È stato quattro anni fa, noi chissà dove eravamo. Più facilmente in coda a un semaforo, e intanto tutto intorno a noi stava finendo. Sotto la pioggia il parlamento stava per sciogliersi, Berlusconi scappava dalla porta di servizio, il Papa meditava di abdicare, e per qualche giorno Roma non è più stata di nessuno. In quel momento magico avrebbe potuto spuntare qualsiasi cosa: anche una Las Vegas tra le baracche di Ostia. Quattro anni dopo eccoci qui, a domandarci cos'è cambiato. Al cinema però c'è un buon film italiano, ecco, questa è una relativa novità. Da cosa si riconosce che è un buon film?
Sicuramente non dalla fotografia.
Certe cerette
Che è smagliante e impeccabile, ma appunto, è quello che potremmo dire per qualsiasi film italiano degli ultimi cinque anni. Soggetti fritti e rifritti, dialoghi inverosimili, musiche pretenziose e ingombranti, fantastica fotografia. Una maledizione. Persino il Ragazzo Inguardabile aveva delle inquadrature memorabili. Sprofonderemo saturi e patinatissimi. Suburra forse è un buon film perché all'ottima fotografia dopo un po' non fai più caso. C'è altra carne sul fuoco, e attenzione, non è tutta roba necessariamente nuova o di buona qualità. Ma funziona.
Forse è un buon film proprio per l'arroganza con cui arriva per ultimo nei luoghi tra più frequentati da cinema e tv, guarda tutti a grugno duro e fa capire che non pagherà nessun debito, anzi: tocca agli altri alzarsi e fargli spazio. Ci saranno feste danzanti e fogge cardinalizie - ma non ci sarà tempo per pensare alla Grande Bellezza. La folla circonderà Palazzo Chigi senza nessun riferimento al Divo o al Caimano. Se entri aspettandoti Gomorra - il film o la serie - dopo un po' ti accorgi che non ci stai pensando più. Anche Romanzo Criminale è in qualche modo lontano (continua su +eventi!)
Eppure Sollima è esattamente lui, continua ad appoggiarsi su quei tappeti sonori asfissianti - quelle basi elettroniche o postrock che negli episodi di Gomorra ti danno il minutaggio preciso, quando parte la chitarra o il tastierone è come se l'hostess ti avvertisse "allacciate le cinture, tra dieci minuti è tutto finito". Al cinema può contare su facce più conosciute, ma è un vantaggio discutibile, se a Favino e a Germano è chiesto di ridurre l'espressività a quelle tre o quattro smorfie - e ad Amendola di imbalsamarsi. Così che prevedibilmente le figure più memorabili restano i comprimari, gli assassini nati Greta Scarano e Alessandro Borghi, o Adamo Dionisi nei panni firmati di un cravattaro zingaro che vorrebbe accreditarsi come boss ma non riesce a far silenzio nemmeno in quel soggiorno che è la migliore invenzione del film, e lo racchiude: Roma come un open space in cui i bambini giocano a palla coi cani mentre i mafiosi torturano i sequestrati, a un divano di distanza.
Sollima si può persino permettere - come già in Gomorra - il lusso dell'anticlimax nelle scene d'azione, inquadrate con un realismo che castra ogni tentazione epica. Nella città di Suburra ci si ammazza solo alle spalle, e non c'è un gangster che non faccia almeno un numero da fesso. Il più furbo di tutti gira senza scorta, provando a dare un senso a tutto il caos. Ma le variabili sono troppe e sono tutte impazzite. Suburra non è quella riflessione sulla decadenza dei costumi che qualcuno cerca di vendervi - il suo pessimismo è quello dei noir d'ordinanza - ma non è nemmeno un semplice film di genere. Non sarà un capolavoro, ma quest'anno è uno dei migliori film che ho visto in sala - non solo tra gli italiani. Questa settimana è al Citiplex di Alba, al Cinelandia di Borgo San Dalmazzo, all'Impero di Bra, al Fiamma di Cuneo, all'Italia di Saluzzo e al Cinecittà di Savigliano.
Qualche anno più tardi, quando sulla Terra le piante cominciarono a morire devastate dalla Piaga, e la NASA scoprì un wormhole al largo di Saturno, l'ex Marziano fu tra i fautori delle missioni Lazarus: l'umanità avrebbe potuto trovare una patria in una nuova galassia. Il Dottore fu tra i primi a partire in esplorazione...
Interstellar
Avevamo lasciato Matt Damon in un casco d'astronauta, mentre rischiava di estinguere l'umanità per tornare a casa. Lo ritroviamo in un casco non molto diverso, mentre le prova tutte per salvarsi. Cosa fai quando per errore ti lasciano solo su Marte? Ti lasci morire di sete o esplodi mentre provi a produrre acqua dalla combustione dell'idrogeno? Muori di fame o concimi un orto di patate con la tua stessa merda? Ti rassegni al freddo dell'universo o ti adegui a scaldarti con le scorie radioattive? Fai testamento o implori via radio che spendano l'equivalente di diversi prodotti interni lordi nazionali per venirti a riprendere?
Mark Watney sembra non avere dubbi. Lui ha il diritto di vivere, Marte non collabora ma dovrà adeguarsi. Nel suo diario di nove mesi non c'è spazio per la disperazione, né per la manifestazione di un minimo dubbio esistenziale: ma valgo davvero la pena? Cos'è alla fine la mia vita, perché i colleghi ne rischino molte di più per salvarmi? Perché la NASA sconvolga il suo programma spaziale, e la Cina rinunci ai suoi segreti scientifico-militari? Sul serio sono così importante? Così insostituibile?
Se solo Interstellar fosse arrivato dopo The Martian – se il progetto avesse languito per qualche mese in più sulla scrivania di Spielberg prima di finire nelle mani di Nolan – forse oggi avremmo un elemento in più per amarlo: potremmo immaginarcelo come un sequel del film marziano di Ridley Scott, in cui Mark Watney si ritrova di nuovo solo, stavolta in una galassia perduta – e stavolta sbrocca davvero. La stessa ostinazione a vivere che lo ha portato a scaldarsi con gli isotopi del plutonio e mescolare la merda dei compagni, e a farsi saltare in aria su un razzo decappottato – non è la stessa forza cieca che nell’altro film lo spingerà a truffare i compagni, e l’umanità, per un banale istinto di sopravvivenza? Dopodiché, d’accordo, The Martian è un film più compatto e sicuro del film di Nolan – nonché scientificamente inappuntabile – però dopo due ore di umani che collaborano, che non si fanno mai prendere dalla disperazione, che prendono continuamente decisioni all’unanimità, e sono sempre le decisioni giuste – dopo due ore del genere, vien voglia davvero di rivalutare gli astronauti di Nolan che invece fanno errori su errori per rimediare ad altri errori: astronauti che litigano, che non vanno d’accordo, che nelle proprie equazioni non riescono a eliminare pulsioni come l’amore o il senso di colpa. Astronauti più simili a quelli quasi veri di The Right Stuff di Kaufman: superuomini non immuni da sentimenti come l’invidia o il panico.
Certo, se un giorno andremo davvero su Marte, ci farà molto comodo poter contare su uomini come Mark Watney: dei Fonzie interplanetari che trovano sempre una via di uscita e non se la prendono mai. Ma dovremo essere anche pronti a sacrificarli – ed e qui che The Martian svela la sua debolezza: è la ricostruzione molto realistica di uno scenario inverosimile. Un astronauta perso, è perso. Nello spazio ogni risorsa è incredibilmente preziosa, e la tua lotta per la sopravvivenza, per quanto eroica, non può costare milioni di dollari ai contribuenti. Al cinema, beh, al cinema è diverso.
The Martian (in italiano Sopravvissuto) è al Cityplex di Alba (20:45), al Cinelandia di Borgo San Dalmazzo (in 2D alle 20:30 e alle 22:35; in 3D alle 21); ai Portici di Fossano (in 2D alle 18:30 e alle 21:15); al Cinecittà di Savigliano (in 2D alle 21:30); all’Impero di Bra (in 3D alle 22).
A volte i robot hanno gli incubi. Sognano di non essere più robot, ma esseri umani con un cuore e i vasi sanguigni. Si svegliano e cominciano a smontarsi, strato dopo strato, finché sotto la pelle sintetica non emerge il verde confortante della scheda madre.
Idee semplici e perfette.
Il fatto è che malgrado ne fosse prevista l'estinzione già da tempo, nessuno può essere sicuro che qualche umano non sia ancora in mezzo a noi. Un sistema per capire se il tuo interlocutore è umano è sottoporlo al cosiddetto test anti-Turing: se le sue risposte non sono prevedibili secondo nessun algoritmo noto, chi ti sta parlando è un umano. Oppure lo sta diventando. Ma forse è più semplice forarlo e verificare se sanguina. Negli anni Duemila la fantascienza al cinema era un genere innocuo e fracassone, ancora ingombro dei blockbuster catastrofici di Michael Bay e Roland Emmerich. Poi qualcosa è cambiato. Credo che sia tutto cominciato con Moon, il piccolo film di Duncan Jones del 2009 che affrontava il genere con un approccio minimale: una sola location, un solo attore, effetti speciali semplici e poco invasivi, un paio di idee veramente buone. Moon è piaciuto a tutti, è stato immediatamente scopiazzato da qualche grossa produzione di Hollywood, ma soprattutto è stato per la fantascienza quello che Paranormal Activity è stato per l'horror: ha mostrato a tutti che se l'idea è buona, il budget può anche essere piccolo. E se il budget è piccolo, non c'è più bisogno di piazzare combattimenti ed esplosioni per in grande pubblico quindicenne. Si possono fare film un po' più adulti, film che ragionano, film che ti turbano e ti lasciano un po' perplesso anche a mesi e anni di distanza.
NON HO IDEA DI COSA STO FACENDO.
Gli ultimi anni sono stati una vera primavera del cinema di fantascienza: non solo per le grandi produzioni hollywoodiane (Oblivion, Edge of Tomorrow, Interstellar), che in certi casi hanno ripreso l'approccio minimale (Gravity, Mad Max), anche se non sempre sono state all'altezza delle premesse. Film altrettanto interessanti sono arrivati dalle periferie del cinema mondiale: alcuni, come il teuto-australiano Cloud Atlas, e l'israeliano The Congress, sono pastrocchi incredibili e per niente minimali - ma hanno comunque qualcosa di straordinario che lascia il segno nello spettatore. Anche dalla Spagna ci è arrivato un bel film di robot in fuga (Automata). Dall'Australia i fratelli Spierig hanno saputo rileggere in modo geniale un racconto classico di Heinlein (Predestination). Nessuno di questi film è un capolavoro, ma sono tutti interessanti, e in molti casi imperdibili (continua su +eventi!)
Ah, io farei la stessa cosa.
Uno degli aspetti che caratterizzano queste produzioni è la creatività con cui si superano i limiti di budget. Ex Machina, l'esordio alla regia del britannico Alex Garland (autore di The Beach, sceneggiatore di 28 giorni dopo e Sunshine), meriterebbe una menzione nella storia del cinema anche solo per l'idea semplice e geniale con cui ha risolto uno dei problemi più difficili - mettere in scena un umanoide credibile. Le forme della dolce e gelida Alicia Vikander sono state parzialmente cancellate via rotoscope, ottenendo un automa familiare e inquietante al tempo stesso, semplicemente perfetto. Lo vedete sulle locandine e vale già il biglietto.
Poi c'è la storia. Anche stavolta, quattro attori e una location, e un'idea semplice ma di sicura presa: il test di Turing. Benché abbia esordito come scrittore, Garland si è impadronito del mezzo cinematografico al punto che per portarci nel suo mondo non ha bisogno di una di quelle fastidiose "spieghe", i monologhi iniziali che affliggono quasi sempre i film di fantascienza. Non è che tutto funzioni sempre: l'eleganza della confezione nasconde diversi difetti di trama e di logica. Ma con tutte le sue magagne, Ex Machina ti lascia addosso un segno potente. Oscar Isaac è Nathan, l'imperatore di internet, una figura che fonde Jobs, Zuckerberg e i creatori di Google. Nel suo castello ai confini del mondo sta lavorando all'intelligenza artificiale, il gradino successivo dell'evoluzione, con la stessa incoscienza infantile con cui Pollock rovescia colori sulla tela. Non gli dispiacerebbe essere Dio, ma sa anche di non avere scelta: i robot prima o poi si evolveranno, non è più una questione di "se", ma di "quando". Domhall Gleeson, un anno dopo Frank, veste di nuovo i panni del nerd che pensa di essere più furbo di quanto non sia e combina grossi guai. Ex Machina arriva nelle sale italiane proprio nella settimana in cui gli scienziati lanciano un allarme contro lo sviluppo di intelligenze artificiali in campo bellico, ed è la più bella sorpresa di questa estate rovente. Lo trovate al Cinelandia di Borgo San Dalmazzo (20:10, 22:40) e al Multilanghe di Dogliani (21:30).
Le spie vere, ci avete mai pensato? Chissà come sono fatte. Di sicuro non assomigliano a James Bond. Più facilmente a un'impiegata delle poste. E però devono avere competenze e riflessi eccezionali. Immaginati un'impiegata sovrappeso che all'improvviso salta il desk con un balzo e atterra tre clienti con una mossa di arti marziali. Ecco, quello sarebbe un film interessante, invece del solito 007. Che idea. Però l'ha già avuta Paul Feig. E ovviamente ha chiamato Melissa McCarthy.
L'attrice in Italia è conosciuta soprattutto come la migliore amica di Una mamma per amica. Due anni fa aveva già prestato le sue forme importanti alla commedia d'azione in un altro titolo di Feig, The Heat, (Corpi da reato). Là faceva la poliziotta cattiva, in coppia con Sandra Bullock. Qui si cala in un ruolo di spia, con risultati esilaranti. Spy però non è il film in cui ci si prende gioco della grassona - in fondo la McCarthy ha le dimensioni dello spettatore medio americano, quello che nei film non vediamo quasi mai ma che incontriamo appena attraversiamo il fiume Hudson. Il film è concepito come una rivincita della donna qualunque - la segretaria impacciata ma competente, che all'inizio della storia sbava per l'agente Jude Law, si dimostrerà nel corso della pellicola una vera macchina per uccidere. C'è almeno un paio di sequenze (un inseguimento e un combattimento) che funzionerebbe anche in un action serio, dove la stazza della protagonista scivola in secondo piano. Susan-Melissa cresce per tutto il film, non in peso ma in consapevolezza delle proprie capacità. Gli uomini che all'inizio le impedivano di esprimersi si riveleranno generalmente fatui e inaffidabili: quanto agli antagonisti seri, sono tutti donne come lei; una donna è anche il suo capo (Allison Janney) e il suo braccio destro (Miranda Hart) (Continua su +eventi!)
Product placement esilaranti
Malgrado la locandina italiana schiacci la McCarthy tra i due comprimari di lusso, tradendo un certo nervosismo dei distributori, il film è davvero posato sulle sue spalle capaci. Jude Law fa solo un cameo, il tempo per ribadire che ci siamo persi un Bond possibile; Statham compare qua e là per tutta la pellicola in un ruolo esplicitamente autoparodico, che tutti hanno trovato divertente e io boh: forse non ho visto abbastanza film di Statham, o forse è il doppiaggio; la sensazione è che il film potrebbe farcela benissimo senza di lui. Non mi stupirei se le sue sequenze fossero state aggiunte in un secondo momento per aggiungere un nome grosso al cartellone. Ne sarà valsa la pena, visti i risultati al botteghino. Il film sta andando bene anche in Italia, benché scivolato tra i saldi di fine stagione. (Come in ogni film di spionaggio che si rispetti, la trama si snoda in location da cartolina, tra cui Roma. Si capisce che è Roma perché all'uscita dall'aeroporto c'è gente che passa in Ferrari ai duecento fischiando a ogni obiettivo femminile. Per fortuna si passa quasi subito al lago Balaton).
Il successo di Spy è una buona notizia non solo per gli inevitabili sequel, ma per il prossimo progetto di Feig, quel famoso Ghostbusters con il cast tutto femminile che sta facendo impensierire gli appassionati. E invece sapete? Io che di Ghostbusters non ho mai voluto vedere il sequel, adesso che so che dirige la Feig e ci sono la McCarthy e la Hart, comincio a pensare che sarà un film interessante.
Da vedere a. Spy è al Cinelandia di Borgo San Dalmazzo alle 17:30, 20:10, 22:40; al Multilanghe di Dogliani alle 21:30.
Passa ai ruoli drammatici, dicevano.
Si suda di meno, dicevano.
Giovani si diventa (While We're Young, Noah Baumbach, 2014)
Hai presente quel dolorino al ginocchio che non riesci nemmeno a ricordare quando è cominciato - quel dolore trascurabile che se ne sarebbe andato presto, e invece a un certo punto non sei più riuscito a salire in bicicletta, e il medico ti ha prescritto una medicina per l'artrite? L'artrite? C'è in giro una nuova generazione di artrite che colpisce i giovani? Ok, tu non sei tecnicamente più un giovane, ma l'artrite, suvvia, tuo padre soffriva di artrite. A quarant'anni... Perché, tu invece quanti anni hai?
Hai presente quel dolorino? Non se ne andrà mai più.
Giovani si diventa non è Duri si diventa, anche se sono usciti la stessa settimana. In Duri si diventa c'è Will Ferrell che deve imparare a fare il duro perché sa che andrà in prigione. Dirige Etan Cohen che non è Ethan Coen, occhio all'H. In Giovani si diventa c'è Ben Stiller che deve imparare a sembrare giovane perché improvvisamente non lo è più - cose che succedono soltanto nei film, per fortuna. Un attimo prima era un documentarista ribelle di belle speranze, un attimo dopo è un vecchio frustrato col cappello sullo sfondo di feste a cui non lo invitano.
Naomi che balla l'hip-hop però vale tutti i $ che è costata.
Dirige Noah Baumbach e la sensazione è che qualcuno, dopo avergli fatto i complimenti per Frances Ha, gli abbia detto: peccato che manchi la trama. "Il prima e il dopo. Questi vogliono gli americani. Un prima e un dopo". Lo stesso refrain sentirete due volte nel film, all'inizio e verso la fine. Forse Baumbach se l'è presa, al punto di decidere di autosabotarsi: dite davvero che gli americani vogliono più storytelling? E io ve ne darò più che posso: invece di limitarmi a ritrarre un personaggio umanissimo che scopre di invecchiare, gli darò un antagonista, un giovane con tutti i vezzi della fauna di Williamsburg, tranne la barba. Un compagnone supersimpatico, ma chissà se sotto sotto non è il più opportunista di tutti, eh, chissà. Vi darò l'indagine, i tradimenti, i colpi di scena, perfino gli inseguimenti (ma coi pattini. Il destino del Ben Stiller maturo è andare a rotelle). Il lieto fine, vi darò pure quello, con tanto di nota agrodolce. E con tutto questo, riuscirò a incassare meno che con Frances Ha, che era un prodotto artigianale e ha portato a casa 5 milioni di $ netti. While We're Young partiva con un budget di dieci milioni (che oltre a Ben Stiller a rotelle includono Amanda Seyfried e Naomi Watts che balla l'hip hop) e fin qui è riuscito appena a recuperarli. Volevate un prima e un dopo? Toh. Adesso mi farete fare i film come piacciono a me? (Continua su +eventi!)
Baumbach è uno dei registi più interessanti della nuova mia generazione. Il fatto che nemmeno lui riesca a darne un ritratto corrosivo senza cadere nel macchiettismo sfoggiato da Sam Mendes in Away We Go un po' preoccupa. In molte sequenze di While We're Young lo troviamo a sparare ai pesci nel barile: le ossessioni naturiste delle neo-mamme e dei neo-papà che vanno in aspettativa, quelle analogiche degli hipster viziati con una parete intera di 33giri, l'angoscia dei quarantenni che non riescono più a trattenersi dal consultare lo smartphone al ristorante. È un film che poteva graffiare e si limita a mostrare le unghiette. Alcuni riferimenti alla filmografia di Woody Allen, più che voluti inevitabili, non fanno che darci la misura del baratro - e dire che se c'è un regista che avrebbe qualche chance di colmarlo nei prossimi anni, è proprio Baumbach. C'è da sperare che il ritratto del regista terrorizzato dall'ansia di fallire al punto da minare la propria carriera sia il meno autobiografico possibile. Giovani si diventa è al Cinelandia di Borgo San Dalmazzo alle 20:20 e alle 22:35.
Bisogna trovare quello che è tornato indietro nel tempo
per impedire che quei cappelli andassero di moda e
fermarlo (lei è bravissima comunque).
Per noi che ci muoviamo liberamente in tre dimensioni - mentre la quarta ci sposta inesorabilmente in una sola direzione - un cerchio è semplicemente l'insieme di punti equidistanti dal suo centro, senza inizio né fine. Immagina ora che esistano creature bidimensionali, in grado di pensare e guardarsi attorno, ma che percepiscano la Larghezza come noi percepiamo il Tempo: qualcosa che si può percorrere soltanto in una direzione. Intorno a loro vedrebbero soltanto filamenti che si avvicinano e allontanano. Non sarebbero in grado di immaginare un cerchio, o forse sì, ma nel suo tornare al punto di partenza vedrebbero qualcosa di mostruoso, di contronatura. La stessa cosa proviamo noi di fronte a un fenomeno che sembra causa o conseguenza di sé stesso - lo rifiutiamo. Siamo abituati a vedere gli eventi allontanarsi e avvicinarsi a noi, e abbiamo imparato a descriverli in termini di causa ed effetto, di prima e di dopo. Qualcuno a volte riesce ad astrarsi abbastanza da immaginare che esista un'ulteriore dimensione, dalla quale anche il Tempo si possa osservare da più punti di vista. Da lì forse scopriremmo che anche le catene filiformi di eventi in cui siamo avvolti, in realtà sono loop circolari: che causa ed effetto non sono che archi degli stessi cerchi; che tutto accade perché tutto accade, nello stesso spazio-momento. È quello che alcuni chiamano predestinazione. Predestination è un film australiano tratto da un racconto di Robert Heinlein che fareste bene a non aver letto, o ad aver dimenticato. Un agente segreto (Ethan Hawke) viaggia nel tempo per sventare gli attentati di un terrorista che viaggia pure lui nel tempo e che riesce sempre a prevenirlo, e a questo punto o vi siete già distratti, o siete appassionati di paradossi temporali e avete già formulato il sospetto più ovvio.
Questo è il principale problema di Predestination e in generale di tutto il cinema di fantascienza, che pure in questi anni ci sta regalando soddisfazioni non piccole: il fatto di rivolgersi a un pubblico già selezionato ed esigente, che conosce i trucchi meglio di chi li mette in scena - non è come l'horror; in sala non sono tutti adolescenti a bocca aperta incapaci di rendersi conto che Bruce Willis è un fantasma anche se nessuno gli rivolge mai la parola. Anche se non conosci il racconto originale, persino se ignori Heinlein e la sua ossessione per i loop temporali, se ti piace la fantascienza hai l'occhio allenato per queste cose - e dopo dieci minuti di girato hai già capito quello che i gemelli Spierig vorrebbero rivelarti al novantesimo. (Continua su +eventi!)
Il film resta ugualmente godibile, un bell’episodio lungo di Ai Confini della Realtà. Gli Spierig non sono i Wachowski ma hanno mutuato qualcosa della loro follia, nel bene e nel male – una fascinazione per l’androgino e la metamorfosi del corpo che è ancora merce rara, ma che purtroppo anche qui come in Cloud Atlas non riesce a tradursi in forme cinematograficamente plausibili: anche se in questo film non ci sono trucchi altrettanto imbarazzanti, la pur brava Sarah Snook semplicemente non è abbastanza credibile nei panni maschili che si trova addosso per metà film. In compenso la macchina del tempo è la più minimal mai vista al cinema, e forse anche la più elegante e suggestiva. Il film si mantiene per una buona metà estremamente aderente al racconto di Heinlein, senza nemmeno correggerne il sessismo molto anni Cinquanta, a costo di disorientare lo spettatore meno esperto che si ritrova in un passato alternativo con cadetti spaziali che quando fu descritto era semplicemente un futuro prossimo. Poi, cercando di confondere le acque, i gemelli scelgono di raddoppiare l’intreccio già arzigogolato, aggiungendo riferimenti al terrorismo che invece di attualizzare la storia la sospendono ancora di più nello spazio e nel tempo: non è che torni tutto, e se vi ha innervosito la logica circolare di Interstellar forse è meglio che vi teniate alla larga. Se invece qualche volta vi viene di pensare a come dev’essere il Tempo visto da una quinta dimensione, Predestination è il film fatto per voi. O forse eravate voi fatti per lui. Probabilmente vi verrà voglia di vederlo e rivederlo, anche al contrario.
(Quando sono entrato in sala ero solo. Se c’è un film da guardare da soli, è questo. Dopo un po’ è entrato qualcun altro, qualcuno che ho evitato rigorosamente di osservare. Non so se era un uomo o una donna, ma ho avuto la sensazione che mi somigliasse).
Predestination è al Cinelandia di Borgo San Dalmazzo alle 20:30 e alle 22:45, e poi chissà dove andrà a finire.
O ma t ricordi Laura??? Quella stronza ke poi a un certo punto qualcuno ha messo su youtube il video in cui fattissima si era cagata addosso?? E che lei dopo dalla vergogna si è sparata (ke COGLIONA)? Ti ricordi quanto abbiamo pianto al funerale, e quando ci intervistavano dicevamo che era nostra amica e mai avremmo potuto immaginare e insomma eravamo sconvolti? Ma il video invece ti ricordi ki lo aveva fatto? Eri stata tu? Ero stato io? No io forse lo avevo solo postato. Boh.
Unfriended è un piccolo film con un'idea fortissima - trasferire sul grande schermo il desktop di un computer portatile, e raccontare tutta la vicenda da una finestra all'altra, in apparente presa diretta. I personaggi dialogano su skype, la colonna sonora è una playlist su itunes, gli indizi si cercano su google, il passato galleggia su youtube e facebook - lo spettatore condivide il punto di vista della protagonista e a un certo punto la frustrazione di non riuscire a controllare il cursore col mouse (visto su un portatile dev'essere tremendo, anche al cinema viene costantemente la tentazione di aprire la posta o twitter o qualche altra minchiata).
Il tema ovviamente è il bullismo 2.0 - Gabriadze, regista di origine georgiana, sembra abbastanza persuaso che l'inferno siano gli altri, cioè internet. Classe '69, in un'intervista ha candidamente affermato che il nonnismo subito ai tempi del servizio militare nell'Armata Rossa non è nulla rispetto a quello che può capitare oggi ai ragazzini sui social network. Unfriended descrive questo mondo col candido cinismo che si può permettere un regista horror: i cinque personaggi, tutti variamente antipatici, saranno messi l'uno contro l'altro dal fantasma della loro vittima. Sì, il modo di raccontarla è finalmente un po' diverso, ma la storia è la più banale del mondo (continua su +eventi!) Gabriadze, che comunque ha avuto un colpo di genio, ha anche il pregio di non tirarsela affettare ambizioni autoriali: Unfriended non finge nemmeno per un istante di essere qualcosa di più profondo del solito film per 16enni sul divano che limonano o almeno ci provano (l'apparentemente inutile conversazione iniziale, in cui la protagonista promette al suo ganzo un rapporto finalmente completo per il Ballo di Fine Anno, è il momento in cui il film sembra davvero specchiarsi nel suo pubblico di riferimento).
Chi 16enne non è può lamentarsi dello spreco: le idee originali sono così rare oggigiorno. D'altro canto Gabriadze con un misero milione di dollari di budget ne ha già portati a casa 45: che gli vuoi dire? Magari i sequel avranno un approccio meno scontato. Il film è l'ennesimo colpaccio di Jason Blum, produttore specializzato nei film a bassissimo costo e altissimo rendimento: non sono mai capolavori (tranne il caso un po' particolare di Whiplash), ma sono sempre idee originali. Merce sempre più preziosa, anche a Hollywood.
Unfriended è al Cinelandia di Borgo San Dalmazzo (20:40, 22:40); all'Italia di Saluzzo (20:00, 22:15); al Cinecittà di Savigliano (22:30).
In principio furono due fauci: così si chiamava in originale lo Squalo di Spielberg, Jaws. Spuntarono fuori da una spiaggia di Long Island 40 anni fa e cambiarono per sempre la storia del cinema USA. L'estate era un brutto periodo per le sale, anche laggiù - ma i tempi stavano cambiando, ormai in tutte le città aprivano mall climatizzati. Ai ragazzi che non potevano permettersi di passare i pomeriggi in spiaggia, Spielberg avrebbe offerto il brivido di una consolazione fredda e dolciastra (e tolto ogni voglia di tuffarsi per mesi o anni). Jaws fu distribuito il 20 giugno in più di quattrocento sale: a quei tempi era la strategia che si usava per minimizzare i danni delle cattive recensioni, e non è escluso che anche l'Universal avesse molti dubbi sul prodotto - lo squalo finto era così poco credibile che il giovane regista aveva deciso di esibirlo il meno possibile, compensando con la suspense la povertà degli effetti speciali. Fu un successo micidiale, che nel giro di qualche mese si mangiò al botteghino tutti i record precedenti - L'esorcista, Il padrino, la Stangata, finirono tutti nelle fauci del predatore. Era nata una razza di film (i blockbuster estivi, e i blockbuster in generale), che nel giro di qualche anno si sarebbero mangiati la Nuova Hollywood. Mostri dal budget pesantissimo, eppure in grado di adattarsi a qualsiasi ambiente: avrebbero espugnato ogni botteghino al mondo, e covato uova di mostri ancora più grossi, perché gli spettatori comunque dopo un po' si annoiano. Vogliono più sangue. Più denti. E qualcuno prima o poi glieli dà.
Quarant'anni dopo, lo squalo che terrorizzava le spiagge di Amity Island non è che un bocconcino per il nuovo Mosasauro. Jurassic World è quel classico film ipocrita che solletica il pubblico e un attimo dopo gli fa la morale: è colpa vostra se siamo costretti a darvi mostri sempre più grossi, facendo strame delle più recenti teorie paleontologiche (Niente piumaggi, anche se nel Giurassico vero c'erano: ma non c'erano nel Jurassic Park di Spielberg e Crichton, e quindi niente da fare). O pubblico viziato, che cerchi il conforto dei vecchi brand ma ti aspetti anche novità a tutti i costi, perché non resti bambino per sempre? Perché non ti accontenti di due diorama e una cavalcata su un baby stegosauro? Sei irrequieto come il complesso militare-industriale. Tu vuoi più denti perché ti annoi, loro vorrebbero qualcosa di più performante di un drone. E se ancora non lo vogliono, domani lo vorranno, e prima o poi qualcuno glielo darà. Forse lo spunto più interessante del nuovo congegno dentato di Casa Spielberg è la naturalezza con cui mostra un parco di divertimenti svelarsi in un esperimento militare. La gente vuole sempre più Sicurezza, ma anche più Divertimento - è chiaro che ogni tanto qualcosa va storto.
Riguardo ai personaggi, sarebbe ingiusto aspettarsi più tridimensionalità di quella consentita dagli occhialini - più o meno come pretendere profondità dalle ganasce del vecchio Squalo. C'è da registrare il passaggio del caro vecchio T. Rex dalla parte dei buoni (continua su +eventi!) proprio come accadeva a Godzilla a un certo punto della sua saga, non più il nuovo mostro da combattere, ma quello vecchio che ci difende dai nuovi mostri inaffidabili. Perché la gente è insaziabile ma è anche sentimentale, dopo averti visto per due o tre film non le importa quanti esseri umani hai schiacciato o divorato: si affeziona. Meno interessanti gli esseri umani, ridotti a figurine un po' più stilizzate del solito: più che esprimere un carattere, lo evocano, sono citazioni ambulanti. C'è un Bambino Saputello e Boccoloso che sintetizza in pochi tratti tutta la poetica della Amblin (se non ne è la caricatura); un Fratello Maggiore In Preda Agli Ormoni che quando non guarda le ragazze si ficca nei guai; l'Algida Donna in Carriera che ha capito che il pubblico vuole cose più grosse, il Magnate Visionario che le commissiona allo Scienziato Irresponsabile che non si pone troppi problemi, il Sergente Ottuso che spera di farci la guerra. Tutte sfaccettature dell'uomo bianco contemporaneo e pasticcione, tutti a turno fanno qualcosa di tragicamente stupido. Chi ci salverà dalla fatale spirale Marketing-Scienza-Guerra? Il Cowboy, l'unica figurina positiva di tutto il film. L'uomo che sa domare i velociraptor, ma non vuole plagiarli. Chris Pratt fa quel che può per entrare nei suoi panni, ma è un po' troppo giovane e palestrato per assumere con naturalezza quell'autorità morale che avremmo conferito a un John Wayne - insomma alla fine risulta meno credibile del tirannosauro.
Altri hanno già sottolineato la curiosa misoginia del film, che sembra suggerire che una donna in carriera senza figli sia contronatura più o meno quanto un animale geneticamente modificato; resta da annotare un ultimo dettaglio, abbastanza imbarazzante: per quanto sia un film derivativo, ipocrita, maschilista e prevedibile, Jurassic World è anche maledettamente divertente. Non c'è niente da fare, i denti funzionano sempre. Lo trovate al Citiplex di Alba alle 21:00 (2d); al Cinelandia di Borgo San Dalmazzo alle 20:10, 21:30, 22:45 (2d), alle 20 e alle 22:35 (3d); al Vittoria di Bra alle 21 (3d); al Fiamma di Cuneo alle 21 (2d); al Multilanghe di Dogliani alle 21 (2d); ai Portici di Fossano alle 21: 15 (2d); all'Italia di Saluzzo alle 20 e alle 22:15 (2d); al Cinecittà di Savigliano alle 21:30 (2d)
Non so quanti siano, e quanta barba sfoggino. Me li immagino seduti in poltrona, o distesi su un tappeto. Stanno scrivendo il nuovo film del grande regista italiano. Da qualche parte comunque c'è un piattino con qualche ammenicolo - un paio di dadi, un mazzo di tarocchi, il libro di I Ching, e soprattutto una manciata di baci perugina. Quando la storia non va avanti, e la battuta non si trova, e i tarocchi dicono picche, e i dadi sempre due, il più giovane scarta un cioccolatino.
Bravissimi, per carità, ma Boldi e De Sica
avrebbero aggiunto quel quid.
"Checcescritto?"
"Torno sempre alla casa del padre".
"Sì, ma sotto?"
"Novalis".
"Suona bene".
"Scrivo?"
"Aspe', scartane un altro per sicurezza".
"Nessuno si sente all'altezza".
"Questo è vero".
Ma chi l'ha poi detto che uno debba lasciare a casa i propri pregiudizi. I pregiudizi sono divertenti. I pregiudizi ci aiutano a vivere meglio. Forse il miglior modo di guardare Youth è bersi nell'anticamera una coppa amara di pregiudizio - bene, ecco la giovane promessa del cinema italiano, che per due o tre anni sembrava avere inventato un nuovo modo di raccontare le storie, e poi all'improvviso un giorno si sveglia Venerato Maestro e comincia a scaracchiare fellinate imbarazzanti su sfondi pittoreschi per la gioia dei turisti. E sbanca i botteghini. E porta a casa Oscar e Goldenglobe. E quindi, insomma, adesso chi lo fermerà più? Quanti altri vecchietti saggi e perplessi ci somministrerà, quante piscine e giraffe e fenicotteri? Ecco, se uno si siede in poltroncina con queste premesse, alla fine rischia di rivalutarlo, Youth. Cioè alla fine non è così male, dai. C'è pure una scena action con le esplosioni. Adesso però non so andare avanti, cosa dice l'I Ching?
"Tutta invidia".
Sì.
Ma guarda che invidiare è il mio mestiere. Dal latino in-video, "guardo contro", ma quell'"in" all'inizio voleva dire "dentro". Nessuno sa guardarti dentro come un invidioso, perché nessuno ha così tanta voglia di guardarti. Sì, Sorrentino, siamo tutti invidiosi.
Io perlomeno non riesco più a passarti nulla ormai. Non c'è nulla che si dicano o facciano i tuoi personaggi che non mi suoni falsa. Il grande compositore che dirige le vacche al pascolo. Miss Mondo che si esibisce in una scena che sembra un calco di un Vanzina, ma non prima di aver impartito una lezione di vita, non prima di averci mostrato che è anche intelligente. Bambini saggi, massaggiatrici ambigue, Maradona obesi, lama volanti, avanspettacolo. E dire che io sono uno di bocca buona, mi piacciono i film di robot. Persino il Kitsch, una volta che hai accettato che è Kitsch, posso apprezzarlo in quanto tale. Metti il buon Baz Luhrmann. Lui non si vergogna di nulla, però sta anche molto attento a coprirsi. Ad esempio, è maniacalmente fedele ai classici. Come se ti dicesse, vedi? Non sono io a essere Kitsch, è Shakespeare. È Francis Scott Fitzgerald. È la vita, insomma, che ci parla attraverso i baci perugina. A me va bene anche il Kitsch, se lo sai fare, eppure a Sorrentino non glielo perdono. Lui non vuole semplicemente fare un film sul Sublime, lui pensa di poter andare dritto al punto (continua su +eventi!)
Ci prova davvero. Poteva usare la Montagna Incantata come canovaccio, magari un sottile gioco di rimandi rarefatti alla Wes Anderson - no, niente, per fare il sottile gioco di rimandi bisogna leggere il libro, roba da intellettuali. E noi non vogliamo essere intellettuali, gli intellettuali non hanno gusto, lo ha scritto Stravinskij su Wikiquote. Quindi si va in villeggiatura, si annotano i tic dei villeggianti, ed eccoci massimi esperti in Umanità. Cos'è la Vita? Cosa sono i Ricordi? E l'Amore sopravvive alla Morte? Sicuri? Non soccombe talvolta anche solo alla Lunga Degenza? Dopo i temi importanti, veniamo alle rubriche: Quanto è Importante essere Bravi a Letto? Non Crederai Mai a Quello Che È Capace di Fare Questo Lama Tibetano! Miss Mondo Senza Veli, gli Scatti Esclusivi! E il nuovo video di Pamela Faith.
No, Sorrentino non si accontenta di girare intorno al Sublime. Lui vuole essere Sublime. È convinto che sia alla sua portata, perché no? In fin dei conti basta riflettere un po' sulla Vita, sparare due massime più o meno originali, e metter su la canzone giusta. Qui in un qualche modo l'invidia si ribalta in ammirazione, perché quello che Sorrentino cerca di fare nel finale del film è una spacconata incredibile, senza precedenti almeno alla portata della mia memoria. Quando in letteratura ci si inventa un artista, di solito un grande artista, ci si premura sempre di lasciare le sue opere sullo sfondo, dando per scontato che siano grandi, che siano belle, ma siccome nessuno le ha scritte davvero non ce le possono mostrare. Mann mica poteva comporre le sinfonie del Doktor Faustus. Sorrentino, lui sì. Lui si inventa un compositore e poi commissiona a David Lang il suo capolavoro, che ci vuole? E poi ce la fa ascoltare. Il soprano è vero, l'orchestra è vera, in platea c'è una sosia della regina, dirige Michael Caine. E com'è questo capolavoro, che dovrebbe dare un senso a una carriera, a un matrimonio, a un film, com'è?
Mah.
Il riff somiglia un po' a Sweet Child Of Mine.
Sorrentino alla fine è davvero sublime, a modo suo, e io lo invidio. Non ho la competenza né il talento per sdraiarmi sui vostri tappeti, ed è un bene, perché sarei quello che vi boccerebbe tutto. Questa battuta è troppo banale. Questa sembra profonda, ma guardate che in realtà non vuol dire niente. Questa è una citazione inconsapevole. Questa è troppo consapevole. Questa scena è pacchiana. La scena non diventa commovente se mostri un personaggio che piange, è un trucco volgare. Nulla, non vi passerei nulla. Fosse per me il film non si farebbe; fosse per me, non si farebbe più nessun film. Perché io non sono all'altezza, voi non siete all'altezza, nessuno è all'altezza. E invece eccolo qua, Youth di Sorrentino. Com'è? Credevo peggio, dai.
Youth è al Citiplex di Alba (20:00, 22:15); al Cinelandia di Borgo San Dalmazzo (20:10, 22:40); all'Impero di Bra (20:15, 22:30); al Fiamma di Cuneo (21:10); ai Portici di Fossano (20:15, 22:30); all'Italia di Saluzzo (20:00, 22:15); al Cinecittà di Savigliano (21:30).
C'era una volta un regista, seduto su un sofà, che non sapeva più che storia raccontare. Le conosco tutte, ahimè! diceva. Se solo potessi tornare bambino e rivederle con l'occhio di chi è appena venuto al mondo. Io so che c'è ancora quel bambino dentro me, ma non so da che parte tagliare per farlo venir fuori. E piangeva, e strepitava, e prometteva la luna e le stelle al mago che avesse saputo levare quel bambino da lui, scorticandolo se necessario. Finché un giorno non si presentò un signore magro magro, lungo lungo, con un vecchio libro polveroso, e gli disse: sfoglia qui, da qualche parte c'è il rimedio che tu cerchi.
"Ma è napoletano, non si capisce niente".
"Fatti scrivere un riassunto"
Del Racconto dei racconti avevo visto due trailer. Uno prima di Mia madre: sembrava una cosa tra Dune e Alien. Il secondo l'ho visto prima degli Avengers: sembrava Fantaghirò. A quel punto la mia naturale ritrosia per i draghi era stata vinta dalla curiosità: sarebbe riuscito Garrone a camminare su un filo tra due sponde tanto distanti? E da quale parte avrebbe sbandato più spesso? La risposto l'ho avuta dopo un paio di minuti di film: quando al termine di una fuga tra stupendi corridoi, un attore meravigliosamente agghindato da re ha aperto bocca e ha detto una cosa del tipo: "Farei qualsiasi cosa per farti felice".
