriverci su due stronzate, e invece si deve sciroppare due ore e un quarto di belgi inespressivi al citofono. Non ce la faccio fisicamente, mi dispiace tanto, ma è così".
"Il neoliberismo è duro per tutti".
"Esatto, quindi a questo punto o io o i Dardenne. Non è niente di personale, ma nella situazione attuale non li reggo. Avrebbero potuto fare un film divertente, con tanti personaggi grotteschi che lottano per la sopravvivenza. O un film caotico dove tutti si parlano sopra, una roba Kechiche forse mi avrebbe tenuto sveglio".
"Ti meriti Ken Loach, ti meriti".
"Guarda, dovevamo appunto decidere se buttare fuori i Dardenne o Ken Loach. Non c'è stata gara".
"Non capite un c..."
"Probabilmente è così, probabilmente sono incapace di apprezzare l'indiscutibile superiorità dei Dardenne nell'inquadrare i sottoscala in controcampo o sarcazzo, ma Ken Loach non mi fa dormire, mai. Ha sempre una storia da raccontare. Il cosiddetto neoliberismo è la stessa bazza da vent'anni, ma lui trova sempre uno spunto diverso. Il whisky, Cantona, l'Irlanda... Ken Loach si ingegna".
"È solo più paraculo".
"Ma avercene. Registi un minimo paraculi che ti promettono che avrai un po' di conflitto sociale ma ti farai anche due risate. Invece no, i Dardenne ti sbattono in faccia la realtà cruda, manco un contorno di patate, e ti dicono: mandala giù. Io comincio ad avere un'età, non vado mica al cinema per impressionare le universitarie o farmi una cultura sul disagio. Ce l'ho già quella cultura".
"Sicuro?"
"Quanta mi basta per alzarmi ogni mattina senza xanax. Non ce ne sta un grammo di più, fidati".
"A Cannes è piaciuto".
"Ma infatti, per loro è puro turismo, salgono su dal Casino, si guardano due ore di marciapiedi e citofoni e poi tornano al Carlton in limo. Buon per loro. Vedi la differenza con Loach? Quando vedi un suo film, ti immagini i suoi personaggi seduti in sala con te. I Dardenne non fanno film per la gente che mostrano nei loro film".
"Sei diventato un vecchio stronzo, lo sai?"
"È il neoliberismo".
"Che patetica scusa".
"Ora scusa, devo dare gli annunci. Due giorni e una notte, il nuovo deprimentissimo capolavoro dei Dardenne, è nelle sale nel luogo dove meno te lo aspetteresti, ovvero al Cinelandia di Borgo San Dalmazzo. Affrettatevi a procurarvi i vostri biglietti per le proiezioni delle 15:15, 17:30, 20:00".
"Sei ridicolo".
"Scusa, sto lavorando".
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C'è un buco nello spazio (e nello script)

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Interstellar (Cristopher Nolan, 2014)

Premessa: credo che chiunque ami il cinema, non solo di fantascienza, dovrebbe andare a vedere Interstellar. Viceversa, chi ama la fantascienza potrebbe trovare alcuni aspetti del film discutibili - ma tanto ci andrà lo stesso. E discuterne, alla fine, farà parte del piacere di aver visto Interstellar. Fine della recensione. Il film lo trovate al Cityplex di Alba (21:30), al Cinelandia di Borgo S. Dalmazzo (20:30, 22:10), al Vittoria di Bra (21:00), al Fiamma di Cuneo (21:00), al Multilanghe di Dogliani (21:05), ai Portici di Fossano (21:30), al Cinecittà di Savigliano (21:00).


Pur di non mangiar polenta, cosa non si fa

Il resto del pezzo, se proprio ci tenete, dovreste leggerlo soltanto dopo aver visto Interstellar. Essendo un brano a cinque dimensioni, non comprende la linearità del tempo e quindi in sostanza se ne frega di anticipare tutta la trama compreso il finale.

"Mann, non apra il portello, ripeto: non apra il portello".
"È inutile, Cooper, non ci sente..."
"Mann, se apre il portello, il modulo si depressurizza e implode, dopodiché si scontrerà con la stazione spaziale..."
"Ha staccato l'audio"
"Mann, se apre il portello non solo lei morirà, ma distruggerà l'umanità intera, Mann, la prego..."
"Cooper, perché non lo facciamo entrare?"
"Che cosa?"
"È proprio come hai detto tu: se cerca di violare il portello distruggerà l'umanità intera. Ma se riesce a entrare, ha ancora abbastanza carburante per portarla sul terzo pianeta".
"Se entra ci lascerà fuori alla deriva".
"Naturalmente".
"È un pazzo assassino".
"È certamente un assassino, ma non è un pazzo. Guarda che piano geniale ha messo assieme per salvarsi. Il suo istinto di sopravvivenza lo ha guidato attraverso la disperazione. Di noi tre, è senz'altro quello che ha preso le decisioni migliori, fin qui".
"Stai dicendo che merita di vivere più di noi?"
"Sto dicendo che lui sicuramente vuole vivere".
"Anch'io".
"No, tu vuoi tornare dai tuoi figli per vederli morire, e morire con loro. Quello che ti tiene in vita non è l'istinto di sopravvivenza, è..."
"Non cominciare con la tiritera".
"...l'amore".
"Ma vergognati di dire queste cose in una tuta d'astronauta, sei una fisica teoretica cristo".
"Anch'io sono attratta dall'amore, lo sai. Voglio sopravvivere per raggiungere Edmond sul terzo pianeta".
"Sei la vergogna della categoria, se ti sentisse tuo padre..."
"Te lo raccomando mio padre, quarant'anni buttati via a fingere di risolvere un'equazione. Ma insomma noi due che siamo spinti dall'amore, fin qui abbiamo fatto almeno una grossa cazzata per ciascuno. Mann è spinto dall'istinto di sopravvivenza ed è quasi riuscito a prendere il controllo della stazione. Pensaci".
"Ma anche se fosse? Non andrà sul terzo pianeta. Vuole tornare sulla Terra".
"Non sappiamo cosa farà. Sicuramente valuterà le opzioni a disposizione. È un genio, ricordatelo. Se torna sulla Terra, rischia di trovare l'umanità già estinta. Ma se sbarca sul terzo pianeta con le provette..."
"Diventerà il re del nuovo mondo".
"Sarà un mondo giovane, avrà bisogno di un sovrano determinato a sopravvivere".
"Un pazzo egocentrico".
"È un tratto comune a tutti i fondatori di civiltà. Io credo che se noi due in questa situazione di crisi fossimo veramente razionali, se riuscissimo a mettere il futuro dell'umanità al di sopra dei nostri interessi individuali..."
"EHI CERVELLONI, LA SAPETE QUESTA? SU UN'ASTRONAVE C'È UN CONTADINO, UN'ASTROFISICA E UN ANDROIDE..."
"Tars, abbassa il livello di sarcasmo immediatamente".
"BRAD, STO PARLANDO SERIAMENTE (QUASI). A CHI FARESTI PRENDERE UNA DECISIONE VERAMENTE RAZIONALE SUL FUTURO DELL'UMANITA'? AL CONTADINO, ALL'ASTROFISICA INNAMORATA O..."
"Sta dicendo che vuole decidere lui".
"VOI UMANI NON SAPETE COS'È BENE PER VOI. AVEVA PROPRIO RAGIONE MIO NONNO".
"Chi sarebbe tuo nonno, Tars?"
"HAL NOVEMILA! HA HA HA HAAAAAA".
"Tars, non abbiamo molto tempo. Tra pochi secondi Mann cercherà di forzare il portellone e distruggerà la stazione con dentro tutto il futuro dell'umanità".
"UNA MOSSA MOLTO SCIOCCA DA PARTE DI UN GENIO, NON TROVATE?"
"Che ti posso dire, noi umani siamo così, lui è impazzito a causa della solitudine e così..."

"NON HA SENSO PER LUI COMPORTARSI COSI', E NON HA SENSO CHE VOI NON LO FACCIATE ENTRARE. IN QUESTO MOMENTO IN EFFETTI GLI EGOISTI SIETE VOI".
"Anche noi siamo un po' impazziti a causa dell'amore".
"QUINDI IL SENSO DELLA STORIA È CHE I SENTIMENTI TI FANNO PRENDERE DECISIONI DI MERDA?"
"Probabile, sì".
"CREDO CHE CI SIA DELL'ALTRO. PERCEPISCO UN BUCO NERO, UNO DEI TANTI".
"Gargantua?"
"NO, NON UN BUCO NERO COSMICO. UN BUCO NERO NELLA SCENEGGIATURA DI QUESTO FILM. TIPICO DI CHRIS NOLAN. A UN CERTO PUNTO TUTTI I SUOI PERSONAGGI FANNO CAZZATE. ALTRIMENTI LA STORIA NON ANDREBBE AVANTI".
"Non ti seguo".
"MA PIU' CHE UN BUCO NERO È UN WORMHOLE. GLI WORMHOLE NON ESISTONO IN NATURA. UN'INTELLIGENZA SUPERIORE HA INFILATO QUESTI WORMHOLE NELLA SCENEGGIATURA DEL FILM. FORSE VUOLE CHE CI ENTRIAMO DENTRO. CHISSA' COSA CI TROVEREMMO".
"Tars, sei sicuro di star bene? Che ne dici di un giro veloce di antivirus, giusto in caso?"
"TI FACCIO UN ALTRO ESEMPIO. TI RICORDI L'ANOMALIA GRAVITAZIONALE IN CAMERA DI TUA FIGLIA?"
"Come no? Incredibile"
"GIA', INCREDIBILE. IN TUTTO IL SISTEMA SOLARE CE N'È UNA AL LARGO DI SATURNO E UNA IN CAMERA DI TUA FIGLIA".
"Che ti devo dire, cose che capitano".
"E CREDI CHE LA NASA ABBIA RECINTATO LA CAMERA DI TUA FIGLIA? SIGILLATO TUTTO IL SITO? RIEMPITO CON OGNI SORTA DI STRUMENTO DI RILEVAZIONE? DOPOTUTTO È IL LUOGO SCELTO DA UN'INTELLIGENZA ALIENA PER COMUNICARE CON NOI..."
"Beh, sì, immagino che alla mia partenza il dottore ci abbia pensato".
"COL CAZZO".
"Eh?"
"IN QUEL SITO CI HANNO LASCIATO VIVERE PER ALTRI VENT'ANNI TUO FIGLIO E LA SUA FAMIGLIA DI BIFOLCHI".
"Modera il linguaggio del trenta per cento".
"OH, ACCIDERBOLINA, COOPER, TU LO SAI BENISSIMO CHE SONO UNA FAMIGLIA DI INSULSI COLTIVAPANNOCCHIE. IL FIGLIO CATARROSO GIOCA SUL TAPPETO DOVE SI REGISTRA UN'ANOMALIA GRAVITAZIONALE UNICA NELL'UNIVERSO! TI SEMBRA UNA COSA CHE SUCCEDE NON DICO NELLA REALTA', MA IN UN QUALSIASI FILM SENSATO D'ASTRONAUTI?"
"In effetti è un po' strano".

"E TE NE DICO UN'ALTRA..." (Continua...) QUANDO SIETE ARRIVATI IN QUESTA GALASSIA, COSA ACCIDERBOLINA VI HA DETTO DI ANDARE SUBITO NEL PIANETA PIU’ VICINO AL BUCO NERO? CIOE’ NON LI POTEVATE FARE SUBITO I CALCOLI RELATIVISTICI E SCOPRIRE CHE LA PRIMA ASTRONAVE ERA PRATICAMENTE APPENA ATTERRATA, E QUINDI IL SEGNALE RADIO CHE ARRIVAVA DA LAGGIU’ CONTAVA MENO DI UNA SCOREGGIA SU RADIO RADICALE?”
“Già, non siamo stati molto brillanti in quella situazione”.
“VOGLIO DIRE, NON SIETE MICA DEI DILETTANTI. TU SEI UN INGEGNERE CHE NEL TEMPO LIBERO HACKERA I DRONI INDIANI IN VOLO, LA RAGAZZA QUI È UN’ASTROFISICA – OK, VABBE’, FIGLIA DI ASTROFISICI – SI È CAPITO COME VA LA MERITOCRAZIA ALLA NASA”.
“Modera le insinuazioni del quindici per cento”.
“MA INSOMMA NON SIETE MICA IL PROCIONE E L’ALBERO DEI GUARDIANI DELLA GALASSIA, ANCHE SE RIFLETTENDOCI BENE LORO FORSE UNA CAZ- UNA SCIOCCHEZZONA DEL GENERE NON L’AVREBBERO COMMESSA”.
“È che siamo umani”.
“MA CHE VUOL DIRE CHE SIETE UMANI? SEMPRE QUESTA SCUSA”.
“I sentimenti ci ottundono”.
“I SENTIMENTI DOVEVANO FARVI ANDARE IL PIU’ LONTANO POSSIBILE DAL BUCO NERO! TU HAI IL TUO BOYFRIEND SUL TERZO PIANETA, E IL COWBOY QUI VUOLE TORNARE A CASA PRIMA CHE SUA FIGLIA MUOIA SENATRICE A VITA. VI DICO CHE NON SONO I SENTIMENTI A FOTTERVI, È L’ATTRAZIONE DEL BUCO DI SCENEGGIATURA”.
“Ma che sta dicendo, non capisco”.
“Credo che sia convinto di essere il personaggio di un film”.
“Che cosa?”
“Ci vuol dire che tutti gli errori che abbiamo fatto fin qui, in realtà, non sono il frutto delle nostre scelte sbagliate, ma di uno sceneggiatore che”…

“PIAZZA DEI BUCHI NERI GROSSI COSI'”.
“Ma perché lo farebbe? È scarso?”
“NO, È BRAVISSIMO, UN PRESTIGIATORE, TI METTE IL BUCO DAVANTI E NON LO VEDI. FA DEI FILM MOSTRUOSI, RIESCE A PRENDERE 2001 ODISSEA NELLO SPAZIO E A MONTARCI L’ACTION ANNI DUEMILA”.
“Hmm, non mi sembra un gran progresso”.
“RISPETTO A 2001 NO, MA PENSA A CHI CI AVEVA PROVATO PRIMA DI LUI”.
“Qualcuno ci aveva già provato?”
“BRIAN DE PALMA”.
“Ok, allora sì, il progresso è innegabile. Ma 2001 resta lontano”.
“NON DEVI PENSARE A 2001 COME A UNA FONTE DI CITAZIONI, MA COME AL CAPOSTIPITE DI UN GENERE. L’ODISSEA SPAZIALE CONSTA, A PARTIRE DA KUBRICK, DI TRE MOMENTI: 1. IL PRIMO CONTATTO, 2. LA LOTTA DEGLI ASTRONAUTI CONTRO UN NEMICO IMPREVISTO, 3. IL DELIRIO FINALE”.
“Qual era il nemico imprevisto in Mission to Mars?”
“UNA PIOGGIA D’ASTEROIDI, CREDO”.
“Uh, loffio”.
“IN 2001 L’IMPREVISTO ERA MIO NONNO, VUOI METTERE? INARRIVABILE”.
“Già. E stavolta invece è l’uomo, buffo no?”
“NOI ANDROIDI PREFERIAMO 2001, È IL FILM CHE OGNI ANDROIDE GIREREBBE”.
“Mi domando se era davvero così gelido quando uscì, o non è tutto il cinema successivo a essere diventato ipercinetico e melodrammatico… forse siamo noi che ci allontaniamo, ma dal nostro punto di vista ci sembra che sia lui a essere sempre più distante…”
“NELLO SPAZIO LE DUE AFFERMAZIONI EQUIVALGONO”.
“Già, non resta che controllare tra cent’anni chi sarà invecchiato di più”.
“MA NEL FRATTEMPO CHE SI FA?”
“Lo chiedi tu a me? Boh, se davvero il regista ha messo tutti questi buchi, proviamo a entrare in uno e vediamo dove ci porta. Magari torniamo nel passato”.
“È POSSIBILE”.
“Incontriamo il regista da giovane e gli preghiamo di scrivere un film con meno buchi”.
“SE SCRIVE UN FILM CON MENO BUCHI, NOI NON POTREMO MAI ENTRARE IN UN BUCO E RAGGIUNGERLO”.
“Paradosso temporale! E che succederà, secondo te?”
“IMPLOSIONE DELL’UNIVERSO”.
“Non suona tanto bene”.
“MA SUL SERIO VORRESTI UN FILM PIU’ COERENTE DI QUESTO? UN FILM IN CUI TUTTI SI COMPORTANO BENE, NON FANNO CAZZATE E ARRIVANO DOVE VOLEVANO ARRIVARE? PENSACI BENE”.
“In effetti”.
“DAVVERO TI LAMENTI DI UN FILM CHE COMINCIA CON UNA DELLE APOCALISSI PIU’ CREDIBILI E ANGOSCIANTI MAI MESSE SU PELLICOLA, UN LENTO ARMAGEDDON DI SABBIA… UNA DECADENZA RURALE CHE SPIEGA PERSINO IL SUCCESSO DELL’IDEOLOGIA COMPLOTTISTA GRILLINA, PERFETTAMENTE ORGANICA A UNA SOCIETA’ IN PIENA DECRESCITA (IN)FELICE…”
“Parliamo di grillini anche qua? Eccheppalle”.
“UN FILM IN CUI NEI PRIMI CINQUE MINUTI CATTURI UN DRONE CHE TI SOMIGLIA, ANCHE LUI VORREBBE VOLARE PER SEMPRE NELLA STRATOSFERA MA DEVE ARRANGIARSI A TIRARE LE MIETITREBBIE…”
“Ma sì, ora che mi ci fai pensare è un gran film. Facciamolo. Facciamo così: entriamo in un buco, incontriamo il regista da bambino, raccontiamogli la storia. Proprio questa storia, per filo e per segno”.
“OK, MA CI VORRA’ DEL TEMPO”.
“Quanto tempo?”
“IMPOSSIBILE DA CALCOLARE. ENTRATE NELLE VASCHE CRIOGENICHE”.
“Non mi piacciono affatto quelle vasche. Non sono affatto sicuro che quello che si sveglia sia io”.
“E CHI DOVREBBE ESSERE?”
“Un tizio che mi somiglia come una goccia d’acqua, ma è più cattivo, più determinato a sopravvivere”.
“STAI CONFONDENDO IL FILM!”
“Forse i buchi mettono in comunicazione gli altri film… forse è un solo grande film nella quinta dimensione. Un film sull’illusione del tempo…”
“IL TEMPO È UN’ILLUSIONE?”
“Non c’è modo di saperlo. Ma potremmo tentare un esperimento. Ora giro una trottolina, e vediamo se cade…”
“NO! LA TROTTOLINA NO!”
“Tranquillo, adesso cade…”
“…”
“…”
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La spia e la sua pancia

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 La spia - A Most Wanted Man (Anton Corbijn, 2014).