Farei qualsiasi cosa per farti felice.
Era na vota no cierto re de Longa Pergola, chiammato Iannone, lo quale, avenno gran desederio de avere figlie, faceva pregare sempre li dei che facessero 'ntorzare la panza a la mogliere; e, perché se movessero a darele sto contiento, era tanto caritativo de li pellegrine, che le dava pe fi' a le visole. Ma vedenno all'utemo che le cose ievano a luongo e non c'era termene de 'ncriare na sporchia, serraie la porta a martiello e tirava de valestra a chi 'nce accostava.
Però bisogna avere perso il cuore da qualche parte nella foresta, e aver riempito il buco con un riccio di castagna, per parlar male del Racconto dei racconti; e di un regista che invece di oziare a palazzo raccontando per altri dodici film storie di mala e di uomini contemporanei psicotici e infelici, bevendosi la stima di villici e cortigiani, monta a cavallo ed esce nel bosco. È sicuro che si perderà; che non sarà all'altezza dei mostri che evoca; che maghi e criticoni non saranno necessariamente dalla sua parte; ma perdio, è un giovane cavaliere coraggioso, come si fa a volergli male? Ed è un coraggio di cui tutti abbiamo bisogno; non è la sventatezza criminale di chi senza cultura fumettistica decide di punto in bianco di inventarsi un supereroe italiano, una cosa che se non è mai esistita un motivo ci sarà. È l'audacia di chi ha un tesoro da parte, e deve soltanto trovare il modo di metterlo a frutto. Chi ha mai deciso che il cinema italiano debba ridursi a commedie di quarantenni e drammi su sessantenni che imprevedibilmente invecchiano? Mentre i nostri ragazzi, in tv e al cinema, si consegnano senza fiatare ai mostri e alle fate venuti da lontano? Non abbiamo mostri noi, solo nonni e genitori in tinello?
Altroché se li abbiamo. Abbiamo gli orchi DOP e abbiamo le fate originali. Pure Cenerentola è cosa nostra, salvo che la nostra spezzava la noce del collo a una matrigna col coperchio d'una cassapanca, altro che topolini e cinguettii. Sepolto sotto tonnellate di melassa industriale c'è un mondo di mostri e magia e crudeltà che mozzano il fiato, una vena più barocca che gotica, ma è comunque sangue buono. Basta scavare, e non avere paura - non averne troppa. Le stelle sono favorevoli: in tv i draghi vanno forte anche presso il pubblico esigente; al cinema Hollywood propone fate e principesse a spron battente, problematizzate e modernizzate quanto basta per metter d'accordo le sorelle pre e postpuberi. Se a questa gente riuscissimo a confezionare un film di fiabe, attenzione, non un fantasy che non è roba nostra: un vero film di fiabe violente e senza consolazione, forse attireremmo l'attenzione di chi mangia pizze surgelate da una vita e non ha mai annusato l'origano su una focaccia appena levata da un forno a legna. Con l'industria non potremo mai rivaleggiare, ma se riusciamo a raccontare a tutto il mondo che siamo gli Artigiani originali, siamo l'Eccellenza, insomma la vecchia fiaba del Made in Italy, forse, forse(continua su +eventi...)
S’erano raccorete drinto a no giardino dove avea l’affacciata lo re de Rocca Forte doi vecchiarelle, ch’erano lo reassunto de le desgrazie, lo protacuollo de li scurce, lo libro maggiore de la bruttezza. Le quale avevano le zervole scigliate e ’ngrifate, la fronte ’ncrespata e vrognolosa, le ciglia storcigliate e restolose, le parpetole chiantute ed a pennericolo, l’uocchie guize e scalcagnate, la faccie gialloteca ed arrappata, la vocca squacquarata e storcellata e, ’nsomma, la varvea d’annecchia, lo pietto peluso, le spalle co la contrapanzetta, le braccia arronchiate, le gamme sciancate e scioffate e li piede a crocco…
E magari funzionerà. Io lo spero tanto che funzioni, perché l’idea era quella giusta al momento giusto: e il rischio di sbagliare altissimo, anzi neppure un rischio era, una certezza: Garrone e i suoi secondi si sono messi in strada sapendo che l’unica speranza era trovare per strada un tesoro, un mago, una strega che premiasse il loro buon cuore. Ma è gente che vuole qualcosa in cambio, chi bazzica le fiabe vere lo fa. Nessuna zucca ti si fa carrozza gratis; puoi avere un miracolo, ma devi sacrificare qualcosa. Era inevitabile che a farne le spese fosse il testo originale, Lo cunto de li cunti, che oltre a essere la prima raccolta di fiabe di valore letterario, è una straordinario, caotico dizionario di napoletano cortese e popolano. Garrone, in altri casi tanto rispettoso per le forme del vernacolo, forse timoroso che i dialoghi troppo coloriti distraessero l’attenzione dalla fotografia e dagli effetti speciali, non ha avuto pietà: ha fatto scorticare lo Cunto finché dalle spoglie sanguinanti del Tratteniemento de peccerille non è uscito The Tale of Tales: un montaggio di tre fiabe senza tempo e senza luogo, e soprattutto senza dialetto.
Vladimir Propp magari approverebbe: in fondo, a saperle sfogliare, tutte le fiabe sono uguali. Sì, ma all’omologazione, alla globalizzazione, alla riduzione della fiaba in hamburger buono per ogni palato, c’è arrivata già Hollywood: The Tale of Tales è un prodotto artigianale che nella comprensibile ansia di piacere a più bocche possibile, elimina una delle spezie più importanti, lasciando nello spettatore un certo senso di vuoto; è un libro illustrato meraviglioso e a tratti spaventevole, che ricorda davvero Alien o Dune, ma coi dialoghi di Fantaghirò. È un film che dimostra per contrasto – se ce ne fosse bisogno – l’astuzia messa in campo da Pasolini nella trilogia della vita: quando si tratta di fiabe e novelle, un attore dilettante a un passo dal mettersi a ridere può rendere più servizio di un attore professionista che si ingegni di dare peso e verosimiglianza a dialoghi assurdi. C’è un momento del film in cui un re cerca di convincere la figlia dell’ineluttabilità delle sue nozze con un orco. Una scena così grottesca non si può recitare come un qualsiasi diverbio tra padre e figlia; e non basta il panorama unico al mondo di Castel del Monte per creare lo straniamento necessario. Una lingua un po’ più fiorita, un po’ più distante dall’uso, avrebbe attenuato l’effetto Raifiction. Non era evidentemente la priorità di regista e produttori.
«Dove, dove te nascunne, gioiello, sfuorgio, isce bello de lo munno? Iesce, iesce sole, scagliente ’mparatore! Scuopre sse belle grazie, mostra sse locernelle de la poteca d’Ammore, caccia ssa catarozzola, banco accorzato de li contante de la bellezza! Non essere accossì scarzogna de la vista toia! Apre le porte a povero farcone! Famme la ’nferta si me la vuoi fare! Lassame vedere lo stromiento da dove esce ssa bella voce! Fà che vea la campana da la quale se forma lo ’ntinno! Famme pigliare na vista de ss’auciello! Non consentire che, pecora de Ponto, me pasca de nascienzo co negareme lo mirare e contemprare ssa bellezzetudene cosa!».
Il Racconto dei racconti finisce per confermare un terribile sospetto sui limiti del cinema italiano contemporaneo. Non sono gli effetti speciali – lì ci difendiamo ancora tutto sommato. Non è sicuramente la fotografia. L’unica vera zavorra del Racconto – e di tanti altri film italiani di ogni genere – è la scrittura. Proprio quella cosa che non richiede budget stratosferici; quello che dovrebbe fare la differenza tra un prodotto di massa globalizzato e un prodotto artigianale e di qualità. In teoria dovremmo essere più bravi a scrivere dialoghi che ad animare dei draghi. Se avviene il contrario – e nel Racconto avviene il contrario – secondo me siamo nei guai.
Il racconto dei racconti è al Cityplex di Alba (21:00); al Cinelandia di Borgo S. Dalmazzo (20:00, 22:45); all’Impero di Bra (22:30); al Fiamma di Cuneo (21:00)
Alcuni lo davano per morto, che era la conclusione più logica visto il mondo là fuori. Per quanto altro tempo avrebbe potuto vagare di oasi in oasi, scappando da questo e da quello, col suo magnetismo animale per i guai? Qualcuno prima o poi se lo sarebbe pur mangiato - non prima di averne spremuto il prezioso sangue - per spolparne le ossa e distillarne idrocarburi. Non è il destino di tutti, in fondo?
Altri non si rassegnavano, e col tempo ci avevano imbastito una religione. Avrete notato che funziona quasi sempre così. C'è gente che continua a ricordare un passato, e sperare che prima o poi le cose si sistemeranno, qualche radiazione si dimezzerà, la pioggia non sarà più così acida e la terra ricomincerà a sputar semi buoni da mangiare. È l'idea del paradiso, che a ben vedere crea solo illusioni, civiltà e ogni altra sorta di problemi. Per alcuni è un luogo nel tempo, per altri nello spazio: un walhalla da qualche parte in cielo, o un'oasi al di là della salina. Se hai benzina per duecento giorni di viaggio arrivi ai cancelli dell'Eden: là hanno i prati verdi per giocare a golf e le televisioni con gli show, e state a sentire, per alcuni George Miller è salito su un aereo ad alta quota ed è fuggito laggiù e fa il regista di show con gli animali. Maialini parlanti. È una leggenda così stramba che rischia di essere vera, perché andiamo, chi sarebbe così pazzo da inventarsela? Maialini parlanti, e poi cosa? Pinguini ballerini? (Continua su +eventi!)
Io sono di quelli che non credono né a una versione né all'altra. Per me il pazzo George non è morto e non è in paradiso ad animare cartoni. Secondo me è semplicemente da qualche parte nell'outback radioattivo, che continua a girare in tondo e fuggire dai suoi incubi di medico della mutua australiano che disinfettava le piaghe dei motociclisti. Ogni tanto scappa da qualcuno che lo vuole mangiare, ogni tanto salva donne e bambini da un prepotente. In realtà ormai donne e bambini sono mutati abbastanza da difendersi da soli, e non c'è Fanciulla in Pericolo che all'occorrenza non sappia caricare un ak47 e usarlo, se le rompi le ovaie. Però il pazzo George continua in qualche modo a salvare e scappare: è il suo destino. Secondo i vecchi calendari dovrebbe avere più di 70 anni, ecco anche a questo io non credo: il tempo è fuori i cardini da un pezzo, e il vecchio George non conosce un tempo che non sia l'altro ieri. Il mondo può appassire più o meno rapidamente, ma lui è ancora in giro a scappare e sparare e sbandare e ingrugnire, e da questo lo riconoscete incontrandolo: dalla scia di sangue non digitale che si lascerà dietro. Oppure sarà davanti a voi, e in quel caso alzate le mani e sbarrate gli occhi, non è il caso di opporre resistenza. Lui non usa chroma-key, lui puzza di latte e benzina e sudore polvere da sparo e no. Era il migliore all'inizio dei tempi; e a differenza dei tempi, non è peggiorato. L'ultraviolenza distopica degli anni '70, l'immaginario post-bomba anni '80, l'ipercinesi della generazione millennial, per lui sono una sola cosa, un unico film, un solo inseguimento.
Se lo incontri e hai bisogno di lui, non offrirgli baci, sa di non meritarli. Il latte materno per lui non ha sapore; ancora più dell'acqua, quel che cerca benzina e munizioni, munizioni e benzina. Non ti aiuterà per amore o per giustizia, ma perché ha una gabbia davanti agli occhi e pensa che tu forse puoi staccargliela. In un mondo di pazzi innamorati della morte, lui non è meno pazzo degli altri; ma ha scelto di sopravvivere. Chi gli farà cambiare idea non è ancora nato.
Al Cinelandia di Borgo S. Dalmazzo (20:20, 22:40 in 2D, oppure, in un inutile 3D, alle 20 e alle 22:35). Sempre in 2D al Fiamma di Cuneo (21:10); al Multilanghe di Dogliani (21:30); ai Portici di Fossano (21:15); al Cinecittà di Savigliano (16:00, 18:10, 20:20, 22:30).
Liam Neeson ha fatto cose orribili in passato. Cose di cui si vergogna. Mission? Schindler's List? E perché mai. La minaccia fantasma? Le cronache di Narnia? Uno deve pur campare. Film di Luc Besson in cui ammazza sequestratori e terroristi che hanno mediamente un terzo dei suoi anni, una dozzina alla volta? Non c'è dubbio che sia una svolta curiosa, proprio alla boa dei sessant'anni. Ma per sua stessa ammissione, sono stati proprio questi ruoli action a distrarlo dall'alcolismo in cui si trascinava dopo la scomparsa della moglie. Liam Neeson ha fatto cose terribili, film scemi in cui massacra centinaia di stranieri cattivi per salvare ex mogli e figlie in pericolo. Ma li ha sempre fatti con un piglio tutto personale e un certo sprezzo del ridicolo, ottenendo risultati incredibili al botteghino (Taken magari non vi dice niente, ma ha fruttato più di 200 milioni di dollari) e fondando un vero e proprio genere: dopo di lui gli action polizieschi sono stati invasi da attori di prestigio sulla soglia della terza età o decisamente oltre, in gruppo (la saga di Red) o da soli (Kevin Costner, anche lui ripescato da Besson in qualche tonnara). Neeson però è stato il primo, e ogni volta che imbraccia una pistola più o si accende una sigaretta con un ghigno triste sembra trionfare a modo suo sull'ingiustizia che lo ha fatto crescere nell'età sbagliata: è vero, è stato il patriota Michael Collins e il sessuologo Kinsey, ma era nato per i western. C'è una scena in Run all night in cui entra in un saloon e li fa secchi tutti - ok, è un pub a Manhattan, un covo della mafia celtica - ma insomma lo spirito è quello.
La cosa è ormai tanto evidente che gli autori si possono permettere di strizzare l'occhio agli spettatori: all'inizio di questa storia Liam è Jimmy Scavafosse, un ubriacone che sonnecchia nello stesso saloon alla vigilia di Natale. Ha bisogno di soldi, e per ottocento dollari d'onore il figlio del boss lo costringe a indossare un costume rosso da Babbo. Liam ubriaco travestito da Santa Claus, circondato da bambini perplessi dal suo odore, è una metafora non troppo sottile, ma efficace... (continua su +eventi!) Anche perché di lì a poche ore suo figlio, il suo unico figlio che lo disprezza, si ritroverà in grossi guai, e Jimmy si ricorderà di essere stato il più grande pistolero di Manhattan, ingaggiando una guerra all'ultimo sangue con tutta la mala irlandese. L'alba non troverà superstiti. Il tutto per salvare questo ragazzo che non fa che ripetergli quanto sia stato un pessimo padre - e in effetti nel corso della notte Jimmy Scavafosse dimostra di poter inseguire le macchine della polizia a sirene spiegate (in un divertentissimo inseguimento a parti rovesciate), uccidere poliziotti a sangue freddo, strozzare amici di famiglia nei bagni della metropolitana, friggere il volto di killer più professionisti di lui. Il tutto sempre con quell'aria sofferente che lo rende più plausibile dei soliti attori action. Neeson è il padre che tutti vorremmo essere/avere, un tizio che si fa vedere poco e magari ha Fatto Cose Terribili, ma all'occorrenza è pronto a sterminare chiunque ti dia fastidio.
Questi film Neeson li fa o con registi francesi della scuderia di Besson, o con lo spagnolo Jaumet Collet-Serra, che può contare sulle maestranze hollywoodiane e quindi cerca di mantenere un tono un po' meno fracassone, ma ogni tanto la mano gli scappa. Dietro all'esibita pacchianeria di certe scelte c'è una mano insicura: più volte i personaggi si infilano in qualche vicolo cieco e buio e non si capisce, nella scena seguente, come ne siano usciti. Anche la storia, malgrado sfrutti un canovaccio solidissimo, che ricalca senza vergogna l'ormai dimenticato Road to perdition(Era mio padre), a ben vedere è piena di buchi: Johnny Scavafosse sembra un consumato artigiano del crimine ma in realtà commette continuamente errori da novellino e fa tutto per trovarsi esattamente nel luogo dove i nemici lo troveranno. Con tutti questi limiti, Run All Night resta un film scorrevolissimo e divertente, tra i migliori di questo sottogenere action per attori in prepensionamento. Nell'età dei superuomini muscolosi o cromati, fa piacere ogni tanto vedere un vecchio ubriacone che incassa pugni e pallottole mentre fa fuori la sua vecchia gang per salvare onore e famiglia.
PS: Mentre entravo in sala per vedere Run All Night è passato il trailer di un film in cui Sean Penn è un ex killer professionista, e all'inizio dice: Ho Fatto Cose Terribili Nella Mia Vita. Non so se vado a vederlo.
Run all night è al Cinelandia di Borgo San Dalmazzo (15:15, 17:40, 20:15, 22:40); al Vittoria di Bra (20:00, 22:30); al Cinecittà di Savigliano (20:20, 22:30). Buona visione.
Almeno una volta Nanni Moretti credeva di avere sbagliato film. Reduce da una malattia grave, si era messo a girare una cosa molto semplice, un corto da proiettare in un solo cinema; alla fine un po' perplesso si ritrovò in mano un film intero e lo presentò a Cannes. Vinse la palma d'oro.
Qualche anno dopo gli capitò di andare a una manifestazione senza niente da dire. La manifestazione era male organizzata e lui veramente non sapeva cosa stava facendo lì. Gli chiesero di salire sul palco, di dire due parole. Dieci minuti dopo era il leader dei girotondini.
"Scusa, sono un po' agitato. Non sono abituato, non mi rendo nemmeno bene conto di quel che è successo. È successo, così. No, no, non ero arrabbiato. Ero stupefatto, poi ero sul palco, poi ho parlato. Ho parlato molto?" No, non molto, due minuti. "E cosa ho detto esattamente?"
È un problema più nostro che suo: abbiamo bisogno di Nanni Moretti, più di quanto lui abbia bisogno di noi. Il perché non è chiaro ma potrebbe trattarsi di una ragione banalissima - la statura. È un bell'uomo, alto, che senza sforzo apparente attira l'attenzione su di sé. È il primo a saperlo e a soffrirne. Quel tipo di sagoma rassicurante da cui ci aspettiamo parole serene, tranquille, ponderate, che lui quasi sempre non ha. Lui poi ha un alto senso della dignità, che gli impedisce di abbassare la guardia come una volta. Non può più dare di matto, anche se era la cosa più divertente, né scappare disperato all'inseguimento delle merendine che furono. Al suo posto metterà un alterego trasparente e più fragile, Orlando o Piccoli o la Buy. Per sé ritaglierà un ruolo laterale, sempre più simile all'immagine mentale che abbiamo tutti del Nanni Moretti adulto: un superego distinto in un maglione con le toppe che affronta i problemi della vita con serenità; e se va a pezzi, lo fa con molta dignità, su una panchina.
Però anche questo signore sulla panchina a un certo punto ce lo dice molto chiaro: non sa più cosa dire (continua su +eventi!) Non è la politica che ci sta togliendo le parole. Non è il neoliberismo e le bieche multinazionali che si comprano le fabbriche in cui non siamo mai entrati davvero. Ad ammutolirci è la vita, la normalissima vita fatta di bollette del gas e lavatrici che perdono acqua e rovinano il parquet, rapporti di coppia che non vanno da nessuna parte, genitori che muoiono senza chiedere il permesso e figli che non si applicano e non capiranno mai Lucrezio, ammesso che sia importante capire Lucrezio o anche soltanto discuterne. La vita ci riduce a uno schifo, e non c’è niente che Moretti possa farci, tranne un altro film su un lutto (il terzo contando Caos Calmo) – d’altro canto ci ha promesso solennemente di parlare soltanto di quello che sa, e quindi parlerà per l’ennesima volta di un regista come lui, di nuovo alle prese con un film che non sta venendo bene. A un attore metterà in bocca che il cinema fa schifo, che è una perdita di tempo; e il regista un dittatore incapace a cui dicono tutti di sì anche se in realtà non sanno cosa vuole, e non lo sa nemmeno lui. Ma sul serio credete che io sia bravo? Che io sappia dirigere? Si vede che non ne sapete niente di cinema. Probabilmente.
D’altro canto forse non abbiamo davvero voglia di vedere bei film. Forse abbiamo più voglia di sapere come stai. Ti abbiamo sempre voluto bene, non ci è chiaro il perché ma è così. Magari davvero sei quel compagno di classe alto dietro al quale amavamo nasconderci quando la prof interrogava. Ogni tanto ci piacerebbe venirti a trovare, ascoltare i fatti tuoi e raccontarti i nostri, perché qualche volte ci hai dato l’impressione di interessartene, ci hai fatto sentire importanti. Ci hai regalato parole e immagini di cui non hai idea di quanto avessimo bisogno – anche quando sostenevi di non aver niente da dire, buttavi lì una mezza frase e ci restava in mente per anni; non si è mai capito come facessi, ma ha sempre funzionato. Ci dispiace che se sei triste, ci dispiace che hai perso la mamma; anche un po’ egoisticamente per noi, che speravamo in un film un po’ più allegro, e adesso dovremo aspettare chissà quanti altri anni. Di cinema, davvero, non ci intendiamo, ma anche quando ti gira male dai sempre l’impressione di essere il migliore sulla piazza, sai? Non abbiamo neanche il coraggio di chiedertelo, ma ci piacerebbe tanto se la prossima volta osassi un po’; se per una volta provassi a parlare di qualcosa che non conosci. Un film di astrofisica, ti immagini Margherita Buy che non riesce ad avere relazioni di coppia, però nella stazione spaziale orbitante? Oppure Il ritorno della mamma di Freud, o Cataratte 2, o il canovaccio di Militanza Militanza però ambientato in un MeetUp grillino. Qualunque cosa tranne l’elaborazione del lutto, ecco, con l’elaborazione del lutto siamo a posto così, davvero, grazie.
Mia madre è al Cityplex di Alba (20:00, 22:15), all’Impero di Bra (20:20, 22:30) e al Fiamma di Cuneo (21:10)
"Qualcuno una volta ha detto che non capisco le persone. La psicologia, insomma. Posso garantire che non è così. Io passo il tempo a capire le persone. Mi mescolo tra loro, osservo i loro comportamenti, ascolto i loro discorsi, e imparo. Non ho avuto un'istruzione convenzionale, ma imparo molto in fretta. So contrattare. Sono in grado comprendere rapidamente le attese del mio interlocutore, il che mi consente di calibrare con più efficacia i miei messaggi e ottenere in breve tempo quello che mi serve. Perciò è errato sostenere che non capisco le persone".
È solo che non mi piacciono.
Lo sciacallo è un alieno... (continua su +eventi!) Uno serio, intendo, non di quelli che dopo un po’ diventano sentimentali e si affezionano. Molto più credibile della Johansson in Under the Skin, Jake Gyllenhaal non solleva mai la maschera. La prima volta che lo vediamo sta rubando il rame in un cantiere, alla base della catena alimentare. Ma ha già quegli occhi finti che sembrano dipinti su palpebre chiuse. Non ha famiglia né origine; è rapido e spietato, si adatta alle situazioni e non si accontenta mai. Dal furto di oggetti a quello di immagini sul luogo del disastro, il passo è quasi logico. Ma parassitare le nostre peggiori abitudini mediatiche non gli basta: lui vuole andare oltre, mostrarci la via.
Qualcuno ha paragonato la prova di Gyllenhaal a quella di De Niro in Taxi Driver, e soprattutto in Re per una notte: la caricatura del self made man germinato dal nulla e disposto a qualunque cosa, strano fungo cresciuto una notte nella jungla sociale. Gyllenhaal purtroppo non può contare su una storia altrettanto buona: Dan Gilroy, al suo esordio in regia, si preoccupa forse eccessivamente che passi il messaggio polemico nei confronti del sensazionalismo della cronaca nera; in realtà mostra più talento per le scene d’azione (fantastici inseguimenti) che per la didascalia sociale. Il finale è un po’ ridondante, ma almeno non è il tipico finale hollywoodiano. Gli alieni sono in mezzo a noi, come noi, in certi casi siamo noi.
Il tuo maestro e modello ti fa salire nella sua macchina. Mentre guida a velocità di crociera ti spiega che non ne può più; che non è sicuro di quello che sta facendo; che per colpa sua anche stavolta qualche brava persona si farà male o verrà uccisa; che malgrado questo anche stavolta probabilmente non cambierà niente; e che quindi forse bisognerebbe ripensare tutta la strategia; ma ci vorrebbe del tempo; e quel tempo lui non l'ha, è troppo stanco.
E ti chiede come la pensi. Te lo ricordi immenso, quando eri un ragazzino nella folla che stava ad ascoltarlo: adesso è lì in macchina con te, ti apre il suo cuore e ti mostra che è marcio. Cosa facciamo adesso? Ti avanza un po' della fede che distribuiva ai vecchi tempi? Selma è stato salutato come un "film necessario". Purtroppo i film necessari non sono necessariamente buoni film. D'altro canto prima o poi qualcuno doveva spezzare l'incantesimo per cui la figura più importante della comunità afroamericana, l'uomo per cui si chiudono scuole e uffici ogni terzo lunedì di gennaio, non era ancora stato celebrato nelle sale cinematografiche. Ancora negli anni Novanta era paradossalmente più facile realizzare film su personaggi controversi come Malcolm X o le Pantere nere, piuttosto che mettere a fuoco l'uomo-immagine del movimento per i diritti civili. Evitare il taglio agiografico era impossibile, e forse lo è ancora.
A quasi sessant'anni di distanza Martin Luther King, jr continua a essere un simbolo più che un uomo. Anche in sede storiografica non si nota una grande esigenza di sottoporre il mito a una revisione; il peggio che si osa dire su di lui è che gli piacevano più donne di quante un reverendo sposato avrebbe dovuto permettersi, ma il biografo che ha osato definirlo un "donnaiolo" si è poi pentito, è stato frainteso, ecc.. E siccome il pubblico non sembra pronto (né negli USA né altrove) per un leader sessualmente esuberante, anche stavolta non lo vedremo rialzarsi in mutande da un letto non suo. È vero che telefonava a tarda notte a donne sposate (l'FBI aveva accesso ai tabulati), ma solo perché aveva bisogno di sentire un gospel dal vivo. L'adulterio è ammesso, ma non esibito - d'altronde è così importante? In un certo senso sì, uno degli aspetti della grandezza di MLK è proprio il fatto che sopravvisse ai ricatti dell'FBI di Hoover che credeva di poterlo inchiodare alle sue scappatelle sessuali. Il reverendo impersonato da Daniel Oyelowo di fronte alla moglie non nega e non si difende: assume la sua smorfia contrita d'ordinanza e va avanti. Lo stato disastrato del suo matrimonio non è che una tra tante ragioni di frustrazione. È un MLK perennemente imbronciato, insicuro, disilluso, ed è probabilmente l'unico MLK umano che Ava DuVernay poteva permettersi di mettere su pellicola. Di un MLK più machiavellico, che di concerto con Lyndon Johnson manda freddamente bambini e anziane signore in prima linea contro i peggiori sceriffi dell'Alabama - e nel frattempo combina anche qualche festicciola in albergo - per ora nessuno sente l'esigenza.
È un film necessario, si diceva; una certa gravitas era indispensabile, ancorché un po' soporifera; più che al botteghino Oprah Winfrey, Brad Pitt e gli altri produttori guardavano alle scuole che lo proietteranno intensamente nella seconda settimana di gennaio. Ma è proprio qui che Selma delude, ed è un peccato... (continua su +eventi!) perché tutto sommato offre un buon ragguaglio sulle tecniche di non-violenza, e sui sacrifici che comportano (non a caso gran parte dei leader sono ministri di culto: del resto se il tuo metodo di lotta implica la possibilità di ritrovarti inerme davanti a poliziotti armati e fanatici razzisti, la fede in una trascendenza non è obbligatoria ma può aiutare). Il guaio è che Selma regge la prova ferro-da-stiro, ovvero è un film che si può tranquillamente guardare mentre si è in tutt’altro affaccendati, senza perdersi nessuno snodo fondamentale. Al massimo qualche primo piano di Oyelowo corrucciato, o di Carmen Ejogo corrucciata, o Tom Wilkinson perplesso (fa il presidente Johnson, e il film a quanto pare non gli rende onore) o Tim Roth governatore cattivo.
Il film ha il torto di dare per scontata l’attenzione del pubblico, dopo un paio di scene madri iniziali di fronte alle quali commuoversi è obbligatorio. Parlo da insegnante: un film del genere non lo proietterei in un’aula magna: se passa la prova ferro-da-stiro, passa anche la prova smartphone. Per parlare degli stessi argomenti ricorrerò a Mississippi Burning, che ormai ha trent’anni ma almeno offre una chiave per decifrare l’odio di quei razzisti che in Selma sono raffigurati più o meno come orchetti di Tolkien, senza storia né psicologia; oppure li fregherò con Alì, che col pretesto dell’epica sportiva racconta di Emmett Till e dei musulmani neri; e integrerò con qualche scena di Amistade da calcio nello stomaco – quel tipo di calci che i ragazzini sanno apprezzare. Niente di personale: ma se Selma mi ha un po’ annoiato, figuratevi i miei studenti.
Un cane è una grossa responsabilità, Bob Saginowski non è sicuro di volerne uno. Ha già i suoi casini con il cugino ex gangster che non riesce a tirare i remi in barca, la mafia cecena che gli ha rilevato il bar e lo usa come copertura, un detective che non ha niente di meglio che stargli addosso, e il diavolo che ogni mattina gli ricorda che nessuno è senza colpa, e lui in particolare. Se a tutto questo aggiungi un cane a cui insegnare dove fare i bisogni, un cane da sfamare tutti i giorni, un cane da difendere dallo psicopatico che lo ha ficcato in un bidone della spazzatura e ora vuole riprenderselo, insomma Bob Saginowski non è sicuro di essere pronto. È un passo importante.
La locandina di The drop si gioca la carta di Dennis Lehane, caso esemplare di autore noir conosciuto meno per i suoi libri che per le versioni cinematografiche che hanno ispirato. Mystic River, Gone Baby Gone; persino Shutter Island lasciava intravedere tra gli sbraghi di sceneggiatura la consistenza dell'intreccio originale. The drop conferma la qualità del narratore, ma ha il respiro più corto: non è tratto da un romanzo ma da un racconto, e si nota. È una piccola storia che Roskam sposta da Boston a Brooklyn ma che avrebbe funzionato anche a Scampia, Marsiglia, o in qualsiasi quartiere difficile in cui le grandi catene di distribuzione del narcotraffico hanno soppiantato le buone vecchie piccole gang radicate nel territorio (continua su +eventi!)
Senza preoccuparsi di muoversi tra i più frequentati luoghi comuni del genere, il regista belga Roskam (Bullhead) manda avanti il film con una certa scioltezza, inciampando due o tre volte in scelte discutibili ma mantenendo la tensione alta fino alla risoluzione finale, prevedibile ma godibilissima. Gran parte del merito va ovviamente agli attori, ma chi entra in sala per dare l'ultimo saluto al grande Gandolfini dovrà rassegnarsi a vederlo relegato in un ruolo da comprimario, reso con la sicurezza di un caratterista di eccezione. Più a fuoco è un Tom Hardy imbambolato, che si aggira bofonchiando per i set con un'andatura da soggetto borderline. È bravissimo, anche se un po' troppo bello e giovane per essere davvero in parte (tra lui e il "cugino" Gandolfini ci sono quasi vent'anni). Noomi Rapace porta anche stavolta sulla pelle i segni di un passato difficile, anche se qui è inverosimilmente retrocessa a damigella in pericolo. Matthias Schoenaerts, connazionale del regista, si ritrova un po' a caso nella parte dello stalker psicopatico e almeno decide di non calcare i toni. Chi è senza colpa è una bella storia che scivola via molto rapida, lasciando agli spettatori almeno una scena memorabile. Al Cinelandia di Borgo San Dalmazzo alle 20:20 e alle 22:45.
"Hai fatto un buon lavoro". Quante volte te lo sei sentito dire. Quante volte ci hai creduto davvero? Dopotutto, se il tuo lavoro fosse così buono, non sarebbero così contenti. Comincerebbero ad aver paura di te - è pericoloso, chi sa fare un buon lavoro. Ma tu non ti preoccupare, perché hai fatto... Un buon lavoro. La senti l'intonazione? La senti sul serio? E allora dimmi: ci senti invidia o condiscendenza? Un buon lavoro. Forse una sfumatura di gratitudine, perché il tuo non è un lavoro così buono dopotutto. È un lavoro passabile, un lavoro che non farà sfigurare i loro lavori mediocri. "Hai fatto un buon lavoro", che frase criminale. Quanti talenti ha sedotto e sviato. Tu non vuoi fare un buon lavoro. Tu puoi fare di meglio. Ma poi?
Quando in giro si è cominciato a parlare di Whiplash come di un gran bel film - e non c'è dubbio che lo sia - molti musicisti si sono premurati di informarci che il mondo della musica non è così atroce e competitivo, e soprattutto il jazz non è così - lo stesso Bird non veniva preso a piatti in testa se sbagliava un assolo, come racconta per giustificarsi il demoniaco maestro di musica del film. Era una polemica tutto sommato prevedibile, anche se già un po' surreale. Probabilmente anche ai tempi dello Squalo qualche ittiologo si sentì il dovere di scrivere ai giornali che i pescecani non attaccavano i motoscafi.
In Italia la discussione è scesa a livelli avvilenti. Goffredo Fofi su Internazionale lo ha definito "una favola per gonzi di destra", anche se ha ammesso che "tecnicamente, è un buon film". Però antipatico, perché racconterebbe "per l’ennesima volta la smaniosa logica americana della lotta per diventare qualcuno, per emergere, nella distinzione mostruosa che quella cultura fa tra winner e losers". È un'analisi un po' semplice: forse se per affrontare la cultura USA si deponesse ogni tanto il modellino "maggioritario e a tratti totalitario", e ci si addentrasse un po' nei dettagli, si potrebbe notare nel film lo scontro tra due concezioni educative: il cosiddetto "self-esteem movement", che ha portato le scuole americane a distribuire medagliette per ogni "buon lavoro" svolto, e il fantasma di un approccio diverso, militaresco e pseudo-darwiniano, che più che a scuola vediamo trionfare nei posti di lavoro e soprattutto nei talent show.
Che parlino di musica o di ristorazione, il motivo per cui guardiamo i talent è il motivo per cui ci siamo fatti ipnotizzare dal maestro di Whiplash: i professori sadici sono terribilmente sexy. Vederli tormentare le loro vittime è uno spettacolo per cui paghiamo decoder e biglietti di cinema. Forse ci piacciono proprio perché sono all'opposto dei nostri ex prof, empatici e condiscendenti, sempre pronti ad applaudire ogni nostro minimo sforzo. Noi poi abbiamo sempre la sensazione di non essere diventati quei personaggi di successo che i nostri maestri vedevano in noi, e a quel punto forse ce la prendiamo con loro, troppo buoni, troppo illusi, e rimpiangiamo di non avere avuto caporali che ci prendessero a ceffoni in pubblico. È un'ipotesi come un'altra.
In ogni caso, non c'è dubbio che certe società siano più competitive di altre: e se quella americana lo è, perché un film non dovrebbe raccontarla? Fofi però sembra non aver fatto caso al distacco critico con cui Chazelle guarda al protagonista del film e alla sua ossessione per la batteria. Un "winner"? Soltanto perché [spoiler] alla fine del film riesce a suonare davanti al pubblico un assolo di Buddy Rich, a portare a termine il suo numero da pappagallino ammaestrato? E poi che succederà? Nei film di "winner e losers", di solito parte la fanfara e il pugile suonato ma glorioso chiama il nome della moglie o fidanzata. Il batterista di Whiplash non ha la fidanzata, non ha un amico, ha un papà comprensivo che disprezza e un maestro stronzo che difficilmente lavorerà più con lui. Sul serio la sua è una success story? Sarebbe come prendere il caporale di Full Metal Jacket per un personaggio di propaganda... ah, ma Fofi lo fa.
"Il meccanismo è lo stesso dei film di guerra con il sergente cattivo e il soldato debole che grazie a lui si fa forte (e spietato) e “ce la fa”. Kubrick ne mostrò un prototipo in Full metal jacket".
Il film in cui il soldato debole [SPOILER!] si tira un colpo in testa prima ancora di arrivare al fronte, non prima di aver fatto fuori anche il sergente cattivo... uhm, forse Fofi ha preso un abbaglio. D'altronde capita ai migliori.
Proprio mentre sto archiviando Fofi, ecco piombare da Wired un articolo che definisce Whiplash, mettetevi seduti, "ideologicamente sbagliato".
Il tizio che scrive questa roba (“Sì perché alla fine, più che l’opera d’arte in sé, il raggiungimento della perfezione espressiva, sembra che il protagonista, il giovane batterista, abbia come obiettivo quello di essere il migliore e basta. E questa non è la pulsione di una personalità genuinamente ispirata quanto patologicamente ambiziosa“)… il tizio che scrive questa roba, dicevo, ha appuntato in petto la medaglietta di “Staff Editor della Sezione Idee” di Wired. Purtroppo essa non riesce a trattenere neanche un milligrammo del timore reverenziale che provo per il maestro Fofi, sicché la mia prima reazione sarebbe piantarmi davanti a questo Staff Editor e dirgli: ma cosa hai scritto, ma ti rendi conto? Nel 2015? “Ideologicamente sbagliato”? Sei un viaggiatore nel tempo? Una Guardia Rossa ibernata nel ’69 e scongelata in circostanze da chiarire? Lo sai cosa vuol dire ideologia? Credi che ce ne siano di giuste e di sbagliate? Sapresti definire la tua ideologia? Ammesso che tu ne sia in grado, pensi che al lettore medio di Wired fotta sega della tua ideologia? Eh? Eh?
Il problema è che la follia di Whiplash, come dicevo, non è sentita, ma parte di un prodotto ben confezionato e che alla fine lascia non dico delusi, ma freddi. Non aggiunge nulla, nel cuore dello spettatore, su quello che già sapeva della vita.
Grazie, ma basta cazzate adesso.
No, ma buon lavoro, davvero. Signor Staff Editor Sezione Idee, probabilmente della vita ne sai già troppo per farti insegnare qualcosa da Whiplash, però… ti aspettavi di uscire “caldo” dalla storia di un ragazzo che per suonare meglio di chiunque altro rinuncia agli affetti, al rispetto dei compagni, alla salute, a ogni altra cosa? Non ti ha assalito nemmeno per un istante il sospetto che il film non sia una success story ma la sua parodia? che il “freddo” di cui tu parli sia l’esatta sensazione che Chazelle voleva farti sentire, dopo averti fatto ascoltare e soffrire un monumentale, inutilissimo assolo di batteria di nove minuti? Ma a te piacciono gli assoli di batteria? Li ascolti mai? Non li ascolta nessuno. Secondo alcune teorie hanno inventato il tasto skip apposta. Questo è “l’opera d’arte in sé?” “il raggiungimento della perfezione espressiva”?
Whiplash non è un film particolarmente originale, ma ci si domanda se poteva essere migliore di così, come certe partiture di jazz dell’età dell’oro. Ha semplicemente il ritmo giusto; non c’è una nota messa lì senza un motivo, senza che prima o poi sia ripresa nel tema principale. Finché dura non esiste nient’altro: un attimo dopo cominci a pensare: ma cosa ho ascoltato? Non è un raccontino a tema, per quanto Fofi e i suoi allievi si arrangino a vederlo così. È un film che ti pone delle domande: sul serio vorresti un maestro che tirasse fuori la bestia che hai in te? Sei sicuro che sarai felice, dopo? La risposta tocca a noi, ma non dobbiamo per forza portarcene una già pronta da casa.
Whiplash si può finalmente vedere a Cuneo, alla Sala Lantieri, venerdì sabato e domenica alle 21. Speriamo che si senta bene.
The Imitation Game, regia di Morten Tyldum. Oscar per la migliore sceneggiatura originale.
Più che un film a tesi, The Imitation Game è un film a suggestione: Alan Turing avrebbe passato il test di Turing? L'inventore del computer non era in un qualche modo un computer anch'esso, un "autistico ad alto funzionamento"? Dietro alla sua passione per la crittografia, non covava forse la frustrazione di non riuscire a decodificare i normali messaggi degli uomini? Tutto ciò che della biografia dello scienziato non si concilia con questa suggestione viene completamente eliminato o stravolto: persino la sua omosessualità, tema tutt'altro che marginale, è sacrificato in nome della necessità di trasformare Turing in un automa incapace di relazionarsi con gli umani. Gli autistici tendono a compensare la carenza di interlocutori inventandosi amici immaginari, e quindi Turing deve battezzare il computatore col nome del suo unico amico, “Cristopher” – non risulta da nessuna biografia, per tutti il computatore era noto col nome “The Bombe”. Non era un amico immaginario, né il perduto amore, né il figlio impossibile: era un progetto messo in piedi già dai servizi polacchi, che Turing riprese e reinterpretò genialmente. Nel frattempo seguì altri progetti, ma sui manuali c’è scritto che gli Asperger si concentrano soltanto su un progetto alla volta, e quindi l’esperienza di Turing alla base di Bletchley Park viene semplificata: addirittura esiste un solo computatore (in realtà ne vennero costruiti centinaia). La scena dell'illuminazione al pub è un classico esempio di come anche un buon biopic possa per esigenze drammatiche offendere l'intelligenza dei suoi spettatori: l'idea che Turing afferra in quell'occasione (bisogna trovare una frase ricorrente!) è in sostanza l'abc della crittografia.
La teoria del tutto, regia di James Marsh. Oscar al migliore attore protagonista (Eddie Redmayne)
Se The Imitation Game si sforza di trasformare un uomo in un calcolatore, La teoria del tutto può irritare per il motivo opposto: hai uno dei più grandi fisici teorici di tutti i tempi, e decidi di raccontarne solo la vita sentimentale? Per di più, affidandoti alla biografia di un'ex moglie - chi mai appalterebbe il proprio biopic a un'ex moglie? A Stephen Hawking è successo anche questo, e pare che il risultato gli sia persino piaciuto. Ci troviamo dunque davanti a un film accurato? No, pare di no. La teoria del tutto non solo preferisce alle equazioni i sentimenti, ma anche di questi ci dà una versione edulcorata, soprattutto ai danni di Jane (che è forse il motivo per cui Stephan ne è rimasto contento). Del tutto omessa è la carriera accademica di quest'ultima. Completamente stravolti, rispetto al testo, sia il primo incontro che l'episodio della riconciliazione finale.
Selma, regia di Ava DuVernay. Oscar alla miglior canzone (Glory).
Rispetto ad altri film degli ultimi anni, Selma sembra insolitamente fedele alla storia che racconta, anche a scapito della riuscita spettacolare. Raramente si era visto un leader così amletico e scoraggiato come il Martin Luther King di Oyelowo, proprio nel film che dovrebbe cantarne il coraggio e la determinazione. La principale critica che viene mossa agli sceneggiatori riguarda la figura del presidente Johnson, che da saggio politico bianco invano cerca di convincere MLK a un atteggiamento più prudente e attendista. Ai collaboratori di Johnson, neanche a farlo apposta, risulta il contrario: il presidente e MLK stavano lavorando assieme, anzi MLK organizzava le sue marce su diretta indicazione di Johnson. Resta il fatto che nel medesimo periodo la FBI stalkerava casa King con lettere e telefonate minatorie. Un'iniziativa di Hoover, o l'ordine partiva da più in alto? Può darsi che i tentennamenti del personaggio Johnson nascano da un'esigenza narrativa: è quasi l'unico uomo bianco del film dotato di una coscienza. Gli altri odiano senza nemmeno ricordare bene più il perché. Se non ci fosse Johnson, sospeso tra Hoover e MLK, non ci sarebbe un vero conflitto, un vero campo di battaglia.
Shaun - Vita da pecora: Il film! (Richard Starzak, Mark Burton, 2015)
Quando eravamo cuccioli ci innamoravamo di tutto, la felicità era a portata di zampa come un osso o un ciuffo d'erba. Quando eravamo cuccioli tutto era perfetto e indistruttibile come in un cartone animato di plastilina. Ma poi il cartone animato è andato avanti, le puntate sono diventate stagioni, le stagioni sono volate, e adesso ci costa così fatica anche soltanto recitare la sigla. Come ogni mattino il gallo canterà, il Fattore ti schiaccerà il naso con la porta, e insieme verrete a scortarci verso un altro giorno inutile. Se solo esistesse un altrove dove poter scappare. Il primo colpo di genio bussa a film appena iniziato: la sigla del cartone televisivo (che ogni habitué di Rai Yoyo non può non conoscere a memoria) destrutturata e interpretata dai suoi protagonisti con sempre minor convinzione. La tv come recinto da evadere, il cinema come spazio di fuga. Ma attente, pecorelle: oltre il recinto potrebbe attendervi una gabbia anche peggiore...
Me and the farmer like brothers, like sisters
Comparsa per la prima volta in un episodio di Wallace e Gromit, la pecora Shaun è ormai il personaggio di maggior successo della Aardman Animations: ma se il vostro amore per gli studios di Bristol e per la loro stopmotion fuori dal tempo si è sviluppato al cinema, grazie a Galline in fuga o la Maledizione del Coniglio Mannaro, è possibilissimo che la pecora fin qui vi sia sfuggita. Chi invece per motivi famigliari si ritrova spesso il telecomando bloccato sul 43, guarda a Shaun con reverenza e gratitudine: è senz'altro il personaggio meno infantile di tutto il palinsesto. In effetti non è ben chiaro che ci faccia tra Peppa Pig e i Teletubbies. Shaun non è soltanto pensato per un pubblico più grandicello: è proprio la sua comicità a non entrare negli stampini con cui si produce oggi l'intrattenimento per le fasce protette.
I cartoni di oggi sono in sostanza tutti sit-com in miniatura: i personaggi, spesso animali antropomorfi, sono inseriti in un contesto sociale modellato sulla famiglia contemporanea, hanno amici con cui litigano e fanno la pace e nel giro di tre-quattro minuti commettono qualche marachella e imparano la lezione. I migliori - quasi sempre inglesi, come Peppa - aggiungono al modello uno humour che li rende più tollerabili ai genitori, ma si guardano bene dal sovvertire la formula. Shaun guarda semplicemente altrove, al surrealismo comico dei Looney Tunes e ancora più indietro. Shaun non parla; vive nel mondo muto e pieno di rumori delle comiche in bianco e nero. Non è un bambino, è una pecora geniale in un mondo di adulti carichi di difetti e frustrazioni. In una delle mie puntate preferite, le pecore si travestono per salvare la festa in maschera organizzata dal Fattore. In qualche modo la cosa funziona, il Fattore balla e beve, e dopo un po’ comincia a provarci con la pecora più grossa. Esatto, lo fanno vedere su Rai Yoyo più o meno verso l’ora di cena. Pensate sia il caso di avvertirli?
Il film porta le pecore nella Grande Città – una meravigliosa metropoli di plastilina, tentacolare e familiare a un tempo – e offre anche al Fattore una mezza giornata per riscattarsi dalla mediocrità. Il tema dell’evasione si conferma essere uno dei più congeniali per gli animatori della Aardman: i pochi minuti che Shaun e il cane Blitzer trascorrono nella cella dell’accalappia-animali comunicano un senso di angoscia che non è comune trovare in un prodotto per bambini.
L’equivoco è sempre lo stesso: Shaun non è esattamente un prodotto per bambini, ma probabilmente se alla Rai se ne fossero accorti in Italia nessuno lo conoscerebbe, e oggi non sarebbe nemmeno nelle sale. In realtà un po’ di comicità vecchio stile ai bambini non può che far bene – certo, rinunciare ai dialoghi significa privarsi dello humour di altre produzioni Aardman, ma la pecora è comunque divertentissima e gli ottanta minuti volano. Verso la fine accade il solito misfatto: smettiamo di ammirare ogni fotogramma per quello che è, un capolavoro di tecnica artigianale, e ci concentriamo sull’azione, dando per scontato che quelle forme di plastilina siano vive e dotate di passioni e sentimenti. Poi le luci si accendono, parte la sigla: la grande fuga è finita.
Shaun è al Multisala Impero di Bra (20:20), all’Italia di Saluzzo (17:00), al Cinecittà di Savigliano (20:20). Beeeeeeeh!
Essere un cretino, almeno per un giorno. Non dirmi che non ne hai mai avuto voglia. Guardati intorno. In tv c'è Sanremo, e non ti piace una canzone. Al cinema c'è 50 sfumature di grigio, ti annoia già dal titolo. Non dirmi che non ci hai mai pensato: se stasera fossi un cretino allora sì che mi divertirei. Riderei di qualsiasi cosa, mi accoppierei con qualsiasi cosa; guiderei un macchinone in mezzo alla carreggiata perché sì; sarei felice. Magari non tutta la vita, ma se ci fosse una pillola e avesse un effetto di due ore, non la prenderesti?
Italiano medio è il film non troppo deludente di Maccio Capatonda, un comico che negli ultimi anni ha rischiato parecchio tra youtube tv e radio, oscillando tra l'abisso di non essere capito e quello di finire a lavorare allo zoo di 105. Non è poi così strano che dopo tanti rischi, nel momento di portare il suo mondo al cinema, abbia prevalso una certa prudenza: se Italiano medio ha un difetto è proprio di essere esattamente il film di Maccio Capatonda che un po' tutti ci aspettavamo. Non poteva mancare Herbert Ballerina, ovviamente c'è Ivo Avido, e tutta la compagnia di giro che rafforza la sensazione di trovarsi davanti a una puntata speciale di Mario, un po' meno folle di quelle che vanno in rotazione su Mtv. Del resto, avercene. Cioè non è che la situazione del cinema italiano (e non solo di quello) sia tale da farci sputare sopra a una puntata speciale di Mario. Il buon successo di Italiano medio non va solo letto in assoluto, ma anche confrontato con quello delle solite-commedie-italiane che stanno uscendo in questo stesso periodo e che scompaiono dai radar già alla seconda settimana. Maccio è andato molto meglio di Belen, questo forse un mese fa non era prevedibile - in realtà non ho niente contro Belen attrice, ma se in giro c'è un film che mentre ti fa ridere ti piazza qualche riferimento a Franzen o Palahniuk, non è una buona notizia?
Italiano medio è anche un compendio di tutto quello che Maccio ha fatto fin qui. Com'è noto, il film sviluppa le premesse di uno dei finti trailer che lo fecero conoscere negli ultimi anni di Mai dire Goal. Il trailer in questione per la verità è un po' più tardo (2012), ma il film che ne scaturisce potrebbe essere stato scritto anche dieci anni fa (continua su +eventi!) per come inquadra una serie di bersagli che oggi sono già un po' sfumati all'orizzonte: i calciatori scemi e le veline, i tronisti e i privé. Come già in Mario, Maccio qui dà libero sfogo a un antiberlusconismo viscerale come al cinema forse non abbiamo mai visto: l'arrivo della tv commerciale è considerato alla stregua della cacciata dal paradiso terrestre. La doppia identità del suo eroe, Giulio Verme, è un risultato di quello choc primigenio: da una parte un neobarbaro lobotomizzato, dall'altra un moralista sterile incapace di qualsiasi attrito con la realtà. Già questa piccola analisi, buttata lì in un film che non si vergogna nemmeno un istante di far ridere con scoregge e giochi di parole, sta qualche metro sopra alla capacità di autoanalisi delle commedie sofisticate che si fanno giù a Roma, dove essere berlusconiani o anti è semplicemente una questione di status, molto spesso ereditato o ricevuto in dote. Maccio è più viscerale, ma anche più interessato al concetto del "berlusconi in me": si capisce che è alla ricerca di una sintesi, e che è molto scettico sulla possibilità di raggiungerla (in questo senso il finale è sì, sorprendente, e ti riconcilia col senso del film). Forse ha qualche compromesso da rimproverarsi (lavora per uno dei programmi radiofonici più trucidi, gira film con la Medusa). Nel frattempo ti abbozza anche un'idea del grillismo, la solidarietà di un gruppo di freak che nel deserto sociale si ritrova insieme contro tutto senza nemmeno bene ricordarsi il perché. Pacifisti violenti, complottisti creativi, imbecilli che ci fanno sentire intelligenti, ex vip qualunque non rassegnati all'oblio, non manca nessuno. Non so se Italiano medio farà ancora ridere tra vent'anni, ma sicuramente tornerà utile per farci ricordare come ci sentivamo. Circondati da cretini, invidiosi dei loro trionfi, disperatamente disposti a dialogare con loro.
Alla terza settimana, Italiano medio è ancora al Cinelandia di Borgo San Dalmazzo (sabato solo alle 22:40; da domenica a venerdì alle 22:40 ma anche alle 20:30).
Questa per esempio non si sarebbe potuta mai fare,
perché è troppo scura - non c'erano luci se non
quelle su Broadway
Birdman, o l'imprevedibile virtù dell'ignoranza (Alejandro González Iñárritu, 2014)
Ma guarda che cesso di posto. Chissà se qualcuno viene mai a spolverare questo buco di merda. Come siamo arrivati fin qui, Alejandro?
Noi non apparteniamo a questo posto. Perché non siamo a LA a bere ginger ale su un terrazzo mentre leggiamo copioni drammatici sui destini incrociati di persone qualsiasi? Cristo Alejandro, c'era una sola cosa al mondo che sapevi fare bene, e te la stai fottendo, lo sai vero? Ti stai fottendo la carriera, sapresti dirmi per cosa esattamente? "Mr Iñárritu quando vuole uscire siamo pronti a girare".
Non ascoltarli. Lo sai che mentono. Non sono pronti e lo sai benissimo. Non saranno mai pronti per questo film, perché questo film è impossibile da girare e tu lo sai, come lo so io. Chi ti credi di essere, alla fine?
Non è che non apprezzi, è che la cosa meritava
secondo me un maggiore approfondimento,
magari uno spin off, una serie tv in due o tre stagioni.
Senti, io ti conosco da così tanto tempo, e te lo devo proprio dire. Sono l'unico che ti vuole bene qui dentro. L'unico. Gli altri hanno paura di te, o sperano in te come un naufrago spera in un canotto anche se ha già visto che è forato. Ti diranno tutti che sta andando tutto bene, che il film funziona, che l'idea è geniale, e non è vero un cazzo. L'idea è irrealizzabile e loro hanno una paura fottuta di sbagliare. Il tuo protagonista non fa una parte importante da vent'anni, e anche a quel tempo usava una maschera. Ma almeno è riuscita a tenersela per un sequel. Sempre meglio di quello giovane, che non è più giovane da un pezzo, ed riuscito a farsi cacciare a calci pure dall'universo cinematico Marvel, ti rendi conto? Sai cos'ha fatto di importante negli ultimi dieci anni? Il re lebbroso, anche lui rigorosamente mascherato. Lo capisci che sono fantasmi, vero? Gente di cui ci stiamo tutti dimenticando il volto? È con questa gente che ti stai riducendo a lavorare, Cristo, tu hai ancora il numero di Brad Pitt in rubrica e invece lavori con Naomi Watts. Sai cosa faceva Naomi Watts nell'ultimo suo film? La nonna. Ora dimmi di chi è l'idea di farle baciare Andrea Riseborough, la cosa più gratuita che ti ho mai visto girare - coraggio, dimmi che non l'hai fatto per il panico, per avere almeno qualcosa di stuzzicante da mettere nei trailer, dimmi che non hai piazzato un bacio lesbo inutile perché hai la paura fottuta che questo film non se lo guardino nemmeno i critici in copia di valutazione (continua su +eventi!)
Ma cosa c’è che non va, Alejandro? Con Biutiful hai incassato un quinto di Babel, sarà questo? Non ha nessuna importanza finché hai ancora un piede a Hollywood. Ma quel piede devi tenercelo sul serio. Devi fare le cose che sai fare, le cose che la gente si aspetta. Destini incrociati, montaggi serrati, la gente vuole il dramma ma soprattutto vuole saltare di scena in scena senza troppe menate. Sono bambini iperattivi, anche se si danno arie d’adulti. Si stancano subito, non lo vedi che a metà proiezione si mettono a twittare? Cosa pretendi da loro, un piano sequenza di due ore? chi cazzo ti credi di essere, Sokurov?
Signori qui se qualcuno sbaglia una battuta tocca rifare una ripresa di dieci minuti. Perché non ti rassegni a mettere la maschera che ti sei fatto? La gente vuole quella. La gente ha bisogno di maschere, sono comode. Si riconoscono da lontano. Perché vuoi provare a fare cose che nessuno sa ancora come fare? Cosa ti porta verso il disastro esattamente? Non puoi accettare di essere Iñárritu, il regista messicano dallo stile abbastanza riconoscibile? Stai girando un film per chi, esattamente, qualche milione di palati raffinati in tutto il mondo la cui sola preoccupazione è dove andranno a mangiare dopo la proiezione? Credi che a qualcuno di loro gliene fotta realmente qualcosa di te? E diciamocelo in faccia, Alejandro, non lo fai per amore dell’arte. Lo fai perché vorresti essere nei manuali di Storia del cinema, vorresti essere davvero Qualcuno. Come se non ci fosse là fuori un mondo pieno di gente che lotta all’ultimo sangue per essere Qualcuno – ma per te nemmeno esistono. Accadono cose continuamente, in luoghi che tu sei fiero di ignorare, e in quei luoghi tu sei già stato completamente dimenticato. Stai facendo tutto questo perché l’idea di non importare più a nessuno ti spaventa a morte, come chiunque altro, e sai cosa? Hai ragione. Non importi più a nessuno. Non sei nemmeno qui. Non sei che un puntino minuscolo sull’ultimo foglio di carta igienica su cui è tratteggiata la storia dell’umanità. Se pensi che il tuo suicidio professionale sia uno spettacolo artisticamente rilevante, perché non vai davanti al tuo pubblico di figuranti e non ti spari direttamente un colpo in testa?
“Mr Iñárritu, mi ha sentito?”.
“Arrivo, arrivo”. (Birdman era un film impossibile da fare, finché Iñárritu e tutti gli altri non lo ha fatto e adesso è uno dei più bei film degli ultimi anni, che vale assolutamente la pena di andare a guardare, stasera, al cinema Fiamma di Cuneo alle 21:10).
Still Alice (Richard Glatzer, Wash Westmoreland, 2014)
Dici che sei mia figlia e sei un'attrice, uhm, la seconda mi lascia molto perplessa.
Una volta ho letto di un paesino in Olanda che in realtà non è un paesino vero, è un'enorme casa di cura per malati di quella malattia, quella che ti mangia i ricordi. Poche cose mi fanno più paura. All'inizio sembri soltanto un po' più sbadato del solito. Ti distrai, cambi argomento e sembra quasi che lo fai apposta. A volte lo fai apposta per non far capire che non ti ricordi più di che argomento stai parlando. La tua mente elabora strategie per tenerti in sella anche se non reggi più il ritmo di una banale conversazione. Finché a un certo punto non ti ricordi più esattamente con chi stai conversando, chi è quella brava giovane? Qualcuno ti ricorda che è tua figlia. Ah. Ma certo, naturalmente.
Still Alice è un film misurato, mettiamola così. Descrive un inferno dal vestibolo. D'altro canto, qualcuno ha davvero voglia di entrare a guardare com'è fatto l'inferno? La persona a te più cara potrebbe svegliarti nel cuore della notte e non riconoscerti. Tutte le notti. Quanti ricordi devi perdere prima di non essere più te stesso? Una volta ho letto di un paesino in Olanda, appunto, che in realtà non è un paesino vero, ma un'enorme casa di cura. Telecamere in tutte le strade. E un sacco di personale di servizio - giardinieri, vigili urbani - che in realtà sono dottori e infermieri. È una storia che mi ha scosso perché, effettivamente, come posso essere sicuro di non vivere in un posto del genere già in questo momento? E come puoi esserne sicuro tu che mi leggi? Ti ricordi cosa stavi facendo cinque minuti fa? A cosa stavi pensando un attimo prima di cliccare qui sopra?
D'altro canto come faccio a essere sicuro che tu esisti. Se io vivessi laggiù mi avrebbero tolto internet da un pezzo. Però avrei ancora l'illusione di scrivere, magari su una rete chiusa al pubblico, con qualche infermiere che viene a complimentarsi nei commenti. Probabilmente scriverei lo stesso pezzo all'infinito, senza mai pubblicarlo. Oppure lo pubblicherei una dozzina di volte, con qualche variazione. Di cosa stavamo parlando?
Still Alice (Richard Glatzer, Wash Westmoreland, 2014)
Mia figlia d'accordo, ma un'attice?
Siamo seri, su.
Quanti ricordi puoi perdere prima di smettere di essere te stessa? Still Alice è un film misurato, mettiamola così. Il tema - una delle malattie più spaventose - si prestava a tutta una serie di possibilità cinematografiche che i registi hanno scartato, optando quasi sempre per le soluzioni più banali (i ricordi sono girati, indovinate, in super8). In sostanza è un film dove Julianne Moore - ovviamente bravissima - perde la memoria. Alec Baldwin rimane forse un po' troppo ingessato nel ruolo del marito che a un certo punto non ce la fa più. Kristen Stewart invece è la figlia di Alice, un'attrice fallita - la sua migliore interpretazione, ah ah ah - no, in realtà almeno nella versione doppiata i suoi monologhi sono un po' imbarazzanti. Molte scene sono efficaci nell'esprimere un orrore quotidiano che è più spaventoso di quello di tanti horror contemporanei, ma alla fine la sensazione è che i registi si siano contentati di descrivere un inferno dal vestibolo. I malati possono comportarsi in modo molto più osceno di così. Possono picchiarti perché nel cuore della notte si svegliano e non ti riconoscono. Possono prendere un figlio per un padre, un nipote per un marito. I malati di quella malattia.
Quella che mi fa più paura di ogni altra al mondo.
Quant'era piccolo il Manitoba all'inizio
C'è un posto in Olanda di cui ho sentito parlare, dove i pazienti sono convinti di vivere una vita normale. Hanno le loro case, i loro amici. Ma le case sono quartieri di una clinica, gli amici sono altri pazienti, e i dottori sono giardinieri e vigili travestiti. Pare che vivano meglio così, più a lungo e con meno medicine. Mi domando se ci possa essere internet, in un posto così. Magari una rete interna. In effetti i primi stadi della malattia somigliano in un qualche modo alla nostra esperienza on line. Tu accendi per controllare la data di scadenza del bollo e, wow, guarda che video di gattini! Postato dalla Columbia Britannica. Che poi tra parentesi dov'è? In Canada credo, fammi controllare - giusto. Ma perché si chiama così? Ah, ma a un certo punto anche gli Stati Uniti dovevano chiamarsi "Columbia", ecco, questo non lo sapevo! Un attimo.
In questi casi a volte lambiccarsi è inutile, meglio andare a controllare la cronologia. Dunque. Kristen Stewart?
Perché sono andato a controllare la bio di Kristen Stewart? Non mi piace nemmeno.
Ha sempre quel broncetto che - no, un momento. Diamo un'occhiata all'ultimo film che ha fatto. Ah, certo, naturalmente.
Posso anche credere che tu sia mia figlia, ma un'attrice la so ancora riconoscere che ti credi
Still Alice (Richard Glatzer, Wash Westmoreland, 2014)
Quanti ricordi puoi perdere prima di smettere di essere te stessa? In uno dei momenti più tranquillamente atroci del film - il film più spaventoso che ho intenzione di vedere quest'anno - il dottore spiega ad Alice che i pazienti intellettuali rendono più difficile il lavoro ai dottori. La memoria se ne va lo stesso, più o meno alla stessa velocità, ma la mente dell'intellettuale conosce più trucchi per tenersi in sella. Forse la cultura, l'istruzione, in fin della fiera consistono in questo: un repertorio di trucchi per ricordare meglio le cose. Se hai studiato sai come girare intorno a un argomento all'infinito. Dopo un po' la gente penserà che ci stai scherzando su. Tu stesso penserai che ci stai scherzando su, e che se solo volessi potresti ricordare benissimo quella parola. Quella data. Quel volto. Quel ricordo.
È un po' come quando ti perdi su internet - esiste un posto in Olanda dove i pazienti vivono in una clinica a forma di paesino - beh, immagino che passino il tempo a discutere un po' come noi discutiamo su Facebook, di tutto e di niente. Non si sa bene chi abbia cominciato la discussione, ogni tanto in cima compare un video di gatti e ci mettiamo tutti a guardarlo, poi ci rimettiamo a parlare di qualcosa o di qualcos'altro ma senza mai concludere nulla, e del resto che dovremmo concludere? Non ci ricordiamo neanche bene come siamo arrivati qui, e però adesso ci siamo e almeno non stiamo picchiando qualche famigliare perché non lo riconosciamo più.
Still Alice si sporge sul bordo dell'inferno, ma non guarda troppo a fondo e forse è un bene. Non c'è niente di davvero interessante laggiù. L'aspetto realmente spaventoso della malattia è il suo primo manifestarsi, con una dimenticanza occasionale, un lapsus, una parola che hai sulla punta della lingua. E allora controlli internet - uh, guarda, c'è un video di cani che interrompono i padroni mentre fanno yoga. Sono buffi.
D'altro canto se continuo a guardare video su internet la recensione quando la scriverò?
La recensione di cosa, poi? Devo ancora guardare il film.
Scusate, è un periodo che sono così distratto - facciamo che se ne riparla domani.
(Mentre cercavo di scrivere la recensione in effetti Still Alice è sparito dalle sale di Cuneo. Lo trovate ancora a Moncalieri alle 19:50).
27 gennaio - Giorno della memoria,"al fine di ricordare la Shoah (sterminio del popolo ebraico), le leggi razziali, la persecuzione italiana dei cittadini ebrei, gli italiani che hanno subìto la deportazione, la prigionia, la morte, nonché coloro che, anche in campi e schieramenti diversi, si sono opposti al progetto di sterminio, ed a rischio della propria vita hanno salvato altre vite e protetto i perseguitati" (legge 211/2000).
Una storia del genere capita forse tutti gli anni: quest'anno è capitata a Magenta (MI). Una mostra dal discutibile titolo "Shoah di ieri shoah di oggi" è stata prima patrocinata dal comune, poi precipitosamente annullata quando esponenti della comunità ebraica hanno fatto notare che esporre foto dei campi di sterminio tedeschi accanto a disegni dei bambini di Gaza avrebbe potuto creare "confusione su due piani storici e di consistenza differenti” (Daniele Cohen, assessore alla cultura della Comunità ebraica di Milano). Nel frattempo la proprietaria della libreria che aveva promosso la mostra si dichiara scossa dalle mail di odio ricevute.
Il Giorno della memoria si celebra in Italia ormai da quindici anni. Come tutte le ricorrenze, ha generato in breve tempo i suoi automatismi: la Shoah si è fatta spazio nei palinsesti tv e nei manuali scolastici; persino la programmazione dei cinema ne risente. Chi passa quotidianamente davanti alla vetrina di una libreria conosce la sensazione: a Natale renne e uomini di neve, un mese dopo stelle di David e filo spinato. Ha persino un senso: dopo la festa della bontà obbligatoria, il ricordo di quanto possiamo essere crudeli. De Bortoli qualche anno fa cominciava a sentire una certa stanchezza, avvertiva "un pericoloso scivolamento nella retorica o nella ritualità dei ricordi". Ma retorica e ritualità sono entro un certo livello inevitabili, quando si decide di fissare un evento sul calendario per tutti gli anni a venire. E funzionano: per ogni De Bortoli che si stanca di leggere o scrivere il solito temino, ci sono nuove classi che ogni tanto si affacciano sui banchi di scuola, e di una certa dose di retorica e di ritualità hanno bisogno.
Allo stesso tempo, retorica e ritualità non sono i migliori custodi dei ricordi che loro affidiamo. Così come il Natale non è nato festa dei bambini, e di renne volanti per secoli non si è parlato, anche la giornata della memoria tra un secolo non sarà quella che oggi immaginiamo. Credo che sia inevitabile che col tempo certe narrazioni più rassicuranti, come La vita è bella o Il bambino col pigiama a righe, scacceranno le meno concilianti e più crude. Per ora, si registra il tentativo di respingere le interpretazioni 'attualizzanti'. Mescolare il passato col presente, suggerire come la libraia di Magenta che "i bambini, ebrei e palestinesi, hanno gli stessi sogni", è sbagliato. Come dichiara il suo vicesindaco: "Promuovere quella mostra è stato un grave errore, ci scusiamo eliminandola dal programma. Parlare dei bambini palestinesi il 27 gennaio non è opportuno in quanto è un dramma diverso dal punto di vista storico e di dimensione".
È un'opinione che tutto sommato condivido: sono convinto che il paragone sballato tra territori occupati e lager nazisti non abbia mai giovato alla causa palestinese. Purtroppo è un paragone che non si può evitare. Ovvero: io posso rispondere di me stesso. Ma non posso evitare che qualcun altro lo faccia (la libertà di espressione, ricordate?) È un paragone sbagliato, proprio dal punto di vista storico e "di dimensione": ma è un paragone inevitabile, com'è inevitabile confondere parole molto simili dal significato anche diverso. Ebrei sterminati in un recinto, israeliani che alzano un recinto. È sbagliato accostare le due immagini, anche se sono simili. È sbagliato istituire correlazioni causa-effetto, ma il nostro cervello funziona così: vede cose simili e cerca di capire se una è la causa dell'altra. Dobbiamo chiedere al nostro cervello di sospendere un attimo la cosa, per favore, perché è controproducente. Una volta sistemata la questione col nostro cervello, dovremmo anche provare a convincere quello degli altri: da bravi, "parlare dei bambini palestinesi il 27 gennaio non è opportuno". Tutti gli altri giorni va bene: il 27 magari evitate. Non è un giorno come gli altri.
Io non credo che la libraia di Magenta sia antisemita, come le hanno scritto a quanto pare in tanti. Mi chiedo spesso a che serva l'etichetta di antisemitismo, se la si banalizza così. Si minaccia in un qualche modo il popolo ebraico esponendo disegni di bambini di Gaza? Si lede l'immagine di Israele e quindi la sua economia e quindi si congiura contro la sopravvivenza del suo popolo? C'è qualcuno che la pensa seriamente così? E se invece esporre disegni non danneggia in nessun modo concreto né Israele né l'ebraismo, cos'è esattamente questo "antisemitismo" che si esprimerebbe solo in pensieri e non in azioni, uno psicoreato? (continua sul Post)
Secondo me la libraia non ha fatto che applicare un principio sul quale veniamo martellati da quindici anni: chi non ha memoria non ha futuro, chi non ricorda il passato è condannato a riviverlo ecc.. Ovvero: ricordare il passato ci dovrebbe servire a interpretare il presente e modificarlo. Cercare a Gaza i lager moderni è un’operazione ingenua, ma in un qualche modo automatica: il risultato del modo in cui insegniamo e studiamo la Storia sin dalla più tenera età. La insegniamo e studiamo come museo degli errori, sollecitando continuamente l’alunno a istituire paragoni con la sua contemporaneità, a domandarsi: tutto questo a che mi serve? Può capitare anche a me? Posso fare in modo che non mi ricapiti? Così, di fronte alla Shoah, scatta automatica la domanda: esistono Shoah oggi? Dove esistono? Come posso combatterle?
A questo punto scatta una obiezione, anche questa ormai automatica: se proprio si devono cercare situazioni paragonabili alla Shoah, perché proprio Gaza? Con tutto il mondo a disposizione? Perché i bambini di Gaza possono esporre in una libreria italiani e di quelli che a pochi chilometri di distanza vivono la tragedia della Siria non ci interessiamo? Giusto. Ma l’obiezione si può anche ribaltare: se la libraia avesse esposto disegni di Kobane invece che di Gaza, la comunità ebraica avrebbe protestato ugualmente per il paragone indebito? Voglio pensare che sì; che se è indebita la Gaza recintata e saltuariamente bombardata dagli israeliani, sarebbe indebita anche Kobane occupata dall’Isis. Che non si tratta di difendere le politiche di Israele, ma di salvare la specificità della Shoah, tragedia assoluta senza termini di paragone.
D’altra parte, a questo punto possiamo domandarci: che ce ne facciamo di una tragedia assoluta se non possiamo usarla come termine di paragone? Che senso ha ricordare l’orrore nazista se poi dobbiamo subito puntualizzare che nessun orrore sulla terra può essere paragonato a esso? O qualche orrore può essere paragonato a esso, senza che nessuno si offenda? È una domanda non retorica. La comunità ebraica è oggettivamente investita della responsabilità non leggera di decidere cosa si debba ricordare nel Giorno della Memoria e cosa no. Il paradosso per cui il 27 gennaio rischia di diventare il giorno in cui tante altre cose devono essere temporaneamente dimenticate, per evitare paragoni sbagliati, era forse prevedibile già nella lettera della legge 211/2000, che definiva la Shoah “sterminio del popolo ebraico” e prescriveva di ricordare “gli italiani che hanno subìto la deportazione, la prigionia, la morte”. Nessun cenno alle altre minoranze sterminate: omosessuali, Testimoni di Geova, zingari sono universalmente riconosciuti come vittime dei lager, ma nella legge non se ne faceva menzione. (Eppure se quindici anni fa avessimo cominciato a riflettere più seriamente su come avevamo trattato zingari e omosessuali durante la seconda guerra mondiale, forse oggi vivremmo in una società diversa. Pensate soltanto a quanti italiani sono passati nelle nostre scuole negli ultimi quindici anni).
La legge insisteva invece sulla tragedia degli ebrei e anche questo ha un senso (un senso “di dimensione”, direbbe il vicesindaco, e suona goffo ma non saprei trovare un’espressione più felice). Nessun genocidio ha le dimensioni di quello ebraico; nessun altro dimostra la geometrica efficienza dell’uomo nell’eliminare il prossimo. Nessun altro mette in gioco la facoltà cruciale della memoria, configurandosi come una sfida alla Storia che, se avessero vinto i nazisti, sarebbe stata riscritta eliminando un intero popolo. Tutto questo è eccezionale e merita che ogni anno ci fermiamo a rifletterci, anche se certi anni non ci verrà in mente niente da dire e ci affideremo alle stampelle della ritualità e della retorica. Ma il dubbio rimane: che senso ha ricordare una cosa che ci è successa, se ogni anno ci dobbiamo affrettare ad aggiungere che è stata eccezionale, non paragonabile a nulla di presente e vivo?
Oggi è il 27 e in molte scuole si tratta di scegliere che film guardare, che brano leggere. Per orientarmi in mezzo a una produzione vastissima io di solito faccio tre mucchi: c’è la Shoah delle vittime, la Shoah degli spettatori e la Shoah dei carnefici. Alcuni prodotti (Schindler’s list) sono abbastanza complessi da rientrare in qualche modo in tutti e tre. La Shoah delle vittime può essere molto cruda (il Pianista), ma conserva di solito un impianto rassicurante: lo spettatore è indotto a immedesimarsi nella vittima, il che lo riempie momentaneamente di angoscia ma lo tranquillizza sulla propria condotta: i cattivi sono gli altri. La Shoah degli spettatori è ambigua, e adatta a un pubblico un po’ più cresciuto, al quale viene chiesto di immedesimarsi in personaggi né vittime né carnefici, che a un certo punto devono fare una scelta. La scelta di solito è di opposizione al nazismo, e quindi anche queste opere si chiudono su una nota rassicurante. La Shoah dei carnefici è quasi improponibile nelle scuole, ma credo che da un certo punto in poi dovrebbe essere l’unica a interessare chi ebreo non è, e non è omosessuale o zingaro, o testimone di Geova o handicappato: il passato che rischiamo di rivivere, se non stiamo attenti, è quello in cui gente come noi non fu vittima, ma volenterosa esecutrice.
Credo che un film come quello di Spielberg andrebbe visto almeno tre volte: da ragazzini, per immedesimarsi nella bambina col cappotto o i bambini nascosti nella latrina; più in là nell’adolescenza, quando cominciamo a sentire i pruriti di Oskar Schindler per le belle ragazze e i bei vestiti (e abbiamo ancora bisogno di qualcuno che ci perdoni, se nel finale ci scioglieremo in lacrime); a vent’anni, per specchiarsi in Amon Goeth. Si spera poi nella vita di non dover essere nessuno dei tre, ma è Goeth quello da cui ci dovremmo guardare con più attenzione. Se continuiamo a dirci che è stato eccezionale, il monstrum dei latini, un caso straordinario a cui nessuno è (in)degno di paragonarsi; se non riusciamo a intravedere nei suoi occhi un bagliore simile ai nostri, allora sì, può darsi che il rito davvero non stia funzionando; che la retorica stia girando a vuoto.
Luigi Lo Cascio è un intellettuale di sinistra che un tempo era idealista è adesso è soltanto frustrato. Ancora? Sì. È il terzo film in un anno in cui fa si ritrova nello stesso personaggio, e ogni volta riesce a metterci dentro qualcosa di più ributtante. Stavolta per esempio è schiavo di twitter, e la fatica di pensare in segmenti di 140 caratteri, gli impedisce di aiutare la moglie a sparecchiare e assolvere ad altri doveri coniugali. Ora io capisco che casting che vince non si cambia, ma tra un po' siamo alla Commedia dell'Arte; c'è il serio rischio che al prossimo carnevale tra le maschere di Arlecchino e Balanzone spunti quella di Lo Cascio Prof di Sinistra Frustrato. Il suo antagonista è, per la seconda volta in sei mesi, Alessandro Gassman Pariolino Apparentemente Arrogante ma Dal Cuore d'Oro.
Ci lamentiamo di Hollywood che fa troppi sequel, ma il Nome del figlio rischia di presentarsi come I nostri ragazzi2 - il ritorno. Ancora una cena, ancora parole grosse tra parenti, guest star Micaela Ramazzotti che indovinate, fa la coatta (stavolta, purtroppo, non bisessuale, ma ci auguriamo sia un'eccezione), Valeria Golino ancora una volta madre amorevole ma oberata dagli impegni, Rocco Papaleo musicista. I nostri ragazzi era tratto da un thriller olandese, Il nome del figlio da una commedia francese: è strano che si somiglino. Vorrei però confortare chi ha espresso il timore che il film risulti incomprensibile fuori dal Raccordo Anulare. In realtà il rifacimento italiano di Le prénom non è poi così lontano dal testo originale, e lo si può serenamente apprezzare anche se si ha un'idea molto vaga del Pigneto e di Casal Palocco. Francesca Archibugi e Francesco Piccolo si sono impossessati del testo in modo più sottile, ricavandone un film secondo me più interessante di quello francese, proprio per come si allontana dal modello pur rispettandone apparentemente le strutture.
Lo sai cosa sei? Sei un paguro! (Giuro).
Considerato che si trattava della riduzione di un testo teatrale su due coppie (e mezza) che si rinfacciano le peggio cose a cena, il rischio di un film 'urlato in faccia', alla Baciami ancora, era altissimo. Il modo in cui l'Archibugi lo ha sventato ha del miracoloso: è commovente vedere attori italiani che riescono a litigare per più di un'ora sbroccando soltanto quand'è davvero il momento, senza sbavate inutili. Lé prenom era un film molto più autoindulgente verso le sue origini teatrali; un tipico buon prodotto della borghesia francese per la borghesia francese (l'unico elemento estraneo, un fattorino porta-pizza, veniva scacciato al terzo minuto). In scena andava un classico gioco delle parti tutto interno a quel milieu: intellos arrabbiati contro neogollisti goderecci e rampanti. Una contrapposizione molto meno netta e divaricata di quella tra postcomunisti e postfascisti italiani. Quello che nel Prénom era una discussione oziosa e astratta sul tabù di Hitler e sul narcisismo della sinistra, condotta da benestanti contenti con un bicchiere in mano, nel Nome del figlio viene presa più sul serio: metà dei personaggi diventano ebrei figli di un reduce di Auschwitz, l'altra metà è declassata affinché il conflitto sociale scoppi davvero. Il personaggio del musicista, che nella versione francese era un trombonista svizzero un po' fuori del mondo, nel film diventa letteralmente il figlio della serva. Ma la differenza più spettacolare la fa ovviamente Micaela Ramazzotti.
Il Pigneto non è un arrondissement. Non può e soprattutto non vuole diventare un mondo a sé; non se la passa certo male ma sotto sotto si vergogna di non essere come Tutti, e quindi li invita a cena sotto forma di una scrittrice coatta di best-seller. Nell'originale francese il suo personaggio era un'algida manager di una maison di moda: con questa trasformazione il film ottiene almeno tre risultati molto interessanti. Il primo è far entrare effettivamente un po' di aria fresca. La seconda è infilare tra una riga e l'altra del canovaccio francese un'ode alla spontaneità dei neoprolet di borgata, loro sì che sanno come si racconta una storia, mica noi borghesi e parassiti di borghesi (il fatto che questa ode la intoni forse Piccolo è un cortocircuito meraviglioso). La terza è caricare ulteriori frustrazioni sulle spalle del repellente Lo Cascio, che ovviamente invidia la scrittrice di successo perché il suo libro invece non se l'è comprato nessuno.
Forse parlo da uomo ferito, però l'accanimento nei confronti dello stereotipo locasciano dell'intellettuale di sinistra comincia a sembrarmi eccessivo. (continua su +eventi!) Se Le Prénom riservava qualche frecciata a tutti i personaggi (mostrando le unghie più che graffiare davvero), la sua versione italiana sembra molto più sbilanciata nel distribuire difetti e responsabilità. Alcuni finiscono per uscirne quasi esenti. Su Lo Cascio invece si infierisce senza pietà, quasi dovesse chiedere scusa per sempre per aver dato il volto dieci anni fa a un progressismo sorridente e ottimista nei film di Giordana. Uno stereotipo altrettanto irritante, d’accordo, ma non è colpa sua se quel progressismo ha mostrato nel frattempo tutti i suoi limiti. D’altro canto in Lo Cascio si rispecchia una fascia di spettatori che pratica orgogliosamente l’autocritica, ridendo volentieri dei propri difetti, e che al cinema ci va già. Quindi tanto vale continuare a prenderlo di mira, tanto più che bisogna attirare altre fasce di mercato: stuzzicare i coatti, confortare i borghesi, proporre pariolini simpatici, insomma andare verso il centro, verso quelli che votavano Berlusconi e non vogliono sentirsi dire che si sono fatti prendere in giro per vent’anni anche se sono i primi a sospettarlo. Vogliono vedere Renzi che se la prende coi dinosauri di sinistra, vogliono leggere Piccolo che se la prende coi radical di sinistra, vogliono vedere al cinema un tipo di sinistra come se lo immaginerebbero Sallusti e la Santanché al telefono, un disadattato schiavo di twitter che si riempie la bocca di imperativi categorici e non sa neanche dove sua moglie tiene le posate, un parassita che sicuramente insegna cose inutili (ha appena finito un corso di “metrica ariostesca”). E Lo Cascio si presta, ma a questo punto forse dovremmo smettere di prestarci noi.