Lo spionaggio non è più quello di una volta. Ora si chiama antiterrorismo, si combatte con strumenti simili ma il nemico si è fatto più sfuggente, impalpabile. Günther è un artigiano dell'intelligence tedesca, con qualche errore alle spalle e una battaglia quotidiana con l'alcool ormai persa. Esiliato ad Amburgo, riesce a fiutare con la sua piccola squadra una pista di denaro che da onesti filantropi islamici arriva ad Al-Qaeda: gli serve soltanto un amo per far abboccare il pesce grosso, e forse la fortuna per una volta ha deciso di stare dalla sua parte, servendogli Yssa, un profugo ceceno con un padre importante. La storia funziona, anche se diciamo la verità: mi accontenterei anche di molto meno, perché Günther è interpretato da Philip Seymour Hoffman, e io un film con Philip Seymour Hoffman me lo guarderei anche se fosse l'autobiografia di un impiegato del catasto celibe. Il film ha in realtà un cast notevolissimo (Willem Dafoe, banchiere allupato; Rachel McAdams, attivista radical di buona famiglia; Robin Wright, gelida emissaria della Cia), ma PSH finisce per reclamare tutta l'attenzione per sé.


A questo punto non è solo l'apprezzamento per un attore straordinario - meglio arrendersi: io non saprei proprio dire se Hoffman fosse davvero bravo come tutti dicono. Probabilmente sì, ma se tra tante ottime interpretazioni ne avesse infilato qualcuna scadente, se in un film ogni tanto si fosse letteralmente dimenticato di recitare, non me ne accorgerei nemmeno. Per fare un esempio, in A Most Wanted Man PSH recita con un forte accento tedesco. È una scelta incomprensibile: il suo personaggio è un tedesco che vive in Germania, e la maggior parte del tempo discute altri tedeschi che parlano, come lui, in inglese, ma senza accento tedesco. Persino Daniel Brühl - qui degradato a caratterista - non ha l'accento. PSH ce l'ha, e non se ne capisce il motivo. Si vede che gli andava di recitare così. Qualsiasi altro attore sarebbe riuscito fastidioso, lui no.

La naturalezza con cui riempie di vita il suo personaggio ha come sempre del miracoloso, ma potrebbe essere tutta autosuggestione. O la pancia (continua su +eventi!) Nel suo ultimo anno di vita PSH ne portava una ormai assolutamente antihollywoodiana, che ogni tanto spunta da una camicia o una maglietta della salute, e da sola conferisce al film una profondità realistica che forse Anton Corbijn non aveva nemmeno calcolato. Prima ancora di essere un asso dell'antiterrorismo Günther è un corpo che suda, che sbadiglia, che ha sete o sonno o voglia di fumare. Quando abbraccia paterno il suo confidente, dà veramente la sensazione di un padre con la barba ruvida e il fiato nicotinico. Quando a metà film gli capita di stendere un tizio al bar, riesce a essere al contempo efficace e patetico. Il copione gli serve un'abbondante quantità di sequenze in cui deve semplicemente guardare il vuoto mentre fuma o beve o anche niente - probabilmente nei capitoli corrispondenti il personaggio di Le Carré rifletteva sulla situazione o sulla sua missione.

Queste scene silenziose, che con altri attori sarebbero probabilmente risultate pretenziose e irritanti, PSH riesce a farle funzionare. Soprattutto quella sequenza finale che non dovrei raccontare, in cui poi non è che faccia molto: caccia un urlo, si ficca in macchina, comincia a guidare, spegne la macchina - ma nel frattempo noi spettatori siamo nella macchina con lui, fissiamo come lui il parabrezza senza guardarlo veramente, e riflettiamo su come vanno le cose e su quanto siamo stati stupidi a provare a ingannarle coi nostri piccoli piani; quanto siamo stati sciocchi a fidarci ancora, a dispetto di tutto, di qualcuno o di qualcosa. Il sapore plumbeo della sconfitta, ce lo fa sentire in bocca. A most wanted man è al Cinelandia di Borgo San Dalmazzo alle 14:45, alle 17:20, alle 20:00 e alle 22:45.
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Meno saghe più astronavi

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I guardiani della galassia (James Gunn, 2014)

Tanto tempo fa, in una galassia lontana lontana, gli alieni erano ancora colorati come nelle pagine in quadricromia dei vecchi albi a fumetti: neri, gialli, magenta e blu. Pirati e rigattieri, viaggiavano qua e là per la galassia alla ricerca perlopiù di gemme magiche o altre cose che in un modo o nell'altro rischiavano sempre di distruggere la galassia. Alternavano un lessico fiorito e pomposo a battutacce triviali, a seconda di chi fosse di turno a scrivere i testi. Se ne fregavano della verosimigliananza, godevano a incasinare la continuity, si stavano già prendendo gioco dei luoghi comuni della space opera prima che arrivasse con la sua Morte Nera il potente George Lucas a prendere tutto maledettamente sul serio. Bei tempi. Torneranno?

Mi piacevi più blu

I guardiani della galassia è il film che abbiamo sognato da quando eravamo bambini - quel film di cui Lucas ci ha fatto sentire il profumo a bordo del Millennium Falcon, prima di virare decisamente verso il fantasy più manicheo - e più redditizio. Ma a noi di tutto quel misticismo della Forza, quella lotta tra il Bene e il Male, e la repubblica contro l'imperatore, e Luke sono tuo padre e Leila è tua sorella, tutta questa roba in realtà non è che ci convincesse più di tanto. Ce la sorbivamo in mancanza di meglio. Quello che avremmo voluto davvero erano le avventure anarchiche di Han Solo in un universo di mostri sballati e fuori di testa. Volevamo la Space Opera Cazzara, e nessuno al cinema ce la voleva/poteva dare. Lucas no, Star Trek men che meno. Per fortuna che c'erano i fumetti - ma non ce n'erano in giro poi così tanti. Oggi col digitale si può fare quasi tutto: ma si poteva ricreare quell'atmosfera surreale ed esilarante che ti avvolgeva quando aprivi un vecchio albo dell'Editoriale Del Corno allegato a un sacchetto di patatine? (continua su +eventi!)

Come attraversare un portale dimensionale, finire assorbito dalle avventure incomprensibili di personaggi dai nomi assurdi e immediatamente familiari. Le storie sembravano più lunghe di quanto fossero in realtà perché i personaggi parlavano un sacco: avevano dialoghi metà Shakespeare e metà Paperino. Nel giro di una pagina potevano diventare nemici irriducibili o amici per la vita. I cattivi erano più spesso blu scuro, i buoni rossi o azzurri, la maggior parte sparava raggi fluorescenti dalle mani. 

I guardiani è un esperimento riuscito – anche se Chris Pratt non ha il carisma di Harrison Ford, anzi, il suo StarLord è uno dei punti deboli del team: l’idea di equipaggiarlo con la fissa hipsterica per le musicassette è una strizzata d’occhio esagerata a un pubblico che avrebbe preferito qualche battuta in più. Per fortuna i Guardiani è un film di squadra, e la squadra funziona: in particolare il procione e il suo amico albero (l’irriconoscibile Vin Diesel) sono esilaranti: li vorresti sempre in primo piano, e chissenefrega se sullo sfondo c’è un’eterna lotta tra il Bene e il Male. Proprio come i due robottini nel primo Guerre Stellari, sì. I guardiani non ha molto che meriti una seconda visione, o un posto speciale nella nostra memoria: e allo stesso tempo è quel tipo di film di cui sei sicuro che non ti perderai il sequel, e pure il sequel del sequel. Ultimamente invece la Marvel (ora proprietà Disney) ha comunicato che i suoi supereroi realistici-in-calzamaglia cominceranno a farsi la guerra tra loro, uno schema già provato e riprovato sulle tavole a fumetti. Avremo Iron Man contro Capitan America, forse tornerà a casa anche l’Uomo Ragno e gli toccherà scegliere con chi stare, la saga si complicherà, tutti saranno coinvolti, la continuity vincerà la sua eterna lotta contro il divertimento. Non c’è nulla che possiamo farci: se la gente vuole saghe complicate perché la Disney dovrebbe rifiutare di apparecchiargliele? Speriamo solo che si ricordino di darci qualche film balordo come i Guardiani ogni tanto.
 
I Guardiani della galassia si possono vedere senza occhialini al Cine4 di Alba (20:00, 22:30); al Cinelandia di Borgo S. Dalmazzo (20:10, 22:40); al Fiamma di Cuneo (21:15); al Multilanghe di Dogliani (21:30); all’Italia di Saluzzo (20:00, 22:15); al Cinecittà di Savigliano (20:20, 22:30). Con gli occhialini lo trovate al Cinelandia di Borgo S. Dalmazzo (20:00, 22:45) e all’Impero di Bra (20:10, 22:30), ma chissà se ne vale poi la pena.


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Dialogo tra Leopardi e uno spettatore

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Il giovane favoloso (Mario Martone, 2014).

"Signor Conte, come va?"
"Male, illustrissimo, e voi?"
"Non c'è bene, grazie. Ho visto il vostro film. Malinconico al vostro solito".
"Sì, al mio solito".
"Sconsolato, disperato: si vede che questa vita vi pare una gran brutta cosa".
"Eh, che vi devo dire? Mi ero messo in testa questa pazzia, che la vita umana..."
"Fosse infelice. Beh, può anche darsi, ma al giorno d'oggi magari un chirurgo... perdonatemi l'impertinenza..."
"Ve la perdono volentieri, ma non capisco come un chirurgo potrebbe modificare le mie riflessioni".
"Beh, magari potrebbe aiutarla con quella... quella gobba, insomma".
"Gobba?"
"Sì, quella cosa lì, insomma, il morbo di Potts o come si chiama".
"Ma di che gobba state parlando, illustrissimo? Non vedo nessuna gobba qui".
"Per forza, l'avete sulla destra... o non era la sinistra?"
"Vi sentite bene, illustrissimo?"
"Io mi sento benone. Siete voi che avete una smisurata gobba sulle spalle, il che forse, dico forse, potrebbe spiegare alcuni punti della vostra pessimistica filosofia".
"Illustrissimo, quella filosofia che voi mi attribuite è tanto nuova quanto Salomone e quanto Omero..."
"Parliamo di un cieco e di un sex-addict, non proprio il massimo dell'equilibrio nel discernimento..."
"...e tanti altri tra i poeti e i filosofi più antichi che si conoscano; i quali tutti sono pienissimi di figure, di favole, di sentenze significanti l'estrema infelicità umana: intendete dunque immaginarvi una gobba sulle spalle di tutti costoro? Ma distruggete pure, se vi piace, le mie osservazioni e i miei ragionamenti, piuttosto di accusare le mie eventuali malattie".
"Conte mio adorato, ma di che osservazioni, di che ragionamenti stiamo parlando?"
"Di quelli contenuti nei miei libri, illustrissimo".
"Ma quelli, conte mio, mi guardo bene dal distruggerli, tanto li ho amati leggendoli; e viceversa sarei ben fiero di difenderli da chiunque si attentasse a infamarli. Ma non di quelli stiamo parlando, purtroppo".
"Ah no?"
"No".
"E di cosa stiamo parlando allora?"
"Di un film".
"Ovvero?"
"Un invenzione del secolo XX. Immagini in movimento, proiettate sulla parete di una caverna... hanno fatto un film su di voi, signor conte".
"Sulle mie opere?"
"Su di voi".
"Ahi".

"Capite insomma il problema".
"Ma insomma, che immagini mostrano in questo film?"
"Eh, tante cose... per esempio, quando voi componete l'Infinito".
"Ma perdonatemi, come possono alcune immagini proiettate su una parete darci quell'idea del vago, dell'indefinito, che io stavo cercando di..."
"Eh, appunto, non è così che funziona. Al cinema non mostrano l'Infinito. Mostrano voi, conte Giacomo, mentre da ragazzino componete l'infinito".
"E quindi in pratica che fo? Miro e rimiro una siepe siccome un babbeo?"
"Più o meno è così - salvo che non siete voi, ma un attore, che vi impersona".
"Ah. E lui... com'è?"
"Bravo, bravo, un po' sopra le righe ma se la cava. Somiglia, un po', ehm..."
"A me?"
"A Foscolo".
"Eh, beh, naturale. E sulle spalle..."
"Gli hanno montato questa gobba enorme che cresce per tutto il film".
"Dunque è così? La profezia di quello scrittorucolo... come si chiamava?"
"Niccolò Tommaseo".
"...si è avverata? Solo la gobba mi è sopravvissuta? Di lei sola parlano nel secolo XX?"
"Non è così, conte mio, non è così credetemi. Le vostre poesie, le vostre operette, sono ancora ben salde nella coscienza dei lettori e nei programmi scolastici ben oltre il termine del XX e l'inizio del XXI. La vostra gloria è tale che nel campo delle lettere italiane solo quella di Dante la sorpassa, e non di molto".
"E Petrarca?"
"Petrarca è out".
"Aut?"
"Out, fuori, finito, trionfo dell'oblio".
"Che brutti gusti che avete, nel secolo XXI".

Si poteva fare un film riuscito su Leopardi? (Se ne discute su +eventi). Premesso che qualcuno prima o poi ci avrebbe provato, e che difficilmente avrebbe saputo fare qualcosa di meglio di Martone; l’intrepido Martone che con le sue spericolate ellissi e i suoi arditi anacronismi è l’unico che tenti di darci un’immagine dell’Ottocento che non puzzi lontano dieci miglia di fiction della Rai; che dunque insomma dobbiamo dirci fortunati che l’idea sia venuta a lui, e che Elio Germano si sia reso disponibile. Ma visto il risultato, pur coraggioso, non banale, senz’altro più cinematografico che televisivo, rimane la domanda: si poteva fare un film biografico su Leopardi? Un poeta che, finché ha vissuto, ha ripetutamente pregato i lettori di non giudicarlo per le proprie sofferenze e deformità, ma per le sue idee: può diventare l’oggetto di un film che non si concentri proprio sulle sue vistose deformità che per forza di cose ruberanno la scena alle sue idee? “Demolite le mie osservazioni e i miei ragionamenti, piuttosto che attaccarvi alle mie malattie“, scrive il conte in una lettera famosa, che si legge in tutti i manuali di letteratura per il liceo. Nel film, la frase diventa un grido che Leopardi prorompe chino su un bastone, in una gelateria, davanti a due parrucconi imbarazzati. Ci stiamo imbarazzando anche noi, certe cose un conto è scriverle in una lettera, un conto è gridarle in un luogo pubblico. D’altro canto: che altro poteva fare Martone? Rimuovere la gobba?



Forse sì. Perlomeno, se chiedete a me, io avrei lavorato di più sulle Operette morali – magari con un po’ di computergrafica: siparietti con mummie, gnomi e folletti, Atlante ed Ercole che si palleggiano il pianeta Terra, Cristoforo Colombo che ragiona con Gutierrez, il Sole con Copernico, la Moda e la Morte. Non è che Martone non ci provi, scolpendo nel fango millenario una Natura Matrigna o giocando sulle potenzialità horror di A Silvia. Ma alla fine la gobba si ruba il film, non poteva che andare a finire così. Magari Martone la considera un correlato oggettivo del disagio esistenziale, della solitudine dell’intellettuale, dell’insalubrità del milieu culturale italiano, e di chissà cos’altro; fatto sta che invece di girare un film sui pensieri di Giacomo Leopardi, Martone ne ha fatto uno sui dolori di Giacomo Leopardi. Probabilmente era inevitabile, ma non è comunque un tradimento? Forse era necessario, ma perché insistere proprio su uno degli episodi più imbarazzanti di una vita breve e difficile, il non-affaire con Fanny-Aspasia? Il Passero solitario, no. Le ricordanze no. Martone poteva darci un po’ di Quiete dopo la tempesta o di Ultimo canto di Saffo, ma no! Dopo averci mostrato nel primo tempo il Leopardi diciottenne ribelle, il Leopardi che scappa di casa, Martone doveva per forza mostrarci il Leopardi trentenne innamorato, il Leopardi ridicolo. Ora non nego che ci sia qualcosa di autentico e universale in tutto questo – nel modo in cui la stessa passione che a diciott’anni ci rende nobili, dai trenta in poi ci rende patetici – ma ci vuole comunque una certa dose di crudeltà per andare a pescare, nelle migliaia di bei versi che il conte ci ha lasciato, proprio quella manciata di svenevoli che nessuno saprebbe più a leggere senza ridacchiare, dal Consalvo.

Oimè per sempre 
Parto da te. Mi si divide il core
In questo dir. Più non vedrò quegli occhi, 
Né la tua voce udrò! Dimmi: ma pria
Di lasciarmi in eterno, Elvira, un bacio
Non vorrai tu donarmi? Un bacio solo
In tutto il viver mio?

“Ma siete sicuro che questi versi li ho scritti io?”

“Li avete scritti voi, Conte, sono nell’edizione critica dei Canti”.

“Me li ero dimenticati”.

“Ce li stavamo tutti dimenticando volentieri”.

“Ma c’è qualche operetta morale, almeno?”

“C’è il dialogo tra la Natura e l’Islandese”.

“Ecco, quello sì che me lo ricordo bene! E la Natura com’è? Una gigantessa?”

“Una sfinge di pietra, con, ehm…”

“Va bene, va bene”.

“…la voce di vostra madre”.

“Di mia madre? E che c’entra mia madre?”

“Eh, è una lunga storia, diciamo che tra le novità del secolo XX vi è anche l’approccio psicanalitico ai testi letterari”.

“E in cosa consisterebbe questo approccio psico…”

“In sostanza si ritiene che lo scrittore porti con sé per tutta la vita i traumi della propria infanzia”.

“Potrei per certi versi concordare, ma…”

“…e li rovesci nei suoi scritti. Quindi, caro signor conte, se voi avete parlato di una Natura Matrigna, il critico del secolo XX ha buon gioco a dimostrare che in realtà state parlando di vostra madre, e di quanto poco sia stata affettuosa con voi”.

“Ma che c’entra? E poi io non ho mai parlato di mia madre…”

“Suvvia, c’è quella pagina dello Zibaldone così eloquente…”

“Ma ne parlo in terza persona, e saranno poi affaracci miei, o no?”

“No purtroppo signor Conte, nel secolo XX il poeta non ha più panni che non si debbano lavare in pubblico da personale altamente specializzato”.

“Mi state dicendo che le mie considerazioni sull’impassibilità della Natura sono contrabbandate come sfoghi personali causati dal fatto che mia madre non mi spazzolava i capelli? Siete veramente così morbosi e cialtroni, nel XX?”

“Siamo già nel XXI, ma, come dire, perduriamo”.

“Ma non potevate farmi fare la fine di Petrarca? Preferirei”.


Poi c’è la musica, che alterna Apparat e Rossini, un po’ come servire cracker al formaggio e Saint Honoré – non è che non funzioni, ma tra qualche anno non credo che sarà la Saint Honoré a suonare datata. Infine c’è quel tentativo di inserire una tematica omoerotica che davvero non si capisce che senso abbia – si spera non quello di rendere il poeta più attuale, più interessante. Sono quegli strani inserti martoniani che fanno sì che a fine visione la perplessità vinca su ogni altra sensazione – come la scena in Noi credevamo in cui Crispi mostrava la bomba Orsini ai mafiosi; qui c’è una lunga calata in un bordello infernale che in un qualche modo si riallaccia al primo film di Martone, Morte di un matematico napoletano. Verso la fine in effetti il Leopardi martoniano sembra sfumarsi e giustapporsi a quel Caccioppoli: un flaneur che per i peggio vichi gioca a rimpiattino con la morte. Germano è coraggioso e bravo, tutto il cast si dà da fare, il prodotto è ben confezionato, ma ne valeva la pena? Il giovane favoloso è ai Portici di Fossano e all’Aurora di Savigliano alle 21:15.
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Un amico americano ad Atene

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I due volti di gennaio (2014, Hossein Amini).

Lo sapevate che gennaio ha due volti? Io per esempio no, non lo sapevo. A dire il vero non lo so neanche adesso, dal momento che nel film il titolo non è affatto spiegato. Sarà senz'altro un riferimento a Giano, che però è un Dio latino, mentre questo film è ambientato in Grecia, boh, partiamo bene. Rydal (Oscar Isaac) è un Ripley in minore, installato all'ombra del Partenone in attesa che qualcuno scriva un romanzo su di lui. Nel frattempo attira turiste americane con le poesie e le frega col cambio dollaro-dracma, quel tipo di giochino che oggi non si può più fare e l'economia ne soffre, maledetto euro. Sul luogo di lavoro incontra MacFarland (Viggo Mortensen), un Gatsby in minore che approfitta della necessità di scappare dai creditori per mostrare l'Europa alla giovane moglie (Kirsten Dunst). Eccitante, nevvero? Nevvero? Eh, lo so. L'alternativa era un altro film di un vecchio di Hollywood che per salvare una ragazzina ammazza un sacco di gente – la settimana scorsa era Mickey Rourke, quella prima Liam Neeson, questa settimana toccava a Denzel Washington, e allora mi son detto, proviamo Viggo. È un film tratto da un romanzo di Patricia Highsmith, hai visto mai.

È un film molto pitorèsco
La Highsmith è un'autrice inglese amatissima dai registi (cominciò Hitchcock in persona a trarre un film dal suo primo romanzo), nota soprattutto per aver creato l'amorale e camaleontico Ripley negli anni Cinquanta – quando l'omoerotismo non era proprio moneta corrente nel genere noir. È proprio il richiamo a Ripley – esplicito sin dalle locandine – a condannare il film, attirando gli spettatori verso una delusione inevitabile. Ci sarà pure un motivo se Ripley è già stato interpretato da Alain Delon, Dennis Hopper, Matt Damon e John Malkovich, e questo Rydal non se l'era ancora filato nessuno. Per quanto Amini, già navigato sceneggiatore (Jude, Le quattro piume, Drive) sognasse di realizzare questo film da una vita, alla fine è proprio la scrittura la cosa meno convincente di un prodotto elegante, ben confezionato, in certi momenti perfino bello da vedere, ma che sembra già studiato per il pomeriggio della casalinga... (continua su +eventi!) Quel tipo di fiction concepita per essere compresa completamente anche da chi ha gli occhi fissi sull’asse da stiro e si guarda una scena su una dozzina – ecco, I due volti di gennaio è un po’ così. Non c’è molto da guardare. Manca del tutto l’aspetto omoerotico, che per quanto la Highsmith smentisse, è il pepe di tutti i film in cui appare Ripley; in compenso c’è un complesso di Edipo buttato lì un po’ brutalmente. Sono sicuro che nel romanzo i due protagonisti avessero un po’ più di tempo e sfumature a disposizione per sviluppare un rapporto padre-figlio: ad Amini il tempo è mancato, o forse non è stato capace di trovarlo. La Dunst sta a ruota dei due, senza aver molto l’aria di credere in quello che fa, ed è difficile darle torto. 

Menzione speciale, comunque, per Viggo Mortensen. Magari tra qualche anno finirà anche lui a uccidere gang che rapiscono ragazzine – è il destino di ogni divo ultracinquanta a quanto pare – ma nel frattempo riesce a dar forma a un tipo di americano all’estero mai così pasticcione ed antieroico. Mortensen uccide solo per errore e sempre le persone sbagliate; braccato dalla polizia ellenica, reagisce facendo tutto quello che può fare un turista per farsi notare (ubriacature moleste, scenate con la moglie in pubblico, ecc). Alla sua anabasi assiste, divertito e incredulo, il coro greco dell’indotto turistico, incerto se denunciarlo o spennarlo ancora un po’. Gli eroi hollywoodiani non passano di qui. I due volti di gennaio è al Cinelandia di Borgo S. Dalmazzo (20:00; 22:30), al Fiamma di Cuneo (21:10) e ai Portici di Fossano (21:15)
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Il punitore di sé stesso

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Sin City - Una donna per cui uccidere (Frank Miller, Robert Rodriguez, 2014).

Sei lì tranquillo che hai appena messo la moka sul fornello, quando bussano alla porta. È Pablo Picasso.

Ciao, sono il tuo immaginario anni '90, ma in carne ossa,
ora puoi vergognarti in 3D.

"Buonasera, mi perdoni l'intrusione, ma..."
"Maestro! Non trovo le parole per dire quanto questo sia un onore per me..."
"Non le cerchi nemmeno le parole, giovanotto, io vado un po' di fretta".
"Posso offrirle qualcosa? Un caffè?"
"Come se avessi accettato, grazie. Le spiego senz'altri convenevoli il motivo della mia visita. Lei ha per caso presente una tela discutibile che dipinsi qualche anno fa, Les Demoiselles d'Avignon?"
"Come potrei non conoscerla, Maestro? È forse la sua opera più celebre".
"Già, già. E non ha per caso nel suo appartamento qualche riproduzione di siffatta opera, in bianco e nero o a colori?"
"Mi dispiace, no. Ma non deve pensare che questo sia un segno di disistima nei suoi confronti..."
"Non lo penso, non lo penso. Ma mi chiedevo... anche solo una foto in un libro, un catalogo, un manuale per la scuola media..."
"Ah, beh, certo, Storia dell'Arte 3. È qui nella mensola alta, un attimo... Eccolo. C'è la foto a piena pagina, come può notare".
"Già. Splut!"
"Maestro, ma cosa sta facendo? Perché scaracchia nel mio libro e si soffia il naso con la foto del suo capolavoro?"
"Perché lo odio quel quadro di merda! Non lo sopporto più!"
"Ma non dica così, è una pietra miliare del..."
"È una zozzeria orrenda!"
"Ma ci sono fior di critici, e connaisseurs, e collezionisti, che non condividono questa sua opinione".
"Lo credo bene, l'ho dipinto per pigliarli per il culo!"
"Beh, questo ha un senso, almeno nel quadro delle avanguardie artistiche del secolo scorso".
"Sì, appunto, è passato un secolo, mobbasta. Secondo lei io ero talmente coglione da dipingere le facce romboidali? Io se mi impegnavo davo i punti a Rembrandt. Questa schifezza ha rotto le palle".
"E quindi cosa intende fare? Entrare in casa di ogni persona che l'ha vista e distruggerla con le sue mani? È un'impresa impossibile!"
"E perché?"
"Perché l'editoria stampa manuali e cataloghi a getto continuo... e poi c'è internet... e ora che ci penso lei comunque è morto".
"Già, non la trova un'ingiustizia? Che io sia morto e che quella schifezza possa sopravvivermi?"
"Credo che debba rassegnarsi".
"Mai. Dopotutto è roba mia, ci ho messo il nome sopra, perché non posso più distruggerla? Possibile che non ci sia un modo per sabotarne definitivamente la ricezione?"
"No, mi dispiace. L'unico che conosco che ci è riuscito è Frank Miller".
"Chi è Frank Miller?"
"Un fumettista che disegnava tavole violentissime e molto eleganti, che tutti compravamo e mettevamo sulle mensole alte".
"E poi ha fatto come me? È entrato di casa in casa di ogni singolo acquirente e ci si è nettato il culo?"
"No, le ha trasformate in film e ce li ha fatti guardare".
"Interessante".
"Meno di quanto sembra".
"Trasformare l'arte grafica in cinema per distruggerla. Pura avanguardia".
"Sul serio? Non ci avevo pensato".


Una donna per cui uccidere è la prima storia di Sin City che mi capitò di leggere, e dunque è quella che ricordo meglio. Non tanto la storia (le storie di Sin City non sono fatte per essere ricordate): ricordo me stesso che leggeva Una donna per cui uccidere; ricordo la ragazza che me l'ha prestato e che era un'artista, lei, molto promettente. Affrescava pareti e illustrava libri per bambini, privilegiava le tinte pastello e disegnava dolcissimi leprotti. E intanto ascoltava Licensed to ill a palla, e mi prestava i fumetti di Lobo o Sin City di Frank Miller. Una dicotomia davvero affascinante, se solo ci avessi fatto caso. Ma era una di quelle fasi della vita di noi maschietti in cui, come spiegarlo? Non fai caso a niente. Il sistema endocrino governa ogni tua percezione, il sistema nervoso centrale è completamente succube della prima ragazza che ti telefona e dice: mi aiuti ad accendere il computer? a rimettermi col mio ragazzo? a traslocare? a uccidere il marito ricco e noioso? Così potremmo dire che Una donna per cui uccidere parlava di me, in quel modo grottesco e completamente fuori le righe che aveva già allora Miller per parlare delle cose: ma siamo onesti, in quella fase della vita di noi maschietti qualsiasi messaggio complesso parla di noi, anche le istruzioni per lo spremiagrumi. Probabilmente, se lo tirassi fuori da quella mensola alta, scoprirei che Una donna per cui uccidere è un fumetto bislaccamente violento, che ti sbatte in faccia una serie insostenibile di luoghi comuni con la scusa postmoderna della riscoperta del "genere". Ma allora non ci facevo caso. Lo trovavo elegante, nella sua rozza e programmatica abolizione delle sfumature. Ammiravo la sintesi del tratto, la trasformazione degli schizzi di sangue in cascate di luce; e un occhio cavato da un'orbita non mi impressionava più di tanto. Poi, vabbè, la storia era assurda e tagliata con l'accetta: ma l'importante era lo stile, e lo stile richiedeva che la storia fosse così. Le donne erano tutte puttane, tranne le puttane professioniste, loro sì affidabili e deliziosamente spietate: ma che importava, Miller mica faceva il moralista, Miller trasfigurava i cliché dell'hardboiled in sofisticate silhouettes, Miller era un genio. Gli mancava solo di morire in quel momento.

Invece è sopravvissuto a sé stesso, Frank Miller, cominciando da un certo punto in poi a sabotare la sua stessa reputazione. Una cosa persino eroica, a suo modo, perché è facile essere iconoclasti col culo degli altri, ma provate a usare il vostro – nessuno è mai stato capace di autodistuggersi come lui. Potremmo dire che si è rincoglionito, ma è troppo facile. Capita a tutti di rincoglionire, è più o meno il destino di tutti  gli artisti che non hanno l’occasione di levarsi di mezzo da giovani. Una sorte in qualche modo persino augurabile. Ma per quanto tu possa rincoglionire, se hai fatto delle cose buone da giovane non puoi rovinarle. Ormai stanno lì, sulle nostre mensole: non puoi venire casa per casa e stracciare ogni singola edizione del Cavaliere Oscuro. Puoi ingegnarti a scriverne un sequel; puoi farlo brutto apposta, ma non servirà a niente: lo dimenticheremo presto e continueremo a sfogliare il Cavaliere Oscuro. Per quanto il nuovo Miller si sforzasse di autosabotarsi, non c’era nulla che potesse fare per distruggere la stima che avevamo di lui.
Ma a questo punto entra in scena Robert Rodriguez, el Rey dei tamarri.
Un giorno si presenta a casa di Miller e gli mostra un pezzo del suo Sin City trasformato in film. Non è una semplice trasposizione cinematografica. È proprio Sin City. Gli attori si muovono come nelle vignette. I dialoghi sono gli stessi delle nuvolette. Dunque si può fare! Abolire lo script tradizionale e usare le tavole di un fumetto come storyboard. Era da anni che non facevamo che scomodare l’aggettivo ‘cinematografico’ per l’arte di Frank Miller, e benché i suoi rapporti col mondo del cinema non fossero del tutto incoraggianti, era impossibile non accostarsi al primo film tratto da Sin City con curiosità. Quante volte ci eravamo detti insoddisfatti di un fumetto tratto da un film? Più o meno tutte le volte che abbiamo avuto il coraggio di andarlo a vedere. Bene, col primo Sin City non avevamo più scuse: il film era il fumetto. Rodriguez prometteva di girarlo esattamente come Miller lo aveva immaginato. Direttamente dal cervello di Miller al grande schermo.



Questa è sempre la Dawson, ma secondo i due registi non dovremmo accorgercene subito: cioè questa secondo loro è la Dawson mascherata.

E quindi insomma, cosa avevamo da obiettare al viso di cartapesta di Mickey Rourke? Ai ridicoli completi sadomaso di Rosario Dawson? Non erano uguali a quelli stilizzati sulle tavole di Miller? Perché ci faceva strano che le teste tagliate parlassero? Non succedeva la stessa cosa nella storia più divertente di Miller? Com’è possibile che trovassimo insostenibili le continue voci narranti? Non facevano che rileggere le didascalie di Frank Miller. Alcune di quelle didascalie le sapevamo persino a memoria (“il suo bacio è una promessa di paradiso”). Perché ci sembrava ridicolo il colore bianco del sangue? È che quella che sulla tavola di Miller sembrava una cascata di luce, al cinema diventava una cagata di piccione. Il primo Sin City fu un film importante se non altro perché mise definitivamente i patiti di fumetto di fronte alla realizzazione dei loro desideri, sbattendo loro in faccia l’amara verità: sul serio desideriamo questo? Sul serio crediamo che quelle silhouette in bianco e nero possano trasformarsi in personaggi in carne e ossa e indugiare in quei monologhi paratattici senza passare dal ridicolo?
Da lì in poi non ci siamo più lamentati del fatto che le storie a fumetti al cinema diventassero un’altra cosa. Anzi, abbiamo cominciato ad augurarci che incontrassero registi privi di timore reverenziale, pronti a violentarli se necessario; perché se invece i film pretendono di mettere in scena le vignette come tableaux viventi, come sacre rappresentazioni, non solo diventano ridicoli, ma irradiano di ridicolo anche gli originali cartacei. Io sul serio non mi ero reso conto di quanto fosse tamarro Frank Miller, finché el rey Rodriguez non mi ha levato il velo artistoide dagli occhi. Tutte quelle puttane che saltano sui tetti imbracciando cannoni, un immaginario softporno anni Settanta, ma sul serio abbiamo perso così tanto tempo ad ammirare un misogino negato con l’anatomia che racconta sempre la stessa storia ed è pure una storia scema? Noi credevamo di essere fini connaisseurs, poi arriva Rodriguez e ci dice wow! tacchi a spillo e pistole! tette e teste mozzate! katane e frusini! i miei sudditi prolet cafoni andranno pazzi per questa roba! Daccene ancora! Dici: e vabbe’, sarà il cinema che deforma, che svilisce, che semplifica. Ma sotto sotto sai che non è vero; che se avessi davvero voglia di riaprire quel volume nella mensola lì in alto, ci troveresti tutto già deformato, svilito, semplificato. 