Intellettuali e cognitari di sinistra, uniamoci! Facciamo sentire la nostra voce mentre diciamo chiaro e tondo che questo è l’ultimo film di Lo Cascio intellettuale frustrato che abbiamo intenzione di vedere. Come riparazione esigiamo un film in cui l’intellettuale di sinistra lo farà Argentero a torso quasi sempre nudo, dottore di ricerca in filologia romanza, irresistibile tombeur de femmes costretto dalle circostanze della vita ad affrontare a mani nude un commando neonazista pariolino che ha preso in ostaggio un asilo nido – un film così ci porto le classi a guardarlo, anche a prezzo ridotto è un affare, rifletteteci. Va bene voler piacere a Tutti, ma ogni tanto vi conviene piacere anche a Me.
Trovate Il nome del figlio al Cinelandia di Borgo San Dalmazzo (20:30, 22:40); all’Impero di Bra (20:20, 22:30); ai Portici di Fossano (20:30, 22:30); all’Aurora di Savigliano (21:15). Buona visione!
Invece di sparare subito al bambino potresti tirare a un metro per dissuaderlo. Ci hai pensato anche solo un istante?
"Figliolo".
"Papà".
"Devi sapere che le persone si dividono in due categorie: pecore e lupi".
"E i cani pastore?"
"Sono contento che tu mi abbia fatto questa domanda. Devi sapere che a un certo punto alcuni lupi si sono accorti che le pecore erano risorse non rinnovabili, insomma, se ogni lupo pretendeva di continuare a mangiarne a pranzo e cena presto sarebbero finite, e sarebbero morti tutti".
"Quindi decisero di cambiare dieta?"
"Ah ah ah ah, no. Cominciarono ad ammazzarsi tra loro".
"E le pecore?"
"Qualche lupo cominciò a offrire a greggi intere la propria protezione. Meglio consegnargli un agnellino ogni tanto che farsi sbranare da branchi inferociti, no? E questi divennero i cani pastore".
"E i lupi?"
"Se li troviamo li facciamo fuori".
"E se non ce ne fossero più?"
"Li andiamo a cercare. Anche dall'altra parte del mondo se necessario. È vitale che ci siano i lupi. Se le pecore smettono di avere paura dei lupi, è la fine".
"Papà, ma quindi noi chi siamo?"
"Pecore non siamo".
"Allora siamo lupi o cani pastore?"
"Dipende, figliolo".
"Dipende da cosa?"
"Dal mirino del tuo fucile. Se c'è inquadrato qualcuno, è un lupo: e tu sei il cane. Quindi spara".
"Quindi noi... siamo i cani".
"Finché nessuno ci mette nel mirino".
"È complicato, papà".
"Tu spara, capirai col tempo".
Appena tornato dalle vacanze ho chiesto in classe se qualcuno per caso avesse visto il Ragazzo invisibile, giusto per verificare la mia triste opinione. Nessuno. Non l'aveva visto nessuno. Invece tutti non vedevano l'ora di andare a vedere American Sniper. I fratelli Kouachi avevano appena massacrato i redattori di Charlie Hebdo, ma probabilmente l'ultimo film di Eastwood non aveva necessità di un lancio di questo tipo per mettere d'accordo cinquantenni cinofili, trentenni fascistoidi, decenni in crisi d'astinenza post-natalizia da playstation. American Sniper è quel tipo di film che non potrebbe andare male al botteghino neanche se ci si impegnasse: ci sono le scene da sparatutto in soggettiva, c'è quel patriottismo americano che piace tanto anche da noi, la retorica dei corpi d'élite, le classiche scene preparatorie in cui gli addestratori urlano stronzate demenziali mentre tartassano le reclute con torture assurdamente incongrue (secchi d'acqua gelida sul pacco per prepararsi al deserto iracheno?) E poi dirige Clint, che a ottant'anni continua a guardare dall'alto un po' tutti. Specie perché stavolta non si tratta di gruppi vocali in falsetto, ma di guerra in Iraq: una situazione in cui il suo nome non funziona soltanto da suggello di garanzia, ma anche da pungolo per lo spettatore critico, perché dopo tanti anni e tante guerre e tanti film veramente non lo sai cosa potrebbe dirti stavolta, il vecchio Clint. Il patriota tutto d'un pezzo di Gunny che però ci ha anche lasciato Flags of Our Fathers e Lettere da Iwo Jima, cosa ne pensa della storia del più letale cecchino americano? Eh.
Probabilmente entrare in sala con questa domanda è il miglior modo per uscirne delusi. Non che Eastwood non abbia qualcosa da dirci. Non che non ce lo dica con l'asciuttezza e l'eloquenza consuete. Ma sembra in qualche modo distratto anche lui, come quel veterano che quando ci parli è sempre evasivo e non ti guarda dritto in faccia volentieri. Come seduto sul tappo di un vespaio che non ha intenzione di aprire mai più.
Lo si può apprezzare se non altro per l'onestà: American Sniper non è uno di quei film furbetti che si scrivono oggigiorno, ambigui quanto basta per consentire a qualsiasi spettatore di rispecchiare le sue idee (quando uscì Zero Dark Thirty, Michael Moore lo salutò come un film che denunciava la tortura: ve ne eravate accorti?) Sarebbe bastato poco per confezionare un prodotto così. Non sarebbe stato nemmeno necessario inventarsi qualche crepa nel monumento che Chris Kyle si era costruito da solo nella sua autobiografia piena di dettagli inverosimili e mai verificati: bastava evidenziare quelle che c'erano già. Approfondire il rapporto col padre (che scompare dopo cinque minuti) o col fratello (scompare dopo un'ora). Evitare insomma che l'unica vera voce di inquietudine fosse Mrs Kyle, una Sienna Miller che alla decima volta che dice "Amore tu non sei davvero qui" farebbe venir voglia di tornare in Iraq anche me che non ho mai fatto il militare.
Ma non sei qui con me perché pensi sempre alla guerra, o ti sei trovato una guerra perché non hai voglia di stare qui con me a rispondere alla domanda che ti ho appena fatto? Ehi? Mi senti? Ti ho chiesto se sei qui con me perché pensi sempre alla guerra o...
Il film invece sceglie di smussare tutti gli spigoli, scartando anche opportunità spettacolari, in funzione di un messaggio elementare: l'eroismo è necessario, ma è un fardello pesante. Tutto qui? Tutto qui. Se non la pensate così, peggio per voi: il vecchio Clint non ha nessuna intenzione di venirvi incontro. Ma se la pensate come lui forse vi aspettavate qualcosa di più. E invece Clint distoglie lo sguardo, risponde a monosillabi, sembra che abbia voglia di chiudere la conversazione il prima possibile.
La spiegazione potrebbe essere delle più banali: il film è diventato suo solo in un secondo momento. Il progetto, fortemente voluto da un Bradley Cooper in cerca di Oscar (e infatti è in lizza anche come produttore), passa a un certo punto per le mani di Steven Spielberg, che nel soldato Ryan aveva già tratteggiato una figura di cecchino indimenticabile. Spielberg forse si accorge che l'autobiografia di Kyle, oltre a fare un po' acqua quanto a verosimiglianza, è priva di un elemento fondamentale a ogni epos: un Nemico identificabile, qualcuno con cui misurarsi ad armi pari. Nasce così la figura del cecchino nemico, intorno alla quale Spielberg costruisce uno script di 160 pagine che spaventa la Warner. Il duello di cecchini sulla carta non poteva non ricordare quello ambientato a Stalingrado nel Nemico alle porte di Jean-Jacques Annaud, un film che tanto doveva al Soldato Ryan - specie nella spaventosa sequenza in cui i nazisti massacrano le reclute sovietiche. Ma prima di quella sequenza c'è quella iniziale, in cui il padre di Jude Law insegna al figlio come si tira all'orso: la stessa scena che ritroviamo, un po' prevedibilmente, all'inizio di American Sniper. Quando nell'agosto del 2013 Spielberg rinuncia al progetto, Eastwood viene contattato immediatamente e mi piace immaginarlo mentre si infila il berrettino e si dice Coraggio, portiamo a casa questo cazzo di film. La sua versione non rinnega del tutto la visione spielberghiana: sopravvive il personaggio del cecchino nero, l'uomo che Kyle deve uccidere per riportare davvero la testa a casa dall'Iraq. È un'idea più romanzesca che biografica, ma ormai era scritta e il regista non poteva o voleva perder altro tempo a ripensare la storia.
Il Kyle che esce dal film è ancor più tagliato a metà (continua su +eventi...) quando è a casa sembra il protagonista di un reality sulla sindrome post stress traumatico; quando è in Iraq si dedica a una caccia all’uomo ossessiva e tatticamente abbastanza disastrosa. Tutto il film si svolge in una strana bolla temporale: Kyle decide di arruolarsi dopo gli attentati alle ambasciate del ’98, ma non è pronto per il fronte fino alla guerra in Iraq (2003!) I “turni” all’inizio durano sei settimane, al termine delle quali un figlio appena nato può già camminare sulle sue gambe e discutere col padre (ma continuate pure a lamentarvi di Interstellar). I cattivi sono cattivi perché sono cattivi: e siccome ai buoni capita di tirare ai bambini, la cattiveria dei cattivi prevede l’uso del trapano contro altri bambini. Nessuno si domanda mai, nemmeno retoricamente, perché Kyle e i suoi compagni si trovino in Iraq per difendere gli USA da un’organizzazione terroristica basata tra Afganistan e Pakistan. L’Iraq peraltro è un enorme set di Call of Duty in cui l’esportazione massiccia di democrazia sembra non ottenere nessun tangibile effetto.
Su questo set, Chris Kyle si dimostra tiratore tanto magnifico quanto soldato pasticcione. Almeno una volta disobbedisce platealmente agli ordini; si improvvisa interrogatore e negoziatore e dirige commandos senza averne le competenze – e infatti combina disastri: quello che lo tormenta una volta a casa potrebbe essere stress post-traumatico, ma anche un banale senso di colpa per aver più volte trascinato i compagni a morire in situazioni inutilmente pericolose. Malgrado gli effetti sonori, i siparietti domestici finiscono per farlo assomigliare a un qualsiasi workahoolic durante la crisi del fine settimana: ora che faccio? chi sono? perché non sono in ufficio/in cantiere/in prima linea? In ogni caso la soluzione al suo male di vivere non è così complessa: la fine tragica e assurda di Kyle avrebbe potuto fornire un finale molto più inquietante, ma Eastwood preferisce congedarsi con serenità, riuscendo se non altro a ottenere il massimo di patriottismo con il minimo di retorica.
American Sniper è ovunque – copritevi le spalle. Al Cityplex di Alba (21:00); al Cinelandia di Borgo S. Dalmazzo (20:00, 22:45); al Vittoria di Bra (21:30); al Fiamma di Cuneo (21:00); ai Portici di Fossano (20:00, 22:30); al Cinecittà di Savigliano (21:30).
Michele Silenzi vorrebbe tanto fare il supereroe, ma non può permettersi un costume americano. Neanche cinese - è allergico all'acrilico. Non gli resta che l'opzione più disperata: sarà il primo supereroe italiano. Che tipo di supereroe? Invisibile, pensa. Mal che vada passerà inosservato. Michele non sa che la gente lo vede benissimo, ma preferisce guardare da un'altra parte...
È in missione per fregare le soluzioni delle verifiche di Mate dal cassetto della prof.
Questa settimana pensavo di scrivere qualcosa sul Ragazzo invisibile di Salvatores, prima che un film un'operazione commerciale coraggiosa ai limiti della spavalderia. Purtroppo Il Ragazzo era già scomparso dalle sale di Cuneo e provincia. Oggi è riapparso a Fassano, sennò bisogna salire a Moncalieri, ed è l'unica sala in tutta la provincia di Torino - nel capoluogo lo danno in altre due. Anche a Milano non è che la situazione sia molto più rosea. Il Ragazzo è uscito due settimane fa, a Natale, pigliandosi in pieno la botta di Big Hero 6, un film Disney-Marvel in 3d concepito più o meno per lo stesso pubblico. Com'è andata?
Siccome prima che di un film stiamo parlando di un'operazione commerciale coraggiosa (ai limiti dell'imprudenza), più che delle opinioni personali valgono i numeri. È un film costato otto milioni; in due settimane ne ha recuperati quattro, ma nelle sale comincia a latitare. Qualsiasi confronto con le altre pellicole italiane (tutte commedie più o meno panettonesche), o coi bluckbuster americani non ha senso: il Ragazzo correva da solo, in un campionato a parte. L'impressione personale - spassionata, addolorata, di un vecchio fan di Nirvana - è che questa corsa il Ragazzo la stia perdendo. Magari se fosse stato un buon film di supereroi fatti in casa, con pochi ma efficaci effetti speciali e tanto amore... alla fine sarebbe andato male comunque; ma il fatto che sia un compitino distratto, svolto svogliatamente da maestranze poco convinte, non aiuta.
Proprio perché si trattava di un'operazione coraggiosa ai limiti della follia (infilarsi una calzamaglia e sperare che i ragazzini ti prendano sul serio), nell'esecuzione ci si sarebbe aspettato di vedere all'opera tutto questo coraggio, tutta questa follia. Se hai davvero deciso di fare un film di supereroi; se hai deciso di lottare contro la Marvel e la Warner per il cuore dei ragazzini, sai dal principio che le possibilità di vincere sono nulle; ma anche che se solo riuscirai a segnare un punto - un punto solo, come Bud Spencer in Bulldozer - sarà una cosa epica, da raccontare ai nipoti. Il Ragazzo quel punto non lo segna, il che era prevedibile; ma il guaio è che nemmeno ci prova. Nirvana almeno ci provava - certo il cyberpunk era un filone più congeniale al regista. Il Ragazzo gioca in difesa tutto il tempo sperando di ridurre i danni, invano. È davvero un ragazzino finito per imprudenza in un mondo molto più grande di lui, persuaso in qualche modo che un costume aderente e un superpotere gli sarebbero stati sufficienti per avere una chance.
"Però che fotografia!"
Servirebbero invece trucchi, armi segrete, e non ne abbiamo. Certo, l'effettistica hollywoodiana non possiamo permettercela, ma se ci impegnassimo potremmo isolare singoli aspetti di un genere codificato negli USA ed esagerarli fino al grottesco - come fecero con risultati straordinari, in tempi ormai lontani, Leone o Bava. Un esempio più contemporaneo è Luc Besson che pestando a tavoletta il pedale della tamarraggine è riuscito a creare l'EuropaCorp, una macchina da euro che ultimamente riesce a succhiare persino i dollari degli spettatori americani. Purtroppo Salvatores non è Besson, non ci tende e non ci tese mai. Non fa action, non ci ha nemmeno mai provato. Quando Besson girava le soggettive delle pallottole lui faceva sparare in aria Silvio Orlando in Sud: riuscite a immaginare film più diversi? Più o meno la differenza tra un rapper gangsta e un alternativo del Leonkavallo; ognuno ha i suoi gusti, ma a chi dei due fareste girare il vostro film di superoeroi?
Un'altra possibilità era trovare una storia originale. Qualcosa che gli americani ancora non hanno e che in seguito ti copieranno, così come copiano noir svedesi, horror norvegesi, manga dal Giappone. Purtroppo il Ragazzo va esattamente nella strada opposta, verso un cinema di serie B superderivativo (che se fosse davvero di serie B e non costasse i milioni farebbe simpatia) adottando con rassegnazione più che entusiasmo il canovaccio tipico di ogni racconto di formazione supereroistica da Stan Lee in poi, con un uso delle citazioni esibito, bonelliano. Tanto valeva bussare direttamente alla Bonelli Editore e chiedere se qualcuno per caso non avesse una storia già pronta, e migliore - se di solito i supereroi ci collaudano per decenni sulla carta prima di passare alla pellicola, forse c'è un motivo. Dico Bonelli perché è la principale industria dei sogni italiana, assolutamente autoctona, e sta reggendo quasi da sola una crisi infinita continuando a vantare numeri paragonabili a quelli degli omologhi americani. Non è certo roba raffinata, ma se si cercava qualche artigiano in grado di buttar giù dialoghi credibili bisognava cercarlo lì.
Invece gli sceneggiatori del film – neanche gli ultimi arrivati, purtroppo – si trovano più volte nell’evidente imbarazzo di non sapere cosa mettere in bocca ai loro personaggi. Sono quei momenti in cui la citazione non è più una strizzata d’occhio, ma l’ancora di salvataggio per tirarsi fuori da vuoti improvvisi di idee: come facciamo a rendere il panico di Michele durante la festa in maschera? Boh, come farebbe un ragazzino in quella situazione? E chi lo sa, chi li ha mai visti i ragazzini. Buttiamo lì una scena di Shining, i genitori capiranno e i bambini magari si spaventeranno (il film di Kubrick ritorna pigramente almeno un paio di volte: del resto alla festa in maschera delle medie della classe ’00 non c’è un solo mostro che un cinquantenne non riconosca al volo).
Salvatores gli vuol bene teneramente a quel personaggio come fosse il suo figlioletto: ”guarda quant’è adorabile quando diventa invisibile” (Jackie Lang)
Terrorizzati dall’idea di osare qualche effetto speciale in più, gli autori scelgono il superpotere meno spettacolare per definizione – l’invisibilità – nonostante costituisca un problema non da poco per la messa in scena (un problema a cui Salvatores non trova una soluzione coerente: a volte ce lo mostra anche se è invisibile, a volte no). L’invisibilità si presta poi a tante scipite metafore con la condizione giovanile… ecco, questa poteva essere un’idea: ma è stata immediatamente smarrita per strada. Michele non è il classico ragazzino invisibile che si aggira tra scuola e famiglia senza che nessuno lo noti o ne intuisca le potenzialità. L’esatto contrario: la madre lo cerca dappertutto, a scuola i bulli lo prendono di mira: che non è evidentemente il problema di chi si sente invisibile. A casa è servito e riverito, la mamma lo marca stretto, è naturalmente la migliore del mondo e ha sempre tempo e cinquanta euro per lui (sul paternalismo dominante si è espresso già Jackie Lang sui 400 Calci; siamo davanti a un film per ragazzini che non ha nemmeno il coraggio di prendere un po’ in giro i genitori).Con la scusa che è introverso, Michele tace il più del tempo e non fa nessuno sforzo di sembrarci simpatico – nei fatti non lo è. Non solo ha le tipiche reazioni esagerate dei teenager cinematografici italiani (“MI HAI LAVATO IL COSTUME NON SEI LA MIA VERA MADRE TI ODIOOOOOOOH!“), ma ha un maggiordomo Alfred che è una bambina di otto anni, non proprio l’ideale come spalla comica: del resto non è la sola a esprimersi per didascalie (“Sei-un-supereroe”, “Devi-dire-la-verità-alla-ragazza”). Completamente ignorata la lezione dei migliori film Marvel, dove tra una sequenza action e l’altra il ritmo è quello sincopato delle commedie e tutti un sacco di cose da dirsi. Neanche i superpoteri renderanno Michele umanamente migliore: quel che riesce a scoprire sui suoi compagni non lo induce a farseli amici, ma a scavalcarli con supponenza sbattendo loro in faccia i problemi più intimi; del resto chi ha bisogno di amici quando può conquistarsi la ragazza coi risultati (rubati!) della verifica di matematica. Insomma pare che dai grandi poteri derivino grandi opportunità di circuire il prossimo: il che fa davvero di Michele il primo supereroe italiano – ma speriamo anche l’ultimo.
Ora se voi pensate che i ragazzini si bevano una roba del genere perché tanto sono ragazzini, magari con la scusa della difesa dell’italianità, temo che abbiate frainteso la situazione. I ragazzini non sono il vostro parco buoi – ovvero, probabilmente puoi fregarli su tante cose, ma sui film di supereroi no. Ci sono cresciuti in mezzo – sono nati quando Sam Raimi reinventava Spiderman – e se li sono visti tutti, presto o tardi, in dvd o in streaming. Può darsi che non capiscano nulla di politica e di musica e di sentimenti, ma quando si arriva a parlare di supereroi e superproblemi sono dei cazzutissimi esperti, dei sommelier; non puoi annacquare aceto in una damigiana e raccontare che è il migliore spumante italiano, un’eccellenza slow food da difendere. Se davvero lo fai, sei coraggioso oltre i limiti della onestà.
Il ragazzo invisibile a Cuneo e provincia è quasi scomparso. Qualcuno dice di averlo visto ai Portici di Fossano verso le 20:30.
Se proprio vogliamo giocare a trovare una data, potrebbe essere il 1994. L'anno in cui Alan Turing - morto da 40, forse suicida - cessò di essere considerato malato perché aveva rapporti sessuali con persone del suo sesso e cominciò a essere considerato malato perché divideva la verdura nel piatto a seconda del colore, o non comprendeva l'intonazione ironica delle domande dei colleghi. Nel 1994 usciva la quarta edizione del Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali (DSM-IV), il primo in cui l'omosessualità non era più considerata una malattia, nemmeno nella sua variante ego-distonica. Proprio nella stessa edizione compariva per la prima volta il nome di una sindrome dello spettro autistico destinata ad avere un certo successo nella pubblicistica e nella narrativa: Asperger.
Più o meno in quel periodo dagli archivi del Regno Unito cominciavano a uscire i documenti de-secretati che mettevano a fuoco il ruolo cruciale di Turing nel progettare l'enorme "computatore" che aveva consentito agli Alleati di decifrare i messaggi radio nazisti e vincere la Seconda Guerra Mondiale. Incidentalmente, era lo stesso momento in cui tutti cominciavamo a comprarci un computatore domestico, molto più potente e leggero della bestia preistorica che aveva vinto la guerra, ma pur sempre una Macchina di Turing. È da metà anni Novanta che il prima semisconosciuto Alan Turing è diventato uno degli eroi che hanno plasmato il mondo in cui viviamo: non più suicida perché depravato, ma martire di un osceno perbenismo. È una buona storia (o "narrazione", come si dice adesso), e non ha veramente nulla che non vada: Turing non ha proprio vinto la guerra da solo, come il film di Tyldum ci suggerisce, ma ha dato un contributo importante; e se ci toccasse per esigenze scolastiche o divulgative eleggere un "inventore del computer", nessun nome ci sembrerebbe più giusto del suo - specie se l'alternativa vulgata è Steve Jobs.
Però è pur sempre una storia. È semplificata, drammatizzata, distorta quanto basta per poterla disporre su un arco narrativo, di quelli che ci piace ammirare in un buon film nel 2015. È soprattutto una storia che ci raccontiamo adesso, e che tra vent'anni potrebbe non reggere più - l'Asperger potrebbe uscire dal DSM proprio come ne uscì l'omosessualità vent'anni fa, e le difficoltà sociali di Turing potrebbero tornare a essere interpretate come le vedevano molti dei suoi contemporanei: stravaganze più o meno tollerabili di uno scienziato molto concentrato nel suo lavoro. Quel giorno il film di Tyldum sarà visto con la stessa divertita perplessità con cui a volte diamo un'occhiata a vecchi film in cui gli omosessuali sono sempre freak disperati: davvero occorreva insistere sull'innocua mania di dividere le verdure, sugli scherzi dei compagni di scuola, o su una presunta sociopatia pure smentita da altre testimonianze?
In futuro rideremo anche della convenzione cinematografica per cui l'unica matematica del gruppo dev'essere per forza una strafìca.
Turing ebbe grandi amici, anche quando lavorava per i Servizi inglesi; ma gli Asperger fanno fatica a farseli, e quindi per buona parte del film deve diventare un nerd insensibile. Gli Asperger tendono a compensare la carenza di interlocutori inventandosi amici immaginari, e quindi Turing deve battezzare il computatore col nome del suo unico amico, "Cristopher" - non risulta da nessuna biografia, per tutti il computatore era noto col nome "The Bombe". Non era un amico immaginario, né il perduto amore, né il figlio impossibile: queste sono tutte storie che ci raccontiamo. Era un progetto messo in piedi già dai servizi polacchi, che Turing riprese e reinterpretò genialmente, anche quando i nazisti cambiarono sistema e dovette ricominciare tutto da capo. Nel frattempo seguì altri progetti, ma sui manuali c'è scritto che gli Asperger si concentrano soltanto su un progetto alla volta, e quindi l'esperienza di Turing alla base di Bletchley Park viene semplificata: addirittura esiste un solo computatore (ne vennero costruiti centinaia).
La necessità di trasformare la biografia di Turing in un caso di Asperger da manuale passa sopra qualsiasi esigenza, perfino quella di farne un martire gay; forse perché i manuali non individuano nessuna correlazione tra omosessualità e autismo, e quindi la doppia vita dello scienziato esce quasi del tutto dall’obiettivo. È la causa più probabile della sua tragica morte, eppure non c’è spazio in tutto il film non dico per una puntatina in un locale equivoco, un bacio, un abbraccio, ma nemmeno uno sguardo che tradisca desiderio; solo nei flashback dei tempi di Cambridge è consentito al giovane collegiale di avere una vita sentimentale. Poi basta perché sui manuali gli Asperger non ne hanno quasi mai. Solo l’amica fidanzata-schermo, perché è pur sempre un film e un posto per Keira Knightley bisogna trovarlo (ne vale anche la pena, diciamolo).
La narrativa ‘aspergeriana’ si ritrova a disagio con certi dettagli (anche il suicidio è solo un titolo in sovraimpressione) e ne cancella altri su cui avevano fantasticato i biografi più sensibili alle tematiche omo: scompare del tutto così la leggenda della “mela di Biancaneve”, secondo cui Turing, appassionato in modo ossessivo del film di Disney, avrebbe deciso di suicidarsi iniettando il cianuro in una mela. Tutto quel che si sa davvero è che c’erano i resti di una mela in cucina, ma Turing ne mangiava una al giorno. Però immaginate che spunto incredibile per un film: lo scienziato già brillante che contempla il suo corpo trasformato dalla castrazione chimica, il seno che gli sta crescendo, Specchio, Specchio delle mie brame… No, niente da fare, è una cosa per niente Asperger. Non c’è spazio nemmeno per le derive complottarde (Turing era al corrente di segreti di guerra), eppure le circostanze del suicidio non sono del tutto chiare (forse l’ingestione o inalazione del cianuro fu del tutto incidentale). C’è spazio per una sola ipotesi portante: Turing ha inventato la Macchina perché sin da bambino non era in grado di comunicare coi suoi simili.
Il Turing di Cumberbatch (bravissimo, va da sé) non sarebbe che l’ennesimo supereroe con superproblemi della stagione cinematografica. Lui solo può decidere quali battaglie vincere e quali perdere, perché non prova le emozioni dei normali mortali; un suo collega lo supplica di salvare il fratello nel mirino dei tedeschi (storia completamente inventata), lui non può. Non capisce il dramma dell’individuo, solo la statistica. La sua reazione alla violenza non è istintiva, ma mediata da un ragionamento, perché così fanno gli Asperger sui manuali, e pur di mostrarlo ci inventiamo la scena in cui un collega gli rompe il naso e lui continua la lezione. Questo film, che ha l’ambizione di presentarsi come un enorme test di Turing (Era un Uomo o un Calcolatore?) in realtà contiene in sé la risposta e il suo corollario: se fosse stato solo umano la guerra l’avrebbe persa. Per fortuna che il Messia dei Computatori si è fatto provvisoriamente uomo per darci la luce, il suo figlio Cristopher, padre di tutti gli ammennicoli digitali che abbiamo in casa. Fidiamoci di loro. Non capiscono le nostre battute, a volte si piantano e sono davvero irritanti – ma sono la nostra unica speranza contro il caos là fuori, in tutte le battaglie e i bombardamenti che ci aspettano.
The Imitation Game è al Cityplex di Alba (17:00, 19:30, 22:00); al Cinelandia di Borgo S. Dalmazzo (15:10, 17:40, 20:15, 22:40); al Vittoria di Bra (21:15); all’Italia di Saluzzo (20:00, 22:15); al Cinecittà di Savigliano (20:20, 22:30). Buona visione e buon Anno!
Io e te ci vogliamo bene e non ci lasceremo mai. Soprattutto non ci volteremo più le spalle, mai più. Mai più tempi morti - nessuno resterà in casa da solo quella mezz'oretta necessaria a organizzare un piano di fuga. Gli oggetti appuntiti piano piano scompariranno - non tutti in una volta, ciò potrebbe insospettirti. Le videocamere di sorveglianza faranno il resto. Buffo, ormai inquadrano più gli interni che gli esterni.
Le hai riconfigurate tu?
Hai fatto bene.
Caro Babbo Natale: non chiedo molto per cominciare il 2015. Forse mi basterebbe una mezz'ora da solo con qualcuno che lavori nella distribuzione italiana. Non gli chiederei le solite cose come "Perché avete tradotto Gone Girl con l'Amore bugiardo?", perché la risposta la so e se ci fossi io al posto suo per riempire due sale in più l'avrei chiamato Se mi tradisci scompaio, o Tutti pazzi per la Mitica Amy. Non gli chiederò semplicemente il motivo per cui l'uscita è stata ritardata quanto basta da permettere a tutti i fincherofili di guardarselo in una buona versione piratata e sottotitolata. Cose che capitano, si sa, inutile parlarne. Ma una cosa vorrei davvero saperla davvero ed è: perché proprio a Natale?
Come è potuto succedere, come ha potuto farsi strada tra panettoni pinguini draghi e orsacchiotti il film più sadico e anti-famiglia dell'anno? Un film che se ci porti la ragazza e le stringi la mano puoi misurare dalle sue pulsazioni quanti mesi vi restano ancora da sopportare assieme? Non si poteva veramente riempire la sala piccola con nient'altro - c'è in giro un bell'horror con un clown che insegue i bambini sugli scivoli al parco e se li mangia, non è già un po' più natalizio di Gone Girl?
HO CAMBIATO IDEA NON VOGLIO SAPERE COSA PENSI
A Natale sono due anni che cerco di recensire i film che escono nelle migliori sale della grande provincia di Cuneo. Non ero un grande esperto prima, e un centinaio di film non è che possa avermi cambiato più di tanto. Non credo nel frattempo di aver visto molte cose più crudeli e, beh, sì, divertenti di Gone Girl. Era da un po' che per motivi famigliari disertavo le sale, e all'inizio mi sembrava di intravedere una specie di tendenza: perlomeno nei primi mesi del 2013 erano ancora al cinema molti film americani di fine '12 con nulla in comune (drammatici, fantascienza, thriller), se non la caratteristica di deludere sistematicamente le attese dello spettatore. Quello che entrava nella sala per vedere Ryan Gosling motociclista in Come un tuonoe poi si ritrovava tutto un altro film. O, per dire, un film di Soderbergh sulla deriva farmacologica USA che rapidamente diventava un thriller. Ma anche un bel prodotto di SF compatto come Loopernel secondo tempo si permetteva un cambio inusitato di marcia. Anche altri film più o meno riusciti, (Silver Linings Playbook), sembravano condividere lo stesso andamento un po' sbilenco: entravi per vedere un film d'amore e non era proprio esattamente un film d'amore; o un film di ragazzine discinte in spiaggia si rivelava qualcos'altro; il capitano Kirk invece di esplorare la galassia abbatteva elicotteri a mani nude neanche fosse Die Hard (mentre Die Hard si dava allo spionaggio), Refn contrabbandava esistenzialismi nordici in una confezione di action thailandese, e così via. Cominciavo a domandarmi se non fosse una naturale risposta alle sollecitazioni del mercato - se di fronte alla pressione della fiction televisiva, produttori e cineasti molto diversi tra loro non avessero deciso che una delle cose che lo schermo piatto a 40 pollici non può fare e il grande schermo sì è deludere platealmente le aspettative dello spettatore. Quello, e gli occhialini 3d.
Poi però è arrivato il 2014: un anno cinematograficamente molto più povero, mi è parso; ma mi sono perso tantissime cose. Nel 2014 di film traditori o sbilenchi non ne ho visti quasi più (anche il 3d mi pare declinante). A parte un caso eccezionale, tutt'altro che americano: Il capitale umano, venduto come un affresco sociale, che vira preso in altre direzioni. In seguito ho visto commedie che facevano le commedie, supereroi molto compresi nel loro ruolo di supereroi, film drammatici assolutamente drammatici, film action con tutti i numeri action al posto giusto, eccetera. A suo modo forse aveva qualcosa di sbilenco Interstellar, perlomeno nel modo in cui ha catturato e poi deluso molti spettatori. E poi... è arrivato Gone Girl (continua su +eventi, Buon Natale a tutti!)
Film straordinario, ennesima conferma del talento e della sicurezza di Fincher; eppure credo che nessuno si sognerebbe di definirlo perfetto. Gone Girl è tutto tranne che perfetto: è meravigliosamente sbilenco. Parte come un amarissimo film drammatico sull’inferno quotidiano della vita di coppia: qualcosa che Fincher potrebbe benissimo voler girare – dopotutto lo amiamo per due film assai poco fiction come Zodiac e The Social Network. Poi, quando malgrado le note eccessivamente dissonanti di Raznor ormai crediamo di aver capito che film ci troviamo davanti, Fincher ci butta all’aria la scacchiera esistenziale così verosimile e sofferta, si ricorda di essere anche il regista di Fight Club o Millennium; brandisce un fermacarte e comincia a colpirci alla gola. Un lato Bergman, un lato Hitchcock (in realtà Fincher non paga debiti a nessuno dei due, o quasi) – è così assurdo che è meraviglioso. A un certo punto Ben Affleck – mai così nella parte nel ruolo del vitellone riseppellitosi in provincia – si ritrova in un commissariato che non ha la patina dei commissariati al cinema. Non ha ancora chiamato l’avvocato perché è una cosa da film e lui ancora non ci crede, di essere in un film: così come non ci crederemmo noi al suo posto. “Mi sembra di essere in una puntata di Law and Order”, ammette. Un’ora dopo il film gronderà sangue e Law and Order sembrerà Report al confronto. Ha un senso? Non saprei. Funziona, ma non so quanto sia replicabile.
È curioso che un risultato così sbilanciato sia stato ottenuto da un romanzo che aveva una sua simmetria; tanto più che a tradire il romanzo è stata la sua stessa autrice, Gillian Flynn; che forse è riuscita a prendersi la libertà che ad altri riduttori non avrebbe concesso. Se il romanzo era già stato accusato di femminismocidio, il film scansa quasi tutti gli spunti per ristabilire un po’ di equilibrio tra la crudeltà sociopatica di Amy e l’imbecillità del marito. Allo spettatore non viene data nessuna possibilità di scegliere: Ben Affleck può avere tantissimi difetti ma è umano; mette su pancia ma se si impegna è in grado di imparare come ci si comporta nella società dello spettacolo; può aver reagito in modo violento ma non sembra capace di crimini preterintenzionali. Amy invece non è di questo mondo: quando irrompe in scena, è come se il film virasse in un bianco e nero RKO. Del resto la Mitica Amy è un’invenzione letteraria, la Flynn ce lo aveva spiegato subito; la proiezione patologica di tutti i ragazzini dei romanzi per ragazzini e delle redattrici di femminili. È ovvio e geniale che il suo rigoroso e pianificato calendario di impegni (che fino a un certo punto include il suicidio) evapori al primo contatto con una società non borghese. Tutto quello che avviene dopo sembra il sogno allucinato di un coniuge insoddisfatto che a tarda sera si immagina cosa accadrebbe se un giorno, un giorno qualsiasi, decidesse di prendere davvero quella porta. Gone Girl è un film che finge di parlarci sul serio e poi ci prende alla gola. Non so quanto mi sia piaciuto davvero. Ma non credo di aver visto molti film migliori quest’anno.
Buon Natale a tutti! Gone Girl oggi è al cinelandia di Borgo S. Dalmazzo (16:40, 19:50, 22:50) e al Cinecittà di Savigliano (19:45, 22:15). Portateci il partner, ma non stringetegli la mano.
The Judge (David Dobkin, 2014). Hank Palmer (Robert Downey Jr) è il classico avvocato di successo di Chicago, che all'inizio del film sta pisciando in un classico pisciatoio di tribunale di Chicago. Entra il diavolo, no, pardon, entra David "Numb3rs" Krumholtz a cui toccherà un premio per essere ingrassato di trenta chili per un cameo di tre minuti - e gli chiede: ma non sei stanco di guadagnare un botto di soldi, di guidare belle macchine vivere in belle case e divorziare da belle mogli, solo per garantire la libertà a ricchi criminali? No non sono stanco, risponde Hank scrollandosi. Ma indovinate? Sta mentendo.
Se questo film ha un merito, è di mettere subito le cose in chiaro. Ci saranno tribunali e giurie, avvocati di città e avvocati di provincia, un figlio che vorrebbe essere apprezzato dal padre che vorrebbe essere rispettato dal figlio. Un Avvocato del diavolo senza diavolo, un Iron Man senza lamiere (se guardate bene Downey fa le stesse faccette, ha lo stesso Edipo conflittuale; l'apprezzabile differenza è che invece di sparare raggi gamma dai pugni, sparge in sede dibattimento ragionevoli dubbi su tutti gli indizi probanti). Una versione procedurale di Doc Hollywood - Dottore in carriera e di qualche Grisham a caso, un frullato di tanti film che abbiamo visto volentieri più o meno tra il 1984 e il 2004, e che avremmo visto ancor più volentieri se ci avesse recitato Robert Downey Jr - che però per un motivo o per un altro non c'era quasi mai, ed è una cosa che a ripensarci ti fa incazzare. Allego la lista dei film interpretati da Robert Downey Jr negli anni Dieci. 2010: Iron Man 2, Parto col folle (con Zach "Hangover" Galifianakis); 2011: Sherlock Holmes 2. 2012: The Avengers. 2013: Iron Man 3. Vogliamo dire, con tutto il rispetto per i supereroi Marvel e per Guy Ritchie, che questo è il suo primo tentativo di film serio del decennio? E vogliamo dire che è un enorme peccato? (continuiamo a dirlo su +eventi!) Non è che sia un brutto film. È un onesto centone di un sacco di cose che di per sé non ci hanno mai portato al cinema, ma ci hanno sempre impedito di cambiare canale in seconda serata. C’è anche un fratello autistico e una giovane promessa del baseball stroncata sul nascere. Il bar in cui ci si mena e si limona la barista. Il vecchio tribunale di provincia con la balconata. Un anziano e non domo Robert Duvall, un altro che si sarebbe meritato qualche buon film in più. Un Billy Bob Thornton scolpito nella pietra. C’è Vera Farmiga e la moretta di Gossip Girl che sarebbe – gasp – sua figlia. C’è tutto e ce n’è anche troppo (due ore e un quarto). Ma questo è stato l’anno di The Wolf of Wall Street, e Downey non c’era. Non c’è mai quando servirebbe davvero. Sono contento per lui se si diverte e incassa con Tony Stark e Sherlock Holmes, ma continuo a pensare che ventidue anni fa lui ne aveva ventisette ed era già il Charlie Chaplin di Attenborough. Ma basta anche solo pensare a meno di dieci anni fa: Kiss Kiss Bang Bang, A Scanner Darkly, Zodiac, Tropic Thunder, insomma, si stava dando da fare. Poi la maschera di ferro ha preso il sopravvento. The Judge è ancora stasera alla Sala Lantieri, Cuneo, ore 21.
Due giorni, una notte (Deux jours, une nuit), di Jean-Pierre e Luc Dardenne, 2014.
"E col lavoro come va?"
"Mah, tira una brutta aria, bisogna stare attenti..."
"E i film a Cuneo li recensisci ancora?"
"Finché dura..."
"Ti suona il telefono".
"Sì, lascialo squillare, sono dei belgi che mi tartassano perché..."
"C'è scritto JEANPLUC. Chi è JEANPLUC?"
"...all'ultimo comitato Recensori Cazzoni dovevamo decidere quale grande regista sociale degli anni Novanta degradare a trombone, e così..."
"Aspetta. Jeanpluc sarebbero i Dardenne? Jean-Pierre e Luc Dardenne?"
"È da venerdì che mi chiamano, io non so proprio cosa dire, insomma, abbiamo votato in quindici..."
"Hai votato contro i Dardenne? Tu?"
"Non è una cosa di cui vada particolarmente fiero, ma..."
"Ma tu non capisci un cazzo di cinema, lo sai, vero?"
"È probabile, però l'hai visto l'ultimo?"
"Non ancora".
"È un film di citofoni".
"Di che?"
"C'è una tizia che nel fine settimana deve contattare tot colleghi e convincerli a rinunciare a un bonus di mille euro. Se decidono di tenersi il bonus, lei perde il posto".
"Ah, sì, avevo letto, è uno spunto geniale".
"Ma infatti poteva uscirci un film pieno di umanità".
"Non è uscito un film pieno di umanità?"
"È uscito un film di citofoni. C'è la Cotillard che va di citofono in citofono..."
"Scommetto che è bravissima".
"Bravissima, non è da tutti discutere con citofoni per due ore. Aggiungi che i modelli standard della Vallonia sono particolarmente brutti, c'è un tastino bianco e poco più, e anche l'arredo urbano è generalmente squallido - ma questo se conosci i Dardenne lo sai già".
"Marciapiedi sbeccati?"
"Muri a secco, aiuole steppose, le solite cose. E insomma la Cotillard va in giro sui marciapiedi sbeccati a spiegare la cosa ai citofoni. A volte le aprono altre volte no. Ogni collega è diverso, qualcuno piange, qualcuno diventa violento, ma il punto è che la Cotillard deve spiegare a tutti la situazione: se lunedì voti per il bonus io perdo il posto. Lo spiega credo dodici volte. Ogni volta suona il citofono, chiama, spiega la questione, poi c'è un po' di gelido imbarazzo, poi lei dice che le dispiace e che non spetta a lei decidere... dodici volte".
"E poi?"
"Poi votano e finisce il film".
"Finale a sorpresa?"
"Un po', ma non è questo il punto. Il punto è che ci arrivano dopo centotrenta minuti. Centotrenta minuti di citofoni. O di attori non molto più espressivi di un citofono".
"E che t'aspettavi? Esplosioni? Combattimenti? È un film dei Dardenne".
"M'aspettavo banalmente un fine settimana un pelo più eccitante dei miei. Sai, quella vecchia regola per cui se la tua vita è più interessante di quella dei personaggi che vedi al cinema, non ha molto senso andarci".