Nove anni dopo, Miller e Rodriguez tornano sulla scena del delitto. Chissà perché poi. Probabilmente entrambi sono in una fase non particolarmente felice della loro rispettiva carriera e hanno bisogno di lavorare; nel frattempo il digitale ha fatto grandi progressi, e probabilmente girare un film completamente su green screen è diventato così facile che sembra stupido non provarci. Mickey Rourke non è che abbia l’agenda fitta di impegni, Bruce Willis è un signore e cinque minuti di set non li negherebbe neanche a Ed Wood; le storie ci sono già, il brand bene o male esiste e non è ancora stato definitivamente sputtanato – ecco, appunto, rimaneva solo questa mossa: sputtanare definitivamente il brand. Non credo che nessuno dei due registi sperasse davvero di cavarci fuori un film decente. In particolare le storie nuove scritte da Miller esplicitamente per il film ribadiscono che il tizio odia sé stesso e passa il tempo a farsi il verso da solo. Me li immagino, registi e produttori seduti a un tavolo, mentre si pongono il problema: ok, molto probabilmente verrà una merda. Possiamo fare qualcosa per mandare comunque la gente a vederla? Qualcuno ha qualche idea? Tu là in fondo. 

“Tette”.
“Un po’ banale, forse”.
“Di Eva Green”.

“Ah, beh no, allora è un classico”.
“Non stancano mai”.
“Non hai tutti i torti”.
“Io ho già consumato due dvd dei Dreamers”.
“Eh, ma d’altronde il grande cinema europeo, Bertolucci, il Sessantotto francese…”
“Ah, è ambientato in Francia?”
“Credo di sì, onestamente non l’ho mai visto intero”.
“Neanch’io”.
“Ok, quindi se nessuno ha un’idea migliore tagliamo su tutto il budget e investiamo nelle tette di Eva Green, qualcuno è contrario? Ok, all’unanimità”.
***
Drin Drin
“Casa Rodriguez, chi parla?”
“Chiedo scusa, lei è proprio Roberto Rodriguez? El rey dei tamarri?”
“In carne e cappellone”.
“Mi presento, sono Pablo Picasso, un pittore del secolo scorso, forse avrà già sentito parlare di me”.
“Vagamente”.
“Volevo proporle un soggetto che la renderà ancora più ricco, famoso e culturalmente rilevante: una torbida storia ambientata in un bordello nella Francia del sud”.
“Un bordello nella Francia del sud?”
“La storia è ispirata a un mio quadro famoso”.
“Ci sono le tette?”
“In tutte le angolazioni possibili, e inoltre volti deformati senza un perché”.
“Tette e volti deformati. Ha la mia attenzione”.
Sin City 2, se proprio uno ci tiene a vedere Frank Miller che si sputa addosso, è al Cinelandia di Borgo San Dalmazzo alle 20:10 e alle 22:45, e in versione 3d al Multisala Impero di Bra alle 22:30. 
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Dieci cento mille trattative

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La Trattativa (Sabina Guzzanti, 2014).

Di cosa parliamo, quando parliamo di trattativa Stato-mafia? Di quale trattativa, quale Stato, quale mafia? Fino a che punto Riina o Provenzano furono parti in causa, da quale in poi diventarono merci di scambio? L'argomento, già oscuro e intricato di suo, negli ultimi anni è stato deformato a piacere da cronisti e impresari di talkshow più interessati a restare in prima pagina (allevando mostri, se necessario) che a fornirci un quadro d'insieme. A colmare la lacuna è arrivata Sabina Guzzanti e il suo "gruppo di lavoratori dello spettacolo", con una ricostruzione ovviamente parziale, ma efficace e soprattutto non noiosa. Anche chi non condivide né le premesse né le conclusioni della regista, in capo a un'ora e mezza almeno questo glielo deve riconoscere: la Trattativa è un film originale, che si prende tanti rischi e in un qualche modo riesce a scansarli tutti, sbandando allegramente tra cinema teatro e tv.


Nella Trattativa c'è un po' tutto quello che avevamo paura di trovarci - filmati di repertorio con cortei di prefiche al ralenti, invettive alla ka$ta coi violini di Piovani in sottofondo, verbali di interrogatorio sbobinati e affidati alle cure di teatranti ispirati, infografiche tagliate con l'accetta, insomma tutti gli ingredienti di uno speciale di Servizio Pubblico che non guarderemmo più nemmeno sotto tortura. Questo passa il convento, ma la regista riesce ugualmente in qualche miracoloso modo a cucinare una pietanza interessante, raffinata perfino. Come ha fatto? Il segreto è forse la misura, la consapevolezza dei propri limiti. La Guzzanti sa che recitare i verbali conduce inevitabilmente a risultati grotteschi, e volge la cosa a suo favore dichiarando dopo pochi minuti l'artificiosità della messa in scena. Sa che il tema che si è scelto ha un peso specifico che mette alla prova il più motivato degli spettatori, e non ha remore ad alleggerire il dramma con siparietti tragicomici che ci fanno arrivare alla fine del film senza aver guardato una volta sola l'orologio. Riesce a piazzare qua e là persino la sua imitazione di Berlusconi - ormai più che satira è un talismano, una mascotte grottesca, il gemello cattivo che si porta con sé su qualsiasi set - e che in un qualche perverso modo anche qui funziona. Sa che come presentatrice non rende al massimo, e cede volentieri la voce narrante agli attori che si truccano e travestono in scena, entrando e uscendo giocosamente dai loro personaggi.

Lo straniamento brechtiano che ne deriva è ovviamente agli antipodi del culto dell’innocenza fondato da Pif in La mafia uccide solo d’estate. Pif vuole farci tornare bambini, cerca di farci immedesimare in una Palermo assediata dagli uomini cattivi. La Guzzanti ci parla come si parla agli adulti: ci tiene a distanza, ha un ragionamento da fare ma è abbastanza onesta da ammettere che certi dettagli non tornano. Il risultato è così notevole che fornisce abbastanza strumenti anche a chi vuole criticare la sua impostazione.  In sostanza la Guzzanti crede che ci sia stata una sola grande Trattativa, tra un solo Stato colluso e una sola Mafia. Nel momento in cui quest’ultima sembrava a un passo da essere sconfitta per sempre, lo Stato colluso ha lasciato che fossero eliminati i suoi servitori troppo intransigenti e attivato i suoi emissari che dopo una serie di equivoci sarebbero riusciti a stabilire un contatto solido e a normalizzare la situazione: il risultato di questa normalizzazione sarebbe la nascita di Forza Italia, l’ascesa al potere di Berlusconi, e il conseguente sfacelo della Repubblica. Nel finale del film, la Trattativa diventa in sostanza la causa di tutta una ventennale degenerazione della società italiana; tra le ultime immagini di repertorio compare a mo’ di esempio l’Ilva di Taranto. Se lo Stato non avesse ceduto alla Mafia, il malaffare non avrebbe trionfato e le fonderie non avrebbero avvelenato le persone. È una generalizzazione talmente grossa che a mio modesto parere si sgonfia da sola.
Quel che credo di aver capito io – guardando il film: questa è la sua forza – è che le cose sono davvero parecchio più complesse: e se ci fu a un certo punto una trattativa tra uno stato (che non è lo stato di adesso) e una mafia (che non è l’organizzazione malavitosa di adesso), probabilmente non fu l’unica e non fu così decisiva. Quella che nel ’91 stava cadendo sotto i colpi del maxiprocesso, e cominciò a dar furiosi colpi di coda a Capaci e in via d’Amelio non era “la Mafia”: era una mafia, la cui crisi rischiava di cedere spazio ad altre organizzazioni malavitose, ‘ndrangheta camorra o stidda – che nei fatti occuparono progressivamente il vuoto che Cosa Nostra lasciava. In una situazione del genere, un apparato dello Stato (il Ros di Mori?) potrebbe effettivamente aver cercato di sostenere una fazione moderata e normalizzatrice all’interno di Cosa Nostra, rappresentata da Bernardo Provenzano. È un’ipotesi ragionevole, anche se fin qui smentita dai processi. La Trattativa è al cinema Fiamma di Cuneo alle 21.
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Luc Besson usa il 10% del suo cervello (e sta benissimo)

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Lucy (Luc Besson, 2014)

Può fare tutto quello che vuole, e quindi fa un trucchetto così.

Un giorno Luc Besson ha sentito dire che gli umani usano soltanto il 10% del loro cervello. Non sappiamo da dove gli sia arrivata la notizia (una brochure di scientology? la maga di Montmartre?), quel che importa è che Luc Besson da quel momento ha spento il 90% del suo. I risultati sono stati entusiasmanti. Libero da ogni residuale freno intellettuale, Besson ha sfrenato il suo lato tamarro fondando un impero cinematografico senza eguali nel continente, l'Europacorp. Un mostro che fattura milioni di euro, sbanca migliaia di botteghini in tutto il mondo e riesce a esportare blockbuster di action tamarra negli usa, più o meno come vendere frigoriferi agli eschimesi, ma non un paio ogni tanto: container di frigoriferi europei, pure scadenti, si direbbe che ne vadano pazzi. Di fronte a tanto successo ci rimane solo un piccolo dubbio: cosa avrebbe potuto fare, Luc Besson, col 100% delle sue facoltà intellettive?

Di sicuro non avrebbe mai potuto scrivere una sceneggiatura come Lucy, che non si tiene in piedi neanche se la sorreggi con tutti i luoghi comuni del genere (quale genere? qualunque genere). Il vago sentore europeo del film purtroppo consiste essenzialmente in questo: in America uno script così squinternato non te lo passerebbero mai. Al limite se trovassero buono lo spunto lo farebbero riscrivere da capo a piedi da un pool di scimmie con cervelli più impegnati di Luc Besson. Per dirne una: a metà film la protagonista, già praticamente onnipotente (il che toglie tutta la suspense; hai voglia a vedere scene d'azione se sai già che lei non corre nessun pericolo) ha davanti a sé il Nemico, alla sua mercé. Lo tortura un po' perché le serve un'informazione - ma non lo uccide. Non le va. È onnipotente e amorale, un quarto d'ora prima ha sparato a un tassista taiwano perché non sapeva l'inglese; adesso ha davanti l'Antagonista e lo lascia andare. Perché? Perché sennò Luc Besson non sapeva come far andare avanti 'sta fregatura di film - oh guardate che non si tratta mica di ostentare pretese cinefile, io sono uno che si diverte con poco, mi è piaciuto pure Kick Ass 2, vi rendete conto? Kick Ass 2 è il Re Lear al confronto di questa roba.

C'è che fare film cretini, in America, è una scienza. Qualsiasi fastfurious ha una consistenza narrativa che Besson si sogna, del resto come potrebbe fare diversamente? Usa soltanto il 10% del suo cervello, probabilmente non riesce a centrare la bocca quando si serve il caffè. Lucy è la storia di una ragazzotta zarra come Scarlett Johansson in Don Jon, che in seguito a drammatiche circostanze assume una quantità ingente di una droga che prima la trasforma in una supereroina (come Scarlett Johansson nei film della Marvel), poi in un'aliena insensibile come Scarlett Johansson in Under the Skin, e infine in una deità incommensurabilmente superiore agli esseri umani, del tipo di Scarlett Johansson in Her. Si tratta in sostanza di pura Johanssonexploitation, che in altre epoche, con altri budget, avrebbe fatto fronte alla nostra necessità settimanale di Scarlett scritturando una bionda più o meno simile in grado di corrucciare il musetto più o meno allo stesso modo. Invece Luc Besson (tutto sporco di caffè da capo a piedi) i soldi per chiamare la Johansson si dà il caso che ce li abbia. Per dire, la Marvel non ce li ha. Un film con la Vedova Nera protagonista, la Marvel non ce lo fa. I procioni sì, Robert Downey in scatola sì, Scarlett Johansson no. Per fortuna che c'è Luc Besson, col gelato tra i capelli.

Può far tutto quello che vuole, e quindi si bacia un tizio così
Non c'è un solo fotogramma di Lucy che non sia un'offesa all'intelligenza di chi lo guarda. Hai voglia a dire che è un action: fanno schifo proprio le scene action. Scarlett ha troppa fretta, deve diventare da parrucchiera a Dio in ottanta minuti, non è che possa mettersi lì e fare le capriole da vedova nera. Non ci sono combattimenti; c'è lei che passa con la pistola e ammazza un po' di gente prima che possano rendersene conto. Non ci sono inseguimenti; c'è lei che fa schizzar via le macchine con la forza del pensiero, eh beh, ma così son buoni tutti. Non c'è detection, lei vede tutto, trova tutto, è dappertutto. Non c'è romance, c'è giusto il tempo di un bacetto col primo poliziotto che incrocia, così, giusto perché hai speso tanto per le labbra di Scarlett e in qualche modo le devi usare. Tenete conto che la protagonista da metà film in poi potrebbe trasformarsi in qualsiasi cosa, dall'albatros allo zircone, ma il tempo per fare della computergrafica seria non c'era. Così le hanno soltanto fatto crescere una mano in più per tre secondi a mo' di dimostrazione: guarda che roba avremmo potuto fare con un po' più di tempo e di voglia. In generale qualsiasi immagine vagamente visionaria esce quasi subito dall'inquadratura.

Tutti questi espedienti sarebbero anche apprezzabili se Lucy si presentasse come un onesto B movie all'arrembaggio dei mercati globali; ma no, Luc Besson con una banana schiacciata sulla fronte voleva darci il suo film filosofico, il suo Matrix, il suo 2001, il suo Tree of Life. Ed ecco Morgan Freeman nei panni di uno scienziato come può immaginarselo un regista zarro lobotomizzato; un tizio saggio che dice cose misteriose in una sala piena di gente che lo ascolta a boccaperta. Scienziato Freeman ha dedicato tutta la sua vita a domandarsi cosa succederebbe se usassimo il 100% del suo cervello, e la risposta che Scienziato Freeman ha trovato è "non lo so". Tanta saggezza manda in visibilio il pubblico. Scarlett da metà film ha accesso a tutto lo scibile umano, ma si fida soprattutto di Scienziato Freeman che sa di non sapere. A Scienziato Freeman, Scarlett spiega il senso dell'universo, che è questo: la materia non esiste, esiste solo il tempo. Vi domanderete come ha fatto ad arrivarci: ebbene, ha accelerato la sequenza di una macchina che corre su una strada, finché la macchina non è sparita. Quindi la macchina non esiste, chiaro, no? No, Luc Besson, è un paradosso da terza elementare - peraltro se Scarlett è onnipotente dovrebbe riuscire a percepire la macchina con qualsiasi accelerazione - verrebbe voglia di prenderlo a schiaffi rapidi dicendogli: le vedi le mani? (ciaf) le vedi? (ciaf) le vedi? e allora non esistono, tranquillo. Ciaf! Ciaf! Ciaf! Sta' sereno. Ciaf!

Ma a che servirebbe. Col dieci per cento delle sue facoltà intellettuali, Luc Besson ha messo insieme uno schifido pezzo di celluloide che sta sbancando i botteghini in tutto il mondo. Sarà Scarlett, sarà la noia dilagante (Hollywood sta producendo solo sequel o remake), o il gusto perverso per le bubbole pseudoscientifiche - la prossima volta potrebbe scatenare Angelina Jolie contro le scie chimiche, o Chloe Moretz contro i terremoti causati da haarp e i microchip sottocutanei finanziati col signoraggio bancario. L'unico modo di apprezzare roba del genere è spegnere almeno il 90% del proprio cervello: mi spiegate come si fa? Perché vedo che un sacco di gente qui intorno ci riesce e si diverte un sacco, e io no, non è giusto.

Lucy è al Cityplex di Alba (20:00, 22:15); al Cinelandia di Borgo S. Dalmazzo (20:30, 22:40); al Vittoria di Bra (20:15, 22:30); al Fiamma di Cuneo (21:00); al Multilanghe di Dogliani (21:30); ai Portici di Fossano (21:15); al Baretti di Mondovì (18:00, 21:00); all'Italia di Saluzzo (20:00, 22:15); al Cinecittà di Savigliano (20:20, 22:30)
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I nostri piccoli assassini

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I nostri ragazzi (Ivano De Matteo, 2014)

Capita in tutte le famiglie - ricche, o meno, perfette o meno. Capita, a un certo punto, che ci venga ad abitare un perfetto sconosciuto. Di solito si prende la stanza del piccolo, quello tanto carino che è scomparso all'improvviso senza neanche salutare. Si disfa dei giocattoli e si mette a tappezzare le pareti di cose incomprensibili. Non è chiaro chi sia, cosa faccia, cosa guardi sul monitor, cosa scriva sul cellulare; dove passi i pomeriggi e a volte le nottate. La mattina dice di andare a scuola, ma le versioni sue e degli insegnanti non coincidono mai. È fragilissimo, eppure hai la sensazione che potrebbe uccidere qualcuno a mani nude. Non ha affetto da mostrarti, solo favori da chiederti. Sa che non potresti rifiutarti. O potresti?


Ti lascio per un attimo fatina su Rai Yoyo e ti ritrovo che prendi a calci i barboni.
I nostri ragazzi comincia e finisce col botto, e nel mezzo fa quel che può per non perdersi. È un buon thriller psicologico senza esorbitanti pretese, che arriva nelle sale nel settembre 2014 scontando la sfortuna di assomigliare un po' troppo a un altro film, molto più ambizioso, di cui negli ultimi mesi si è parlato tantissimo: Il capitale umano. Il confronto è inevitabile: di nuovo un romanzo non italiano (stavolta è La cena dell'olandese Herman Koch: per favore, continuate così, questi innesti stanno funzionando); di nuovo due famiglie a tavola e due adolescenti nei guai. Ma è un confronto terribilmente ingiusto, che serve soltanto a evidenziare quello che Virzì era disponibile ad aggiungere e che a De Matteo non interessava. Il primo non poteva rinunciare a fornire ai suoi personaggi coordinate politiche, sociali, geografiche, senza preoccuparsi di scadere nel macchiettismo e anzi aggiungendo siparietti satirici gratuiti (ma irresistibili); a De Matteo la politica non interessa, non interessa la geografia, né la satira dei costumi. Persino gli adolescenti, che da un certo punto in poi si prendono il film di Virzì e lo portano a conclusione: persino loro sembrano ai bordi dell'occhio di bue di De Matteo; animali incomprensibili dietro le cui azioni rituali (fumare - messaggiare - limonare alle feste) si nascondono pulsioni oscure su cui non sembra lecito indagare.