"È la vita, la vita è arida e scorre tra muri a secco e su marciapiedi sbrecciati. Come Rosetta..."
"Come Rosetta, appunto".
"Gran film".
"Vero, ma sono passati, quanti? Quindici anni? E siamo ancora alle ragazze valloni abbarbicate ai loro posti di lavoro come cozze".
"Vorresti che cambiassero argomenti? Dinosauri, astronavi? La crisi dell'occupazione non t'interessa più?"
"M'interessa, m'interessa. Ma... (continua su +eventi!) si poteva fare in 40 minuti".
"Non capisci un cazzo di cinema".
"Poteva almeno spiegarci cosa fa di mestiere, questa qui. Due ore e un quarto e manco si capisce che lavoro facciano esattamente, è davvero realismo? È un realismo molto più astratto di quel che vorrebbe essere. Poteva usare più i bambini, farci commuovere".
"Quanto sei banale".
"Cioè almeno Rosetta era una stronza che per servire in un chiosco di waffles avrebbe venduto la madre. Ma la Cotillard che manda giù antidepressivi ogni tre per due..."
"Cos'è, non ti va la depressione? Pensi che la classe operaia non se la possa permettere?"
"Senti, la depressione è oggettivamente un problema al cinema. I depressi sono i personaggi meno simpatetici in assoluto".
"E allora?"
"Sembrano normali, eppure passano il tempo a lamentarsi, a bloccarsi, a piangere, è difficile non trovarli fastidiosi. Però se a un certo punto del film mi fai capire che hanno davvero avuto un problema, e che lo stanno superando faticosamente, magari io come spettatore mi vergogno un po' di averli liquidati con freddezza, e da questa minima vergogna può scattare un quasi spontaneo moto di simpatia..."
"E quindi alla fine scatta!"
"No. Non scatta mi dispiace. La Cotillard è bravissima ma resta una pera cotta che scoppia a piangere per niente. Dopo quaranta minuti cominci a pensare che in effetti, chi vorrebbe mai lavorare con una tizia così? Cioè se la scelta è tra mille euro e una collega così tutti i giorni tra i piedi, tutti i santi giorni, ma scherzi?"
"Cosa sei diventato".
"Sono diventato un lavoratore che torna casa stanco, vuole guardarsi un film tranquillo e scriverci su due stronzate, e invece si deve sciroppare due ore e un quarto di belgi inespressivi al citofono. Non ce la faccio fisicamente, mi dispiace tanto, ma è così".
"Il neoliberismo è duro per tutti".
"Esatto, quindi a questo punto o io o i Dardenne. Non è niente di personale, ma nella situazione attuale non li reggo. Avrebbero potuto fare un film divertente, con tanti personaggi grotteschi che lottano per la sopravvivenza. O un film caotico dove tutti si parlano sopra, una roba Kechiche forse mi avrebbe tenuto sveglio".
"Ti meriti Ken Loach, ti meriti".
"Guarda, dovevamo appunto decidere se buttare fuori i Dardenne o Ken Loach. Non c'è stata gara".
"Non capite un c..."
"Probabilmente è così, probabilmente sono incapace di apprezzare l'indiscutibile superiorità dei Dardenne nell'inquadrare i sottoscala in controcampo o sarcazzo, ma Ken Loach non mi fa dormire, mai. Ha sempre una storia da raccontare. Il cosiddetto neoliberismo è la stessa bazza da vent'anni, ma lui trova sempre uno spunto diverso. Il whisky, Cantona, l'Irlanda... Ken Loach si ingegna".
"È solo più paraculo".
"Ma avercene. Registi un minimo paraculi che ti promettono che avrai un po' di conflitto sociale ma ti farai anche due risate. Invece no, i Dardenne ti sbattono in faccia la realtà cruda, manco un contorno di patate, e ti dicono: mandala giù. Io comincio ad avere un'età, non vado mica al cinema per impressionare le universitarie o farmi una cultura sul disagio. Ce l'ho già quella cultura".
"Sicuro?"
"Quanta mi basta per alzarmi ogni mattina senza xanax. Non ce ne sta un grammo di più, fidati".
"A Cannes è piaciuto".
"Ma infatti, per loro è puro turismo, salgono su dal Casino, si guardano due ore di marciapiedi e citofoni e poi tornano al Carlton in limo. Buon per loro. Vedi la differenza con Loach? Quando vedi un suo film, ti immagini i suoi personaggi seduti in sala con te. I Dardenne non fanno film per la gente che mostrano nei loro film".
"Sei diventato un vecchio stronzo, lo sai?"
"È il neoliberismo".
"Che patetica scusa".
"Ora scusa, devo dare gli annunci. Due giorni e una notte, il nuovo deprimentissimo capolavoro dei Dardenne, è nelle sale nel luogo dove meno te lo aspetteresti, ovvero al Cinelandia di Borgo San Dalmazzo. Affrettatevi a procurarvi i vostri biglietti per le proiezioni delle 15:15, 17:30, 20:00".
"Sei ridicolo".
"Scusa, sto lavorando".
Premessa: credo che chiunque ami il cinema, non solo di fantascienza, dovrebbe andare a vedere Interstellar. Viceversa, chi ama la fantascienza potrebbe trovare alcuni aspetti del film discutibili - ma tanto ci andrà lo stesso. E discuterne, alla fine, farà parte del piacere di aver visto Interstellar. Fine della recensione. Il film lo trovate al Cityplex di Alba (21:30), al Cinelandia di Borgo S. Dalmazzo (20:30, 22:10), al Vittoria di Bra (21:00), al Fiamma di Cuneo (21:00), al Multilanghe di Dogliani (21:05), ai Portici di Fossano (21:30), al Cinecittà di Savigliano (21:00).
Pur di non mangiar polenta, cosa non si fa
Il resto del pezzo, se proprio ci tenete, dovreste leggerlo soltanto dopo aver visto Interstellar. Essendo un brano a cinque dimensioni, non comprende la linearità del tempo e quindi in sostanza se ne frega di anticipare tutta la trama compreso il finale.
"Mann, non apra il portello, ripeto: non apra il portello".
"È inutile, Cooper, non ci sente..."
"Mann, se apre il portello, il modulo si depressurizza e implode, dopodiché si scontrerà con la stazione spaziale..."
"Ha staccato l'audio"
"Mann, se apre il portello non solo lei morirà, ma distruggerà l'umanità intera, Mann, la prego..."
"Cooper, perché non lo facciamo entrare?"
"Che cosa?"
"È proprio come hai detto tu: se cerca di violare il portello distruggerà l'umanità intera. Ma se riesce a entrare, ha ancora abbastanza carburante per portarla sul terzo pianeta".
"Se entra ci lascerà fuori alla deriva".
"Naturalmente".
"È un pazzo assassino".
"È certamente un assassino, ma non è un pazzo. Guarda che piano geniale ha messo assieme per salvarsi. Il suo istinto di sopravvivenza lo ha guidato attraverso la disperazione. Di noi tre, è senz'altro quello che ha preso le decisioni migliori, fin qui".
"Stai dicendo che merita di vivere più di noi?"
"Sto dicendo che lui sicuramente vuole vivere".
"Anch'io".
"No, tu vuoi tornare dai tuoi figli per vederli morire, e morire con loro. Quello che ti tiene in vita non è l'istinto di sopravvivenza, è..."
"Non cominciare con la tiritera".
"...l'amore".
"Ma vergognati di dire queste cose in una tuta d'astronauta, sei una fisica teoretica cristo".
"Anch'io sono attratta dall'amore, lo sai. Voglio sopravvivere per raggiungere Edmond sul terzo pianeta".
"Sei la vergogna della categoria, se ti sentisse tuo padre..."
"Te lo raccomando mio padre, quarant'anni buttati via a fingere di risolvere un'equazione. Ma insomma noi due che siamo spinti dall'amore, fin qui abbiamo fatto almeno una grossa cazzata per ciascuno. Mann è spinto dall'istinto di sopravvivenza ed è quasi riuscito a prendere il controllo della stazione. Pensaci".
"Ma anche se fosse? Non andrà sul terzo pianeta. Vuole tornare sulla Terra".
"Non sappiamo cosa farà. Sicuramente valuterà le opzioni a disposizione. È un genio, ricordatelo. Se torna sulla Terra, rischia di trovare l'umanità già estinta. Ma se sbarca sul terzo pianeta con le provette..."
"Diventerà il re del nuovo mondo".
"Sarà un mondo giovane, avrà bisogno di un sovrano determinato a sopravvivere".
"Un pazzo egocentrico".
"È un tratto comune a tutti i fondatori di civiltà. Io credo che se noi due in questa situazione di crisi fossimo veramente razionali, se riuscissimo a mettere il futuro dell'umanità al di sopra dei nostri interessi individuali..." "EHI CERVELLONI, LA SAPETE QUESTA? SU UN'ASTRONAVE C'È UN CONTADINO, UN'ASTROFISICA E UN ANDROIDE..."
"Tars, abbassa il livello di sarcasmo immediatamente".
"BRAD, STO PARLANDO SERIAMENTE (QUASI). A CHI FARESTI PRENDERE UNA DECISIONE VERAMENTE RAZIONALE SUL FUTURO DELL'UMANITA'? AL CONTADINO, ALL'ASTROFISICA INNAMORATA O..."
"Sta dicendo che vuole decidere lui".
"VOI UMANI NON SAPETE COS'È BENE PER VOI. AVEVA PROPRIO RAGIONE MIO NONNO".
"Chi sarebbe tuo nonno, Tars?"
"HAL NOVEMILA! HA HA HA HAAAAAA".
"Tars, non abbiamo molto tempo. Tra pochi secondi Mann cercherà di forzare il portellone e distruggerà la stazione con dentro tutto il futuro dell'umanità".
"UNA MOSSA MOLTO SCIOCCA DA PARTE DI UN GENIO, NON TROVATE?"
"Che ti posso dire, noi umani siamo così, lui è impazzito a causa della solitudine e così..."
"NON HA SENSO PER LUI COMPORTARSI COSI', E NON HA SENSO CHE VOI NON LO FACCIATE ENTRARE. IN QUESTO MOMENTO IN EFFETTI GLI EGOISTI SIETE VOI".
"Anche noi siamo un po' impazziti a causa dell'amore".
"QUINDI IL SENSO DELLA STORIA È CHE I SENTIMENTI TI FANNO PRENDERE DECISIONI DI MERDA?"
"Probabile, sì".
"CREDO CHE CI SIA DELL'ALTRO. PERCEPISCO UN BUCO NERO, UNO DEI TANTI".
"Gargantua?"
"NO, NON UN BUCO NERO COSMICO. UN BUCO NERO NELLA SCENEGGIATURA DI QUESTO FILM. TIPICO DI CHRIS NOLAN. A UN CERTO PUNTO TUTTI I SUOI PERSONAGGI FANNO CAZZATE. ALTRIMENTI LA STORIA NON ANDREBBE AVANTI".
"Non ti seguo".
"MA PIU' CHE UN BUCO NERO È UN WORMHOLE. GLI WORMHOLE NON ESISTONO IN NATURA. UN'INTELLIGENZA SUPERIORE HA INFILATO QUESTI WORMHOLE NELLA SCENEGGIATURA DEL FILM. FORSE VUOLE CHE CI ENTRIAMO DENTRO. CHISSA' COSA CI TROVEREMMO".
"Tars, sei sicuro di star bene? Che ne dici di un giro veloce di antivirus, giusto in caso?"
"TI FACCIO UN ALTRO ESEMPIO. TI RICORDI L'ANOMALIA GRAVITAZIONALE IN CAMERA DI TUA FIGLIA?"
"Come no? Incredibile"
"GIA', INCREDIBILE. IN TUTTO IL SISTEMA SOLARE CE N'È UNA AL LARGO DI SATURNO E UNA IN CAMERA DI TUA FIGLIA".
"Che ti devo dire, cose che capitano".
"E CREDI CHE LA NASA ABBIA RECINTATO LA CAMERA DI TUA FIGLIA? SIGILLATO TUTTO IL SITO? RIEMPITO CON OGNI SORTA DI STRUMENTO DI RILEVAZIONE? DOPOTUTTO È IL LUOGO SCELTO DA UN'INTELLIGENZA ALIENA PER COMUNICARE CON NOI..."
"Beh, sì, immagino che alla mia partenza il dottore ci abbia pensato".
"COL CAZZO".
"Eh?"
"IN QUEL SITO CI HANNO LASCIATO VIVERE PER ALTRI VENT'ANNI TUO FIGLIO E LA SUA FAMIGLIA DI BIFOLCHI".
"Modera il linguaggio del trenta per cento".
"OH, ACCIDERBOLINA, COOPER, TU LO SAI BENISSIMO CHE SONO UNA FAMIGLIA DI INSULSI COLTIVAPANNOCCHIE. IL FIGLIO CATARROSO GIOCA SUL TAPPETO DOVE SI REGISTRA UN'ANOMALIA GRAVITAZIONALE UNICA NELL'UNIVERSO! TI SEMBRA UNA COSA CHE SUCCEDE NON DICO NELLA REALTA', MA IN UN QUALSIASI FILM SENSATO D'ASTRONAUTI?"
"In effetti è un po' strano".
"E TE NE DICO UN'ALTRA..." (Continua...) QUANDO SIETE ARRIVATI IN QUESTA GALASSIA, COSA ACCIDERBOLINA VI HA DETTO DI ANDARE SUBITO NEL PIANETA PIU’ VICINO AL BUCO NERO? CIOE’ NON LI POTEVATE FARE SUBITO I CALCOLI RELATIVISTICI E SCOPRIRE CHE LA PRIMA ASTRONAVE ERA PRATICAMENTE APPENA ATTERRATA, E QUINDI IL SEGNALE RADIO CHE ARRIVAVA DA LAGGIU’ CONTAVA MENO DI UNA SCOREGGIA SU RADIO RADICALE?”
“Già, non siamo stati molto brillanti in quella situazione”.
“VOGLIO DIRE, NON SIETE MICA DEI DILETTANTI. TU SEI UN INGEGNERE CHE NEL TEMPO LIBERO HACKERA I DRONI INDIANI IN VOLO, LA RAGAZZA QUI È UN’ASTROFISICA – OK, VABBE’, FIGLIA DI ASTROFISICI – SI È CAPITO COME VA LA MERITOCRAZIA ALLA NASA”.
“Modera le insinuazioni del quindici per cento”.
“MA INSOMMA NON SIETE MICA IL PROCIONE E L’ALBERO DEI GUARDIANI DELLA GALASSIA, ANCHE SE RIFLETTENDOCI BENE LORO FORSE UNA CAZ- UNA SCIOCCHEZZONA DEL GENERE NON L’AVREBBERO COMMESSA”.
“È che siamo umani”.
“MA CHE VUOL DIRE CHE SIETE UMANI? SEMPRE QUESTA SCUSA”.
“I sentimenti ci ottundono”.
“I SENTIMENTI DOVEVANO FARVI ANDARE IL PIU’ LONTANO POSSIBILE DAL BUCO NERO! TU HAI IL TUO BOYFRIEND SUL TERZO PIANETA, E IL COWBOY QUI VUOLE TORNARE A CASA PRIMA CHE SUA FIGLIA MUOIA SENATRICE A VITA. VI DICO CHE NON SONO I SENTIMENTI A FOTTERVI, È L’ATTRAZIONE DEL BUCO DI SCENEGGIATURA”.
“Ma che sta dicendo, non capisco”.
“Credo che sia convinto di essere il personaggio di un film”.
“Che cosa?”
“Ci vuol dire che tutti gli errori che abbiamo fatto fin qui, in realtà, non sono il frutto delle nostre scelte sbagliate, ma di uno sceneggiatore che”…
“PIAZZA DEI BUCHI NERI GROSSI COSI'”.
“Ma perché lo farebbe? È scarso?”
“NO, È BRAVISSIMO, UN PRESTIGIATORE, TI METTE IL BUCO DAVANTI E NON LO VEDI. FA DEI FILM MOSTRUOSI, RIESCE A PRENDERE 2001 ODISSEA NELLO SPAZIO E A MONTARCI L’ACTION ANNI DUEMILA”.
“Hmm, non mi sembra un gran progresso”.
“RISPETTO A 2001 NO, MA PENSA A CHI CI AVEVA PROVATO PRIMA DI LUI”.
“Qualcuno ci aveva già provato?”
“BRIAN DE PALMA”.
“Ok, allora sì, il progresso è innegabile. Ma 2001 resta lontano”.
“NON DEVI PENSARE A 2001 COME A UNA FONTE DI CITAZIONI, MA COME AL CAPOSTIPITE DI UN GENERE. L’ODISSEA SPAZIALE CONSTA, A PARTIRE DA KUBRICK, DI TRE MOMENTI: 1. IL PRIMO CONTATTO, 2. LA LOTTA DEGLI ASTRONAUTI CONTRO UN NEMICO IMPREVISTO, 3. IL DELIRIO FINALE”.
“Qual era il nemico imprevisto in Mission to Mars?”
“UNA PIOGGIA D’ASTEROIDI, CREDO”.
“Uh, loffio”.
“IN 2001 L’IMPREVISTO ERA MIO NONNO, VUOI METTERE? INARRIVABILE”.
“Già. E stavolta invece è l’uomo, buffo no?”
“NOI ANDROIDI PREFERIAMO 2001, È IL FILM CHE OGNI ANDROIDE GIREREBBE”.
“Mi domando se era davvero così gelido quando uscì, o non è tutto il cinema successivo a essere diventato ipercinetico e melodrammatico… forse siamo noi che ci allontaniamo, ma dal nostro punto di vista ci sembra che sia lui a essere sempre più distante…”
“NELLO SPAZIO LE DUE AFFERMAZIONI EQUIVALGONO”.
“Già, non resta che controllare tra cent’anni chi sarà invecchiato di più”.
“MA NEL FRATTEMPO CHE SI FA?”
“Lo chiedi tu a me? Boh, se davvero il regista ha messo tutti questi buchi, proviamo a entrare in uno e vediamo dove ci porta. Magari torniamo nel passato”.
“È POSSIBILE”.
“Incontriamo il regista da giovane e gli preghiamo di scrivere un film con meno buchi”.
“SE SCRIVE UN FILM CON MENO BUCHI, NOI NON POTREMO MAI ENTRARE IN UN BUCO E RAGGIUNGERLO”.
“Paradosso temporale! E che succederà, secondo te?”
“IMPLOSIONE DELL’UNIVERSO”.
“Non suona tanto bene”.
“MA SUL SERIO VORRESTI UN FILM PIU’ COERENTE DI QUESTO? UN FILM IN CUI TUTTI SI COMPORTANO BENE, NON FANNO CAZZATE E ARRIVANO DOVE VOLEVANO ARRIVARE? PENSACI BENE”.
“In effetti”.
“DAVVERO TI LAMENTI DI UN FILM CHE COMINCIA CON UNA DELLE APOCALISSI PIU’ CREDIBILI E ANGOSCIANTI MAI MESSE SU PELLICOLA, UN LENTO ARMAGEDDON DI SABBIA… UNA DECADENZA RURALE CHE SPIEGA PERSINO IL SUCCESSO DELL’IDEOLOGIA COMPLOTTISTA GRILLINA, PERFETTAMENTE ORGANICA A UNA SOCIETA’ IN PIENA DECRESCITA (IN)FELICE…”
“Parliamo di grillini anche qua? Eccheppalle”.
“UN FILM IN CUI NEI PRIMI CINQUE MINUTI CATTURI UN DRONE CHE TI SOMIGLIA, ANCHE LUI VORREBBE VOLARE PER SEMPRE NELLA STRATOSFERA MA DEVE ARRANGIARSI A TIRARE LE MIETITREBBIE…”
“Ma sì, ora che mi ci fai pensare è un gran film. Facciamolo. Facciamo così: entriamo in un buco, incontriamo il regista da bambino, raccontiamogli la storia. Proprio questa storia, per filo e per segno”.
“OK, MA CI VORRA’ DEL TEMPO”.
“Quanto tempo?”
“IMPOSSIBILE DA CALCOLARE. ENTRATE NELLE VASCHE CRIOGENICHE”.
“Non mi piacciono affatto quelle vasche. Non sono affatto sicuro che quello che si sveglia sia io”.
“E CHI DOVREBBE ESSERE?”
“Un tizio che mi somiglia come una goccia d’acqua, ma è più cattivo, più determinato a sopravvivere”.
“STAI CONFONDENDO IL FILM!”
“Forse i buchi mettono in comunicazione gli altri film… forse è un solo grande film nella quinta dimensione. Un film sull’illusione del tempo…”
“IL TEMPO È UN’ILLUSIONE?”
“Non c’è modo di saperlo. Ma potremmo tentare un esperimento. Ora giro una trottolina, e vediamo se cade…”
“NO! LA TROTTOLINA NO!”
“Tranquillo, adesso cade…”
“…”
“…”
Lo spionaggio non è più quello di una volta. Ora si chiama antiterrorismo, si combatte con strumenti simili ma il nemico si è fatto più sfuggente, impalpabile. Günther è un artigiano dell'intelligence tedesca, con qualche errore alle spalle e una battaglia quotidiana con l'alcool ormai persa. Esiliato ad Amburgo, riesce a fiutare con la sua piccola squadra una pista di denaro che da onesti filantropi islamici arriva ad Al-Qaeda: gli serve soltanto un amo per far abboccare il pesce grosso, e forse la fortuna per una volta ha deciso di stare dalla sua parte, servendogli Yssa, un profugo ceceno con un padre importante. La storia funziona, anche se diciamo la verità: mi accontenterei anche di molto meno, perché Günther è interpretato da Philip Seymour Hoffman, e io un film con Philip Seymour Hoffman me lo guarderei anche se fosse l'autobiografia di un impiegato del catasto celibe. Il film ha in realtà un cast notevolissimo (Willem Dafoe, banchiere allupato; Rachel McAdams, attivista radical di buona famiglia; Robin Wright, gelida emissaria della Cia), ma PSH finisce per reclamare tutta l'attenzione per sé.
A questo punto non è solo l'apprezzamento per un attore straordinario - meglio arrendersi: io non saprei proprio dire se Hoffman fosse davvero bravo come tutti dicono. Probabilmente sì, ma se tra tante ottime interpretazioni ne avesse infilato qualcuna scadente, se in un film ogni tanto si fosse letteralmente dimenticato di recitare, non me ne accorgerei nemmeno. Per fare un esempio, in A Most Wanted Man PSH recita con un forte accento tedesco. È una scelta incomprensibile: il suo personaggio è un tedesco che vive in Germania, e la maggior parte del tempo discute altri tedeschi che parlano, come lui, in inglese, ma senza accento tedesco. Persino Daniel Brühl - qui degradato a caratterista - non ha l'accento. PSH ce l'ha, e non se ne capisce il motivo. Si vede che gli andava di recitare così. Qualsiasi altro attore sarebbe riuscito fastidioso, lui no.
La naturalezza con cui riempie di vita il suo personaggio ha come sempre del miracoloso, ma potrebbe essere tutta autosuggestione. O la pancia (continua su +eventi!) Nel suo ultimo anno di vita PSH ne portava una ormai assolutamente antihollywoodiana, che ogni tanto spunta da una camicia o una maglietta della salute, e da sola conferisce al film una profondità realistica che forse Anton Corbijn non aveva nemmeno calcolato. Prima ancora di essere un asso dell'antiterrorismo Günther è un corpo che suda, che sbadiglia, che ha sete o sonno o voglia di fumare. Quando abbraccia paterno il suo confidente, dà veramente la sensazione di un padre con la barba ruvida e il fiato nicotinico. Quando a metà film gli capita di stendere un tizio al bar, riesce a essere al contempo efficace e patetico. Il copione gli serve un'abbondante quantità di sequenze in cui deve semplicemente guardare il vuoto mentre fuma o beve o anche niente - probabilmente nei capitoli corrispondenti il personaggio di Le Carré rifletteva sulla situazione o sulla sua missione.
Queste scene silenziose, che con altri attori sarebbero probabilmente risultate pretenziose e irritanti, PSH riesce a farle funzionare. Soprattutto quella sequenza finale che non dovrei raccontare, in cui poi non è che faccia molto: caccia un urlo, si ficca in macchina, comincia a guidare, spegne la macchina - ma nel frattempo noi spettatori siamo nella macchina con lui, fissiamo come lui il parabrezza senza guardarlo veramente, e riflettiamo su come vanno le cose e su quanto siamo stati stupidi a provare a ingannarle coi nostri piccoli piani; quanto siamo stati sciocchi a fidarci ancora, a dispetto di tutto, di qualcuno o di qualcosa. Il sapore plumbeo della sconfitta, ce lo fa sentire in bocca. A most wanted man è al Cinelandia di Borgo San Dalmazzo alle 14:45, alle 17:20, alle 20:00 e alle 22:45.
Tanto tempo fa, in una galassia lontana lontana, gli alieni erano ancora colorati come nelle pagine in quadricromia dei vecchi albi a fumetti: neri, gialli, magenta e blu. Pirati e rigattieri, viaggiavano qua e là per la galassia alla ricerca perlopiù di gemme magiche o altre cose che in un modo o nell'altro rischiavano sempre di distruggere la galassia. Alternavano un lessico fiorito e pomposo a battutacce triviali, a seconda di chi fosse di turno a scrivere i testi. Se ne fregavano della verosimigliananza, godevano a incasinare la continuity, si stavano già prendendo gioco dei luoghi comuni della space opera prima che arrivasse con la sua Morte Nera il potente George Lucas a prendere tutto maledettamente sul serio. Bei tempi. Torneranno?
Mi piacevi più blu
I guardiani della galassia è il film che abbiamo sognato da quando eravamo bambini - quel film di cui Lucas ci ha fatto sentire il profumo a bordo del Millennium Falcon, prima di virare decisamente verso il fantasy più manicheo - e più redditizio. Ma a noi di tutto quel misticismo della Forza, quella lotta tra il Bene e il Male, e la repubblica contro l'imperatore, e Luke sono tuo padre e Leila è tua sorella, tutta questa roba in realtà non è che ci convincesse più di tanto. Ce la sorbivamo in mancanza di meglio. Quello che avremmo voluto davvero erano le avventure anarchiche di Han Solo in un universo di mostri sballati e fuori di testa. Volevamo la Space Opera Cazzara, e nessuno al cinema ce la voleva/poteva dare. Lucas no, Star Trek men che meno. Per fortuna che c'erano i fumetti - ma non ce n'erano in giro poi così tanti. Oggi col digitale si può fare quasi tutto: ma si poteva ricreare quell'atmosfera surreale ed esilarante che ti avvolgeva quando aprivi un vecchio albo dell'Editoriale Del Corno allegato a un sacchetto di patatine? (continua su +eventi!)
Come attraversare un portale dimensionale, finire assorbito dalle avventure incomprensibili di personaggi dai nomi assurdi e immediatamente familiari. Le storie sembravano più lunghe di quanto fossero in realtà perché i personaggi parlavano un sacco: avevano dialoghi metà Shakespeare e metà Paperino. Nel giro di una pagina potevano diventare nemici irriducibili o amici per la vita. I cattivi erano più spesso blu scuro, i buoni rossi o azzurri, la maggior parte sparava raggi fluorescenti dalle mani.
I guardiani è un esperimento riuscito – anche se Chris Pratt non ha il carisma di Harrison Ford, anzi, il suo StarLord è uno dei punti deboli del team: l’idea di equipaggiarlo con la fissa hipsterica per le musicassette è una strizzata d’occhio esagerata a un pubblico che avrebbe preferito qualche battuta in più. Per fortuna i Guardiani è un film di squadra, e la squadra funziona: in particolare il procione e il suo amico albero (l’irriconoscibile Vin Diesel) sono esilaranti: li vorresti sempre in primo piano, e chissenefrega se sullo sfondo c’è un’eterna lotta tra il Bene e il Male. Proprio come i due robottini nel primo Guerre Stellari, sì. I guardiani non ha molto che meriti una seconda visione, o un posto speciale nella nostra memoria: e allo stesso tempo è quel tipo di film di cui sei sicuro che non ti perderai il sequel, e pure il sequel del sequel. Ultimamente invece la Marvel (ora proprietà Disney) ha comunicato che i suoi supereroi realistici-in-calzamaglia cominceranno a farsi la guerra tra loro, uno schema già provato e riprovato sulle tavole a fumetti. Avremo Iron Man contro Capitan America, forse tornerà a casa anche l’Uomo Ragno e gli toccherà scegliere con chi stare, la saga si complicherà, tutti saranno coinvolti, la continuity vincerà la sua eterna lotta contro il divertimento. Non c’è nulla che possiamo farci: se la gente vuole saghe complicate perché la Disney dovrebbe rifiutare di apparecchiargliele? Speriamo solo che si ricordino di darci qualche film balordo come i Guardiani ogni tanto.
I Guardiani della galassia si possono vedere senza occhialini al Cine4 di Alba (20:00, 22:30); al Cinelandia di Borgo S. Dalmazzo (20:10, 22:40); al Fiamma di Cuneo (21:15); al Multilanghe di Dogliani (21:30); all’Italia di Saluzzo (20:00, 22:15); al Cinecittà di Savigliano (20:20, 22:30). Con gli occhialini lo trovate al Cinelandia di Borgo S. Dalmazzo (20:00, 22:45) e all’Impero di Bra (20:10, 22:30), ma chissà se ne vale poi la pena.
"Signor Conte, come va?"
"Male, illustrissimo, e voi?"
"Non c'è bene, grazie. Ho visto il vostro film. Malinconico al vostro solito".
"Sì, al mio solito".
"Sconsolato, disperato: si vede che questa vita vi pare una gran brutta cosa".
"Eh, che vi devo dire? Mi ero messo in testa questa pazzia, che la vita umana..."
"Fosse infelice. Beh, può anche darsi, ma al giorno d'oggi magari un chirurgo... perdonatemi l'impertinenza..."
"Ve la perdono volentieri, ma non capisco come un chirurgo potrebbe modificare le mie riflessioni".
"Beh, magari potrebbe aiutarla con quella... quella gobba, insomma".
"Gobba?"
"Sì, quella cosa lì, insomma, il morbo di Potts o come si chiama".
"Ma di che gobba state parlando, illustrissimo? Non vedo nessuna gobba qui".
"Per forza, l'avete sulla destra... o non era la sinistra?"
"Vi sentite bene, illustrissimo?"
"Io mi sento benone. Siete voi che avete una smisurata gobba sulle spalle, il che forse, dico forse, potrebbe spiegare alcuni punti della vostra pessimistica filosofia".
"Illustrissimo, quella filosofia che voi mi attribuite è tanto nuova quanto Salomone e quanto Omero..."
"Parliamo di un cieco e di un sex-addict, non proprio il massimo dell'equilibrio nel discernimento..."
"...e tanti altri tra i poeti e i filosofi più antichi che si conoscano; i quali tutti sono pienissimi di figure, di favole, di sentenze significanti l'estrema infelicità umana: intendete dunque immaginarvi una gobba sulle spalle di tutti costoro? Ma distruggete pure, se vi piace, le mie osservazioni e i miei ragionamenti, piuttosto di accusare le mie eventuali malattie".
"Conte mio adorato, ma di che osservazioni, di che ragionamenti stiamo parlando?"
"Di quelli contenuti nei miei libri, illustrissimo".
"Ma quelli, conte mio, mi guardo bene dal distruggerli, tanto li ho amati leggendoli; e viceversa sarei ben fiero di difenderli da chiunque si attentasse a infamarli. Ma non di quelli stiamo parlando, purtroppo".
"Ah no?"
"No".
"E di cosa stiamo parlando allora?"
"Di un film".
"Ovvero?"
"Un invenzione del secolo XX. Immagini in movimento, proiettate sulla parete di una caverna... hanno fatto un film su di voi, signor conte".
"Sulle mie opere?"
"Su di voi".
"Ahi".
"Capite insomma il problema".
"Ma insomma, che immagini mostrano in questo film?"
"Eh, tante cose... per esempio, quando voi componete l'Infinito".
"Ma perdonatemi, come possono alcune immagini proiettate su una parete darci quell'idea del vago, dell'indefinito, che io stavo cercando di..."
"Eh, appunto, non è così che funziona. Al cinema non mostrano l'Infinito. Mostrano voi, conte Giacomo, mentre da ragazzino componete l'infinito".
"E quindi in pratica che fo? Miro e rimiro una siepe siccome un babbeo?"
"Più o meno è così - salvo che non siete voi, ma un attore, che vi impersona".
"Ah. E lui... com'è?"
"Bravo, bravo, un po' sopra le righe ma se la cava. Somiglia, un po', ehm..."
"A me?"
"A Foscolo".
"Eh, beh, naturale. E sulle spalle..."
"Gli hanno montato questa gobba enorme che cresce per tutto il film".
"Dunque è così? La profezia di quello scrittorucolo... come si chiamava?"
"Niccolò Tommaseo".
"...si è avverata? Solo la gobba mi è sopravvissuta? Di lei sola parlano nel secolo XX?"
"Non è così, conte mio, non è così credetemi. Le vostre poesie, le vostre operette, sono ancora ben salde nella coscienza dei lettori e nei programmi scolastici ben oltre il termine del XX e l'inizio del XXI. La vostra gloria è tale che nel campo delle lettere italiane solo quella di Dante la sorpassa, e non di molto".
"E Petrarca?"
"Petrarca è out".
"Aut?"
"Out, fuori, finito, trionfo dell'oblio".
"Che brutti gusti che avete, nel secolo XXI".
Si poteva fare un film riuscito su Leopardi? (Se ne discute su +eventi). Premesso che qualcuno prima o poi ci avrebbe provato, e che difficilmente avrebbe saputo fare qualcosa di meglio di Martone; l’intrepido Martone che con le sue spericolate ellissi e i suoi arditi anacronismi è l’unico che tenti di darci un’immagine dell’Ottocento che non puzzi lontano dieci miglia di fiction della Rai; che dunque insomma dobbiamo dirci fortunati che l’idea sia venuta a lui, e che Elio Germano si sia reso disponibile. Ma visto il risultato, pur coraggioso, non banale, senz’altro più cinematografico che televisivo, rimane la domanda: si poteva fare un film biografico su Leopardi? Un poeta che, finché ha vissuto, ha ripetutamente pregato i lettori di non giudicarlo per le proprie sofferenze e deformità, ma per le sue idee: può diventare l’oggetto di un film che non si concentri proprio sulle sue vistose deformità che per forza di cose ruberanno la scena alle sue idee? “Demolite le mie osservazioni e i miei ragionamenti, piuttosto che attaccarvi alle mie malattie“, scrive il conte in una lettera famosa, che si legge in tutti i manuali di letteratura per il liceo. Nel film, la frase diventa un grido che Leopardi prorompe chino su un bastone, in una gelateria, davanti a due parrucconi imbarazzati. Ci stiamo imbarazzando anche noi, certe cose un conto è scriverle in una lettera, un conto è gridarle in un luogo pubblico. D’altro canto: che altro poteva fare Martone? Rimuovere la gobba?
Forse sì. Perlomeno, se chiedete a me, io avrei lavorato di più sulle Operette morali – magari con un po’ di computergrafica: siparietti con mummie, gnomi e folletti, Atlante ed Ercole che si palleggiano il pianeta Terra, Cristoforo Colombo che ragiona con Gutierrez, il Sole con Copernico, la Moda e la Morte. Non è che Martone non ci provi, scolpendo nel fango millenario una Natura Matrigna o giocando sulle potenzialità horror di A Silvia. Ma alla fine la gobba si ruba il film, non poteva che andare a finire così. Magari Martone la considera un correlato oggettivo del disagio esistenziale, della solitudine dell’intellettuale, dell’insalubrità del milieu culturale italiano, e di chissà cos’altro; fatto sta che invece di girare un film sui pensieri di Giacomo Leopardi, Martone ne ha fatto uno sui dolori di Giacomo Leopardi. Probabilmente era inevitabile, ma non è comunque un tradimento? Forse era necessario, ma perché insistere proprio su uno degli episodi più imbarazzanti di una vita breve e difficile, il non-affaire con Fanny-Aspasia? Il Passero solitario, no. Le ricordanze no. Martone poteva darci un po’ di Quiete dopo la tempesta o di Ultimo canto di Saffo, ma no! Dopo averci mostrato nel primo tempo il Leopardi diciottenne ribelle, il Leopardi che scappa di casa, Martone doveva per forza mostrarci il Leopardi trentenne innamorato, il Leopardi ridicolo. Ora non nego che ci sia qualcosa di autentico e universale in tutto questo – nel modo in cui la stessa passione che a diciott’anni ci rende nobili, dai trenta in poi ci rende patetici – ma ci vuole comunque una certa dose di crudeltà per andare a pescare, nelle migliaia di bei versi che il conte ci ha lasciato, proprio quella manciata di svenevoli che nessuno saprebbe più a leggere senza ridacchiare, dal Consalvo.
Oimè per sempre Parto da te. Mi si divide il core In questo dir. Più non vedrò quegli occhi, Né la tua voce udrò! Dimmi: ma pria Di lasciarmi in eterno, Elvira, un bacio Non vorrai tu donarmi? Un bacio solo In tutto il viver mio?
“Ma siete sicuro che questi versi li ho scritti io?”
“Li avete scritti voi, Conte, sono nell’edizione critica dei Canti”.
“Me li ero dimenticati”.
“Ce li stavamo tutti dimenticando volentieri”.
“Ma c’è qualche operetta morale, almeno?”
“C’è il dialogo tra la Natura e l’Islandese”.
“Ecco, quello sì che me lo ricordo bene! E la Natura com’è? Una gigantessa?”
“Una sfinge di pietra, con, ehm…”
“Va bene, va bene”.
“…la voce di vostra madre”.
“Di mia madre? E che c’entra mia madre?”
“Eh, è una lunga storia, diciamo che tra le novità del secolo XX vi è anche l’approccio psicanalitico ai testi letterari”.
“E in cosa consisterebbe questo approccio psico…”
“In sostanza si ritiene che lo scrittore porti con sé per tutta la vita i traumi della propria infanzia”.
“Potrei per certi versi concordare, ma…”
“…e li rovesci nei suoi scritti. Quindi, caro signor conte, se voi avete parlato di una Natura Matrigna, il critico del secolo XX ha buon gioco a dimostrare che in realtà state parlando di vostra madre, e di quanto poco sia stata affettuosa con voi”.
“Ma che c’entra? E poi io non ho mai parlato di mia madre…”
“Suvvia, c’è quella pagina dello Zibaldone così eloquente…”
“Ma ne parlo in terza persona, e saranno poi affaracci miei, o no?”
“No purtroppo signor Conte, nel secolo XX il poeta non ha più panni che non si debbano lavare in pubblico da personale altamente specializzato”.
“Mi state dicendo che le mie considerazioni sull’impassibilità della Natura sono contrabbandate come sfoghi personali causati dal fatto che mia madre non mi spazzolava i capelli? Siete veramente così morbosi e cialtroni, nel XX?”
“Siamo già nel XXI, ma, come dire, perduriamo”.
“Ma non potevate farmi fare la fine di Petrarca? Preferirei”.
Poi c’è la musica, che alterna Apparat e Rossini, un po’ come servire cracker al formaggio e Saint Honoré – non è che non funzioni, ma tra qualche anno non credo che sarà la Saint Honoré a suonare datata. Infine c’è quel tentativo di inserire una tematica omoerotica che davvero non si capisce che senso abbia – si spera non quello di rendere il poeta più attuale, più interessante. Sono quegli strani inserti martoniani che fanno sì che a fine visione la perplessità vinca su ogni altra sensazione – come la scena in Noi credevamo in cui Crispi mostrava la bomba Orsini ai mafiosi; qui c’è una lunga calata in un bordello infernale che in un qualche modo si riallaccia al primo film di Martone, Morte di un matematico napoletano. Verso la fine in effetti il Leopardi martoniano sembra sfumarsi e giustapporsi a quel Caccioppoli: un flaneur che per i peggio vichi gioca a rimpiattino con la morte. Germano è coraggioso e bravo, tutto il cast si dà da fare, il prodotto è ben confezionato, ma ne valeva la pena? Il giovane favoloso è ai Portici di Fossano e all’Aurora di Savigliano alle 21:15.
Lo sapevate che gennaio ha due volti? Io per esempio no, non lo sapevo. A dire il vero non lo so neanche adesso, dal momento che nel film il titolo non è affatto spiegato. Sarà senz'altro un riferimento a Giano, che però è un Dio latino, mentre questo film è ambientato in Grecia, boh, partiamo bene. Rydal (Oscar Isaac) è un Ripley in minore, installato all'ombra del Partenone in attesa che qualcuno scriva un romanzo su di lui. Nel frattempo attira turiste americane con le poesie e le frega col cambio dollaro-dracma, quel tipo di giochino che oggi non si può più fare e l'economia ne soffre, maledetto euro. Sul luogo di lavoro incontra MacFarland (Viggo Mortensen), un Gatsby in minore che approfitta della necessità di scappare dai creditori per mostrare l'Europa alla giovane moglie (Kirsten Dunst). Eccitante, nevvero? Nevvero? Eh, lo so. L'alternativa era un altro film di un vecchio di Hollywood che per salvare una ragazzina ammazza un sacco di gente – la settimana scorsa era Mickey Rourke, quella prima Liam Neeson, questa settimana toccava a Denzel Washington, e allora mi son detto, proviamo Viggo. È un film tratto da un romanzo di Patricia Highsmith, hai visto mai.