A De Matteo interessavano soltanto i quattro adulti (facciamo tre e mezzo, la Bobulova non ce ne voglia): il modo ovviamente imprevisto in cui reagiscono a uno choc che mette in discussione il loro sistema di valori eccetera. Il rischio di girare un film di tinelli è corso con consapevolezza, tanto più che De Matteo decide di demandare agli arredatori una buona parte della caratterizzazione dei personaggi. Intuiamo il progressismo della coppia Lo Cascio - Mezzogiorno dalla quantità di libri alle pareti (affastellati senza nessuna cura degli accostamenti cromatici); l'insensibilità di Gassman dalla luce gelida e ambulatoriale del lunghissimo corridoio che percorre tra studio e camera del bambino. E poi naturalmente ci sono gli attori, con tutto quello che non riescono a lasciarsi dietro tra un film e un altro, e ci fa immaginare una Mezzogiorno più imbronciata di quanto probabilmente non sia, e quanto a Lo Cascio... ecco, parliamo di Lo Cascio (ne parliamo su +eventi!)

Lo Cascio non è probabilmente l'attore italiano più dotato della sua generazione, ma lo scherzo che gli ha fatto il destino è eccessivo. Dieci anni fa, grazie a Marco Tullio Giordana si ritrovò a dar voce, e corpo, a un personaggio che rappresentava un po' tutto quello che l'Italia progressista pensava di sé: l'Impastato entusiasta e cocciuto dei Cento Passi, e soprattutto l'antipsichiatra basagliano della Meglio gioventù. È trascorso persino meno tempo di quel che sembra, la sinistra ha passato quel che ha passato e non è colpa di Lo Cascio se quei film sembrano invecchiati peggio di altri. Fatto sta che sia nel Capitale umano che in questo film, Lo Cascio sembra stato invitato proprio a riprendere quei personaggi e a ribaltarli nella loro parodia. Se il critico cinematografico del Capitale era poco più che un cammeo (ma già abbastanza ributtante), il pediatra dei Nostri ragazzi sembra davvero il lato oscuro di quell'eroe modesto e sorridente che apriva i manicomi e risolveva gli anni di piombo con un sorriso e tanta buona volontà. Anche stavolta entra nel film indossando un camice e dispensando sorrisi, ottimismo e battutine. Il problema è che è tutto lì, un personaggio che dietro i sorrisi e le battute e l'ottimismo nasconde un vuoto che verrà fuori pian piano: un vuoto in cui si aggira un Lo Cascio diverso, per quanto può essere diverso Lo Cascio: ma come si era già capito nel Capitale, più di tanto non può. Al limite si dibatterà come un matto in camicia di forza, urlerà forte, butterà oggetti per terra, questo tipo di cose.

E a quel punto istintivamente ti verrà voglia di rivalutare Gassman, il gelido e ambulatoriale Gassman, con quel modo di esprimere i sentimenti muovendo un singolo nervo sotto la guancia. Qualcosa di molto simile succedeva in fondo al Capitale Umano, quando ti capitava di pensare che il meno stronzo di tutti fosse proprio il pescecane (in quel caso era Gifuni): asettico, calcolatore, ma ancora in grado di distinguere Bene e Male. Con meno capriole, I nostri ragazzi ci porta alla medesima conclusione. Può essere una coincidenza, o la somiglianza di due istantanee scattate quasi nello stesso momento a una sinistra presa a pugni dalle circostanze. Quel che importa è che i personaggi progressisti-con-tanti-libri-alle-pareti non ci fanno una bella figura. Per qualche spettatore riflessivo sarà il pretesto per un ennesimo esame di coscienza; per chi trovava irritanti i sottointesi volemosebbene della Meglio Gioventù è persino una buona notizia.


I nostri ragazzi è al Cityplex di Alba (20:00; 22:00), all'Impero di Bra (20:20; 22:30) e al Fiamma di Cuneo (21:00).
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Ciao Satana, credo sia ora di andare

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16 agosto 1938 - a Greenwood, Mississippi, un musicista di strada muore in circostanze non chiare. Diventerà una leggenda molti anni dopo, per una serie di equivoci.

Di lui non si sa praticamente nulla. I testimoni orali, i tizi che si sono intascati qualche soldo per raccontare qualcosa ai documentaristi, sono gente che per cento dollari ti suona quel che vuoi ascoltare - vuoi il patto col diavolo? Ti racconto il patto col diavolo. Vuoi il drama? Gli morì la moglie di parto. Anzi era una fidanzata. Minorenne ovviamente. Anzi erano due. Due minorenni entrambe morte di parto. Vuoi il mistero? con la chitarra era una schiappa, ti giuro, l'ho sentito. Poi gli muore la fidanzata incinta e lui scompare per un anno, e quando si rifa vivo suona come un dio. No. Dio decisamente non suona così. Dio non vuole sentire i lamenti d'amore uscirti dallo stomaco come i crampi, Dio non vuole sentire che hai un limone da spremere nel bassovita, Dio in questa storia non c'entra nulla. Decisamente.

La storia che si impone sulle altre, in queste situazioni, è quella più romanzesca. È un musicista girovago, quando arriva in città mette il cappello sul marciapiede e suona quel che vuoi sentire. È abbastanza eclettico, ma ha una sua personalità. In breve riesce sempre a farsi invitare a suonare in un locale. Bisogna avere una voce squillante e un gran repertorio - lui peraltro sembra in grado di riprodurre qualsiasi canzone a comando. Se non sa il testo se lo inventa, e in breve ha inventato una nuova canzone. Alle donne piace. Di solito ne sceglie una - o si lascia scegliere - e quando il locale chiude, lui dorme da lei. Una diversa per ogni città. A Greenwood sta dalla moglie del gestore. Non è una grande idea. Con lui c'è un suonatore di armonica che diventerà famoso come Sonny Boy Williamson. A un certo punto Sonny Boy si accorge che all'amico hanno passato una bottiglia di whisky aperta. Gliela sfila di mano, la bottiglia si rompe, che cazzo fai? "Amico, non farlo mai più. Non bere mai più da una bottiglia che non hai visto aprire". "Amico, non levarmi mai più una bottiglia dalla mano, hai capito?" "Ho capito".

Pochi minuti dopo, il tizio ha di nuovo una bottiglia aperta in mano. Pochi minuti dopo, quand'è ora di rimettersi a cantare, il tizio non riesce più a spiaccicare una parola. Farfuglia. Sta male. Lo portano via. Non lo curano come si deve - è un vagabondo, chi lo conosce dopotutto. Muore dopo un paio di giorni d'agonia, settantasei anni fa oggi. La data probabilmente è l'unica cosa sicura di tutta la storia.

Non sappiamo nemmeno dove sia sepolto - tre cimiteri si contendono il privilegio, ma le tre tombe sono state rimesse a posto molti anni dopo, quando Robert Johnson - si chiamava così - diventa improvvisamente famoso, di una fama che mai si sarebbe sognato. I nastri che aveva inciso in una camera d'albergo a San Antonio, e più tardi in un piccolo studio di registrazione a Dallas, vengono ristampati su album e diventano l'opera omnia del più grande bluesman di tutti i tempi. 29 canzoni, alcune registrate persino un paio di volte, in fretta, da un tizio che non aveva mai inciso nulla e avrebbe potuto suonare centinaia di pezzi in stili molto diversi, ma gli avevano chiesto un certo tipo di blues e, perdio, pagavano.

Robert Johnson nella sua vita ha probabilmente ascoltato solo un paio delle sue canzoni incise a 78 giri. Non sappiamo nemmeno se si sia piaciuto, ma è facile immaginare che si sia sentito a disagio, di fronte a una voce più stridula, e una chitarra più svelta. L'etichetta per cui incideva era solita accelerare i nastri anche del 20%. Così l'indiscussa bravura di Johnson alla chitarra diventa qualcosa di disumano. Quando Keith Richards l'ascolta per la prima volta a casa di Brian Johnson, si domanda chi sia l'altro chitarrista. "Robert Johnson". "Sì, ma chi è l'altro che suona con lui?"

Il vero Robert Johnson probabilmente suonava più piano, e aveva una voce più bassa, simile agli altri bluesmen del tempo. Non suonava soltanto blues - l'unico ragtime che ha inciso è assolutamente brillante, non l'esercizio di un dilettante - e non era necessariamente malinconico o dannato come ci piace sentir raccontare. Ma il vero Robert non esiste più. Quello che abbiamo è stridulo e dannato, e non c'è filologia musicale che ci possa convincere a farne a meno.

La leggenda del patto col diavolo a un incrocio è probabilmente soltanto una bella storia. Chi ha studiato un po' più la vicenda sostiene che l'apprendistato musicale di Johnson sia durato almeno due anni. Sappiamo persino il nome all'anagrafe del suo maestro, non il diavolo, ma un tal Ike Zimmerman. Pare che sia vero che suonasse nei cimiteri - sono posti tranquilli dopo l'ora di chiusura, nessuno ti disturba e puoi esercitarti. Ike Zimmerman non ha mai inciso niente. Volendo possiamo tranquillamente immaginarcelo come il più grande genio musicale del Novecento.
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PAZZESCO: queste scimmie fanno di tutto. Scrivono anche i film!

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È più colpa mia che tua - abbiamo troppe cose in comune.
Apes Revolution (Ma il titolo originale è Dawn of the Planet of the Apes), Matt Reeves, 2014.

Un tempo qui era tutto dell'uomo. Ma uomo cattivo, uomo pasticciare con virus ed esplosivi, uomo uccidere uomo, uomo tramontare. Futuro è scimmia. Scimmia non uccide scimmia. Se proprio non necessario, diciamo.

È insolitamente difficile scrivere una specie di recensione dell'ultimo capitolo della saga che mi terrorizzava da bambino nei lunghi pomeriggi del palinsesto estivo rai, scimmie parlanti e scenari postnucleari. È oggettivamente impossibile scriverne una migliore di quella di Gundam sui 400 calci, tanto per cominciare. Poi c'è il problema che il film è piaciuto a tutti, proprio a tutti, mentre e a me, mah, non tanto. E invece avrebbe dovuto piacermi. Quando ha battuto i Transformers ai botteghini, avrei dovuto scrivere un peana entusiasta in onore di Matt Reeves e degli altri sconosciuti di Hollywood che qualche anno fa hanno preso una saga accantonata per 25 anni e poi umiliata da un remake devastante, e l'hanno riavviata con 'pochi' milioni di dollari e tanta passione per il cinema d'avventura fatto bene. Prendi questa, Michael Bay. Un cantico, avrei dovuto sciogliere, a questo western con scimmie più espressive degli uomini, puri mascheroni amplifica-sentimenti, animali fatti di rabbia e orgoglio e amor paterno e invidia e perfidia, più umani dell'umano, agli antipodi di quei robottoni cromati barocchi e inespressivi. E invece guardate qui che cinema si può fare, con un po' di sana apocalisse batteriologica anni '70, due-location-due ma ben costruite, e tanto sentimento: tanta rabbia, tanto orgoglio e amor paterno eccetera. Avrei dovuto scrivere di questo, e di quanto mi sia piaciuto questo film. Se mi fosse piaciuto.

Ma non mi è piaciuto così tanto (continua su +eventi!)

Chi è la scimmia adesso?
Che è la peggior cosa che mi possa succedere: quando una cosa dovrebbe piacermi, e invece no. Magari è colpa mia. Anzi, sicuramente. È un film per giovani adulti, non per me; a loro la trama non sembrerà così prevedibile. Non soffriranno le caratterizzazioni tagliate con l'accetta, quelle che purtroppo consentono dopo cinque minuti di girato di prevedere quale scimmia litigherà con l'altra, e che il primogenito dubiterà del padre ma poi lo aiuterà nel momento più critico - mentre tra gli umani ce n'è uno che fuma, e sai già quanto sia sacrificabile; ne vedi un altro paio e sai già che tra tre quarti d'ora si punteranno le armi a vicenda perché uno vuole sterminare le scimmie e l'altro adottarle. Se fosse per questo, non me la prenderei. Non obietterei anche al fatto che il film giochi con la mia cattiva coscienza di spettatore, che razionalmente vorrebbe che umani e scimmie non si massacrassero a vicenda, e d'altra parte è venuto al cinema proprio per vedere un film in cui umani e scimmie si danno battaglia saltando in aria e rubandosi i carri armati. Sono cose che ho perdonato a film più sgangherati di questo. Il problema è che Dawn of the Planet fa sul serio. Vuole essere preso sul serio, senza ammiccamenti. E invece ha una trama che fa acqua un po' dappertutto. Un re-scimmia che ogni tanto si domanda che ne è stato degli umani, possibile che non ci siano più? Dieci inverni senza avvistamenti. Poi ne incontrano uno nel bosco, lo seguono albero per albero e scoprono che a qualche migliaio di alberi di distanza c'è ancora San Francisco. Non lo sapevano? Non era mai venuto in mente al re-scimmia di dare un'occhiata?

Poi c'è Koba, un personaggio fantastico. Il più intelligente tra le scimmie - in effetti pare sia un bonobo. Ha una bassissima opinione degli umani, sviluppata negli anni in cui è stato cavia di laboratorio. E malgrado il suo odio tanto sbandierato, è il più umano di tutti: sa mentire, uccidere a sangue freddo, recitare, manipolare: tutte cose che le scimmie ancora non fanno. Lui sì. Koba è un'invenzione felicissima. Ma proprio per questo, forse, si poteva evitare di trasformarlo in una superscimmia in grado di espugnare un carro armato a mani nude, uno che sa maneggiare con precisione il primo fucile che maneggia in vita sua - il virus gli ha fatto pure crescere il pollice opponibile? Va bene l'esplicito omaggio western, ma c'è un limite alla verosimiglianza anche in un film sui primati che rubano i fucili e in tre ore imparano come maneggiarli. La cosa fa tanto più male quanto più la messa in scena è ben curata, gli effetti speciali ben calibrati, eccetera. È come se avessero fatto scrivere la storia alla scimmia del team. Con tutto il rispetto per le scimmie, che hanno un luminoso futuro davanti. Però forse non è ancora il momento di far scrivere a loro i film.

Un ultimo appunto - assolutamente pretestuoso. Perché le scimmie, che hanno già un linguaggio dei segni perfettamente funzionale, dovrebbero imparare a parlare l'inglese, se per loro è faticoso e comunque gli umani non ci sono più? Perché dal prossimo film in poi lo parleranno correttamente, ok, lo so - ma al di là della necessità narrativa, che senso ha imparare faticosamente la lingua morta di una razza imperialista ormai tramontata? È un po', come si dice, un non sequitur, non trovate?

Apes Revolution è al Cinelandia di Borgo S. Dalmazzo alle 20:00 e alle 22:40; in 3d al Multisala Impero di Bra alle 20:10 e alle 22:30.
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Quella volta che B si bevve tutto il film

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Zoran, il mio nipote scemo (Matteo Oleotto, 2013)

Nel finale dell'ultimo, ahinoi, film di Mazzacurati, a un certo punto Battiston incontra un orso nella foresta e ci va a vivere assieme. Il film è una commedia, ma quella scena vira decisamente verso il demenziale spinto. E però in un certo senso è necessaria. La metamorfosi di Battiston in un orso, intendo. Prima o poi doveva succedere.


Quanto è bravo Battiston. Quanto è bello e buono e morbido, da abbracciare. E quante facce sa fare, quanti ghigni, e sa anche urlare. Quante volte ci siamo detti eh, Battiston, peccato che possa fare solo il comprimario. Il Seymour Hoffman de noantri, pardon, (consulta la wikipedia veneta) de noaltri. Quante volte ci siamo detti che ce lo saremmo visti volentieri un film tutto sulle confortevoli spalle di Battiston. Ed ecco Zoran. Ben ci sta.

Zoran è una coproduzione italo-slovena affidata a Matteo Oleotto, giovane regista goriziano che dopo gli studi a Roma per il suo primo lungometraggio è tornato in quel Friuli liminare al mondo slavo. In realtà, sotto la patina paesaggistica stesa sui raccordi, la scena che circoscrive e quasi claustrofobica: un mondo di una dozzina di persone che lavorano assieme, bevono assieme, e giocoforza dormono anche assieme. Ci sono due solo ragazzi, uno è autistico e l'altra è graziosa e determinata a limonarlo; situazione improbabile, non fosse che effettivamente danno l'impressione di essere rimasti gli unici due adolescenti del Friuli. Non c'è neanche un bar, si beve in una rivendita di damigiane e pneumatici. Persino i divorziati si frequentano assiduamente, addirittura si invitano a pranzo tutte le domeniche anche perché probabilmente c'è una sola tavola imbandita per chilometri e chilometri fino alla frontiera. Insomma è una provincia microcosmo. E Battiston se la beve tutta.

Da bere peraltro ce n'è. Il vino scorre copioso come non accadeva dai tempi di Alcool di Tretti. Il coro canta Chi lassa il vin furlan xè propio un fiol de can...  (continua su +eventi!) Battiston è un alcolista che lavora in una casa di riposo. Morti, sono tutti morti. La moglie lo ha lasciato è colpa sua. Vorrebbe fuggire dal microcosmo, ma come? La provvidenza gli provvederà Zoran, nipote sloveno autistico con le solite doti straordinarie che hanno gli autistici nei film. Questo è un campione di freccette, ha una bella voce bianca e un lessico ottocentesco. Va bene.