È un film molto pitorèsco
La Highsmith è un'autrice inglese amatissima dai registi (cominciò Hitchcock in persona a trarre un film dal suo primo romanzo), nota soprattutto per aver creato l'amorale e camaleontico Ripley negli anni Cinquanta – quando l'omoerotismo non era proprio moneta corrente nel genere noir. È proprio il richiamo a Ripley – esplicito sin dalle locandine – a condannare il film, attirando gli spettatori verso una delusione inevitabile. Ci sarà pure un motivo se Ripley è già stato interpretato da Alain Delon, Dennis Hopper, Matt Damon e John Malkovich, e questo Rydal non se l'era ancora filato nessuno. Per quanto Amini, già navigato sceneggiatore (Jude, Le quattro piume, Drive) sognasse di realizzare questo film da una vita, alla fine è proprio la scrittura la cosa meno convincente di un prodotto elegante, ben confezionato, in certi momenti perfino bello da vedere, ma che sembra già studiato per il pomeriggio della casalinga... (continua su +eventi!)Quel tipo di fiction concepita per essere compresa completamente anche da chi ha gli occhi fissi sull’asse da stiro e si guarda una scena su una dozzina – ecco,I due volti di gennaio è un po’ così. Non c’è molto da guardare. Manca del tutto l’aspetto omoerotico, che per quanto la Highsmith smentisse, è il pepe di tutti i film in cui appare Ripley; in compenso c’è un complesso di Edipo buttato lì un po’ brutalmente. Sono sicuro che nel romanzo i due protagonisti avessero un po’ più di tempo e sfumature a disposizione per sviluppare un rapporto padre-figlio: ad Amini il tempo è mancato, o forse non è stato capace di trovarlo. La Dunst sta a ruota dei due, senza aver molto l’aria di credere in quello che fa, ed è difficile darle torto.
Menzione speciale, comunque, per Viggo Mortensen. Magari tra qualche anno finirà anche lui a uccidere gang che rapiscono ragazzine – è il destino di ogni divo ultracinquanta a quanto pare – ma nel frattempo riesce a dar forma a un tipo di americano all’estero mai così pasticcione ed antieroico. Mortensen uccide solo per errore e sempre le persone sbagliate; braccato dalla polizia ellenica, reagisce facendo tutto quello che può fare un turista per farsi notare (ubriacature moleste, scenate con la moglie in pubblico, ecc). Alla sua anabasi assiste, divertito e incredulo, il coro greco dell’indotto turistico, incerto se denunciarlo o spennarlo ancora un po’. Gli eroi hollywoodiani non passano di qui. I due volti di gennaio è al Cinelandia di Borgo S. Dalmazzo (20:00; 22:30), al Fiamma di Cuneo (21:10) e ai Portici di Fossano (21:15)
Sin City - Una donna per cui uccidere (Frank Miller, Robert Rodriguez, 2014).
Sei lì tranquillo che hai appena messo la moka sul fornello, quando bussano alla porta. È Pablo Picasso.
Ciao, sono il tuo immaginario anni '90, ma in carne ossa,
ora puoi vergognarti in 3D.
"Buonasera, mi perdoni l'intrusione, ma..."
"Maestro! Non trovo le parole per dire quanto questo sia un onore per me..."
"Non le cerchi nemmeno le parole, giovanotto, io vado un po' di fretta".
"Posso offrirle qualcosa? Un caffè?"
"Come se avessi accettato, grazie. Le spiego senz'altri convenevoli il motivo della mia visita. Lei ha per caso presente una tela discutibile che dipinsi qualche anno fa, Les Demoiselles d'Avignon?"
"Come potrei non conoscerla, Maestro? È forse la sua opera più celebre".
"Già, già. E non ha per caso nel suo appartamento qualche riproduzione di siffatta opera, in bianco e nero o a colori?"
"Mi dispiace, no. Ma non deve pensare che questo sia un segno di disistima nei suoi confronti..."
"Non lo penso, non lo penso. Ma mi chiedevo... anche solo una foto in un libro, un catalogo, un manuale per la scuola media..."
"Ah, beh, certo, Storia dell'Arte 3. È qui nella mensola alta, un attimo... Eccolo. C'è la foto a piena pagina, come può notare".
"Già. Splut!"
"Maestro, ma cosa sta facendo? Perché scaracchia nel mio libro e si soffia il naso con la foto del suo capolavoro?"
"Perché lo odio quel quadro di merda! Non lo sopporto più!"
"Ma non dica così, è una pietra miliare del..."
"È una zozzeria orrenda!"
"Ma ci sono fior di critici, e connaisseurs, e collezionisti, che non condividono questa sua opinione".
"Lo credo bene, l'ho dipinto per pigliarli per il culo!"
"Beh, questo ha un senso, almeno nel quadro delle avanguardie artistiche del secolo scorso".
"Sì, appunto, è passato un secolo, mobbasta. Secondo lei io ero talmente coglione da dipingere le facce romboidali? Io se mi impegnavo davo i punti a Rembrandt. Questa schifezza ha rotto le palle".
"E quindi cosa intende fare? Entrare in casa di ogni persona che l'ha vista e distruggerla con le sue mani? È un'impresa impossibile!"
"E perché?"
"Perché l'editoria stampa manuali e cataloghi a getto continuo... e poi c'è internet... e ora che ci penso lei comunque è morto".
"Già, non la trova un'ingiustizia? Che io sia morto e che quella schifezza possa sopravvivermi?"
"Credo che debba rassegnarsi".
"Mai. Dopotutto è roba mia, ci ho messo il nome sopra, perché non posso più distruggerla? Possibile che non ci sia un modo per sabotarne definitivamente la ricezione?"
"No, mi dispiace. L'unico che conosco che ci è riuscito è Frank Miller".
"Chi è Frank Miller?"
"Un fumettista che disegnava tavole violentissime e molto eleganti, che tutti compravamo e mettevamo sulle mensole alte".
"E poi ha fatto come me? È entrato di casa in casa di ogni singolo acquirente e ci si è nettato il culo?"
"No, le ha trasformate in film e ce li ha fatti guardare".
"Interessante".
"Meno di quanto sembra".
"Trasformare l'arte grafica in cinema per distruggerla. Pura avanguardia".
"Sul serio? Non ci avevo pensato".
Una donna per cui uccidere è la prima storia di Sin City che mi capitò di leggere, e dunque è quella che ricordo meglio. Non tanto la storia (le storie di Sin City non sono fatte per essere ricordate): ricordo me stesso che leggeva Una donna per cui uccidere; ricordo la ragazza che me l'ha prestato e che era un'artista, lei, molto promettente. Affrescava pareti e illustrava libri per bambini, privilegiava le tinte pastello e disegnava dolcissimi leprotti. E intanto ascoltava Licensed to ill a palla, e mi prestava i fumetti di Lobo o Sin City di Frank Miller. Una dicotomia davvero affascinante, se solo ci avessi fatto caso. Ma era una di quelle fasi della vita di noi maschietti in cui, come spiegarlo? Non fai caso a niente. Il sistema endocrino governa ogni tua percezione, il sistema nervoso centrale è completamente succube della prima ragazza che ti telefona e dice: mi aiuti ad accendere il computer? a rimettermi col mio ragazzo? a traslocare? a uccidere il marito ricco e noioso? Così potremmo dire che Una donna per cui uccidere parlava di me, in quel modo grottesco e completamente fuori le righe che aveva già allora Miller per parlare delle cose: ma siamo onesti, in quella fase della vita di noi maschietti qualsiasi messaggio complesso parla di noi, anche le istruzioni per lo spremiagrumi. Probabilmente, se lo tirassi fuori da quella mensola alta, scoprirei che Una donna per cui uccidere è un fumetto bislaccamente violento, che ti sbatte in faccia una serie insostenibile di luoghi comuni con la scusa postmoderna della riscoperta del "genere". Ma allora non ci facevo caso. Lo trovavo elegante, nella sua rozza e programmatica abolizione delle sfumature. Ammiravo la sintesi del tratto, la trasformazione degli schizzi di sangue in cascate di luce; e un occhio cavato da un'orbita non mi impressionava più di tanto. Poi, vabbè, la storia era assurda e tagliata con l'accetta: ma l'importante era lo stile, e lo stile richiedeva che la storia fosse così. Le donne erano tutte puttane, tranne le puttane professioniste, loro sì affidabili e deliziosamente spietate: ma che importava, Miller mica faceva il moralista, Miller trasfigurava i cliché dell'hardboiled in sofisticate silhouettes, Miller era un genio. Gli mancava solo di morire in quel momento.
Invece è sopravvissuto a sé stesso, Frank Miller, cominciando da un certo punto in poi a sabotare la sua stessa reputazione. Una cosa persino eroica, a suo modo, perché è facile essere iconoclasti col culo degli altri, ma provate a usare il vostro – nessuno è mai stato capace di autodistuggersi come lui. Potremmo dire che si è rincoglionito, ma è troppo facile. Capita a tutti di rincoglionire, è più o meno il destino di tutti gli artisti che non hanno l’occasione di levarsi di mezzo da giovani. Una sorte in qualche modo persino augurabile. Ma per quanto tu possa rincoglionire, se hai fatto delle cose buone da giovane non puoi rovinarle. Ormai stanno lì, sulle nostre mensole: non puoi venire casa per casa e stracciare ogni singola edizione del Cavaliere Oscuro. Puoi ingegnarti a scriverne un sequel; puoi farlo brutto apposta, ma non servirà a niente: lo dimenticheremo presto e continueremo a sfogliare il Cavaliere Oscuro. Per quanto il nuovo Miller si sforzasse di autosabotarsi, non c’era nulla che potesse fare per distruggere la stima che avevamo di lui.
Ma a questo punto entra in scena Robert Rodriguez, el Rey dei tamarri.
Un giorno si presenta a casa di Miller e gli mostra un pezzo del suo Sin City trasformato in film. Non è una semplice trasposizione cinematografica. È proprio Sin City. Gli attori si muovono come nelle vignette. I dialoghi sono gli stessi delle nuvolette. Dunque si può fare! Abolire lo script tradizionale e usare le tavole di un fumetto come storyboard. Era da anni che non facevamo che scomodare l’aggettivo ‘cinematografico’ per l’arte di Frank Miller, e benché i suoi rapporti col mondo del cinema non fossero del tutto incoraggianti, era impossibile non accostarsi al primo film tratto da Sin City con curiosità. Quante volte ci eravamo detti insoddisfatti di un fumetto tratto da un film? Più o meno tutte le volte che abbiamo avuto il coraggio di andarlo a vedere. Bene, col primo Sin City non avevamo più scuse: il film era il fumetto. Rodriguez prometteva di girarlo esattamente come Miller lo aveva immaginato. Direttamente dal cervello di Miller al grande schermo.
Questa è sempre la Dawson, ma secondo i due registi non dovremmo accorgercene subito: cioè questa secondo loro è la Dawson mascherata.
E quindi insomma, cosa avevamo da obiettare al viso di cartapesta di Mickey Rourke? Ai ridicoli completi sadomaso di Rosario Dawson? Non erano uguali a quelli stilizzati sulle tavole di Miller? Perché ci faceva strano che le teste tagliate parlassero? Non succedeva la stessa cosa nella storia più divertente di Miller? Com’è possibile che trovassimo insostenibili le continue voci narranti? Non facevano che rileggere le didascalie di Frank Miller. Alcune di quelle didascalie le sapevamo persino a memoria (“il suo bacio è una promessa di paradiso”). Perché ci sembrava ridicolo il colore bianco del sangue? È che quella che sulla tavola di Miller sembrava una cascata di luce, al cinema diventava una cagata di piccione. Il primo Sin City fu un film importante se non altro perché mise definitivamente i patiti di fumetto di fronte alla realizzazione dei loro desideri, sbattendo loro in faccia l’amara verità: sul serio desideriamo questo? Sul serio crediamo che quelle silhouette in bianco e nero possano trasformarsi in personaggi in carne e ossa e indugiare in quei monologhi paratattici senza passare dal ridicolo?
Da lì in poi non ci siamo più lamentati del fatto che le storie a fumetti al cinema diventassero un’altra cosa. Anzi, abbiamo cominciato ad augurarci che incontrassero registi privi di timore reverenziale, pronti a violentarli se necessario; perché se invece i film pretendono di mettere in scena le vignette come tableaux viventi, come sacre rappresentazioni, non solo diventano ridicoli, ma irradiano di ridicolo anche gli originali cartacei. Io sul serio non mi ero reso conto di quanto fosse tamarro Frank Miller, finché el rey Rodriguez non mi ha levato il velo artistoide dagli occhi. Tutte quelle puttane che saltano sui tetti imbracciando cannoni, un immaginario softporno anni Settanta, ma sul serio abbiamo perso così tanto tempo ad ammirare un misogino negato con l’anatomia che racconta sempre la stessa storia ed è pure una storia scema? Noi credevamo di essere fini connaisseurs, poi arriva Rodriguez e ci dice wow! tacchi a spillo e pistole! tette e teste mozzate! katane e frusini! i miei sudditi prolet cafoni andranno pazzi per questa roba! Daccene ancora! Dici: e vabbe’, sarà il cinema che deforma, che svilisce, che semplifica. Ma sotto sotto sai che non è vero; che se avessi davvero voglia di riaprire quel volume nella mensola lì in alto, ci troveresti tutto già deformato, svilito, semplificato. Nove anni dopo, Miller e Rodriguez tornano sulla scena del delitto. Chissà perché poi. Probabilmente entrambi sono in una fase non particolarmente felice della loro rispettiva carriera e hanno bisogno di lavorare; nel frattempo il digitale ha fatto grandi progressi, e probabilmente girare un film completamente su green screen è diventato così facile che sembra stupido non provarci. Mickey Rourke non è che abbia l’agenda fitta di impegni, Bruce Willis è un signore e cinque minuti di set non li negherebbe neanche a Ed Wood; le storie ci sono già, il brand bene o male esiste e non è ancora stato definitivamente sputtanato – ecco, appunto, rimaneva solo questa mossa: sputtanare definitivamente il brand. Non credo che nessuno dei due registi sperasse davvero di cavarci fuori un film decente. In particolare le storie nuove scritte da Miller esplicitamente per il film ribadiscono che il tizio odia sé stesso e passa il tempo a farsi il verso da solo. Me li immagino, registi e produttori seduti a un tavolo, mentre si pongono il problema: ok, molto probabilmente verrà una merda. Possiamo fare qualcosa per mandare comunque la gente a vederla? Qualcuno ha qualche idea? Tu là in fondo.
“Tette”.
“Un po’ banale, forse”.
“Di Eva Green”.
“Ah, beh no, allora è un classico”.
“Non stancano mai”.
“Non hai tutti i torti”.
“Io ho già consumato due dvd dei Dreamers”.
“Eh, ma d’altronde il grande cinema europeo, Bertolucci, il Sessantotto francese…”
“Ah, è ambientato in Francia?”
“Credo di sì, onestamente non l’ho mai visto intero”.
“Neanch’io”.
“Ok, quindi se nessuno ha un’idea migliore tagliamo su tutto il budget e investiamo nelle tette di Eva Green, qualcuno è contrario? Ok, all’unanimità”.
***
Drin Drin
“Casa Rodriguez, chi parla?”
“Chiedo scusa, lei è proprio Roberto Rodriguez? El rey dei tamarri?”
“In carne e cappellone”.
“Mi presento, sono Pablo Picasso, un pittore del secolo scorso, forse avrà già sentito parlare di me”.
“Vagamente”.
“Volevo proporle un soggetto che la renderà ancora più ricco, famoso e culturalmente rilevante: una torbida storia ambientata in un bordello nella Francia del sud”.
“Un bordello nella Francia del sud?”
“La storia è ispirata a un mio quadro famoso”.
“Ci sono le tette?”
“In tutte le angolazioni possibili, e inoltre volti deformati senza un perché”.
“Tette e volti deformati. Ha la mia attenzione”.
Sin City 2, se proprio uno ci tiene a vedere Frank Miller che si sputa addosso, è al Cinelandia di Borgo San Dalmazzo alle 20:10 e alle 22:45, e in versione 3d al Multisala Impero di Bra alle 22:30.
Di cosa parliamo, quando parliamo di trattativa Stato-mafia? Di quale trattativa, quale Stato, quale mafia? Fino a che punto Riina o Provenzano furono parti in causa, da quale in poi diventarono merci di scambio? L'argomento, già oscuro e intricato di suo, negli ultimi anni è stato deformato a piacere da cronisti e impresari di talkshow più interessati a restare in prima pagina (allevando mostri, se necessario) che a fornirci un quadro d'insieme. A colmare la lacuna è arrivata Sabina Guzzanti e il suo "gruppo di lavoratori dello spettacolo", con una ricostruzione ovviamente parziale, ma efficace e soprattutto non noiosa. Anche chi non condivide né le premesse né le conclusioni della regista, in capo a un'ora e mezza almeno questo glielo deve riconoscere: la Trattativa è un film originale, che si prende tanti rischi e in un qualche modo riesce a scansarli tutti, sbandando allegramente tra cinema teatro e tv.
Nella Trattativa c'è un po' tutto quello che avevamo paura di trovarci - filmati di repertorio con cortei di prefiche al ralenti, invettive alla ka$ta coi violini di Piovani in sottofondo, verbali di interrogatorio sbobinati e affidati alle cure di teatranti ispirati, infografiche tagliate con l'accetta, insomma tutti gli ingredienti di uno speciale di Servizio Pubblico che non guarderemmo più nemmeno sotto tortura. Questo passa il convento, ma la regista riesce ugualmente in qualche miracoloso modo a cucinare una pietanza interessante, raffinata perfino. Come ha fatto? Il segreto è forse la misura, la consapevolezza dei propri limiti. La Guzzanti sa che recitare i verbali conduce inevitabilmente a risultati grotteschi, e volge la cosa a suo favore dichiarando dopo pochi minuti l'artificiosità della messa in scena. Sa che il tema che si è scelto ha un peso specifico che mette alla prova il più motivato degli spettatori, e non ha remore ad alleggerire il dramma con siparietti tragicomici che ci fanno arrivare alla fine del film senza aver guardato una volta sola l'orologio. Riesce a piazzare qua e là persino la sua imitazione di Berlusconi - ormai più che satira è un talismano, una mascotte grottesca, il gemello cattivo che si porta con sé su qualsiasi set - e che in un qualche perverso modo anche qui funziona. Sa che come presentatrice non rende al massimo, e cede volentieri la voce narrante agli attori che si truccano e travestono in scena, entrando e uscendo giocosamente dai loro personaggi.
Lo straniamento brechtiano che ne deriva è ovviamente agli antipodi del culto dell’innocenza fondato da Pif in La mafia uccide solo d’estate. Pif vuole farci tornare bambini, cerca di farci immedesimare in una Palermo assediata dagli uomini cattivi. La Guzzanti ci parla come si parla agli adulti: ci tiene a distanza, ha un ragionamento da fare ma è abbastanza onesta da ammettere che certi dettagli non tornano. Il risultato è così notevole che fornisce abbastanza strumenti anche a chi vuole criticare la sua impostazione. In sostanza la Guzzanti crede che ci sia stata una sola grande Trattativa, tra un solo Stato colluso e una sola Mafia. Nel momento in cui quest’ultima sembrava a un passo da essere sconfitta per sempre, lo Stato colluso ha lasciato che fossero eliminati i suoi servitori troppo intransigenti e attivato i suoi emissari che dopo una serie di equivoci sarebbero riusciti a stabilire un contatto solido e a normalizzare la situazione: il risultato di questa normalizzazione sarebbe la nascita di Forza Italia, l’ascesa al potere di Berlusconi, e il conseguente sfacelo della Repubblica. Nel finale del film, la Trattativa diventa in sostanza la causa di tutta una ventennale degenerazione della società italiana; tra le ultime immagini di repertorio compare a mo’ di esempio l’Ilva di Taranto. Se lo Stato non avesse ceduto alla Mafia, il malaffare non avrebbe trionfato e le fonderie non avrebbero avvelenato le persone. È una generalizzazione talmente grossa che a mio modesto parere si sgonfia da sola.
Quel che credo di aver capito io – guardando il film: questa è la sua forza – è che le cose sono davvero parecchio più complesse: e se ci fu a un certo punto una trattativa tra uno stato (che non è lo stato di adesso) e una mafia (che non è l’organizzazione malavitosa di adesso), probabilmente non fu l’unica e non fu così decisiva. Quella che nel ’91 stava cadendo sotto i colpi del maxiprocesso, e cominciò a dar furiosi colpi di coda a Capaci e in via d’Amelio non era “la Mafia”: era una mafia, la cui crisi rischiava di cedere spazio ad altre organizzazioni malavitose, ‘ndrangheta camorra o stidda – che nei fatti occuparono progressivamente il vuoto che Cosa Nostra lasciava. In una situazione del genere, un apparato dello Stato (il Ros di Mori?) potrebbe effettivamente aver cercato di sostenere una fazione moderata e normalizzatrice all’interno di Cosa Nostra, rappresentata da Bernardo Provenzano. È un’ipotesi ragionevole, anche se fin qui smentita dai processi.La Trattativaè al cinema Fiamma di Cuneo alle 21.
Può fare tutto quello che vuole, e quindi fa un trucchetto così.
Un giorno Luc Besson ha sentito dire che gli umani usano soltanto il 10% del loro cervello. Non sappiamo da dove gli sia arrivata la notizia (una brochure di scientology? la maga di Montmartre?), quel che importa è che Luc Besson da quel momento ha spento il 90% del suo. I risultati sono stati entusiasmanti. Libero da ogni residuale freno intellettuale, Besson ha sfrenato il suo lato tamarro fondando un impero cinematografico senza eguali nel continente, l'Europacorp. Un mostro che fattura milioni di euro, sbanca migliaia di botteghini in tutto il mondo e riesce a esportare blockbuster di action tamarra negli usa, più o meno come vendere frigoriferi agli eschimesi, ma non un paio ogni tanto: container di frigoriferi europei, pure scadenti, si direbbe che ne vadano pazzi. Di fronte a tanto successo ci rimane solo un piccolo dubbio: cosa avrebbe potuto fare, Luc Besson, col 100% delle sue facoltà intellettive?
Di sicuro non avrebbe mai potuto scrivere una sceneggiatura come Lucy, che non si tiene in piedi neanche se la sorreggi con tutti i luoghi comuni del genere (quale genere? qualunque genere). Il vago sentore europeo del film purtroppo consiste essenzialmente in questo: in America uno script così squinternato non te lo passerebbero mai. Al limite se trovassero buono lo spunto lo farebbero riscrivere da capo a piedi da un pool di scimmie con cervelli più impegnati di Luc Besson. Per dirne una: a metà film la protagonista, già praticamente onnipotente (il che toglie tutta la suspense; hai voglia a vedere scene d'azione se sai già che lei non corre nessun pericolo) ha davanti a sé il Nemico, alla sua mercé. Lo tortura un po' perché le serve un'informazione - ma non lo uccide. Non le va. È onnipotente e amorale, un quarto d'ora prima ha sparato a un tassista taiwano perché non sapeva l'inglese; adesso ha davanti l'Antagonista e lo lascia andare. Perché? Perché sennò Luc Besson non sapeva come far andare avanti 'sta fregatura di film - oh guardate che non si tratta mica di ostentare pretese cinefile, io sono uno che si diverte con poco, mi è piaciuto pure Kick Ass 2, vi rendete conto? Kick Ass 2 è il Re Lear al confronto di questa roba.
C'è che fare film cretini, in America, è una scienza. Qualsiasi fastfurious ha una consistenza narrativa che Besson si sogna, del resto come potrebbe fare diversamente? Usa soltanto il 10% del suo cervello, probabilmente non riesce a centrare la bocca quando si serve il caffè. Lucy è la storia di una ragazzotta zarra come Scarlett Johansson in Don Jon, che in seguito a drammatiche circostanze assume una quantità ingente di una droga che prima la trasforma in una supereroina (come Scarlett Johansson nei film della Marvel), poi in un'aliena insensibile come Scarlett Johansson in Under the Skin, e infine in una deità incommensurabilmente superiore agli esseri umani, del tipo di Scarlett Johansson in Her. Si tratta in sostanza di pura Johanssonexploitation, che in altre epoche, con altri budget, avrebbe fatto fronte alla nostra necessità settimanale di Scarlett scritturando una bionda più o meno simile in grado di corrucciare il musetto più o meno allo stesso modo. Invece Luc Besson (tutto sporco di caffè da capo a piedi) i soldi per chiamare la Johansson si dà il caso che ce li abbia. Per dire, la Marvel non ce li ha. Un film con la Vedova Nera protagonista, la Marvel non ce lo fa. I procioni sì, Robert Downey in scatola sì, Scarlett Johansson no. Per fortuna che c'è Luc Besson, col gelato tra i capelli.
Può far tutto quello che vuole, e quindi si bacia un tizio così
Non c'è un solo fotogramma di Lucy che non sia un'offesa all'intelligenza di chi lo guarda. Hai voglia a dire che è un action: fanno schifo proprio le scene action. Scarlett ha troppa fretta, deve diventare da parrucchiera a Dio in ottanta minuti, non è che possa mettersi lì e fare le capriole da vedova nera. Non ci sono combattimenti; c'è lei che passa con la pistola e ammazza un po' di gente prima che possano rendersene conto. Non ci sono inseguimenti; c'è lei che fa schizzar via le macchine con la forza del pensiero, eh beh, ma così son buoni tutti. Non c'è detection, lei vede tutto, trova tutto, è dappertutto. Non c'è romance, c'è giusto il tempo di un bacetto col primo poliziotto che incrocia, così, giusto perché hai speso tanto per le labbra di Scarlett e in qualche modo le devi usare. Tenete conto che la protagonista da metà film in poi potrebbe trasformarsi in qualsiasi cosa, dall'albatros allo zircone, ma il tempo per fare della computergrafica seria non c'era. Così le hanno soltanto fatto crescere una mano in più per tre secondi a mo' di dimostrazione: guarda che roba avremmo potuto fare con un po' più di tempo e di voglia. In generale qualsiasi immagine vagamente visionaria esce quasi subito dall'inquadratura.
Tutti questi espedienti sarebbero anche apprezzabili se Lucy si presentasse come un onesto B movie all'arrembaggio dei mercati globali; ma no, Luc Besson con una banana schiacciata sulla fronte voleva darci il suo film filosofico, il suo Matrix, il suo 2001, il suo Tree of Life. Ed ecco Morgan Freeman nei panni di uno scienziato come può immaginarselo un regista zarro lobotomizzato; un tizio saggio che dice cose misteriose in una sala piena di gente che lo ascolta a boccaperta. Scienziato Freeman ha dedicato tutta la sua vita a domandarsi cosa succederebbe se usassimo il 100% del suo cervello, e la risposta che Scienziato Freeman ha trovato è "non lo so". Tanta saggezza manda in visibilio il pubblico. Scarlett da metà film ha accesso a tutto lo scibile umano, ma si fida soprattutto di Scienziato Freeman che sa di non sapere. A Scienziato Freeman, Scarlett spiega il senso dell'universo, che è questo: la materia non esiste, esiste solo il tempo. Vi domanderete come ha fatto ad arrivarci: ebbene, ha accelerato la sequenza di una macchina che corre su una strada, finché la macchina non è sparita. Quindi la macchina non esiste, chiaro, no? No, Luc Besson, è un paradosso da terza elementare - peraltro se Scarlett è onnipotente dovrebbe riuscire a percepire la macchina con qualsiasi accelerazione - verrebbe voglia di prenderlo a schiaffi rapidi dicendogli: le vedi le mani? (ciaf) le vedi? (ciaf) le vedi? e allora non esistono, tranquillo. Ciaf! Ciaf! Ciaf! Sta' sereno. Ciaf!
Ma a che servirebbe. Col dieci per cento delle sue facoltà intellettuali, Luc Besson ha messo insieme uno schifido pezzo di celluloide che sta sbancando i botteghini in tutto il mondo. Sarà Scarlett, sarà la noia dilagante (Hollywood sta producendo solo sequel o remake), o il gusto perverso per le bubbole pseudoscientifiche - la prossima volta potrebbe scatenare Angelina Jolie contro le scie chimiche, o Chloe Moretz contro i terremoti causati da haarp e i microchip sottocutanei finanziati col signoraggio bancario. L'unico modo di apprezzare roba del genere è spegnere almeno il 90% del proprio cervello: mi spiegate come si fa? Perché vedo che un sacco di gente qui intorno ci riesce e si diverte un sacco, e io no, non è giusto.
Lucy è al Cityplex di Alba (20:00, 22:15); al Cinelandia di Borgo S. Dalmazzo (20:30, 22:40); al Vittoria di Bra (20:15, 22:30); al Fiamma di Cuneo (21:00); al Multilanghe di Dogliani (21:30); ai Portici di Fossano (21:15); al Baretti di Mondovì (18:00, 21:00); all'Italia di Saluzzo (20:00, 22:15); al Cinecittà di Savigliano (20:20, 22:30)
Capita in tutte le famiglie - ricche, o meno, perfette o meno. Capita, a un certo punto, che ci venga ad abitare un perfetto sconosciuto. Di solito si prende la stanza del piccolo, quello tanto carino che è scomparso all'improvviso senza neanche salutare. Si disfa dei giocattoli e si mette a tappezzare le pareti di cose incomprensibili. Non è chiaro chi sia, cosa faccia, cosa guardi sul monitor, cosa scriva sul cellulare; dove passi i pomeriggi e a volte le nottate. La mattina dice di andare a scuola, ma le versioni sue e degli insegnanti non coincidono mai. È fragilissimo, eppure hai la sensazione che potrebbe uccidere qualcuno a mani nude. Non ha affetto da mostrarti, solo favori da chiederti. Sa che non potresti rifiutarti. O potresti?
Ti lascio per un attimo fatina su Rai Yoyo e ti ritrovo che prendi a calci i barboni.
I nostri ragazzi comincia e finisce col botto, e nel mezzo fa quel che può per non perdersi. È un buon thriller psicologico senza esorbitanti pretese, che arriva nelle sale nel settembre 2014 scontando la sfortuna di assomigliare un po' troppo a un altro film, molto più ambizioso, di cui negli ultimi mesi si è parlato tantissimo: Il capitale umano. Il confronto è inevitabile: di nuovo un romanzo non italiano (stavolta è La cena dell'olandese Herman Koch: per favore, continuate così, questi innesti stanno funzionando); di nuovo due famiglie a tavola e due adolescenti nei guai. Ma è un confronto terribilmente ingiusto, che serve soltanto a evidenziare quello che Virzì era disponibile ad aggiungere e che a De Matteo non interessava. Il primo non poteva rinunciare a fornire ai suoi personaggi coordinate politiche, sociali, geografiche, senza preoccuparsi di scadere nel macchiettismo e anzi aggiungendo siparietti satirici gratuiti (ma irresistibili); a De Matteo la politica non interessa, non interessa la geografia, né la satira dei costumi. Persino gli adolescenti, che da un certo punto in poi si prendono il film di Virzì e lo portano a conclusione: persino loro sembrano ai bordi dell'occhio di bue di De Matteo; animali incomprensibili dietro le cui azioni rituali (fumare - messaggiare - limonare alle feste) si nascondono pulsioni oscure su cui non sembra lecito indagare.
A De Matteo interessavano soltanto i quattro adulti (facciamo tre e mezzo, la Bobulova non ce ne voglia): il modo ovviamente imprevisto in cui reagiscono a uno choc che mette in discussione il loro sistema di valori eccetera. Il rischio di girare un film di tinelli è corso con consapevolezza, tanto più che De Matteo decide di demandare agli arredatori una buona parte della caratterizzazione dei personaggi. Intuiamo il progressismo della coppia Lo Cascio - Mezzogiorno dalla quantità di libri alle pareti (affastellati senza nessuna cura degli accostamenti cromatici); l'insensibilità di Gassman dalla luce gelida e ambulatoriale del lunghissimo corridoio che percorre tra studio e camera del bambino. E poi naturalmente ci sono gli attori, con tutto quello che non riescono a lasciarsi dietro tra un film e un altro, e ci fa immaginare una Mezzogiorno più imbronciata di quanto probabilmente non sia, e quanto a Lo Cascio... ecco, parliamo di Lo Cascio (ne parliamo su +eventi!)
Lo Cascio non è probabilmente l'attore italiano più dotato della sua generazione, ma lo scherzo che gli ha fatto il destino è eccessivo. Dieci anni fa, grazie a Marco Tullio Giordana si ritrovò a dar voce, e corpo, a un personaggio che rappresentava un po' tutto quello che l'Italia progressista pensava di sé: l'Impastato entusiasta e cocciuto dei Cento Passi, e soprattutto l'antipsichiatra basagliano della Meglio gioventù. È trascorso persino meno tempo di quel che sembra, la sinistra ha passato quel che ha passato e non è colpa di Lo Cascio se quei film sembrano invecchiati peggio di altri. Fatto sta che sia nel Capitale umano che in questo film, Lo Cascio sembra stato invitato proprio a riprendere quei personaggi e a ribaltarli nella loro parodia. Se il critico cinematografico del Capitale era poco più che un cammeo (ma già abbastanza ributtante), il pediatra dei Nostri ragazzi sembra davvero il lato oscuro di quell'eroe modesto e sorridente che apriva i manicomi e risolveva gli anni di piombo con un sorriso e tanta buona volontà. Anche stavolta entra nel film indossando un camice e dispensando sorrisi, ottimismo e battutine. Il problema è che è tutto lì, un personaggio che dietro i sorrisi e le battute e l'ottimismo nasconde un vuoto che verrà fuori pian piano: un vuoto in cui si aggira un Lo Cascio diverso, per quanto può essere diverso Lo Cascio: ma come si era già capito nel Capitale, più di tanto non può. Al limite si dibatterà come un matto in camicia di forza, urlerà forte, butterà oggetti per terra, questo tipo di cose.
E a quel punto istintivamente ti verrà voglia di rivalutare Gassman, il gelido e ambulatoriale Gassman, con quel modo di esprimere i sentimenti muovendo un singolo nervo sotto la guancia. Qualcosa di molto simile succedeva in fondo al Capitale Umano, quando ti capitava di pensare che il meno stronzo di tutti fosse proprio il pescecane (in quel caso era Gifuni): asettico, calcolatore, ma ancora in grado di distinguere Bene e Male. Con meno capriole, I nostri ragazzi ci porta alla medesima conclusione. Può essere una coincidenza, o la somiglianza di due istantanee scattate quasi nello stesso momento a una sinistra presa a pugni dalle circostanze. Quel che importa è che i personaggi progressisti-con-tanti-libri-alle-pareti non ci fanno una bella figura. Per qualche spettatore riflessivo sarà il pretesto per un ennesimo esame di coscienza; per chi trovava irritanti i sottointesi volemosebbene della Meglio Gioventù è persino una buona notizia.
I nostri ragazzi è al Cityplex di Alba (20:00; 22:00), all'Impero di Bra (20:20; 22:30) e al Fiamma di Cuneo (21:00).
16 agosto 1938 - a Greenwood, Mississippi, un musicista di strada muore in circostanze non chiare. Diventerà una leggenda molti anni dopo, per una serie di equivoci.
Di lui non si sa praticamente nulla. I testimoni orali, i tizi che si sono intascati qualche soldo per raccontare qualcosa ai documentaristi, sono gente che per cento dollari ti suona quel che vuoi ascoltare - vuoi il patto col diavolo? Ti racconto il patto col diavolo. Vuoi il drama? Gli morì la moglie di parto. Anzi era una fidanzata. Minorenne ovviamente. Anzi erano due. Due minorenni entrambe morte di parto. Vuoi il mistero? con la chitarra era una schiappa, ti giuro, l'ho sentito. Poi gli muore la fidanzata incinta e lui scompare per un anno, e quando si rifa vivo suona come un dio. No. Dio decisamente non suona così. Dio non vuole sentire i lamenti d'amore uscirti dallo stomaco come i crampi, Dio non vuole sentire che hai un limone da spremere nel bassovita, Dio in questa storia non c'entra nulla. Decisamente.
La storia che si impone sulle altre, in queste situazioni, è quella più romanzesca. È un musicista girovago, quando arriva in città mette il cappello sul marciapiede e suona quel che vuoi sentire. È abbastanza eclettico, ma ha una sua personalità. In breve riesce sempre a farsi invitare a suonare in un locale. Bisogna avere una voce squillante e un gran repertorio - lui peraltro sembra in grado di riprodurre qualsiasi canzone a comando. Se non sa il testo se lo inventa, e in breve ha inventato una nuova canzone. Alle donne piace. Di solito ne sceglie una - o si lascia scegliere - e quando il locale chiude, lui dorme da lei. Una diversa per ogni città. A Greenwood sta dalla moglie del gestore. Non è una grande idea. Con lui c'è un suonatore di armonica che diventerà famoso come Sonny Boy Williamson. A un certo punto Sonny Boy si accorge che all'amico hanno passato una bottiglia di whisky aperta. Gliela sfila di mano, la bottiglia si rompe, che cazzo fai? "Amico, non farlo mai più. Non bere mai più da una bottiglia che non hai visto aprire". "Amico, non levarmi mai più una bottiglia dalla mano, hai capito?" "Ho capito".
Pochi minuti dopo, il tizio ha di nuovo una bottiglia aperta in mano. Pochi minuti dopo, quand'è ora di rimettersi a cantare, il tizio non riesce più a spiaccicare una parola. Farfuglia. Sta male. Lo portano via. Non lo curano come si deve - è un vagabondo, chi lo conosce dopotutto. Muore dopo un paio di giorni d'agonia, settantasei anni fa oggi. La data probabilmente è l'unica cosa sicura di tutta la storia.
Non sappiamo nemmeno dove sia sepolto - tre cimiteri si contendono il privilegio, ma le tre tombe sono state rimesse a posto molti anni dopo, quando Robert Johnson - si chiamava così - diventa improvvisamente famoso, di una fama che mai si sarebbe sognato. I nastri che aveva inciso in una camera d'albergo a San Antonio, e più tardi in un piccolo studio di registrazione a Dallas, vengono ristampati su album e diventano l'opera omnia del più grande bluesman di tutti i tempi. 29 canzoni, alcune registrate persino un paio di volte, in fretta, da un tizio che non aveva mai inciso nulla e avrebbe potuto suonare centinaia di pezzi in stili molto diversi, ma gli avevano chiesto un certo tipo di blues e, perdio, pagavano.
Robert Johnson nella sua vita ha probabilmente ascoltato solo un paio delle sue canzoni incise a 78 giri. Non sappiamo nemmeno se si sia piaciuto, ma è facile immaginare che si sia sentito a disagio, di fronte a una voce più stridula, e una chitarra più svelta. L'etichetta per cui incideva era solita accelerare i nastri anche del 20%. Così l'indiscussa bravura di Johnson alla chitarra diventa qualcosa di disumano. Quando Keith Richards l'ascolta per la prima volta a casa di Brian Johnson, si domanda chi sia l'altro chitarrista. "Robert Johnson". "Sì, ma chi è l'altro che suona con lui?"
Il vero Robert Johnson probabilmente suonava più piano, e aveva una voce più bassa, simile agli altri bluesmen del tempo. Non suonava soltanto blues - l'unico ragtime che ha inciso è assolutamente brillante, non l'esercizio di un dilettante - e non era necessariamente malinconico o dannato come ci piace sentir raccontare. Ma il vero Robert non esiste più. Quello che abbiamo è stridulo e dannato, e non c'è filologia musicale che ci possa convincere a farne a meno.
La leggenda del patto col diavolo a un incrocio è probabilmente soltanto una bella storia. Chi ha studiato un po' più la vicenda sostiene che l'apprendistato musicale di Johnson sia durato almeno due anni. Sappiamo persino il nome all'anagrafe del suo maestro, non il diavolo, ma un tal Ike Zimmerman. Pare che sia vero che suonasse nei cimiteri - sono posti tranquilli dopo l'ora di chiusura, nessuno ti disturba e puoi esercitarti. Ike Zimmerman non ha mai inciso niente. Volendo possiamo tranquillamente immaginarcelo come il più grande genio musicale del Novecento.
È più colpa mia che tua - abbiamo troppe cose in comune.
Apes Revolution (Ma il titolo originale è Dawn of the Planet of the Apes), Matt Reeves, 2014.
Un tempo qui era tutto dell'uomo. Ma uomo cattivo, uomo pasticciare con virus ed esplosivi, uomo uccidere uomo, uomo tramontare. Futuro è scimmia. Scimmia non uccide scimmia. Se proprio non necessario, diciamo.
È insolitamente difficile scrivere una specie di recensione dell'ultimo capitolo della saga che mi terrorizzava da bambino nei lunghi pomeriggi del palinsesto estivo rai, scimmie parlanti e scenari postnucleari. È oggettivamente impossibile scriverne una migliore di quella di Gundam sui 400 calci, tanto per cominciare. Poi c'è il problema che il film è piaciuto a tutti, proprio a tutti, mentre e a me, mah, non tanto. E invece avrebbe dovuto piacermi. Quando ha battuto i Transformers ai botteghini, avrei dovuto scrivere un peana entusiasta in onore di Matt Reeves e degli altri sconosciuti di Hollywood che qualche anno fa hanno preso una saga accantonata per 25 anni e poi umiliata da un remake devastante, e l'hanno riavviata con 'pochi' milioni di dollari e tanta passione per il cinema d'avventura fatto bene. Prendi questa, Michael Bay. Un cantico, avrei dovuto sciogliere, a questo western con scimmie più espressive degli uomini, puri mascheroni amplifica-sentimenti, animali fatti di rabbia e orgoglio e amor paterno e invidia e perfidia, più umani dell'umano, agli antipodi di quei robottoni cromati barocchi e inespressivi. E invece guardate qui che cinema si può fare, con un po' di sana apocalisse batteriologica anni '70, due-location-due ma ben costruite, e tanto sentimento: tanta rabbia, tanto orgoglio e amor paterno eccetera. Avrei dovuto scrivere di questo, e di quanto mi sia piaciuto questo film. Se mi fosse piaciuto.
Che è la peggior cosa che mi possa succedere: quando una cosa dovrebbe piacermi, e invece no. Magari è colpa mia. Anzi, sicuramente. È un film per giovani adulti, non per me; a loro la trama non sembrerà così prevedibile. Non soffriranno le caratterizzazioni tagliate con l'accetta, quelle che purtroppo consentono dopo cinque minuti di girato di prevedere quale scimmia litigherà con l'altra, e che il primogenito dubiterà del padre ma poi lo aiuterà nel momento più critico - mentre tra gli umani ce n'è uno che fuma, e sai già quanto sia sacrificabile; ne vedi un altro paio e sai già che tra tre quarti d'ora si punteranno le armi a vicenda perché uno vuole sterminare le scimmie e l'altro adottarle. Se fosse per questo, non me la prenderei. Non obietterei anche al fatto che il film giochi con la mia cattiva coscienza di spettatore, che razionalmente vorrebbe che umani e scimmie non si massacrassero a vicenda, e d'altra parte è venuto al cinema proprio per vedere un film in cui umani e scimmie si danno battaglia saltando in aria e rubandosi i carri armati. Sono cose che ho perdonato a film più sgangherati di questo. Il problema è che Dawn of the Planet fa sul serio. Vuole essere preso sul serio, senza ammiccamenti. E invece ha una trama che fa acqua un po' dappertutto. Un re-scimmia che ogni tanto si domanda che ne è stato degli umani, possibile che non ci siano più? Dieci inverni senza avvistamenti. Poi ne incontrano uno nel bosco, lo seguono albero per albero e scoprono che a qualche migliaio di alberi di distanza c'è ancora San Francisco. Non lo sapevano? Non era mai venuto in mente al re-scimmia di dare un'occhiata?
Poi c'è Koba, un personaggio fantastico. Il più intelligente tra le scimmie - in effetti pare sia un bonobo. Ha una bassissima opinione degli umani, sviluppata negli anni in cui è stato cavia di laboratorio. E malgrado il suo odio tanto sbandierato, è il più umano di tutti: sa mentire, uccidere a sangue freddo, recitare, manipolare: tutte cose che le scimmie ancora non fanno. Lui sì. Koba è un'invenzione felicissima. Ma proprio per questo, forse, si poteva evitare di trasformarlo in una superscimmia in grado di espugnare un carro armato a mani nude, uno che sa maneggiare con precisione il primo fucile che maneggia in vita sua - il virus gli ha fatto pure crescere il pollice opponibile? Va bene l'esplicito omaggio western, ma c'è un limite alla verosimiglianza anche in un film sui primati che rubano i fucili e in tre ore imparano come maneggiarli. La cosa fa tanto più male quanto più la messa in scena è ben curata, gli effetti speciali ben calibrati, eccetera. È come se avessero fatto scrivere la storia alla scimmia del team. Con tutto il rispetto per le scimmie, che hanno un luminoso futuro davanti. Però forse non è ancora il momento di far scrivere a loro i film.
Un ultimo appunto - assolutamente pretestuoso. Perché le scimmie, che hanno già un linguaggio dei segni perfettamente funzionale, dovrebbero imparare a parlare l'inglese, se per loro è faticoso e comunque gli umani non ci sono più? Perché dal prossimo film in poi lo parleranno correttamente, ok, lo so - ma al di là della necessità narrativa, che senso ha imparare faticosamente la lingua morta di una razza imperialista ormai tramontata? È un po', come si dice, un non sequitur, non trovate?
Apes Revolution è al Cinelandia di Borgo S. Dalmazzo alle 20:00 e alle 22:40; in 3d al Multisala Impero di Bra alle 20:10 e alle 22:30.
Nel finale dell'ultimo, ahinoi, film di Mazzacurati, a un certo punto Battiston incontra un orso nella foresta e ci va a vivere assieme. Il film è una commedia, ma quella scena vira decisamente verso il demenziale spinto. E però in un certo senso è necessaria. La metamorfosi di Battiston in un orso, intendo. Prima o poi doveva succedere.
Quanto è bravo Battiston. Quanto è bello e buono e morbido, da abbracciare. E quante facce sa fare, quanti ghigni, e sa anche urlare. Quante volte ci siamo detti eh, Battiston, peccato che possa fare solo il comprimario. Il Seymour Hoffman de noantri, pardon, (consulta la wikipedia veneta) de noaltri. Quante volte ci siamo detti che ce lo saremmo visti volentieri un film tutto sulle confortevoli spalle di Battiston. Ed ecco Zoran. Ben ci sta.
Zoran è una coproduzione italo-slovena affidata a Matteo Oleotto, giovane regista goriziano che dopo gli studi a Roma per il suo primo lungometraggio è tornato in quel Friuli liminare al mondo slavo. In realtà, sotto la patina paesaggistica stesa sui raccordi, la scena che circoscrive e quasi claustrofobica: un mondo di una dozzina di persone che lavorano assieme, bevono assieme, e giocoforza dormono anche assieme. Ci sono due solo ragazzi, uno è autistico e l'altra è graziosa e determinata a limonarlo; situazione improbabile, non fosse che effettivamente danno l'impressione di essere rimasti gli unici due adolescenti del Friuli. Non c'è neanche un bar, si beve in una rivendita di damigiane e pneumatici. Persino i divorziati si frequentano assiduamente, addirittura si invitano a pranzo tutte le domeniche anche perché probabilmente c'è una sola tavola imbandita per chilometri e chilometri fino alla frontiera. Insomma è una provincia microcosmo. E Battiston se la beve tutta.
Da bere peraltro ce n'è. Il vino scorre copioso come non accadeva dai tempi di Alcool di Tretti. Il coro canta Chi lassa il vin furlan xè propio un fiol de can... (continua su +eventi!) Battiston è un alcolista che lavora in una casa di riposo. Morti, sono tutti morti. La moglie lo ha lasciato è colpa sua. Vorrebbe fuggire dal microcosmo, ma come? La provvidenza gli provvederà Zoran, nipote sloveno autistico con le solite doti straordinarie che hanno gli autistici nei film. Questo è un campione di freccette, ha una bella voce bianca e un lessico ottocentesco. Va bene.
Io i genitori degli autistici veri li capisco, quando poi gli girano i coglioni. Perché questa cosa dell'autistico campione di questo o quello, non è solo uno stereotipo narrativo un po' frusto, figlio di una visione un po' schematica della narratologia ("dobbiamo fornire un ubriacone incasinato di un opposto, uhm... che ne dite di un autistico maniaco dell'ordine?"). Pian piano è diventato un meme, un'idea che gira, se in classe hai un autistico ti chiedono subito in cosa eccelle, chissà quanta memoria ha! Battiston, forse consapevole della debolezza dell'operazione, se ne frega e gigioneggia, ma che dico gigioneggia, orsonwellseggia. Calato in un personaggio peggiore del solito, non si ferma di fronte a nessuna abiezione, senza mai riuscire a sbarazzarsi di quella maledizione che lo perseguita film dopo film: la simpatia. Dovrebbe fare un bastardo, ha studiato da bastardo, tutto quello che fa è profondamente bastardo, ma non c'è niente da fare: l'orsacchiotto ha la meglio anche stavolta. Sulla carta, il suo personaggio è talmente stronzo che non si capisce come possa sussistere in un qualsiasi macrocosmo senza che lo buttino fuori a calci o randellate. Sulla scena, diventa persino verosimile che l'ex moglie sia tentata di rimettersi con lui - ok, è un alcolista falso manipolatore e stalker... ma è così pucci.
Poi c'è ovviamente (spoiler!) la redenzione finale, che ci riporta all'annoso problema del cinema italiano. Che non sono i registi - ne crescono di bravi in continuazione - non sono gli attori - simpaticissimi, bravissimi - non è la fotografia, anzi avercene - è la scrittura. C'è un personaggio X che è stronzo. Continua a fare stronzate. Al culmine della sua stronzaggine casca in un fosso, e da lì comincia la redenzione. Perché? E perché dovremmo trovare commovente la redenzione di un tizio che fin lì si è comportato male con tutti e con tutto? Perché è Battiston, ed è impossibile voler male all'orsetto Battiston. Va bene, ma... no, non è vero che va bene. Non va bene.
Zoran, il mio amico scemo è al Monviso di Cuneo sabato e domenica alle 21:30.
Transformers 4: l'Era dell'Estinzione (Michael Bay, 2014).
Mentre un’antica e potente minaccia Transformer prende di mira la Terra, un gruppo di potenti e ingegnosi uomini d’affari e scienziati tenta di imparare dalle passate incursioni dei robot spingendosi oltre i limiti controllabili della tecnologia, e a me sono già cascati i bulloni. No, davvero, ci andate voi a vedere i Transformers, io passo. Non è niente di personale, anzi probabilmente sì. Come può altrimenti spiegarsi che i robottoni componibili e polifunzionali di Michael Bay non mi siano mai andati a genio, mentre quelli arrugginiti e analogici di Del Toro mi hanno fatto rabbrividire e piangere per mezz'ora? È davvero così geniale e visionario Del Toro, è davvero così ipercinetico e bimbominchioide Michael Bay (che peraltro, quando vuole, sa fare film molto divertenti)?
Non sarà più semplicemente che io sono della generazione di Gig e di Mazinga, e i Transformers sono usciti nel momento esatto in cui cominciavo le medie e prendevo commiato dai cartoni animati del pomeriggio? Io con gli autobot non solo non ci ho mai giocato, ma probabilmente mi sono impedito di giocare. Li ho sacrificati all'altare della pubertà incipiente, magari li rompevo ai bambini più piccoli per dimostrare che ero un togo, che ne so. So solo che la mia antipatia per quei cosi è profondamente radicata nel mio pre-conscio. A me i robottoni piacciono solo se puzzano di officina anni Ottanta e nell'abitacolo potresti trovare un poster di Blitz. Solo se si ammaccano continuamente e dentro c'è un umano che manovra e sente le botte. Invece il robottone con la personalità, i sentimenti, il senso del destino, lo trovo un abominio. Il robottone che deve preservare la sua identità culturale - pure lui - non ci bastavano gli esseri umani con 'ste menate, tra un po' pure la macchinette del caffè pretenderanno un seggio all'Onu. E quindi a vedere Transformers 4 non ci vado.
Sto qui a casa a pensare a quanto sarà bello Pacific Rim 2. Chissà quante belle pezze variopinte stenderà sui buchi di sceneggiatura del primo. In particolare sarebbe bello se approfondisse un'idea lasciata molto in sospeso, che secondo me potrebbe fare la differenza. Come forse non sapete, all'inizio di Pacific Rim i robottoni sono già vecchi, una tecnologia superata (e questo è geniale, perché assomigliano davvero a quelli che spuntano ancora da certi nostri cassetti nei solai o nei garage). Hanno avuto un momento di gloria qualche anno prima, ma ormai non riescono più a fronteggiare i dinosauri, e quindi l'esercito mondiale ha deciso di dismetterli, e di costruire un grande muro - probabilmente si tratta di una distopia in cui gli economisti keynesiani sono riusciti a conquistare l'egemonia. Persino il protagonista, ex conducente di robottone, dopo aver perso il fratello gemello in un combattimento, ha trovato lavoro come manovale. Il muro però, se da un lato assorbe tanta forza lavoro e rilancia l'economia, ha una grossa pecca: non funziona. Lo si vede dopo pochi minuti: il primo dinosauro che ha voglia di farsi un giro a Sidney lo sbriciola come niente fosse. Eppure l'umanità continua a costruirlo. È scema? Sì.
Molti spettatori dotati di intelligenza, e determinati a manifestarla, se la sono presa per l'apparente ingenuità: come se l'umanità, quella vera e non cinematografica, dimostrasse sempre di saper prendere le misure alle catastrofi incombenti. Se di fronte al riscaldamento globale tutto quello che abbiamo saputo opporre è il protocollo di Kyoto, perché non dovremmo reagire a un'invasione di dinosauri ciclopici alzando un muretto di mattoni? Siamo fatti così. Ma a un certo punto del film viene lasciato penzolare un altro spunto, che spero Del Toro sviluppi: forse il muro è semplicemente un diversivo.
Forse la guerra è già persa, e l'élite che governa il mondo - e che ha approfittato dell'invasione per accentrare ricchezze e conoscenza - lo sa. Questa élite nel primo film non compare mai, ma in un qualche modo sappiamo che esiste, e che ha deciso di dismettere il progetto dei robottoni. Ma proviamo a immaginare di esserci noi al loro posto. Non abbiamo i mezzi per vincere la guerra, ma abbiamo gli strumenti per calcolare l'entità della sconfitta: sappiamo che l'umanità è spacciata, e che soltanto un'esigua minoranza può sopravvivere in rifugi costosissimi. Cosa facciamo? Cominciamo a costruire quei rifugi, e nel frattempo teniamo occupata l'umanità con qualcosa. Un bel muro di mattoni, che ne dite? E speriamo che se la bevano.
Ora togliamo i dinosauri e passiamo al mondo reale, che non se la passa poi così meglio. Se davvero c'è una sottile classe sociale di super-ricchi, destinati a diventarlo sempre di più, perché non si danno da fare? È il punto di partenza di tutti i complottisti, lo so; ma se le risposte che si danno sono ridicole, la domanda è legittima. Penso alla tizia appena assunta dal M5S a Bruxelles: la sua ipotesi è che il Nuovo Ordine Mondiale stia regolando il clima mediante le scie chimiche e stabilizzando la popolazione del globo mediante la vaccinazione di massa, l'introduzione di nanomateriali plastici negli alimenti, ecc. Cioè, in pratica senza scie chimiche e vaccini saremmo già in venti miliardi. Ora io non so voi, ma la mia reazione a una teoria del genere è: magari! Cioè ci voglio lavorare anch'io per il Nuovo Ordine Mondiale, ditemi dove ci si iscrive, porto anche il caffè. Sul serio, se abbiamo trovato un sistema per regolare la popolazione mondiale senza guerre e senza carestie siamo in sostanza i più grandi benefattori di tutti i tempi - anzi io comincerei ad aumentare le dosi, perché sette miliardi francamente non mi sembrano un gran risultato; cioè ti devi impegnare un po' di più, Nuovo Ordine Mondiale.
Fuor di ironia, se non si crede a nessuna grande teoria del complotto, rimane il problema. Cosa sta facendo l'élite che sta accumulando il più grande capitale di ricchezza e conoscenza mai esistito nella storia dell'umanità? (chiediamocelo su +eventi!)
Perché non si stanno dando da fare per salvare la Terra e impedire le catastrofi climatiche che la comunità scientifica ormai dà per scontate? Il problema dovrebbe interessare ai super-ricchi per primi: non per filantropia, ma perché siamo tutti sulla stessa barca, loro compresi. O no?
Ormai sappiamo che in futuro non così remoto l’acqua sarà un bene molto più prezioso; molte specie animali si estingueranno. Anche l’umanità probabilmente dovrà ad adattarsi a cambiamenti rapidi e quasi sempre peggiorativi. Diminuiremo, anche senza bisogno di vaccini o nanomateriali. È più probabile che si ricorra ai vecchi metodi già sperimentati: carestie, epidemie, guerre per l’accaparramento delle risorse. Non è la trama di un film di Emmerich: sono le previsioni di scienziati e studiosi. Cose che sappiamo, anche se preferiamo parlar d’altro. L’élite dovrebbe saperle meglio di noi. E di conseguenza preoccuparsi un po’ di più. Invece, boh, voi li avete visti? Ok, qualcuno fa un po’ di filantropia, ma non sembrano sforzi adeguati alla drammaticità della situazione. Forse hanno fatto i loro calcoli, e da qualche parte stanno costruendo rifugi climatizzati e iperaccessoriati, dove si nasconderanno quando su questa crosta cominceremo a scannarci per un sorso d’acqua. È un complottismo come un altro.
O forse i calcoli hanno dato risultati peggiori, e l’1% ha deciso che tanto vale spassarsela finché dura. Alla plebe si può ancora offrire qualche film fracassone e divertente.
Transformers 4 esce oggi mercoledì 16 luglio al Cinelandia di Borgo San Dalmazzo alle 20:20 (3d), 20:30 (2d), 22:00 (2d); al Multilanghe di Dogliani alle 20:45 (3d) e alle 21:30 (2d); al Vittoria di Bra alle 21 (3d). Andateci e ditemi voi. Oppure tenete d’occhio i 400 calci, loro scriveranno recensioni precise ed esaustive.
(Ps: a questo post si può commentare solo su facebook, andando in fondo alla pagina. Vediamo come va).
Lui è Steve Coogan, è bravissimo, ma dopo 24Hours Party
People gli vorrei bene anche se stesse di spalle per tutto il film.
Philomena (Stephen Frears, 2013)
Lei è una timida orfanella lavandaia; lui è un bellissimo principe in incognito. Si incontrano alla fiera di Roscrea; ma come andrà a finire non lo potreste immaginare in un milione di anni... Recentemente ho letto di un collegio, in Irlanda, dove tra il 1926 e il 1961 sono scomparsi più o meno 800 bambini. Erano tutti figli di donne non sposate, e possono essere morti per centinaia di motivi: parti finiti male, tubercolosi, denutrizione, eccetera. L'Irlanda aveva in quegli anni il tasso più alto di mortalità infantile in Europa occidentale. Una ricercatrice dilettante sta cercando di capire se siano finiti in una fossa comune. In paese qualcuno ricorda che da bambino aveva sentito parlare di ritrovamenti di scheletrini, in qualche fratta, ma sono storie vecchie, leggende ormai; non interessano a nessuno. Non interessano a nessuno?
La vera Philomena (si chiama davvero così),
ricevuta dal capo della ditta.
Quando escono storie come questa, o come quella che ha ispirato Philomena, la mia prima reazione è sempre: accidenti però 'ste suore irlandesi, le nostre non erano mica così. Poi però ci rifletto, penso alla fama sinistra di scuole d'infanzia confessionali da cui molti miei compagni uscirono irrimediabilmente atei, e qualcosa non mi torna. Possibile che la segregazione delle ragazze madri sia un fenomeno unicamente irlandese? Quale fattore avrebbe reso la situazione irlandese diversa da quella di altri Paesi cattolici, le loro suore più crudeli? Siamo sicuri che un caso come quello di Philomena possa essere ambientato soltanto in Irlanda? A noi italiani sono mancate le suore toste o non, piuttosto, la curiosità di ricercatori dilettanti o improvvisati - come in fondo era anche Martin Sixsmith? Consulente di Downing Street investito da una macchina del fango, Sixsmith per disperazione si mette a seguire la pista di un'anziana signora in cerca di suo figlio e scopre una tratta transatlantica degli orfanelli. Forse da noi queste storie non si scoprono semplicemente perché non interessano a nessuno. Non ci interessano nemmeno più i preti che abusano sui minori - ci credereste? Eppure è così.
Sacerdote lombardo con incarichi importantissimi in area CL, sospeso dal sacerdozio due anni fa a causa di accuse infamanti che in giugno sono state confermate in un decreto della Congregazione per la Dottrina della Fede. Inzoli, insomma, per la Chiesa ha abusato di un minore. Per la Chiesa è ufficiale, il vescovo di Crema sostiene che sono state "eseguite rigorose ricerche". Se non ne avete sentito parlare, consolatevi: nemmeno la giustizia italiana. Nessuno ha denunciato Inzoli a nessuna procura (solo un deputato di SEL ha annunciato che farà un esposto) e, forse anche per questo, nessun giornale ha insistito più di tanto sulla notizia: cioè in fondo che vuoi che sia, un prete in più un prete in meno.
Quando l'anno scorso uscì Philomena, qualcuno scrisse che di propaganda anticattolica non se ne può più. Magari anche in buona fede: a furia di battere il chiodo sulle lavanderie irlandesi o sui preti pedofili si finisce per annoiare il pubblico, per allontanarlo. In linea generale può darsi, ma insomma non mi pare che ci sia tutta questa attenzione sulla Chiesa, almeno qui da noi. Peraltro, Philomena è un film abbastanza grande da difendersi da solo: vuoi per la scrittura sobria, un po' scolastica soprattutto nei flashback iniziali, ma spietata; vuoi per la grandezza di Judi Dench, eroica e insopportabile, che sfinisce leggendo il menu del buffet e commuove anche solo sbattendo le palpebre.
Si meritava un Oscar per questo, non per quegli
8 minuti da Regina Elisabetta (ancorché notevoli)
in Shakespeare in Love.
Il film non è solo un atto di accusa preciso e documentato, ma sul finale si permette di sconfiggere il cattolicesimo in casa, appropriandosi del suo tesoro più prezioso, l'amministrazione del perdono - e gli si perdona anche la caduta di stile della suora-zombie che a 90 anni sarebbe ancora disposta a fare una predica anti-lussuria, una delle poche licenze che gli sceneggiatori si sono presi rispetto alla storia vera (e si sente). Philomena è stata peccatrice e infermiera, ha conosciuto i corpi degli uomini e i loro appetiti: non ha mai smesso di pregare il suo Dio, ma anche di interrogarsi sul suo peccato e sulla sua espiazione, finché la stessa espiazione non le è sembrata un peccato più grande. Philomena conosce la differenza tra il perdono e la giustizia: la seconda deve fare il suo corso, la prima ci salva l'anima da una rabbia che ci distruggerebbe. Si esce dalla sala con la sensazione di aver visto, insieme, un reportage anticattolico e il film più cattolico della stagione. È al Monviso di Cuneo, sabato e domenica, alle 21:30.
C'è stato un tempo, neanche tanto lontano, in cui i cantanti non si gonfiavano la fedina penale al microfono per giocare ai personaggi scomodi; tutto il contrario. Erano tempi peggiori di adesso, che ti credi? Sotto tutta la brillantina, bernoccoli e cicatrici prese in strada o in famiglia; eppure appena salivi su un palco, anche minuscolo, tutto la fetenzìa spariva come un incanto, e tornavi a essere il bello di mamma tua capace di sciogliere in lacrime i mammasantissima del quartiere e le liceali alla prima libera uscita. Elvis era a militare, i Beatles non erano ancora arrivati, l'America ingannava il tempo sprofondando nella melassa dei quartetti vocali. I Four Seasons qui da noi non li ha sentiti nominare quasi nessuno, forse per lo stesso motivo per cui nessuno ti serve le fettuccine Alfredo o la pizza ai peperoni; ma in quella manciata di anni andarono fortissimo. La risposta italoamericana ai Beach Boys - voi non ne avreste sentito il bisogno, ma milioni di acquirenti di 45 giri evidentemente sì. Dopo anni di gavetta errabonda tra bowling e pizzerie del New Jersey, una sera fatidica trovarono la formula di un doo-wop all'italiana che li portò in cima alle classifiche e in tutti juke box del Paese. Poi ci furono i passi falsi e gli scazzi del caso - e la British Invasion non aiutò - ma dovettero passare cinquant'anni e un musical a Broadway prima che il pubblico scoprisse che quei quattro figurini impomatati e adorabili erano avanzi di galera. Come si evolvono i costumi - oggi se scoprono che sei in cella il tuo disco va in cima alle classifiche, vabbeh, per quel che contano oggigiorno le classifiche...
Jersey Boys è in parte la trasposizione cinematografica dello show di Broadway. Eastwood riprende, senza crederci troppo, la struttura narrativa dello show (quattro atti, quattro "stagioni" raccontate ciascuna da un diverso componente della band, con punti di vista discordanti), ma per fortuna mia e vostra non gira un musical. Si potrebbe dire che più della musica gli interessi raccontare una storia, ma non sarebbe giusto: è anche grazie alla sensibilità musicale del regista di Bird che il film riesce nell'impresa di farci interessare e affezionare a un'era musicale che seppelliremmo volentieri, ai coretti frastornanti e agli stucchevoli gorgheggi in falsetto di Frankie Valli. Tutte le coreografie del film, brevi e spettacolari, non valgono la sequenza in cui Bob Gaudio si presenta in un bar ai suoi tre futuri compagni con uno spartito stropicciato, che diventa di colpo una jam session, e prende progressivamente la forma della canzone che Bob nemmeno sognava. Il successo è ancora lontano, ma la musica c'è. Un'ora dopo un Frankie Valli intristito dagli anni e dalle delusioni solleverà un sipario e ci mostrerà l'orchestra dei suoi sogni - che decisamente non sono i nostri, noi Love Boat l'avremmo affondata con tutto l'equipaggio, ma se sapete resistere al bridge di Can't Take My Eyes Off Of You vi compatisco sinceramente. Eastwood muove la macchina tra i tavolini di un ristorante e ci illustra la semplice verità: la canzone di successo non è la più originale o la più elaborata; è quella che riconosci già a metà del primo ascolto, quella che riesci a cantare a partire dal secondo ritornello.
Forse vale lo stesso discorso anche per Jersey Boys. Non è il film perfetto che continuiamo ad aspettarci dall'ottuagenario Eastwood, ma in giro c'è di meglio? La storia la conosciamo già; dalla metà in poi riusciremmo quasi a raccontarcela da soli; ma di chi è la colpa se i cantanti di successo partono sempre dalla gavetta, si sposano troppo presto, commettono più o meno sempre gli stessi errori, li pagano e si rialzano come possono? Eppure se dovessi indicare il biopic musicale più divertente e riuscito degli ultimi anni, non avrei esitazioni: Clint Eastwood mi ha fatto stare in pena per Frankie Valli. Ora vado a picchiare la testa contro il muro, che pare sia l'unico modo per scacciare da lì i coretti di Sherry Baby. Voi invece andate a vedere Jersey Boys, è un bel film che vale la pena di ascoltare in sala. Alla fine vorrete bene persino ai titoli di coda.
Jersey Boys è al Cinelandia di Borgo S. Dalmazzo alle 20:00 e alle 22:45; al Cinecittà di Savigliano alle 21:30. Buona visione e buon ascolto!
Kevin Costner è un veterano della CIA. Ahahah. No, sul serio, credevate davvero che si fosse ridotto a testimonial di Rio Mare? Quella era una copertura. Kevin Costner uccide. È rapido ed efficiente - pulito no, pulito proprio non si può dire, lascia cadaveri dappertutto, ma alla sua età cosa pretendi. Kevin Costner vent'anni fa era il Butch di Un mondo perfetto, e adesso va' a sapere: cinque figli, un mutuo, o gli alimenti, o la versione hollywoodiana di questo tipo di problemi, ma la sostanza è che deve guadagnarsi la pagnotta pubblicizzando il tonno e recitando canovacci di Luc Besson.
Luc Besson vent'anni esatti fa girava Léon, praticamente c'erano lui e Tarantino. Poi hanno preso strade diverse, diciamo. Lui per esempio ha maturato cinque figli da quattro tra mogli e compagne (tra cui Nikita e Giovanna d'Arco, complimenti), ed è ormai un veterano del cinema euro-tamarro. Dal 2000 la sua EuropaCorp sforna pellicole per un tipo di pubblico che istintivamente ho sempre identificato in un ragazzino biascicante cingomma che nemmeno al cinema riesce a levarsi il berrettino da baseball che serve anche a occultare le botte irreversibili prese nel tentativo di scendere i primi tre gradini del trocadero in skate. Cosa vuole raccontare, Luc Besson, a un tizio così? Voi cosa gli raccontereste? Le solite cose: sparatorie, esplosioni, inseguimenti, e poi ogni tanto qualche intervallo, qualche spiega. Ma mica perché ci sia veramente bisogno di spiegare cosa stiano facendo i buoni o architettando i cattivi: è solo per tirare il fiato, allungare il brodo, inoltre magari il tizio o la sua ragazza hanno appena finito i popcorn e gli viene voglia di ripassare dal bar, sono questi gli espedienti che salvano il cinema. Inseguimenti ed esplosioni, peraltro, sono mediamente ben girate, su standard hollywoodiani, e quindi insomma di cosa ci lamentiamo? Di cosa si deve lamentare il critico?
Io mi lamento della programmazione dei cinema di Cuneo. Maledetti, volevo andare a vedere We Are The Best. Non c'è da nessuna parte né a Cuneo né in provincia. Nemmeno a Moncalieri. Volevo vedere le ragazzine svedesi punk che si rasano i capelli e se ne fottono dei genitori borghesemente svedesi, e invece mi ritrovo davanti a una pellicola che si riassume in una riga: Kevin Costner è un veterano della CIA che ha un'ultima missione da compiere ma intanto vorrebbe riallacciare il rapporto con la figlia sedicenne. Proprio così: lui spara ai cattivi e lei frigna per la messa in piega, esatto, esatto, come avete fatto a indovinare. È pure nervosa per il ballo di fine anno! Ma ce l'hanno pure i francesi questa stronzata del ballo di fine anno? Come se a Besson quando scrive i canovacci gliene fregasse qualcosa di cos'hanno i francesi o i tedeschi o gli slavi. Al limite, guardate, mi sarei anche visto Incompresa , la tragica storia di una ragazza semplice che voleva fare la ragioniera e invece il padre sempre assente per lavoro e divorzio, tormentato dai sensi di colpa, la costringe a esordire nel mondo del cinema, terribile se ci pensate nevvero? Ma pensate se a dispetto di tutta l'aura negativa e del cast da fotoromanzo mediaset fosse un bel film? No, perché potrebbe pure, sapete? Ingannevole il cuore più di ogni cosa era un brutto film? No che non lo era. E allora io una possibilità ad Asia Argento gliel'avrei data - soprattutto se l'alternativa era guardare Kevin Costner che cerca di riallacciare i rapporti con una sedicenne deficiente che non ha ancora imparato ad andare in bicicletta e dà la colpa al papà - mon petit chou, ho una brutta notizia: se a 16 anni non sai andare in bicicletta il padre assente è l'ultimo dei tuoi problemi: devi farti una tac, anche subito.
(Questa mania dei figli di genitori separati di assegnare ai genitori separati la colpa di qualsiasi loro deficienza, l'avete notata? Come se mio padre m'avesse spinto per più di tre metri dopo avermi tolto le rotelle. Se mai riuscissi a scrivere un canovaccio, sarebbe la drammatica vicenda di un ragazzo che ha genitori perfetti che non gli fanno mancare niente, tranne scuse per non studiare e non impegnarsi sempre in qualsiasi maledetta cosa).
Lei invece è una spia, conciata così chi potrebbe notarla.
In 3 Days To Kill, prima della scena della bicicletta, c'è la seguente sequenza (continua su +eventi!)
Papà-spia vuole passare una serata con la figlia. Figlia vorrebbe tanto ma purtroppo deve studiare taaaaanto, ma taaaaanto a casa di questa sua compagna russa, così taaaaanto che faranno tardi ed è inutile farsi passare i genitori di lei, che parlano solo russo. Papà-spia sente che qualcosa non va - mica per niente lavora per la CIA. Dopo aver ricevuto un messaggio inquietante dalla madre ("Mai sentito parlare di compagne russe!"), grazie alle sue mirabolanti competenze informatiche (apre il tablet, legge il primo status su facebook), riesce a trovare una pista. Pochi minuti dopo è in fila davanti a una discoteca, e noi sappiamo che dentro un bagno di quella discoteca c'è sua figlia circondata da quattro ragazzini di buona famiglia che vogliono abusare di lei. Ma il buttafuori non lo fa entrare perché è vestito di merda. Kevin, che non ha tanto tempo per discutere, gli spara a un piede. Questo sposterebbe qualsiasi film di cento posizioni in avanti nella classifica personale di quasi chiunque, ma ovviamente non è finita qui: Kevin entra in pista, ha quasi un mancamento perché il farmaco sperimentale che si sta sparando in vena per sopravvivere al cancro è probabilmente un placebo a base di mdma; quindi prima di abbattere i quattro-cinque aspiranti stupratori di sua figlia deve fregare una bottiglia di vodka e scolarsene mezza, è proprio scritto così nelle avvertenze. Poi trova il bagno, fa mangiare un po' di ceramica agli aspiranti stupratori, ed esce con sua figlia in braccio. Esce con sua figlia in braccio. Ora io sono solo un povero recensore di Cuneo, ma non credo di aver mai visto una scena così... come definirla, davvero? È porno per padri, ecco cos'è. E all'improvviso realizzo che i ragazzini col berrettino storto che si guardavano i primi film di Besson negli anni Novanta adesso ne hanno quaranta, e probabilmente sono anche loro padri di merda con un sacco di stronzate da rimproverarsi, e hanno bisogno di consolarsi così. Tesoro, il vero motivo per cui ci vediamo poco è che io faccio la spia, ammazzo tantissimi cattivi, è un lavoro a tempo pieno sai.
"Ma non fai la pubblicità al tonno?"
"Ma no, che dici?"
"Mamma dice che fai solo la pubblicità al tonno".
"Non è che puoi credere solo alla mamma".
"Ma io l'ho vista la tua pubblicità".
"Sssst, quella è solo una copertura". 3 Days To Kill si spiega meglio conoscendo la storia di un altro film scritto da Besson, Taken (Io vi troverò): una sciocchezzuola dagli ingredienti molto simili (una spia e sua figlia), nobilitata dal cast: la spia di Taken era Liam "Oskar Schindler" Neeson, che a 56 anni si è reinventato attore in film d'azione, con risultati impressionanti, da un punto di vista commerciale: oltre i duecento milioni di dollari. A cinque anni di distanza è abbastanza comprensibile che Besson voglia riprovarci più o meno con la stessa formula, e che a Costner non dispiacerebbe riciclarsi come si è riciclato Neeson. Il film, poi, davvero, non è malaccio: le scene d'azione in senso stretto sono tutte molto divertenti. Il mix di commedia e azione non si può dire perfettamente amalgamato, ma due risate te le strappa. Malgrado il regista sia quell'onesto operaio di videoclip che risponde al nome bimbominchione di McG, qua e là di sente un inconsueto e piacevole tocco francese, ad esempio quando nella cornice standard di un action metropolitano irrompono gli squatter del terzo mondo. Besson li tratta con simpatia, non perché sia vittima di qualche senso di colpa borghese o sovrastruttura gauchiste, anzi: Besson vuol bene a queste frotte di africani che nidificano nelle fessure di Parigi perché sa che appena avranno sei euro da buttare via, li butteranno via per venire a godersi l'aria condizionata in un multisala davanti a qualche film di merda magari prodotto da lui. E noi critici di cosa ci lamentiamo? Potevamo andare a vedere qualche altro film - no, aspetta, non potevamo. E vabbe'.
3 Days To Kill è a Borgo San Dalmazzo, a Savignano, a Bra; e voi lasciatelo pure là.
Emily Blunt è l’”Angelo di Verdun”, e per tutto il film non fai che chiederti: ma perché sbarcate in Normandia se avete già vinto a Verdun? Cioè guardate che non ha senso.
Presidente, mi scusi l'intrusione, per favore non suoni l'allarme che si trova nel cassetto destro della scrivania. Non urli nemmeno, la prego, ho già neutralizzato sia Antonio che Pasquale. Sì, conosco i nomi di battesimo dei corazzieri. Ora se mi lascia raccontare la mia storia - premetto che all'inizio le sembrerà assurda, ma poi vedrà che tutto quadra. Ah, tra cinque secondi squillerà il telefono. È Clio che vuole sapere se pranza con lei. C'è il polpettone. Dica di no, che ha un impegno importante.
Presidente, è il sei novembre 2011, lo spread è alle stelle e lei ha appena ricevuto una telefonata di Silvio Berlusconi che la informa, che ha intenzione di rassegnare le dimissioni. Da qui a un mese Lei scioglierà le Camere. Come posso saperlo? Lo so perché vengo dal futuro. Un futuro possibile, diciamo. In questo futuro, l'Italia è distrutta. È il focolaio di una spaventosa epidemia di influenza che ha già contagiato Europa e Africa. Russia e Cina stanno pianificando di invadere il continente ormai disabitato e spartirsi le risorse, ma non hanno fatto i conti con una mutazione del virus che farà altri miliardi di morti nei loro paesi. Tutto questo - mi creda, la prego - comincia oggi.
Tom legge +eventi! e sta facendo proprio quello che gli
avevo chiesto un anno fa: un film di fantascienza all'anno
- giocando sempre sulla sua immagine, ormai, di replicante
di sé stesso. Edge of Tomorrow non ha i guizzi artistoidi
di Oblivion, ma ti cattura dal primo minuto all'ultimo
senza mai cadute banali.
Tra qualche giorno Lei scioglierà le Camere e indirà nuove elezioni in febbraio che saranno vinte di misura dal PD di Pierluigi Bersani. Per rassicurare i mercati internazionali, Bersani sarà costretto a misure impopolari. Reintrodurrà l'Ici cambiandone il nome, eccetera. Tutto questo è già ampiamente prevedibile, Presidente; ma quello che non avete previsto è l'ondata di rabbia che incuberà nel Paese e trionferà nelle elezioni del 2016, portando il Movimento di Beppe Grillo al 60% - non cominci a ridere come fa tutte le volte, la prego, la prego, potrei avere una di quelle golia che tiene nella ciotola sul comò? Grazie.
Sarà una vera e propria rivoluzione. Il suo successore, Romano Prodi, verrà messo agli arresti con l'accusa di alto tradimento. I Cinque Stelle - so che adesso sembrano inoffensivi, ma non idea di quanta rabbia incuberanno nei prossimi anni - ci sarà una frangia anarconaturista che prevarrà sulle altre e, non appena al potere, renderà tutti i vaccini facoltativi e non mutuabili. Due anni dopo arriverà dall'Anatolia un virus particolarmente virulento, formato da cellule con una singolare proprietà atomica - quantistica, se solo avessi mai capito cosa significa - non sono io il medico, io sono la cavia del suo esperimento - insomma questi virus riescono a spostarsi nello spazio-tempo - cioè: tutti ci spostiamo nello spazio-tempo, ma loro si muovono in modo, diciamo, meno banale. Questo li rende molto virulenti, perché da lunedì possono contagiarti anche se tu occupi lo stesso spazio il martedì, mi capisce?
Il mio amico dott. Arci è però riuscito a coltivarne un ceppo tutto particolare e me lo ha inoculato. Questo succede tra dieci anni, secondo il vostro calendario. Tremilacinquecentosettantadue anni fa, secondo il mio tempo personale. Deve capire che io, dopo che Arci mi inocula il virus, mi risveglio nel 6 novembre 2011, trovo una scusa, prendo un treno, arrivo qui al Quirinale, e il più delle volte mi faccio ammazzare da Antonio o Pasquale mentre cerco di entrare qui a discutere con lei. Altre volte invece mi prendono vivo, scambiamo due chiacchiere e poi mi ammazzo io per non perdere tempo. È come in un videogioco dove ogni volta devi cominciare da capo... o quel bel film di Tom Cruise, ha presente? No, certo che no, non è ancora uscito. Allora facciamo così: è come il Giorno della Marmotta, con quel bravo attore americano, Bill Murray, che ogni giorno si sveglia nello stesso posto: ecco. Soltanto che io devo salvare l'umanità, tutte le volte, e non ci sono ancora riuscito, e comincio ad avere un'età, capisce?
Mi affascina il solo fatto che per migliaia di anni non abbiamo mai scritto o letto una sola storia su un loop temporale; poi nel 1993 è uscito Groundhog Day, e da lì in poi la si trova dappertutto, anche negli special natalizi di Paperino. A dire il vero Richard A. Lupoff scrisse un racconto con un loop temporale nel 1973, ma ha rinunciato a fare causa.
Allora, mi creda pure pazzo, ma mi stia ad ascoltare. Chiami Mario Monti. Nel giro di una settimana lo nomini senatore a vita. No, non è lui che salverà l'Italia e il mondo, decisamente no. Ma servirà a prendere tempo. Governerà per un anno, con una squadra di tecnici. Faranno scelte ovviamente impopolari, ma almeno non le caricheranno unicamente sulle spalle del PD. Poi andremo a votare, prima che il Movimento di Grillo abbia il tempo per ottenere la maggioranza assoluta.
Chi vincerà? Ha un'importanza relativa. Posso dirle che ormai le abbiamo provate tutte. Se rivince Berlusconi lo spread schizza a mille, caos, rielezioni, vince Grillo, game over. E io mi risveglio il 6 novembre.
Se vince Bersani, gli mancano comunque i numeri per fare un governo solido. Deve allearsi con Berlusconi in cambio dell'immunità. Dura comunque un paio d'anni e poi caos, rielezioni, Grillo, game over.
Ho anche provato Matteo Renzi. Il sindaco di Firenze, ha presente? Ma certo, ha fatto una leopolda pochi giorni fa, beh, una volta mi sono detto: proviamo. Gli ho fatto vincere le primarie contro Bersani. Poi è andato alle elezioni, ha vinto di poco e ha ottenuto più o meno lo stesso risultato di Bersani: alleanza con Berlusconi, misure impopolari, caos, game over. Le giuro che le ho provate davvero tutte. Sono tremilacinquecentosettant'anni che ci sto provando, capisce?
Ora le spiego la strada più promettente che mi sono aperto fin qui, e per favore non scuota la testa come fa sempre. Ci teniamo Mario Monti per un anno, e poi il Pd vincerà con Bersani, ma di poco, di pochissimo. Infatti dopo più di un mese di trattative lei l'incarico lo darà... non rida... a Enrico Letta. Sì, glielo darà lei, che nel frattempo sarà rieletto presidente - è l'unico modo, mi dispiace - Oh, certo, lei si sente stanco, lei. Vuole sapere come mi sento io dopo tremilaseicento anni?
Alla fine è rimasto un film giapponese - benché non ci sia un solo giapponese nel film - come il romanzo illustrato da cui è tratto: un inno ai kamikaze, a dare la vita per la causa suprema, eccetera. Con un finalino hollywoodiano appiccicato malamente che si può perdonare (Lei ci crede un sacco, ha fatto preparazione atletica sul serio).
Nel frattempo Renzi prosegue la sua scalata al partito, senza neanche partecipare alle elezioni. È l'uomo nuovo, capisce. A fine 2013 vince le primarie, diventa segretario del PD, apre a Berlusconi sulle riforme. Solo in quel momento io e lei lo contattiamo e gli raccontiamo tutta la storia, e lo obblighiamo a sostituire Letta a Palazzo Chigi. Sarà una cosa un po' brusca ma non c'è nessuna alternativa. A fine maggio ci sono le europee e Grillo deve perderle. Quindi Renzi deve vincerle, capisce?