Io i genitori degli autistici veri li capisco, quando poi gli girano i coglioni. Perché questa cosa dell'autistico campione di questo o quello, non è solo uno stereotipo narrativo un po' frusto, figlio di una visione un po' schematica della narratologia ("dobbiamo fornire un ubriacone incasinato di un opposto, uhm... che ne dite di un autistico maniaco dell'ordine?"). Pian piano è diventato un meme, un'idea che gira, se in classe hai un autistico ti chiedono subito in cosa eccelle, chissà quanta memoria ha! Battiston, forse consapevole della debolezza dell'operazione, se ne frega e gigioneggia, ma che dico gigioneggia, orsonwellseggia. Calato in un personaggio peggiore del solito, non si ferma di fronte a nessuna abiezione, senza mai riuscire a sbarazzarsi di quella maledizione che lo perseguita film dopo film: la simpatia. Dovrebbe fare un bastardo, ha studiato da bastardo, tutto quello che fa è profondamente bastardo, ma non c'è niente da fare: l'orsacchiotto ha la meglio anche stavolta. Sulla carta, il suo personaggio è talmente stronzo che non si capisce come possa sussistere in un qualsiasi macrocosmo senza che lo buttino fuori a calci o randellate. Sulla scena, diventa persino verosimile che l'ex moglie sia tentata di rimettersi con lui - ok, è un alcolista falso manipolatore e stalker... ma è così pucci.

Poi c'è ovviamente (spoiler!) la redenzione finale, che ci riporta all'annoso problema del cinema italiano. Che non sono i registi - ne crescono di bravi in continuazione - non sono gli attori - simpaticissimi, bravissimi - non è la fotografia, anzi avercene - è la scrittura. C'è un personaggio X che è stronzo. Continua a fare stronzate. Al culmine della sua stronzaggine casca in un fosso, e da lì comincia la redenzione. Perché? E perché dovremmo trovare commovente la redenzione di un tizio che fin lì si è comportato male con tutti e con tutto? Perché è Battiston, ed è impossibile voler male all'orsetto Battiston. Va bene, ma... no, non è vero che va bene. Non va bene.

Zoran, il mio amico scemo è al Monviso di Cuneo sabato e domenica alle 21:30.
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Robottoni, Keynesismo e altri complotti

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Transformers 4: l'Era dell'Estinzione (Michael Bay, 2014).

Mentre un’antica e potente minaccia Transformer prende di mira la Terra, un gruppo di potenti e ingegnosi uomini d’affari e scienziati tenta di imparare dalle passate incursioni dei robot spingendosi oltre i limiti controllabili della tecnologia, e a me sono già cascati i bulloni. No, davvero, ci andate voi a vedere i Transformers, io passo. Non è niente di personale, anzi probabilmente sì. Come può altrimenti spiegarsi che i robottoni componibili e polifunzionali di Michael Bay non mi siano mai andati a genio, mentre quelli arrugginiti e analogici di Del Toro mi hanno fatto rabbrividire e piangere per mezz'ora? È davvero così geniale e visionario Del Toro, è davvero così ipercinetico e bimbominchioide Michael Bay (che peraltro, quando vuole, sa fare film molto divertenti)?

Non sarà più semplicemente che io sono della generazione di Gig e di Mazinga, e i Transformers sono usciti nel momento esatto in cui cominciavo le medie e prendevo commiato dai cartoni animati del pomeriggio? Io con gli autobot non solo non ci ho mai giocato, ma probabilmente mi sono impedito di giocare. Li ho sacrificati all'altare della pubertà incipiente, magari li rompevo ai bambini più piccoli per dimostrare che ero un togo, che ne so. So solo che la mia antipatia per quei cosi è profondamente radicata nel mio pre-conscio. A me i robottoni piacciono solo se puzzano di officina anni Ottanta e nell'abitacolo potresti trovare un poster di Blitz. Solo se si ammaccano continuamente e dentro c'è un umano che manovra e sente le botte. Invece il robottone con la personalità, i sentimenti, il senso del destino, lo trovo un abominio. Il robottone che deve preservare la sua identità culturale - pure lui - non ci bastavano gli esseri umani con 'ste menate, tra  un po' pure la macchinette del caffè pretenderanno un seggio all'Onu. E quindi a vedere Transformers 4 non ci vado.

Sto qui a casa a pensare a quanto sarà bello Pacific Rim 2. Chissà quante belle pezze variopinte stenderà sui buchi di sceneggiatura del primo. In particolare sarebbe bello se approfondisse un'idea lasciata molto in sospeso, che secondo me potrebbe fare la differenza. Come forse non sapete, all'inizio di Pacific Rim i robottoni sono già vecchi, una tecnologia superata (e questo è geniale, perché assomigliano davvero a quelli che spuntano ancora da certi nostri cassetti nei solai o nei garage). Hanno avuto un momento di gloria qualche anno prima, ma ormai non riescono più a fronteggiare i dinosauri, e quindi l'esercito mondiale ha deciso di dismetterli, e di costruire un grande muro - probabilmente si tratta di una distopia in cui gli economisti keynesiani sono riusciti a conquistare l'egemonia. Persino il protagonista, ex conducente di robottone, dopo aver perso il fratello gemello in un combattimento, ha trovato lavoro come manovale. Il muro però, se da un lato assorbe tanta forza lavoro e rilancia l'economia, ha una grossa pecca: non funziona. Lo si vede dopo pochi minuti: il primo dinosauro che ha voglia di farsi un giro a Sidney lo sbriciola come niente fosse. Eppure l'umanità continua a costruirlo. È scema? Sì.

Molti spettatori dotati di intelligenza, e determinati a manifestarla, se la sono presa per l'apparente ingenuità: come se l'umanità, quella vera e non cinematografica, dimostrasse sempre di saper prendere le misure alle catastrofi incombenti. Se di fronte al riscaldamento globale tutto quello che abbiamo saputo opporre è il protocollo di Kyoto, perché non dovremmo reagire a un'invasione di dinosauri ciclopici alzando un muretto di mattoni? Siamo fatti così. Ma a un certo punto del film viene lasciato penzolare un altro spunto, che spero Del Toro sviluppi: forse il muro è semplicemente un diversivo.

Forse la guerra è già persa, e l'élite che governa il mondo - e che ha approfittato dell'invasione per accentrare ricchezze e conoscenza - lo sa. Questa élite nel primo film non compare mai, ma in un qualche modo sappiamo che esiste, e che ha deciso di dismettere il progetto dei robottoni. Ma proviamo a immaginare di esserci noi al loro posto. Non abbiamo i mezzi per vincere la guerra, ma abbiamo gli strumenti per calcolare l'entità della sconfitta: sappiamo che l'umanità è spacciata, e che soltanto un'esigua minoranza può sopravvivere in rifugi costosissimi. Cosa facciamo? Cominciamo a costruire quei rifugi, e nel frattempo teniamo occupata l'umanità con qualcosa. Un bel muro di mattoni, che ne dite? E speriamo che se la bevano.

Ora togliamo i dinosauri e passiamo al mondo reale, che non se la passa poi così meglio. Se davvero c'è una sottile classe sociale di super-ricchi, destinati a diventarlo sempre di più, perché non si danno da fare? È il punto di partenza di tutti i complottisti, lo so; ma se le risposte che si danno sono ridicole, la domanda è legittima. Penso alla tizia appena assunta dal M5S a Bruxelles: la sua ipotesi è che il Nuovo Ordine Mondiale stia regolando il clima mediante le scie chimiche e stabilizzando la popolazione del globo mediante la vaccinazione di massa, l'introduzione di nanomateriali plastici negli alimenti, ecc. Cioè, in pratica senza scie chimiche e vaccini saremmo già in venti miliardi. Ora io non so voi, ma la mia reazione a una teoria del genere è: magari! Cioè ci voglio lavorare anch'io per il Nuovo Ordine Mondiale, ditemi dove ci si iscrive, porto anche il caffè. Sul serio, se abbiamo trovato un sistema per regolare la popolazione mondiale senza guerre e senza carestie siamo in sostanza i più grandi benefattori di tutti i tempi - anzi io comincerei ad aumentare le dosi, perché sette miliardi francamente non mi sembrano un gran risultato; cioè ti devi impegnare un po' di più, Nuovo Ordine Mondiale.

Fuor di ironia, se non si crede a nessuna grande teoria del complotto, rimane il problema. Cosa sta facendo l'élite che sta accumulando il più grande capitale di ricchezza e conoscenza mai esistito nella storia dell'umanità? (chiediamocelo su +eventi!)

Perché non si stanno dando da fare per salvare la Terra e impedire le catastrofi climatiche che la comunità scientifica ormai dà per scontate? Il problema dovrebbe interessare ai super-ricchi per primi: non per filantropia, ma perché siamo tutti sulla stessa barca, loro compresi. O no?

Ormai sappiamo che in futuro non così remoto l’acqua sarà un bene molto più prezioso; molte specie animali si estingueranno. Anche l’umanità probabilmente dovrà ad adattarsi a cambiamenti rapidi e quasi sempre peggiorativi. Diminuiremo, anche senza bisogno di vaccini o nanomateriali. È più probabile che si ricorra ai vecchi metodi già sperimentati: carestie, epidemie, guerre per l’accaparramento delle risorse. Non è la trama di un film di Emmerich: sono le previsioni di scienziati e studiosi. Cose che sappiamo, anche se preferiamo parlar d’altro. L’élite dovrebbe saperle meglio di noi. E di conseguenza preoccuparsi un po’ di più. Invece, boh, voi li avete visti? Ok, qualcuno fa un po’ di filantropia, ma non sembrano sforzi adeguati alla drammaticità della situazione. Forse hanno fatto i loro calcoli, e da qualche parte stanno costruendo rifugi climatizzati e iperaccessoriati, dove si nasconderanno quando su questa crosta cominceremo a scannarci per un sorso d’acqua. È un complottismo come un altro.

O forse i calcoli hanno dato risultati peggiori, e l’1% ha deciso che tanto vale spassarsela finché dura. Alla plebe si può ancora offrire qualche film fracassone e divertente.
  
Transformers 4 esce oggi mercoledì 16 luglio al Cinelandia di Borgo San Dalmazzo alle 20:20 (3d), 20:30 (2d), 22:00 (2d); al Multilanghe di Dogliani alle 20:45 (3d) e alle 21:30 (2d); al Vittoria di Bra alle 21 (3d). Andateci e ditemi voi. Oppure tenete d’occhio i 400 calci, loro scriveranno recensioni precise ed esaustive.

(Ps: a questo post si può commentare solo su facebook, andando in fondo alla pagina. Vediamo come va).
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La rabbia dev'essere estenuante

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Lui è Steve Coogan, è bravissimo, ma dopo 24Hours Party
People
gli vorrei bene anche se stesse di spalle per tutto il film.
Philomena (Stephen Frears, 2013)

Lei è una timida orfanella lavandaia; lui è un bellissimo principe in incognito. Si incontrano alla fiera di Roscrea; ma come andrà a finire non lo potreste immaginare in un milione di anni...

Recentemente ho letto di un collegio, in Irlanda, dove tra il 1926 e il 1961 sono scomparsi più o meno 800 bambini. Erano tutti figli di donne non sposate, e possono essere morti per centinaia di motivi: parti finiti male, tubercolosi, denutrizione, eccetera. L'Irlanda aveva in quegli anni il tasso più alto di mortalità infantile in Europa occidentale. Una ricercatrice dilettante sta cercando di capire se siano finiti in una fossa comune. In paese qualcuno ricorda che da bambino aveva sentito parlare di ritrovamenti di scheletrini, in qualche fratta, ma sono storie vecchie, leggende ormai; non interessano a nessuno. Non interessano a nessuno?

La vera Philomena (si chiama davvero così),
ricevuta dal capo della ditta.
Quando escono storie come questa, o come quella che ha ispirato Philomena, la mia prima reazione è sempre: accidenti però 'ste suore irlandesi, le nostre non erano mica così. Poi però ci rifletto, penso alla fama sinistra di scuole d'infanzia confessionali da cui molti miei compagni uscirono irrimediabilmente atei, e qualcosa non mi torna. Possibile che la segregazione delle ragazze madri sia un fenomeno unicamente irlandese? Quale fattore avrebbe reso la situazione irlandese diversa da quella di altri Paesi cattolici, le loro suore più crudeli? Siamo sicuri che un caso come quello di Philomena possa essere ambientato soltanto in Irlanda? A noi italiani sono mancate le suore toste o non, piuttosto, la curiosità di ricercatori dilettanti o improvvisati - come in fondo era anche Martin Sixsmith? Consulente di Downing Street investito da una macchina del fango, Sixsmith per disperazione si mette a seguire la pista di un'anziana signora in cerca di suo figlio e scopre una tratta transatlantica degli orfanelli. Forse da noi queste storie non si scoprono semplicemente perché non interessano a nessuno. Non ci interessano nemmeno più i preti che abusano sui minori - ci credereste? Eppure è così.

Avete sentito dire, poniamo, di Mauro Inzoli? (continua su +eventi!)

Sacerdote lombardo con incarichi importantissimi in area CL, sospeso dal sacerdozio due anni fa a causa di accuse infamanti che in giugno sono state confermate in un decreto della Congregazione per la Dottrina della Fede. Inzoli, insomma, per la Chiesa ha abusato di un minore. Per la Chiesa è ufficiale, il vescovo di Crema sostiene che sono state "eseguite rigorose ricerche". Se non ne avete sentito parlare, consolatevi: nemmeno la giustizia italiana. Nessuno ha denunciato Inzoli a nessuna procura (solo un deputato di SEL ha annunciato che farà un esposto) e, forse anche per questo, nessun giornale ha insistito più di tanto sulla notizia: cioè in fondo che vuoi che sia, un prete in più un prete in meno.

Quando l'anno scorso uscì Philomena, qualcuno scrisse che di propaganda anticattolica non se ne può più. Magari anche in buona fede: a furia di battere il chiodo sulle lavanderie irlandesi o sui preti pedofili si finisce per annoiare il pubblico, per allontanarlo. In linea generale può darsi, ma insomma non mi pare che ci sia tutta questa attenzione sulla Chiesa, almeno qui da noi. Peraltro, Philomena è un film abbastanza grande da difendersi da solo: vuoi per la scrittura sobria, un po' scolastica soprattutto nei flashback iniziali, ma spietata; vuoi per la grandezza di Judi Dench, eroica e insopportabile, che sfinisce leggendo il menu del buffet e commuove anche solo sbattendo le palpebre.

Si meritava un Oscar per questo, non per quegli
8 minuti da Regina Elisabetta (ancorché notevoli)
in Shakespeare in Love.
Il film non è solo un atto di accusa preciso e documentato, ma sul finale si permette di sconfiggere il cattolicesimo in casa, appropriandosi del suo tesoro più prezioso, l'amministrazione del perdono - e gli si perdona anche la caduta di stile della suora-zombie che a 90 anni sarebbe ancora disposta a fare una predica anti-lussuria, una delle poche licenze che gli sceneggiatori si sono presi rispetto alla storia vera (e si sente). Philomena è stata peccatrice e infermiera, ha conosciuto i corpi degli uomini e i loro appetiti: non ha mai smesso di pregare il suo Dio, ma anche di interrogarsi sul suo peccato e sulla sua espiazione, finché la stessa espiazione non le è sembrata un peccato più grande. Philomena conosce la differenza tra il perdono e la giustizia: la seconda deve fare il suo corso, la prima ci salva l'anima da una rabbia che ci distruggerebbe. Si esce dalla sala con la sensazione di aver visto, insieme, un reportage anticattolico e il film più cattolico della stagione. È al Monviso di Cuneo, sabato e domenica, alle 21:30.
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Non stacco gli occhi da te

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Jersey Boys (Clint Eastwood, 2014)

C'è stato un tempo, neanche tanto lontano, in cui i cantanti non si gonfiavano la fedina penale al microfono per giocare ai personaggi scomodi; tutto il contrario. Erano tempi peggiori di adesso, che ti credi? Sotto tutta la brillantina, bernoccoli e cicatrici prese in strada o in famiglia; eppure appena salivi su un palco, anche minuscolo, tutto la fetenzìa spariva come un incanto, e tornavi a essere il bello di mamma tua capace di sciogliere in lacrime i mammasantissima del quartiere e le liceali alla prima libera uscita. Elvis era a militare, i Beatles non erano ancora arrivati, l'America ingannava il tempo sprofondando nella melassa dei quartetti vocali. I Four Seasons qui da noi non li ha sentiti nominare quasi nessuno, forse per lo stesso motivo per cui nessuno ti serve le fettuccine Alfredo o la pizza ai peperoni; ma in quella manciata di anni andarono fortissimo. La risposta italoamericana ai Beach Boys - voi non ne avreste sentito il bisogno, ma milioni di acquirenti di 45 giri evidentemente sì. Dopo anni di gavetta errabonda tra bowling e pizzerie del New Jersey, una sera fatidica trovarono la formula di un doo-wop all'italiana che li portò in cima alle classifiche e in tutti juke box del Paese. Poi ci furono i passi falsi e gli scazzi del caso - e la British Invasion non aiutò - ma dovettero passare cinquant'anni e un musical a Broadway prima che il pubblico scoprisse che quei quattro figurini impomatati e adorabili erano avanzi di galera. Come si evolvono i costumi - oggi se scoprono che sei in cella il tuo disco va in cima alle classifiche, vabbeh, per quel che contano oggigiorno le classifiche...

Jersey Boys è in parte la trasposizione cinematografica dello show di Broadway. Eastwood riprende, senza crederci troppo, la struttura narrativa dello show (quattro atti, quattro "stagioni" raccontate ciascuna da un diverso componente della band, con punti di vista discordanti), ma per fortuna mia e vostra non gira un musical. Si potrebbe dire che più della musica gli interessi raccontare una storia, ma non sarebbe giusto: è anche grazie alla sensibilità musicale del regista di Bird che il film riesce nell'impresa di farci interessare e affezionare a un'era musicale che seppelliremmo volentieri, ai coretti frastornanti e agli stucchevoli gorgheggi in falsetto di Frankie Valli. Tutte le coreografie del film, brevi e spettacolari, non valgono la sequenza in cui Bob Gaudio si presenta in un bar ai suoi tre futuri compagni con uno spartito stropicciato, che diventa di colpo una jam session, e prende progressivamente la forma della canzone che Bob nemmeno sognava. Il successo è ancora lontano, ma la musica c'è. Un'ora dopo un Frankie Valli intristito dagli anni e dalle delusioni solleverà un sipario e ci mostrerà l'orchestra dei suoi sogni - che decisamente non sono i nostri, noi Love Boat l'avremmo affondata con tutto l'equipaggio, ma se sapete resistere al bridge di Can't Take My Eyes Off Of You vi compatisco sinceramente. Eastwood muove la macchina tra i tavolini di un ristorante e ci illustra la semplice verità: la canzone di successo non è la più originale o la più elaborata; è quella che riconosci già a metà del primo ascolto, quella che riesci a cantare a partire dal secondo ritornello.

Forse vale lo stesso discorso anche per Jersey Boys. Non è il film perfetto che continuiamo ad aspettarci dall'ottuagenario Eastwood, ma in giro c'è di meglio? La storia la conosciamo già; dalla metà in poi riusciremmo quasi a raccontarcela da soli; ma di chi è la colpa se i cantanti di successo partono sempre dalla gavetta, si sposano troppo presto, commettono più o meno sempre gli stessi errori, li pagano e si rialzano come possono? Eppure se dovessi indicare il biopic musicale più divertente e riuscito degli ultimi anni, non avrei esitazioni: Clint Eastwood mi ha fatto stare in pena per Frankie Valli. Ora vado a picchiare la testa contro il muro, che pare sia l'unico modo per scacciare da lì i coretti di Sherry Baby. Voi invece andate a vedere Jersey Boys, è un bel film che vale la pena di ascoltare in sala. Alla fine vorrete bene persino ai titoli di coda.

 Jersey Boys è al Cinelandia di Borgo S. Dalmazzo alle 20:00 e alle 22:45; al Cinecittà di Savigliano alle 21:30. Buona visione e buon ascolto!
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Non di solo tonno, Kevin Costner

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Days To Kill (McG, 2014)


Kevin Costner è un veterano della CIA. Ahahah. No, sul serio, credevate davvero che si fosse ridotto a testimonial di Rio Mare? Quella era una copertura. Kevin Costner uccide. È rapido ed efficiente - pulito no, pulito proprio non si può dire, lascia cadaveri dappertutto, ma alla sua età cosa pretendi. Kevin Costner vent'anni fa era il Butch di Un mondo perfetto, e adesso va' a sapere: cinque figli, un mutuo, o gli alimenti, o la versione hollywoodiana di questo tipo di problemi, ma la sostanza è che deve guadagnarsi la pagnotta pubblicizzando il tonno e recitando canovacci di Luc Besson.

Luc Besson vent'anni esatti fa girava Léon, praticamente c'erano lui e Tarantino. Poi hanno preso strade diverse, diciamo. Lui per esempio ha maturato cinque figli da quattro tra mogli e compagne (tra cui Nikita e Giovanna d'Arco, complimenti), ed è ormai un veterano del cinema euro-tamarro. Dal 2000 la sua EuropaCorp sforna pellicole per un tipo di pubblico che istintivamente ho sempre identificato in un ragazzino biascicante cingomma che nemmeno al cinema riesce a levarsi il berrettino da baseball che serve anche a occultare le botte irreversibili prese nel tentativo di scendere i primi tre gradini del trocadero in skate. Cosa vuole raccontare, Luc Besson, a un tizio così? Voi cosa gli raccontereste? Le solite cose: sparatorie, esplosioni, inseguimenti, e poi ogni tanto qualche intervallo, qualche spiega. Ma mica perché ci sia veramente bisogno di spiegare cosa stiano facendo i buoni o architettando i cattivi: è solo per tirare il fiato, allungare il brodo, inoltre magari il tizio o la sua ragazza hanno appena finito i popcorn e gli viene voglia di ripassare dal bar, sono questi gli espedienti che salvano il cinema. Inseguimenti ed esplosioni, peraltro, sono mediamente ben girate, su standard hollywoodiani, e quindi insomma di cosa ci lamentiamo? Di cosa si deve lamentare il critico?

Io mi lamento della programmazione dei cinema di Cuneo. Maledetti, volevo andare a vedere We Are The Best. Non c'è da nessuna parte né a Cuneo né in provincia. Nemmeno a Moncalieri. Volevo vedere le ragazzine svedesi punk che si rasano i capelli e se ne fottono dei genitori borghesemente svedesi, e invece mi ritrovo davanti a una pellicola che si riassume in una riga: Kevin Costner è un veterano della CIA che ha un'ultima missione da compiere ma intanto vorrebbe riallacciare il rapporto con la figlia sedicenne. Proprio così: lui spara ai cattivi e lei frigna per la messa in piega, esatto, esatto, come avete fatto a indovinare. È pure nervosa per il ballo di fine anno! Ma ce l'hanno pure i francesi questa stronzata del ballo di fine anno? Come se a Besson quando scrive i canovacci gliene fregasse qualcosa di cos'hanno i francesi o i tedeschi o gli slavi. Al limite, guardate, mi sarei anche visto Incompresa , la tragica storia di una ragazza semplice che voleva fare la ragioniera e invece il padre sempre assente per lavoro e divorzio, tormentato dai sensi di colpa, la costringe a esordire nel mondo del cinema, terribile se ci pensate nevvero? Ma pensate se a dispetto di tutta l'aura negativa e del cast da fotoromanzo mediaset fosse un bel film? No, perché potrebbe pure, sapete? Ingannevole il cuore più di ogni cosa era un brutto film? No che non lo era. E allora io una possibilità ad Asia Argento gliel'avrei data - soprattutto se l'alternativa era guardare Kevin Costner che cerca di riallacciare i rapporti con una sedicenne deficiente che non ha ancora imparato ad andare in bicicletta e dà la colpa al papà - mon petit chou, ho una brutta notizia: se a 16 anni non sai andare in bicicletta il padre assente è l'ultimo dei tuoi problemi: devi farti una tac, anche subito.


(Questa mania dei figli di genitori separati di assegnare ai genitori separati la colpa di qualsiasi loro deficienza, l'avete notata? Come se mio padre m'avesse spinto per più di tre metri dopo avermi tolto le rotelle. Se mai riuscissi a scrivere un canovaccio, sarebbe la drammatica vicenda di un ragazzo che ha genitori perfetti che non gli fanno mancare niente, tranne scuse per non studiare e non impegnarsi sempre in qualsiasi maledetta cosa).

Lei invece è una spia, conciata così chi potrebbe notarla.
In 3 Days To Kill, prima della scena della bicicletta, c'è la seguente sequenza (continua su +eventi!)
Papà-spia vuole passare una serata con la figlia. Figlia vorrebbe tanto ma purtroppo deve studiare taaaaanto, ma taaaaanto a casa di questa sua compagna russa, così taaaaanto che faranno tardi ed è inutile farsi passare i genitori di lei, che parlano solo russo. Papà-spia sente che qualcosa non va - mica per niente lavora per la CIA. Dopo aver ricevuto un messaggio inquietante dalla madre ("Mai sentito parlare di compagne russe!"), grazie alle sue mirabolanti competenze informatiche (apre il tablet, legge il primo status su facebook), riesce a trovare una pista. Pochi minuti dopo è in fila davanti a una discoteca, e noi sappiamo che dentro un bagno di quella discoteca c'è sua figlia circondata da quattro ragazzini di buona famiglia che vogliono abusare di lei. Ma il buttafuori non lo fa entrare perché è vestito di merda. Kevin, che non ha tanto tempo per discutere, gli spara a un piede. Questo sposterebbe qualsiasi film di cento posizioni in avanti nella classifica personale di quasi chiunque, ma ovviamente non è finita qui: Kevin entra in pista, ha quasi un mancamento perché il farmaco sperimentale che si sta sparando in vena per sopravvivere al cancro è probabilmente un placebo a base di mdma; quindi prima di abbattere i quattro-cinque aspiranti stupratori di sua figlia deve fregare una bottiglia di vodka e scolarsene mezza, è proprio scritto così nelle avvertenze. Poi trova il bagno, fa mangiare un po' di ceramica agli aspiranti stupratori, ed esce con sua figlia in braccio. Esce con sua figlia in braccio. Ora io sono solo un povero recensore di Cuneo, ma non credo di aver mai visto una scena così... come definirla, davvero? È porno per padri, ecco cos'è. E all'improvviso realizzo che i ragazzini col berrettino storto che si guardavano i primi film di Besson negli anni Novanta adesso ne hanno quaranta, e probabilmente sono anche loro padri di merda con un sacco di stronzate da rimproverarsi, e hanno bisogno di consolarsi così. Tesoro, il vero motivo per cui ci vediamo poco è che io faccio la spia, ammazzo tantissimi cattivi, è un lavoro a tempo pieno sai.
"Ma non fai la pubblicità al tonno?"
"Ma no, che dici?"
"Mamma dice che fai solo la pubblicità al tonno".
"Non è che puoi credere solo alla mamma".
"Ma io l'ho vista la tua pubblicità".
"Sssst, quella è solo una copertura".

3 Days To Kill si spiega meglio conoscendo la storia di un altro film scritto da Besson, Taken (Io vi troverò): una sciocchezzuola dagli ingredienti molto simili (una spia e sua figlia), nobilitata dal cast: la spia di Taken era Liam "Oskar Schindler" Neeson, che a 56 anni si è reinventato attore in film d'azione, con risultati impressionanti, da un punto di vista commerciale: oltre i duecento milioni di dollari. A cinque anni di distanza è abbastanza comprensibile che Besson voglia riprovarci più o meno con la stessa formula, e che a Costner non dispiacerebbe riciclarsi come si è riciclato Neeson. Il film, poi, davvero, non è malaccio: le scene d'azione in senso stretto sono tutte molto divertenti. Il mix di commedia e azione non si può dire perfettamente amalgamato, ma due risate te le strappa. Malgrado il regista sia quell'onesto operaio di videoclip che risponde al nome bimbominchione di McG, qua e là di sente un inconsueto e piacevole tocco francese, ad esempio quando nella cornice standard di un action metropolitano irrompono gli squatter del terzo mondo. Besson li tratta con simpatia, non perché sia vittima di qualche senso di colpa borghese o sovrastruttura gauchiste, anzi: Besson vuol bene a queste frotte di africani che nidificano nelle fessure di Parigi perché sa che appena avranno sei euro da buttare via, li butteranno via per venire a godersi l'aria condizionata in un multisala davanti a qualche film di merda magari prodotto da lui. E noi critici di cosa ci lamentiamo? Potevamo andare a vedere qualche altro film - no, aspetta, non potevamo. E vabbe'.

3 Days To Kill è a Borgo San Dalmazzo, a Savignano, a Bra; e voi lasciatelo pure là.
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Renzi e il futuro (dell'umanità)

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Edge of Tomorrow (Doug Liman, 2014)




Emily Blunt è l’”Angelo di Verdun”, e per tutto il film non fai che chiederti: ma perché sbarcate in Normandia se avete già vinto a Verdun? Cioè guardate che non ha senso.


Presidente, mi scusi l'intrusione, per favore non suoni l'allarme che si trova nel cassetto destro della scrivania. Non urli nemmeno, la prego, ho già neutralizzato sia Antonio che Pasquale. Sì, conosco i nomi di battesimo dei corazzieri. Ora se mi lascia raccontare la mia storia - premetto che all'inizio le sembrerà assurda, ma poi vedrà che tutto quadra. Ah, tra cinque secondi squillerà il telefono. È Clio che vuole sapere se pranza con lei. C'è il polpettone. Dica di no, che ha un impegno importante.

Presidente, è il sei novembre 2011, lo spread è alle stelle e lei ha appena ricevuto una telefonata di Silvio Berlusconi che la informa, che ha intenzione di rassegnare le dimissioni. Da qui a un mese Lei scioglierà le Camere. Come posso saperlo? Lo so perché vengo dal futuro. Un futuro possibile, diciamo. In questo futuro, l'Italia è distrutta. È il focolaio di una spaventosa epidemia di influenza che ha già contagiato Europa e Africa. Russia e Cina stanno pianificando di invadere il continente ormai disabitato e spartirsi le risorse, ma non hanno fatto i conti con una mutazione del virus che farà altri miliardi di morti nei loro paesi. Tutto questo - mi creda, la prego - comincia oggi.

Tom legge +eventi! e sta facendo proprio quello che gli
avevo chiesto un anno fa
: un film di fantascienza all'anno
- giocando sempre sulla sua immagine, ormai, di replicante
di sé stesso. Edge of Tomorrow non ha i guizzi artistoidi
di Oblivion, ma ti cattura dal primo minuto all'ultimo
senza mai cadute banali.
Tra qualche giorno Lei scioglierà le Camere e indirà nuove elezioni in febbraio che saranno vinte di misura dal PD di Pierluigi Bersani. Per rassicurare i mercati internazionali, Bersani sarà costretto a misure impopolari. Reintrodurrà l'Ici cambiandone il nome, eccetera. Tutto questo è già ampiamente prevedibile, Presidente; ma quello che non avete previsto è l'ondata di rabbia che incuberà nel Paese e trionferà nelle elezioni del 2016, portando il Movimento di Beppe Grillo al 60% - non cominci a ridere come fa tutte le volte, la prego, la prego, potrei avere una di quelle golia che tiene nella ciotola sul comò? Grazie.

Sarà una vera e propria rivoluzione. Il suo successore, Romano Prodi, verrà messo agli arresti con l'accusa di alto tradimento. I Cinque Stelle - so che adesso sembrano inoffensivi, ma non idea di quanta rabbia incuberanno nei prossimi anni - ci sarà una frangia anarconaturista che prevarrà sulle altre e, non appena al potere, renderà tutti i vaccini facoltativi e non mutuabili. Due anni dopo arriverà dall'Anatolia un virus particolarmente virulento, formato da cellule con una singolare proprietà atomica - quantistica, se solo avessi mai capito cosa significa - non sono io il medico, io sono la cavia del suo esperimento - insomma questi virus riescono a spostarsi nello spazio-tempo - cioè: tutti ci spostiamo nello spazio-tempo, ma loro si muovono in modo, diciamo, meno banale. Questo li rende molto virulenti, perché da lunedì possono contagiarti anche se tu occupi lo stesso spazio il martedì, mi capisce?

Il mio amico dott. Arci è però riuscito a coltivarne un ceppo tutto particolare e me lo ha inoculato. Questo succede tra dieci anni, secondo il vostro calendario. Tremilacinquecentosettantadue anni fa, secondo il mio tempo personale. Deve capire che io, dopo che Arci mi inocula il virus, mi risveglio nel 6 novembre 2011, trovo una scusa, prendo un treno, arrivo qui al Quirinale, e il più delle volte mi faccio ammazzare da Antonio o Pasquale mentre cerco di entrare qui a discutere con lei. Altre volte invece mi prendono vivo, scambiamo due chiacchiere e poi mi ammazzo io per non perdere tempo. È come in un videogioco dove ogni volta devi cominciare da capo... o quel bel film di Tom Cruise, ha presente? No, certo che no, non è ancora uscito. Allora facciamo così: è come il Giorno della Marmotta, con quel bravo attore americano, Bill Murray, che ogni giorno si sveglia nello stesso posto: ecco. Soltanto che io devo salvare l'umanità, tutte le volte, e non ci sono ancora riuscito, e comincio ad avere un'età, capisce?

Tremilaseicento anni, perdio (continua su +eventi!)

Mi affascina il solo fatto che per migliaia di anni non abbiamo mai scritto o letto una sola storia su un loop temporale; poi nel 1993 è uscito Groundhog Day, e da lì in poi la si trova dappertutto, anche negli special natalizi di Paperino. A dire il vero Richard A. Lupoff scrisse un racconto con un loop temporale nel 1973, ma ha rinunciato a fare causa.
Allora, mi creda pure pazzo, ma mi stia ad ascoltare. Chiami Mario Monti. Nel giro di una settimana lo nomini senatore a vita. No, non è lui che salverà l'Italia e il mondo, decisamente no. Ma servirà a prendere tempo. Governerà per un anno, con una squadra di tecnici. Faranno scelte ovviamente impopolari, ma almeno non le caricheranno unicamente sulle spalle del PD. Poi andremo a votare, prima che il Movimento di Grillo abbia il tempo per ottenere la maggioranza assoluta.

Chi vincerà? Ha un'importanza relativa. Posso dirle che ormai le abbiamo provate tutte. Se rivince Berlusconi lo spread schizza a mille, caos, rielezioni, vince Grillo, game over. E io mi risveglio il 6 novembre.

Se vince Bersani, gli mancano comunque i numeri per fare un governo solido. Deve allearsi con Berlusconi in cambio dell'immunità. Dura comunque un paio d'anni e poi caos, rielezioni, Grillo, game over.

Ho anche provato Matteo Renzi. Il sindaco di Firenze, ha presente? Ma certo, ha fatto una leopolda pochi giorni fa, beh, una volta mi sono detto: proviamo. Gli ho fatto vincere le primarie contro Bersani. Poi è andato alle elezioni, ha vinto di poco e ha ottenuto più o meno lo stesso risultato di Bersani: alleanza con Berlusconi, misure impopolari, caos, game over. Le giuro che le ho provate davvero tutte. Sono tremilacinquecentosettant'anni che ci sto provando, capisce?

Ora le spiego la strada più promettente che mi sono aperto fin qui, e per favore non scuota la testa come fa sempre. Ci teniamo Mario Monti per un anno, e poi il Pd vincerà con Bersani, ma di poco, di pochissimo. Infatti dopo più di un mese di trattative lei l'incarico lo darà... non rida... a Enrico Letta. Sì, glielo darà lei, che nel frattempo sarà rieletto presidente - è l'unico modo, mi dispiace - Oh, certo, lei si sente stanco, lei. Vuole sapere come mi sento io dopo tremilaseicento anni?

Alla fine è rimasto un film giapponese - benché non ci sia un solo giapponese nel film - come il romanzo illustrato da cui è tratto: un inno ai kamikaze, a dare la vita per la causa suprema, eccetera. Con un finalino hollywoodiano appiccicato malamente che si può perdonare (Lei ci crede un sacco, ha fatto preparazione atletica sul serio).

Nel frattempo Renzi prosegue la sua scalata al partito, senza neanche partecipare alle elezioni. È l'uomo nuovo, capisce. A fine 2013 vince le primarie, diventa segretario del PD, apre a Berlusconi sulle riforme. Solo in quel momento io e lei lo contattiamo e gli raccontiamo tutta la storia, e lo obblighiamo a sostituire Letta a Palazzo Chigi. Sarà una cosa un po' brusca ma non c'è nessuna alternativa. A fine maggio ci sono le europee e Grillo deve perderle. Quindi Renzi deve vincerle, capisce?

So che ha capito. Questa discussione, l'abbiamo fatta migliaia di volte e mi creda, la conosco meglio di chiunque... come dice?

Cosa succederà dopo che Renzi ha vinto alle europee?

Eh, saperlo.

Vede, non ne ho la minima idea. È una cosa che fin qui non è ancora successa. Mi son detto: proviamo anche questa.

Adesso chiami Mario. No, nell'agenda ha il numero dell'università, ma a quest'ora è al ristorante. Deve chiamarlo al cellulare. Le do il numero. Sì, lo so a memoria.

Edge of Tomorrow è davvero un bel film d'azione con Tom Cruise ed Emily Blunt che sparano a ragni giganti negli esoscheletri. Lo trovate dappertutto: in 2d al Cityplex di Alba (17:00, 19:45, 22:00); al Cinelandia di Borgo S. Dalmazzo (15:00, 15:15, 17:30, 18:00, 20:00, 21:00, 22:35); al Fiamma di Cuneo (17:30, 20:00, 22:35); al Multilanghe di Dogliani (17:30, 20:45); ai Portici di Fossano (16:15, 18:30, 21:15); all'Italia di Saluzzo (16:00, 18:00, 20:00, 22:20); al Cinecittà di Savigliano (16:00, 18:10, 20:20, 22:30); in 3d al Vittoria di Bra (17:30, 21:00). Buona visione!
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Gli ultimi Etruschi

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Le meraviglie (Alice Rohrwacher, 2014)

C'è stata una guerra qualche tempo fa. Non se la ricorda più nessuno. Chi ha vinto ha riscritto la Storia; chi ha perso e non ci ha rimesso la pelle si è rintanato da qualche parte, nelle foreste e nei buchi ancora agricoli d'Europa, ad aspettare la fine del mondo. La fine purtroppo tarda a venire e i figli crescono, selvaggi e interdetti. La tv continua a cantare che non c'è mai stata nessuna guerra. E se papà e mamma si fossero inventati tutto?

Il secondo film di Alice Rohrwacher ci ha fatto stare molto in pensiero. Quel poco che se ne sapeva era preoccupante: il casolare in Toscana, la natura incontaminata, la tv contaminatrice, Monica Bellucci, i bambini e gli animali. Le creature più difficili da gestire su un set. Ingredienti che ci sono stati miscelati già altre volte, ma il risultato non ci ha mai soddisfatto. I casolari soprattutto: perché sempre casolari voi registi italiani? perché non potete raccontare la realtà post-industriale o il terziario avanzato che sniffa e smignotta? - No aspetta, l'anno scorso a Cannes c'era La grande bellezza, almeno quel terziario lì per un po' lo abbiamo coperto. È impossibile non ripensare al precedente di Sorrentino, quando verso la fine anche la Rohrwacher comincia a piazzare ingombranti animali simbolici. Sarà anche un po' questione di gusti: il cammello che all'improvviso si rimette in piedi per me ha una pregnanza che la giraffa di Sorrentino si sogna. Riesce veramente per un secondo a contenere tutto il film, laddove i fenicotteri in balcone mi sembravano complicazioni barocche: aggiungiamo pure questi, qualcosa vorranno dire.

E comunque anche la Bellucci, a modo suo, brava.

In comune i due film hanno un tema che ci ossessiona da anni – la decadenza – e poco altro. La grande bellezza puntava a Roma come al centro di tutto, offrendo al suo pubblico uno specchio deformato ma comunque intrigante. Le meraviglie si tiene ai margini, racconta la storia di una civiltà dimenticata e dimenticabile (i babyboomers che ritornarono alla terra negli anni ’70) e questo lo condanna a un gramo destino di film d’essai. Eppure chi non ce l’ha un vecchio amico o parente che a un certo punto è scappato in montagna? Le Meraviglie è un film che va visto, proprio perché prende un feticcio cinematografico e culturale (il casolare) e lo demistifica senza pietà, al punto che forse non comprerete mai più un vasetto di miele bio in vita vostra. E soprattutto non è quel film compiaciuto e noioso che temevamo che fosse – intendiamoci, se avete voglia di azione magari Gozzilla o gli X-men saranno una scelta più assennata, ma questo film non consiste di due ore di bambine estatiche che mangiano api. C’è una storia che procede con un certo ritmo, lasciandoci qualche volta persino col fiato sospeso; i personaggi hanno tutti un cammino da percorrere, non fanno nulla di inspiegabile o gratuito.


Ai più piccoli piace saltare su e giù nelle pozzanghere di fango, ma quelle vere, e dopo due anni di Peppa Pig anche questo è molto demistificante.

È vero che i grandi parlano poco, in lingue diverse: ma sono i reduci sbandati di una brigata internazionale (più di Alba Rohrwacher, Sabine Timoteo e Sam Louwyck portano tutte le rughe della sconfitta), tornati da una battaglia di cui hanno poca voglia di parlare. I ragazzini invece non hanno ancora le parole. In compenso sono molto bravi. Dopo Alex Bisconti (La mafia uccide solo di sabato), Matilde Gioli (Il capitale umano), Francesco Bracci (Noi 4), ancora un film italiano che decide di appoggiarsi sulle spalle di un’attrice giovanissima, che lo regge persino con disinvoltura: si chiama Maria Alexandra Lungu e adesso sembra anche a me di conoscerla da una vita. È soprattutto grazie a lei e ai suoi giovanissimi colleghi che il film può indugiare sullo sfacelo di una generazione senza sembrare mai veramente disperato: è sbocciata tanta vita in mezzo al fango, ora basta aspettare il sole e qualcosa ne verrà fuori. Le meraviglie a Cannes ha vinto il gran premio della Giuria. Lo trovate al cinema Fiamma di Cuneo alle 17:40, alle 20:15 e alle 22:40.
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Only Lovers Left Awake

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Solo gli amanti sopravvivono (Only Lovers Left Alive, Jim Jarmusch, 2013).

I miei amici sono anemici, mi dici
Adam ed Eve sono vampiri da prima che fosse cool. Non saltano più al collo delle loro vittime, che volgarità - col cattivo sangue che circola oggigiorno, poi. E allora che fanno. Che fareste voi, se foste in circolazione da cinque o dieci secoli? Vi alzereste tardi, in ambienti intasati di cimeli, e cerchereste di ingannare l'ansia di (non)vivere collezionando altri dischi o libri che comunque conoscete a memoria.  Il sangue ve lo procurereste in ospedale, grazie a ematologi compiacenti e corruttibili. Vivreste in città decadenti o abbandonate, perché l'umanità vi interessa soltanto quando produce opere d'ingegno artigianali, e quindi ultimamente vi interessa pochissimo. Anche se alla fine è l'unica cosa che vi tiene in vita. Sempre un po' in ritardo coi tempi, analogici in un mondo digitale, e quindi perfettamente mimetizzabili sullo sfondo di qualche scena hipster o postrock. Mi ero quasi arrabbiato coi doppiatori quando ho sentito Tom "Loki" Hiddleston usare la vetusta parola "rocchettari", che, fidatevi, oltre il Raccordo Anulare non ha più cittadinanza. Poi però ho pensato che se fossi un vampiro non riuscirei sempre a svecchiare il mio lessico in modo tempestivo ed efficace: malgrado gli sforzi qualcosa mi sfuggirebbe sempre, come quello stetoscopio che tengo nel taschino per sembrare un dottore, salvo che nessun dottore ne usa più uno simile da quarant'anni.

È difficile non immaginare anche Jarmusch da qualche parte sullo sfondo, dietro a un paio di occhiali neri, mentre invia messaggi onirici alle sue creature. Un Jarmusch notturno e recluso, che continua a perseguire progetti artistici economicamente suicidi - ormai fa un film ogni quattro anni, l'ultimo non l'ha visto nessuno, e probabilmente a lui sta bene così. Gli anni in cui cominciava a bussare alle porte dei produttori con un copione di vampiri erano quelli in cui al cinema trionfava la saga di Twilight - un concept di vampiro ricco e glitterato, su misura per l'adolescente emo-ma-non-troppo. Naturalmente quelli di Jarmusch non hanno niente a che fare con questi vampiri industriali: siamo più dalle parti dell'Addiction di Ferrara. Più che pensati per gli adolescenti, sembrano pensati da un adolescente: drogati, saggissimi, coltissimi, e tuttavia la loro saggezza consiste nello stroncare l'umanità che li ha delusi; tutta la loro cultura si esaurisce in uno snocciolare i nomi di un manuale del liceo; Shakespeare, Marlowe, Byron, Shelley, Tesla, Einstein, e pensate un po': Fibonacci.

I veri vampiri, secondo me, dai feticci culturali si tengono lontani come dal sangue infetto. Viceversa, se c’è qualche poeta sconosciuto, mal pubblicato, qualcuno che aveva tutte le carte in regola ma non ce l’ha fatta, ecco: probabilmente i veri vampiri leggono solo quelli. Se il vero autore dell’Amleto fosse in vita, probabilmente guarderebbe con disprezzo alla fan-base della sua opera più famosa; pensano tutti che sia un capolavoro ma è un mostro, ho messo insieme due canovacci diversi e volevo rilavorarci sopra ma la compagnia non me ne diede il tempo, ma sul serio preferite quel brogliaccio ai miei Sonetti?


La sorellina è quella solare e un po’ pazza.

Jarmusch s’intende molto più di musica, e si sente. A sessant’anni compiuti, continua a riempire i film delle sue canzoni preferite del momento, con la stessa ansia del ragazzino che ti ha preparato una cassetta che devi assolutamente sentire e ti cambierà la vita – come la Coppola ma con molto più gusto, per nostra fortuna. E visto che siamo tra pochi intimi, può anche farci assistere a un concerto di una meravigliosa cantante post-rai libanese – purché non lo diciamo troppo in giro, sennò poi diventa famosa.

I suoi vampiri non sono tutti adolescenti perpetui come Adam: Eve per esempio è molto più vitale; probabilmente è stata morsa in una fase più matura. In effetti Tilda Swinton non mi è mai sembrata così allegra: in un anno di travestimenti spericolati (Snowpiercer, Budapest Hotel) non sorprende che quello da vampiro le risulti il più congeniale. E tuttavia il film assomiglia più ad Adam, condannato a un’eternità di depressione e pensieri suicidi. Il risultato è memorabile, anche se un po’ soporifero – chiedo scusa, ma mi ero mangiato una pizza. Sono umano, lo so, che vergogna.

Solo gli amanti sopravvivono (ma l’originale è ambiguo: si può leggere anche “Soli amanti sopravvissuti”) è ai Portici di Fossano alle 18:30 e alle 21:15. Non fa paura.
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Scuola di velleità

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The English Teacher (Craig Zisk, 2013).

Il film si apre sul consueto corridoio di armadietti - esatto, sì, siamo in una high school americana. Chi sarà il protagonista? Questo tizio che limona la cheerleader? Ma no, figùrati. Quest'altro in felpa grigia mogio mogio? Il classico emarginato, magari vittima di bullis... no, aspetta, sta solo trafficando bustine. Poi si apre una porta e ne esce Julianne Moore, e persino chi non ha fatto caso al titolo deve arrendersi all'evidenza: niente adolescenti, stavolta si parla dei prof. Di come siano appassionati e soli. Proprio perché appassionati. Proprio perché soli. Di come il sacro fuoco della letteratura invece di bruciarli li abbia caramellati, imprigionati in una crisalide di ideali e velleità da cui non c'è più il tempo di uscire. Di come abbiano tirato i remi in barca e da una retrovia della Pennsylvania esortino gli studenti più fragili a non arrendersi, a lanciarsi allo sbaraglio laureandosi in cose affascinanti e inutili, a scappare a NY e farsi venire l'ulcera scrivendo drammi disturbanti. Come se il loro fallimento non bastasse, no, devono mettere il nido, rubare le uova alle famiglie per bene e covare altri falliti velleitari che moriranno di cirrosi a cinquant'anni e poi magari tra due generazioni saranno rivalutati da qualche critico annoiato.

Una sera la prof. Moore si imbatte nel suo migliore ex studente, che a vent'anni è già tornato da NY a casa da papà, rassegnato a rimettersi in riga, studiare legge e diventare una persona noiosa. Forse non abbastanza bravo per fare lo scrittore, dopotutto. Per convincerlo a perseverare lungo la strada incerta della gloria letteraria la prof. Moore convincerà la filodrammatica della scuola a mettere in scena l'unico dramma del geniale ex studente, una schifezza ibsen-kafkiana con insetti giganti e tutti i personaggi che si ammazzano.  Come se Broadway e Hollywood potessero davvero assorbire tutti le giovani promesse talentuose che poi diventeranno freelance cognitari e si lamenteranno che li pagano meno di un idraulico. Come se in casa avessimo tutti più necessità culturali che rubinetti. Ma se invece avesse ragione l'ex studente? Se per una volta il protagonista, quello che deve-credere-forte-forte-nel-suo-sogno-così-il-sogno-si-avvererà, fosse un mediocre narciso destinato presto o tardi a svegliarsi e trovarsi un lavoro?

The English Teacher mi è proprio piaciuto, devo dirlo... (ma pare che sia piaciuto solo a me. Scopritelo su +eventi!) Sono contento di esserci inciampato sopra durante la Festa dei Fondi di Magazzino, pardon, del cinema. Tre euro spesi benissimo, quando altri film molto meno interessanti, non faccio nomi, sono in sala da un mese a più del doppio del prezzo. Non c'è ovviamente bisogno di dire quanto sia brava la Moore, che soprattutto nella provincia americana nuota come nel suo elemento. Gli altri attori, adolescenti e meno, sono magari penalizzati dal doppiaggio, ma in un film sulla filodrammatica anche questo ha un senso. Quello che mi è piaciuto davvero è il testo, un congegno teatrale dove ogni battuta ha un senso. Ho anche apprezzato la mise an abîme: un film che racconta la storia di una produzione teatrale che deve finire bene per esigenze economiche, e si conclude con un lieto fine visibilmente imbastito per le medesime esigenze. Con qualche piccolo colpo di genio (la voce fuori campo che litiga coi personaggi nel finale) e senza calare di ritmo nel secondo tempo, come quasi sempre succede. Gli altri tre spettatori borbottavano, ma io non ascoltavo. Per me era già la sorpresa dell'anno.

Poi sono tornato a casa e ho fatto quello che un professionista non farebbe - ho dato un'occhiata a cosa aveva già scritto la critica mondiale. E ho scoperto che, insomma, è piaciuto quasi soltanto a me. E io chi sono? Un insegnante di italiano, con malsopite velleità letterarie, che già l'anno scorso mise in cima ai suoi titoli dell'anno un film sugli stessi argomenti, Dans la maison. Ma quello di Ozon era davvero un gran bel film, tratto da una vera pièce teatrale. The English Teacher, se ci ripenso adesso, ha tanti punti deboli. Personaggi abbozzati, dialoghi quasi sempre efficaci ma mai davvero divertenti. Mi verrebbe da dire che c'è la struttura, ma manca la polpa: il soggetto è buono, lo spunto quasi geniale, il problema che illustra è vivo e riguarda milioni di persone. Ma poi servivano bravi scrittori, e quelli che hanno messo mano al copione non erano abbastanza bravi dopotutto. Sono le cose che si potrebbero perdonare a un esordiente, e almeno il regista lo è - anche se macina ciak sui set televisivi USA da decenni: ha firmato talmente tanti episodi di serie tv che alcuni li ho visti persino io (Scrubs, Nips/Tuck, Weeds).

Allora forse è successo questo: una sera qualunque sono inciampato in un esordiente di talento che aveva una buona storia. Almeno, ho voluto credere che fosse buona. Ma forse quello che mi ha fatto ridere, e piangere, e sgranocchiare nervosamente, non era la qualità della storia, ma il fatto che sembrasse parlare di me. E allora mi sono commosso, in quel modo stucchevole e sentimentale che abbiamo noi insegnanti di materie umanistiche di commuoverci sul nostro solitario destino: quando ci immaginiamo che anche Dickens e Ibsen possano avere finali diversi, magari felici - uscite sul parcheggio da cui uscire riconciliati col mondo. Come se a scuola non ci capitasse tutti i giorni di insegnare l'esatto contrario: è sempre quello tragico, il finale originale.

Buona festa del cinema: The English Teacher (da non confondere con The German Doctor, che è una storia su Mengele) è al Cinelandia di Borgo S. Dalmazzo (20:15, 22:30) e all'Impero di Bra (20:20, 22:30).
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