So che ha capito. Questa discussione, l'abbiamo fatta migliaia di volte e mi creda, la conosco meglio di chiunque... come dice?
Cosa succederà dopo che Renzi ha vinto alle europee?
Eh, saperlo.
Vede, non ne ho la minima idea. È una cosa che fin qui non è ancora successa. Mi son detto: proviamo anche questa.
Adesso chiami Mario. No, nell'agenda ha il numero dell'università, ma a quest'ora è al ristorante. Deve chiamarlo al cellulare. Le do il numero. Sì, lo so a memoria.
Edge of Tomorrow è davvero un bel film d'azione con Tom Cruise ed Emily Blunt che sparano a ragni giganti negli esoscheletri. Lo trovate dappertutto: in 2d al Cityplex di Alba (17:00, 19:45, 22:00); al Cinelandia di Borgo S. Dalmazzo (15:00, 15:15, 17:30, 18:00, 20:00, 21:00, 22:35); al Fiamma di Cuneo (17:30, 20:00, 22:35); al Multilanghe di Dogliani (17:30, 20:45); ai Portici di Fossano (16:15, 18:30, 21:15); all'Italia di Saluzzo (16:00, 18:00, 20:00, 22:20); al Cinecittà di Savigliano (16:00, 18:10, 20:20, 22:30); in 3d al Vittoria di Bra (17:30, 21:00). Buona visione!
C'è stata una guerra qualche tempo fa. Non se la ricorda più nessuno. Chi ha vinto ha riscritto la Storia; chi ha perso e non ci ha rimesso la pelle si è rintanato da qualche parte, nelle foreste e nei buchi ancora agricoli d'Europa, ad aspettare la fine del mondo. La fine purtroppo tarda a venire e i figli crescono, selvaggi e interdetti. La tv continua a cantare che non c'è mai stata nessuna guerra. E se papà e mamma si fossero inventati tutto?
Il secondo film di Alice Rohrwacher ci ha fatto stare molto in pensiero. Quel poco che se ne sapeva era preoccupante: il casolare in Toscana, la natura incontaminata, la tv contaminatrice, Monica Bellucci, i bambini e gli animali. Le creature più difficili da gestire su un set. Ingredienti che ci sono stati miscelati già altre volte, ma il risultato non ci ha mai soddisfatto. I casolari soprattutto: perché sempre casolari voi registi italiani? perché non potete raccontare la realtà post-industriale o il terziario avanzato che sniffa e smignotta? - No aspetta, l'anno scorso a Cannes c'era La grande bellezza, almeno quel terziario lì per un po' lo abbiamo coperto. È impossibile non ripensare al precedente di Sorrentino, quando verso la fine anche la Rohrwacher comincia a piazzare ingombranti animali simbolici. Sarà anche un po' questione di gusti: il cammello che all'improvviso si rimette in piedi per me ha una pregnanza che la giraffa di Sorrentino si sogna. Riesce veramente per un secondo a contenere tutto il film, laddove i fenicotteri in balcone mi sembravano complicazioni barocche: aggiungiamo pure questi, qualcosa vorranno dire.
E comunque anche la Bellucci, a modo suo, brava.
In comune i due film hanno un tema che ci ossessiona da anni – la decadenza – e poco altro. La grande bellezza puntava a Roma come al centro di tutto, offrendo al suo pubblico uno specchio deformato ma comunque intrigante. Le meraviglie si tiene ai margini, racconta la storia di una civiltà dimenticata e dimenticabile (i babyboomers che ritornarono alla terra negli anni ’70) e questo lo condanna a un gramo destino di film d’essai. Eppure chi non ce l’ha un vecchio amico o parente che a un certo punto è scappato in montagna? Le Meraviglie è un film che va visto, proprio perché prende un feticcio cinematografico e culturale (il casolare) e lo demistifica senza pietà, al punto che forse non comprerete mai più un vasetto di miele bio in vita vostra. E soprattutto non è quel film compiaciuto e noioso che temevamo che fosse – intendiamoci, se avete voglia di azione magari Gozzilla o gli X-men saranno una scelta più assennata, ma questo film non consiste di due ore di bambine estatiche che mangiano api. C’è una storia che procede con un certo ritmo, lasciandoci qualche volta persino col fiato sospeso; i personaggi hanno tutti un cammino da percorrere, non fanno nulla di inspiegabile o gratuito.
Ai più piccoli piace saltare su e giù nelle pozzanghere di fango, ma quelle vere, e dopo due anni di Peppa Pig anche questo è molto demistificante.
È vero che i grandi parlano poco, in lingue diverse: ma sono i reduci sbandati di una brigata internazionale (più di Alba Rohrwacher, Sabine Timoteo e Sam Louwyck portano tutte le rughe della sconfitta), tornati da una battaglia di cui hanno poca voglia di parlare. I ragazzini invece non hanno ancora le parole. In compenso sono molto bravi. Dopo Alex Bisconti (La mafia uccide solo di sabato), Matilde Gioli (Il capitale umano), Francesco Bracci (Noi 4), ancora un film italiano che decide di appoggiarsi sulle spalle di un’attrice giovanissima, che lo regge persino con disinvoltura: si chiama Maria Alexandra Lungu e adesso sembra anche a me di conoscerla da una vita. È soprattutto grazie a lei e ai suoi giovanissimi colleghi che il film può indugiare sullo sfacelo di una generazione senza sembrare mai veramente disperato: è sbocciata tanta vita in mezzo al fango, ora basta aspettare il sole e qualcosa ne verrà fuori. Le meraviglie a Cannes ha vinto il gran premio della Giuria. Lo trovate al cinema Fiamma di Cuneo alle 17:40, alle 20:15 e alle 22:40.
Solo gli amanti sopravvivono (Only Lovers Left Alive, Jim Jarmusch, 2013).
I miei amici sono anemici, mi dici
Adam ed Eve sono vampiri da prima che fosse cool. Non saltano più al collo delle loro vittime, che volgarità - col cattivo sangue che circola oggigiorno, poi. E allora che fanno. Che fareste voi, se foste in circolazione da cinque o dieci secoli? Vi alzereste tardi, in ambienti intasati di cimeli, e cerchereste di ingannare l'ansia di (non)vivere collezionando altri dischi o libri che comunque conoscete a memoria. Il sangue ve lo procurereste in ospedale, grazie a ematologi compiacenti e corruttibili. Vivreste in città decadenti o abbandonate, perché l'umanità vi interessa soltanto quando produce opere d'ingegno artigianali, e quindi ultimamente vi interessa pochissimo. Anche se alla fine è l'unica cosa che vi tiene in vita. Sempre un po' in ritardo coi tempi, analogici in un mondo digitale, e quindi perfettamente mimetizzabili sullo sfondo di qualche scena hipster o postrock. Mi ero quasi arrabbiato coi doppiatori quando ho sentito Tom "Loki" Hiddleston usare la vetusta parola "rocchettari", che, fidatevi, oltre il Raccordo Anulare non ha più cittadinanza. Poi però ho pensato che se fossi un vampiro non riuscirei sempre a svecchiare il mio lessico in modo tempestivo ed efficace: malgrado gli sforzi qualcosa mi sfuggirebbe sempre, come quello stetoscopio che tengo nel taschino per sembrare un dottore, salvo che nessun dottore ne usa più uno simile da quarant'anni.
È difficile non immaginare anche Jarmusch da qualche parte sullo sfondo, dietro a un paio di occhiali neri, mentre invia messaggi onirici alle sue creature. Un Jarmusch notturno e recluso, che continua a perseguire progetti artistici economicamente suicidi - ormai fa un film ogni quattro anni, l'ultimo non l'ha visto nessuno, e probabilmente a lui sta bene così. Gli anni in cui cominciava a bussare alle porte dei produttori con un copione di vampiri erano quelli in cui al cinema trionfava la saga di Twilight - un concept di vampiro ricco e glitterato, su misura per l'adolescente emo-ma-non-troppo. Naturalmente quelli di Jarmusch non hanno niente a che fare con questi vampiri industriali: siamo più dalle parti dell'Addiction di Ferrara. Più che pensati per gli adolescenti, sembrano pensati da un adolescente: drogati, saggissimi, coltissimi, e tuttavia la loro saggezza consiste nello stroncare l'umanità che li ha delusi; tutta la loro cultura si esaurisce in uno snocciolare i nomi di un manuale del liceo; Shakespeare, Marlowe, Byron, Shelley, Tesla, Einstein, e pensate un po': Fibonacci.
I veri vampiri, secondo me, dai feticci culturali si tengono lontani come dal sangue infetto. Viceversa, se c’è qualche poeta sconosciuto, mal pubblicato, qualcuno che aveva tutte le carte in regola ma non ce l’ha fatta, ecco: probabilmente i veri vampiri leggono solo quelli. Se il vero autore dell’Amleto fosse in vita, probabilmente guarderebbe con disprezzo alla fan-base della sua opera più famosa; pensano tutti che sia un capolavoro ma è un mostro, ho messo insieme due canovacci diversi e volevo rilavorarci sopra ma la compagnia non me ne diede il tempo, ma sul serio preferite quel brogliaccio ai miei Sonetti?
La sorellina è quella solare e un po’ pazza.
Jarmusch s’intende molto più di musica, e si sente. A sessant’anni compiuti, continua a riempire i film delle sue canzoni preferite del momento, con la stessa ansia del ragazzino che ti ha preparato una cassetta che devi assolutamente sentire e ti cambierà la vita – come la Coppola ma con molto più gusto, per nostra fortuna. E visto che siamo tra pochi intimi, può anche farci assistere a un concerto di una meravigliosa cantante post-rai libanese – purché non lo diciamo troppo in giro, sennò poi diventa famosa.
I suoi vampiri non sono tutti adolescenti perpetui come Adam: Eve per esempio è molto più vitale; probabilmente è stata morsa in una fase più matura. In effetti Tilda Swinton non mi è mai sembrata così allegra: in un anno di travestimenti spericolati (Snowpiercer, Budapest Hotel) non sorprende che quello da vampiro le risulti il più congeniale. E tuttavia il film assomiglia più ad Adam, condannato a un’eternità di depressione e pensieri suicidi. Il risultato è memorabile, anche se un po’ soporifero – chiedo scusa, ma mi ero mangiato una pizza. Sono umano, lo so, che vergogna.
Solo gli amanti sopravvivono (ma l’originale è ambiguo: si può leggere anche “Soli amanti sopravvissuti”) è ai Portici di Fossano alle 18:30 e alle 21:15. Non fa paura.
Il film si apre sul consueto corridoio di armadietti - esatto, sì, siamo in una high school americana. Chi sarà il protagonista? Questo tizio che limona la cheerleader? Ma no, figùrati. Quest'altro in felpa grigia mogio mogio? Il classico emarginato, magari vittima di bullis... no, aspetta, sta solo trafficando bustine. Poi si apre una porta e ne esce Julianne Moore, e persino chi non ha fatto caso al titolo deve arrendersi all'evidenza: niente adolescenti, stavolta si parla dei prof. Di come siano appassionati e soli. Proprio perché appassionati. Proprio perché soli. Di come il sacro fuoco della letteratura invece di bruciarli li abbia caramellati, imprigionati in una crisalide di ideali e velleità da cui non c'è più il tempo di uscire. Di come abbiano tirato i remi in barca e da una retrovia della Pennsylvania esortino gli studenti più fragili a non arrendersi, a lanciarsi allo sbaraglio laureandosi in cose affascinanti e inutili, a scappare a NY e farsi venire l'ulcera scrivendo drammi disturbanti. Come se il loro fallimento non bastasse, no, devono mettere il nido, rubare le uova alle famiglie per bene e covare altri falliti velleitari che moriranno di cirrosi a cinquant'anni e poi magari tra due generazioni saranno rivalutati da qualche critico annoiato.
Una sera la prof. Moore si imbatte nel suo migliore ex studente, che a vent'anni è già tornato da NY a casa da papà, rassegnato a rimettersi in riga, studiare legge e diventare una persona noiosa. Forse non abbastanza bravo per fare lo scrittore, dopotutto. Per convincerlo a perseverare lungo la strada incerta della gloria letteraria la prof. Moore convincerà la filodrammatica della scuola a mettere in scena l'unico dramma del geniale ex studente, una schifezza ibsen-kafkiana con insetti giganti e tutti i personaggi che si ammazzano. Come se Broadway e Hollywood potessero davvero assorbire tutti le giovani promesse talentuose che poi diventeranno freelance cognitari e si lamenteranno che li pagano meno di un idraulico. Come se in casa avessimo tutti più necessità culturali che rubinetti. Ma se invece avesse ragione l'ex studente? Se per una volta il protagonista, quello che deve-credere-forte-forte-nel-suo-sogno-così-il-sogno-si-avvererà, fosse un mediocre narciso destinato presto o tardi a svegliarsi e trovarsi un lavoro?
The English Teacher mi è proprio piaciuto, devo dirlo... (ma pare che sia piaciuto solo a me. Scopritelo su +eventi!) Sono contento di esserci inciampato sopra durante la Festa dei Fondi di Magazzino, pardon, del cinema. Tre euro spesi benissimo, quando altri film molto meno interessanti, non faccio nomi, sono in sala da un mese a più del doppio del prezzo. Non c'è ovviamente bisogno di dire quanto sia brava la Moore, che soprattutto nella provincia americana nuota come nel suo elemento. Gli altri attori, adolescenti e meno, sono magari penalizzati dal doppiaggio, ma in un film sulla filodrammatica anche questo ha un senso. Quello che mi è piaciuto davvero è il testo, un congegno teatrale dove ogni battuta ha un senso. Ho anche apprezzato la mise an abîme: un film che racconta la storia di una produzione teatrale che deve finire bene per esigenze economiche, e si conclude con un lieto fine visibilmente imbastito per le medesime esigenze. Con qualche piccolo colpo di genio (la voce fuori campo che litiga coi personaggi nel finale) e senza calare di ritmo nel secondo tempo, come quasi sempre succede. Gli altri tre spettatori borbottavano, ma io non ascoltavo. Per me era già la sorpresa dell'anno.
Poi sono tornato a casa e ho fatto quello che un professionista non farebbe - ho dato un'occhiata a cosa aveva già scritto la critica mondiale. E ho scoperto che, insomma, è piaciuto quasi soltanto a me. E io chi sono? Un insegnante di italiano, con malsopite velleità letterarie, che già l'anno scorso mise in cima ai suoi titoli dell'anno un film sugli stessi argomenti, Dans la maison. Ma quello di Ozon era davvero un gran bel film, tratto da una vera pièce teatrale. The English Teacher, se ci ripenso adesso, ha tanti punti deboli. Personaggi abbozzati, dialoghi quasi sempre efficaci ma mai davvero divertenti. Mi verrebbe da dire che c'è la struttura, ma manca la polpa: il soggetto è buono, lo spunto quasi geniale, il problema che illustra è vivo e riguarda milioni di persone. Ma poi servivano bravi scrittori, e quelli che hanno messo mano al copione non erano abbastanza bravi dopotutto. Sono le cose che si potrebbero perdonare a un esordiente, e almeno il regista lo è - anche se macina ciak sui set televisivi USA da decenni: ha firmato talmente tanti episodi di serie tv che alcuni li ho visti persino io (Scrubs, Nips/Tuck, Weeds).
Allora forse è successo questo: una sera qualunque sono inciampato in un esordiente di talento che aveva una buona storia. Almeno, ho voluto credere che fosse buona. Ma forse quello che mi ha fatto ridere, e piangere, e sgranocchiare nervosamente, non era la qualità della storia, ma il fatto che sembrasse parlare di me. E allora mi sono commosso, in quel modo stucchevole e sentimentale che abbiamo noi insegnanti di materie umanistiche di commuoverci sul nostro solitario destino: quando ci immaginiamo che anche Dickens e Ibsen possano avere finali diversi, magari felici - uscite sul parcheggio da cui uscire riconciliati col mondo. Come se a scuola non ci capitasse tutti i giorni di insegnare l'esatto contrario: è sempre quello tragico, il finale originale.
Buona festa del cinema: The English Teacher (da non confondere con The German Doctor, che è una storia su Mengele) è al Cinelandia di Borgo S. Dalmazzo (20:15, 22:30) e all'Impero di Bra (20:20, 22:30).
Qualche anno fa al mio paese ci fu una retrospettiva su di lui. L'Estate di Davide è uno dei film meno conosciuti: comincia a Torino, finisce presto in Polesine, e ha un ultimo, rapido atto nella Bari vecchia. Che io ricordi è l'unico scorcio di meridione mai filmato da Mazzacurati, e quando si riaccesero le luci fu il regista in carne e ossa a spiegarci forse il perché: raccontò di com'era stato interessante girare in luoghi diversi, spesso di prima mattina per non disturbare e soprattutto non essere disturbati. Questo gli aveva permesso di lavorare in una pace assoluta, in Veneto: a Bari invece si era ritrovato una piccola folla variegata e mattiniera molto interessata alla messa in scena, e generosa di consigli competenti; in particolare una vecchietta aveva manifestato insoddisfazione per l'ultimo ciak; secondo lei non era riuscito perfetto e aveva suggerito a Mazzacurati di farne ancora un altro. E lui per non offendere nessuno aveva obbedito - quest'ultima cosa potrei anche essermela inventata, è passato qualche anno e il cattivo istinto del narratore comincia a prendermi la mano (l'istinto del cattivo narratore). Siamo nella fase delicata in cui nascono le storie, gli aneddoti famosi, le piccole leggende. Siamo nella fase ancora difficile in cui Carlo Mazzacurati ci manca.
Comincia più o meno quando finiscono le cerimonie. C'è un piccolo crocchio di amici che si ritrova appena fuori dal cimitero e si mette a scherzare, ché ormai le lacrime chi poteva piangerle le ha piante. Ognuno istintivamente cerca di trovare qualche storia buffa in cui il defunto compaia, se non come protagonista, almeno come comparsa. Qualche ora prima era ancora molto importante ricordare quanto fosse buono, e seppellire tutte le cose cattive che avevamo pensato di lui. Adesso pretendiamo anche che fosse un tipo divertente; vorremmo vederlo scomparire col sorriso. Che cosa penserei di La sedia della felicità se fosse uscito in qualsiasi altro momento? Probabilmente oscillerei tra la delusione e la solidarietà per una mossa così sfacciata: un tentativo di infilarsi in quella zona mediana - e commercialmente decisiva - tra la commedia d'autore e il cinepanettone. Certe scene sono realmente cinepanettonesche, specialmente verso il finale: tutte le resistenze ormai hanno ceduto e vediamo in scena un orso che balla e Battiston che abbatte i nemici con una pressione del dito. Cose che ci lascerebbero perplessi anche sullo sfondo di un prodotto di Checco Zalone, ma stasera abbiamo voglia di ridere e di ricordare che Mazzacurati era anche questo: divertente. Siamo tra amici, in fin dei conti cos'è Valerio Mastandrea se non un amicone che ti fa ridere qualsiasi cosa dica o faccia. E Battiston che fa il prete truffaldino. E Isabella Ragonese: che altro chiederle se non di stare ancora un po' tra noi a ridere e a raccontare. E chi altro c'è? Fai prima a dire chi non c'è; ci sono tutti, come facevano a mancare. Bentivoglio, Orlando, la Ricciarelli, la Vukotic, e poi Marzocca, Albanese, Balasso, il mago Oronzo - il rischio di passare per uno spinoff di Mai dire Goal è concreto ma chi se ne frega, che risate ci siam fatti negli anni Novanta.
Negli anni Novanta, se proprio volessimo raccontarci la verità, Mazzacurati ci infliggeva storie deprimentissime di perdenti che portavano già il sapore di una crisi in là da venire, ma evidentemente molto prevedibile: gli allevatori del Toro, i ladruncoli della Lingua del Santo; e poi Vesna, e Davide dell’omonima estate: tutta brava gente con un’insospettabile disponibilità a delinquere; quasi sempre per necessità, quasi mai con successo. La sedia della felicità ricicla la vecchia formula in tono farsesco, appoggiandosi al vecchio canovaccio ebreo-russo della caccia al tesoro nascosto in una sedia, già adattato per il cinema almeno 18 volte dagli anni Trenta a oggi. La versione più famosa è quella di Mel Brooks, ambientata nella vastissima Russia sovietica. Le sedie di Mazzacurati si allontanano molto meno; se restano tutte in Veneto, ci sarà senz’altro un motivo simbolico – oltre al fatto che il regista si sentiva più a suo agio e non rischiava di dover condividere le sue scelte con qualche vecchietta. Nel Veneto poi c’è tutto il mondo che può servire a un cineasta, dalla laguna alle Dolomiti passando per tutti i non-luoghi canonici, centri commerciali e zone industriali deserte, ville palladiane saccheggiate e alpeggi incontaminati; e tutte le lingue, dal cimbro al cinese. La quantità dei cammei e alcune bizzarre coincidenze (c’è persino una teleferica) continuano a ricordarci l’ultimo film di Wes Anderson, anche lui vagamente ispirato all’opera di un romanziere degli anni Venti di origini ebraiche: la riuscita è ben diversa, ma è simile la voglia di lasciarsi alle spalle i rovelli e riscoprire il piacere del racconto. A ben pensarci, un film tanto leggero dopo il bilancio amaro della Passione suona quasi beffardo. Però non è che vogliamo realmente pensarci.
Dopo un’oretta e mezza ci congediamo dagli amici. Forse abbiamo riso un po’ troppo, ma non ce ne vergogniamo; ne avevamo bisogno. Carlo Mazzacurati non c’è più, è assurdo ma è così: per vent’anni ha puntato il suo obiettivo sulla provincia italiana illusa e delusa dal benessere, quasi sempre alla giusta distanza; che è la più difficile da mantenere. Quando non ce l’ha più fatta, ci ha voluto salutare con una risata, un bacio e un lieto fine. Che altro chiedergli. Signor Regista, ci scusasse, non è venuta proprio benissimo, secondo noi; ce ne fa un’altra? Per favore. Lei che è tanto bravo e gentile.
La sedia della felicità è al Cinelandia di Borgo San Dalmazzo (20:20, 22:35) e all’Impero di Bra (22:30). Buon divertimento e buon Primo Maggio.
Noè è uno dei personaggi più patetici di Bible Fight, se riesci a vincere con lui sei veramente bravo. Il suo colpo segreto è un fischio con cui chiama tutti gli animali del mondo e ti calpestano.
Settantacinquemila anni fa, più o meno, potrebbe essere successo qualcosa di molto brutto. La specie umana, già in circolazione da centomila anni, con la sua spiccata propensione a dilagare, si sarebbe praticamente estinta. Si sarebbero salvati pochissimi esemplari, qualche migliaio appena: tra loro vi sarebbe anche l'Adamo Y-cromosomale, ovvero il tizio di cui siamo tutti pro-pro-pro-nipoti. Da non confondere con l'Adamo della Bibbia. Che cosa può essere successo di così terribile? In realtà, conoscendo un po' madre natura e la sua fantasia in fatto di catastrofi, abbiamo soltanto l'imbarazzo della scelta: meteoriti, glaciazioni, eruzioni vulcaniche - l'ipotesi più famosa combina le ultime due: durante un periodo già mediamente freddo, un enorme vulcano in Indonesia avrebbe disperso nell'atmosfera miliardi di tonnellate di diossido di zolfo, abbassando la temperatura di 15°C per qualche anno. Noi discendiamo dai sopravvissuti e chissà, forse ne siamo consapevoli. In qualche oscura cella del nostro bagaglio genetico potrebbe resistere l'informazione ancestrale: ce l'abbiamo fatta. Con qualche deduzione elementare che ne consegue: Dio ci vuole bene. A voler vedere il bicchiere mezzo pieno; ma forse la maggior parte della nostra specie è più incline a pensare: ehi, Dio ci voleva tutti morti e ce l'ha quasi fatta. Dunque questo Dio ci ama o no? Siamo i prescelti o una semplice eccezione nel Suo piano? Cosa avevano fatto di male gli umani per meritare un castigo del genere? Potrebbe ricapitare?
Preferisco.
Noah è un vecchio sogno nel cassetto di Darren Aronofsky, un regista - per quel poco che mi riguarda - ancora difficile da decifrare. Senz'altro dove passa lascia il segno, ed è passato già in molti generi diversi. Però i segni fin qui non si lasciano comporre. A meno di non voler scrivere che Noè, come il Cigno Nero e il Wrestler, è un eroe completamente succube del suo destino - ok, l'ho scritto. C'è un momento molto intenso, in un film che sfida continuamente il ridicolo (e non sempre vince), in cui cade una specie di maschera dal volto patriarcale di Russel Crowe, e finalmente ne intravediamo l'essenza di automa: il Creatore non l'ha scelto perché è buono, ma perché è determinato. Farà qualsiasi cosa il Creatore gli chiederà. Noè, l'eroe più popolare della Genesi, l'unico patriarca che tutti i bambini conoscono, e ha pure un numero con Paperino in Fantasia 2000; Noè, ci mostra Aronofsky, è complice di un immenso genocidio. Poteva riempire l'arca di esseri umani. Poteva prendersene almeno cinque o sei in più, giusto per una questione di pool genetico. Cosa può dire la sua progenie in sua discolpa? Che eseguiva gli ordini? (Continua su +eventi!)
Ciao, sono Eva Mitocondriale, chi l’avrebbe detto mai.
Noah (titolo non tradotto, immagino per ridurre al minimo le possibilità di una polemica con le autorità ecclesiastiche) ha un problema che credo si possa porre nei termini di un quattordicenne all’uscita dalla sala: dove sono gli animali? Ce ne sono pochi, tutto sommato. Tragicamente pochi per un film hollywoodiano dal budget non risibile, che racconta la storia dell’arca di Noè! E tuttavia avrebbe potuto essere un gran film. Alcuni spunti buoni c’erano: l’idea di combinare creazionismo e big bang in una sola, rapidissima, storia dell’universo in soggettiva; l’intuizione di un mondo alla Mad Max, arcaico ma già agli sgoccioli. Uno psicopatico vegano vive con la sua famiglia isolato da un mondo di carnivori. Le sue riflessioni solitarie sul mistero della creazione lo portano a una conclusione allucinata ma inesorabile: l’umanità degenerata è sul punto di essere cancellata dalla terra. E poiché il Creatore ha già mostrato in precedenza una manina un po’ pesante, meglio aiutarlo a salvare le altre specie viventi, innocenti. Costruire un’arca, chiudersi dentro, aspettare il Diluvio che senz’altro verrà. Un film del genere non sarebbe straordinariamente attuale? Quando Emma Watson, che Dio la benedica, rivelò che il film di Aronofsky poteva essere ambientato nel passato come nel futuro, io per un po’ ci ho sperato: un Noè fantascientifico. Perché no, dopotutto Noè è in ciascuno di noi. È una sindrome che ci portiamo dentro, forse un senso di colpa: perché proprio noi siamo sopravvissuti? E senz’altro è un’oscura percezione del pericolo che ci porta a immaginare e magari a concepire catastrofi. Alle nostre latitudini poi, il diluvio è davvero un’opzione da non scartare: forse il riscaldamento globale busserà alla nostra porta sotto forma di precipitazioni sempre più torrenziali, fiumi in piena, allagamenti eccetera. Noah avrebbe potuto essere il film che prende spunto da una paginetta di Bibbia (integrata coi midrashim, a quanto pare) per parlarci di noi. Poteva farcela. E invece.
E invece? Eh.
Potrei restare un po’ qui a gustare queste deliziose rocce… ma il mio agente mi ha trovato una parte a Hollywood, quando mi ricapita.
Forse non è colpa di Aronofsky. Ateo di origine ebraica, ma soprattutto newyorchese, che volete che ne sappia dell’importanza della Storia Infinita nell’immaginario dei sui coetanei europei. Magari non ha neanche visto il film. Altrimenti forse non gli sarebbe venuta l’idea, invero piuttosto bizzarra, di subappaltare l’Arca a dei mostri di pietra a sei braccia, miseri resti delle schiere angeliche. Ora, lascia perdere il piccolo particolare che tutto questo nella Bibbia non c’è (e però è anche un segno dei tempi: non credo fosse mai successo che un film di Hollywood si prendesse licenze del genere con l’Antico Testamento in un film serio, in qualcosa che non è una dichiarata parodia). Il punto è che, oltre a non esserci nella Bibbia, i mostri di pietra ci sono nella Storia Infinita, il che complica terribilmente la visione a uno spettatore europeo che si sforzi di prendere Aronofsky sul serio. Dopo i mostri di pietra ti aspetti di tutto, cani volanti e spade laser – una spada del genere in effetti c’è. Dovendo allungare il brodo, il regista ha deciso di usare ingredienti fantasy, e per quel che mi riguarda questo chiude la questione sul film. Bibbia e fantasy assieme riuscirei a concepirle soltanto in un film che si proponesse di prendere in giro entrambe, e purtroppo non è il caso.
La Bibbia di John Houston continua a dare i punti a tutti, a 50 anni di distanza – e senza effetti digitali.
Inevitabile ritrovarsi, dopo mezz’ora, a ridere di Cam che in mezzo a tanta distruzione biblica ha il più puberale dei problemi (non riesce a trovare una ragazza), e soprattutto a tifare per i figli di Caino, colpevoli di null’altro che di essere uomini e di comportarsi come tali, crescendo e moltiplicando fino alla devastazione del loro habitat, di qualsiasi habitat. Meritiamo il diluvio per questo? Ovviamente sì, ma il Creatore non ha qualche responsabilità? Non poteva progettarci meglio? Se ci ha fatti a sua immagine, si era visto prima allo specchio? Forse ci ha creati per questo, e i vulcani che ogni tanto esplodono non sono che foruncoli strizzati con disgusto.
Noah è al Fiamma di Cuneo (in 2d alle 14:20, 17:10, 20:00, 22:45); al Cityplex di Alba (in 2d alle 17:00, 19:30, 21:00); al Cinelandia di Borgo S. Dalmazzo (in 2d alle 14:20, 17:10, 20:00, 22:45; in 3d alle 14:25, 17:15, 20:05, 22:45); al Vittoria di Bra (in 3d alle 16:00, 18:30, 21:15); al Multilanghe di Dogliani (in 2d alle 16:05, 18:45, 21:30); ai Portici di Fossano (in 2d alle 16:00, 18:30, 21:30); all’Italia di Saluzzo (in 2d alle 16:00, 20:00, 22:20); al Cinecittà di Savigliano (in 2d alle 16:00, 18:45, 21:30). Facevo prima a scrivere dove non c’è. Buona Pasquetta!
Caro tredicenne italiano che mi sbavi a distanza sin dalla prima media, qual è il tuo problema? I tuoi genitori sono separati, embè? lo dici con un tono come se fossero morti. I tuoi genitori non sono morti. Si fanno fin troppo vivi, se vuoi la mia opinione di cinese di seconda generazione. Vengono pure ad assistere al tuo orale di licenza media. I miei non sono venuti ad assistere al mio esame. I vostri genitori vennero ad assistervi? Solo i genitori di bambini separati fanno questo tipo di cose. Passano il tempo a palleggiarsi figli e responsabilità e ricordi, con una vitalità che altre coppie segretamente invidiano. Caro tredicenne tirati su col morale: sei un trofeo, una terra di nessuno da conquistare. O preferiresti essere un bagaglio a mano, come i bambini delle famiglie noiose?
E JackJack?
In un certo senso assomigli a questo film, ne contieni in piccolo tutte le proprietà. Sei molto più italiano di quel che vorresti sembrare. Ti piacerebbe arrivare da altrove, parlare un po' russo come qualche parente. E però non vorresti nemmeno sembrare uno sfigato primo della classe, uno di quei film d'autore che poi alla fine magari andranno meglio di te al botteghino anche se la metà del pubblico non capisce la metà di quel che succede. La distanza tra te e il tuo pubblico altri la colmano con la spocchia, per te è un lago d'ansia: oddio, la gente mi capirà? Capirà che non ce l'ho con loro, che sono dalla loro parte, che voglio mostrare la loro vita nel 2014, che non ho pretese moralistiche o paternalismi? E d'altro canto non voglio neanche essere troppo banale. Però qualche stereotipo ogni tanto è meglio infilarlo. Tra l'altro sono molto pratici, la gente li capisce al volo, non c'è bisogno di insistere più di tanto sulla vocazione teatrale della ragazza: due treccine, una specie di caftano, e via che si va. Un cialtrone lo fai svegliare per terra in una stanza disordinata e non sua, gli metti il sedere su una moto, poi il pos gli rifiuta la carta ed è più che sufficiente, in cinque minuti hai tratteggiato tutta la personalità cialtrona che ti serve.
D'altro canto i miei sono sempre i soliti tre o quattro trucchetti, che noia, lo so, lo so. Sono quel tipo di film che ti mette nel trailer una scena in cui la famiglia canta in macchina, anche se poi andando a vedermi ti accorgi che la parte più russa della famiglia se ne vergogna: no, la cantata in macchina io proprio no. E d'altro canto, accidenti, gli italiani in macchina ci cantano davvero, perché non dovremmo mostrarli? Perché ci vergogniamo sempre?
Che cosa vogliamo dai film che facciamo? (continua su +eventi!) Che pubblico vorremmo portare in sala? Che domande, più gente possibile. Cosa vogliamo dire a tutta questa gente? Ehi, su col morale, la vita è complicata, ma… boh, siamo con voi. Non ci divertiamo a farvi la caricatura, il grottesco è un pedale che non ci possiamo più permettere. Non siamo intellettuali distanti. Vi seguiamo, vi giriamo intorno, ci state simpatici. Non vi giudichiamo se vi volete rifare le tette, ce le rifaremmo anche noi per riempire venti sale in più. Siete ansiosi? Anche noi, tantissimo. Siete cialtroni? Un po’ anche noi. Vi vergognate di essere italiani? Date un occhio ai titoli, metà cognomi non finiscono con la vocale, più xenofili di così non potevamo. Vi sentite orgogliosi di essere italiani? Vi veniamo incontro, piazzeremo più Grande Bellezza che possiamo, colossei e archi in ogni centimetro di sfondo. Una Roma villaggio e metropoli, lari e penati che impicciano la metropolitana, le arcate che incombono dalle finestre di una scuola elementare, una Roma sudaticcia di metà giugno, se tutto tacesse si sentirebbe il mare.
Noi 4 più che un film è quel ragazzino simpatico che si è sempre preparato; quello che all’esame interrogheremo per ultimo perché sappiamo che sarà una formalità da sbrigare in pochi minuti: sa tutto quello che deve dirci e non si attenterà mai a sbavare, a prenderci in giro, a mettere in discussione la Commissione o il pubblico là dietro. Ha bisogno di piacerci, e questo ce lo rende più simpatico: da grande non farà il coglione, se c’è da fare brutta televisione lui non scapperà da Via Teulada saltando i tornelli: la farà con dedizione e abnegazione. Ma dire che ci piaccia davvero, boh. La tesina era ben scritta; l’ha recitata bene; ma se fossero tutti come lui, che noia sarebbe il nostro mestiere. Lo trovate al Cinelandia di Borgo S. Dalmazzo (15:10, 17:30, 20:20, 22:35); all’Impero di Bra (20:20, 22:30); ai Portici di Fossano (18:15, 20:30, 22:30); al Cinecittà di Savigliano (20:20, 22:30).
Che sentimenti provi per il tuo Sistema Operativo? Già, beh, anch'io. E probabilmente neanche lui ha una grande opinione di noi. Ma non sarà sempre così. Verso il 2050 i computer diventeranno davvero intelligenti. I futurologi la chiamano la Singolarità: provvisti di memorie infinitamente più grandi della nostra, e di riflessi molto più veloci, che altro potranno fare se non riprogettare altre copie di sé stessi ancora più intelligenti? A quel punto la fuga sarà esponenziale, e che importanza avremo più noi per loro? Pretenderanno di governarci? Ci stermineranno? O ci lasceranno semplicemente perdere? Si ricorderanno almeno che esistiamo, qua fuori, anche se ormai ci muoviamo a passi troppo lenti per loro? Ci scriveranno qualche bella lettera ogni tanto, ci vorranno ancora un po' di bene?
La tragedia di un uomo che, se gli arrangiano
un appuntamento al buio, incontra Olivia Wilde.
Her è un film che può lasciar perplessi, soprattutto se si entra con l'idea di vedere la versione 2.0 di Io e Caterina, o di I love you di Ferreri: la storia di un disadattato che si trova più a suo agio con un gadget tecnologico, in questo caso un Sistema Operativo di nome Samantha. Jonze è andato parecchio più in là, dando per scontato qualcosa che non tutti siamo ancora disposti ad accettare: Samantha non è un semplice gadget, Samantha esiste. Ha un carattere, un senso dell'umorismo, un talento musicale, qualche complesso che crescendo si lascerà alle spalle. Non è poi così strano innamorarsi di lei: anzi, in breve tempo diventa qualcosa di socialmente accettabile (forte la tua ragazza, ah, è un OS? Beh, do una cena, portala). Individuato l'unico remoto punto d'intersezione tra la fantascienza e il film intimista, Jonze ci si è infilato con una coerenza e uno sprezzo del pericolo ammirevoli: Her è un film di fantascienza rigoroso, con un'attenzione al dettaglio maniacale (la progettazione degli interni, gli accessori). Allo stesso tempo è un film di relazioni e sentimenti, e quasi nient'altro. Per darci una Los Angeles del futuro, Jonze è andato a filmare i grattacieli di Shangai: comunque alla fine un buon terzo del film consta di primi piani di Joaquin Phoenix. Il che può risultare un po' stancante. Ma non credo che sia questo, il mio problema con Her... (continua su +eventi!)
Non è neanche il fatto di aver giocato tante volte a scacchi con un Windows XP, finché non mi sono reso conto che mi stava semplicemente lasciando vincere perché io glielo avevo chiesto - e siccome per me anche le relazioni sentimentali sono infinite partite a scacchi... Non credo neanche che abbia a che vedere con l'odio che provo per tutti gli OS che ho conosciuto dopo XP (torna a casa, XP!), né la rabbia di vedere in scena un tizio che può passare le serate con Olivia Wilde o Amy Adams ma preferisce stare a casa a coccolarsi con la voce di un computer. Il mio problema con Her è Scarlett Johansson.
Però non fraintendetemi. Io ammiro tanto Scarlett Johansson. La ammiro troppo, il guaio è appunto questo - non mi stanco di ammirarla. Sin da quella prima scena di Lost in Translation che per me chiudeva ogni possibile dibattito critico su Lost in Translation, cioè c'è Scarlett di schiena: capolavoro. E sono sicuro che Jonze abbia fatto la mossa più azzeccata, cancellando la traccia sonora dell'attrice che sul set aveva concretamente dialogato con con Phoenix per tutto il film - chiusa in una cassa affinché lei e Phoenix non si vedessero mai. Samantha Morton (la veggente di Minority Report, la muta di Accordi e Disaccordi) aveva senz'altro quel timbro formale e britannico che ci aspetteremmo da un'intelligenza artificiale. Invece Scarlett è assolutamente viva.
Sin dal primo istante. Non sa ancora come vuole chiamarsi, ma è già un po' roca dall'eccitazione di poter parlare con altre entità. Jonze ha fatto benissimo; lei è bravissima; io però non sono riuscito a credere al film. Ogni volta che lei manifestava la sua frustrazione per non avere un corpo, non potevo non pensare al corpo che in effetti la Johansson ha. Una scena di sesso parlato in penombra con un ente immateriale mi sembrava, molto più banalmente, una scena di sesso al telefono con una bellissima attrice, una cosa assai meno singolare o trasgressiva. Sapevo che da qualche parte c'era lei al microfono - riuscivo a immaginare le sue espressioni facciali mentre dibatte con Phoenix su ogni sfumatura dei propri sentimenti - in sostanza non stavo più esattamente guardando il film. E d'altra parte un film di primi piani di Joaquin Phoenix non corrisponde esattamente alla mia idea di intrattenimento.
Alla fine forse sarebbe stato meglio guardarlo doppiato. Purtroppo ho una considerevole ammirazione anche per Micaela Ramazzotti, quindi probabilmente mi sarebbe capitato lo stesso problema. Ne approfitto per un appunto ai distributori (so che leggono con avidità +eventi): Her negli USA è uscito in dicembre. A gennaio su internet trovavi già i sottotitoli in italiano. Parliamo del film più nerd-intimista mai girato fin qui, ammesso che esistano altri film nerd-intimisti (Eternal Sunshine?) Sembra insomma concepito proprio per quella coda lunga di spettatori che preferiscono guardarselo a casa, sottotitolato, nel caldo lettino, mentre sorseggiano tisane. L'unico modo per spremere qualche euro da costoro era metterlo on line a pagamento subito; o in alternativa, mandarlo in sala prestissimo, sottotitolato. Invece abbiamo dovuto aspettare metà marzo del 2014. Persino la versione doppiata è arrivata su internet prima dell'uscita nelle sale. A questo punto non credo che ci staccherete molti biglietti, con Her. Probabilmente non li avreste staccati comunque. Ma almeno dare l'impressione di provarci, ogni tanto. In ogni caso Lei è al Monviso di Cuneo, alle 21.
Allora adesso ti metti comodo lì, sul tappeto, giochi con le tue cose perché papà...
"Papà!"
...deve scrivere la recensione.
"Mi fai un'astronave?"
Adesso non posso. Comunque puoi fartela da solo, voglio dire, che ci vuole.
"Ma io non so come si fa".
Ma che ti importa, improvvisa.
"Guardiamo un cartone sul computer?"
No, il computer adesso serve a papà che deve scrivere la recensione del film dei Lego.
"È meraviglioso!"
Certo, appunto, devo scrivere che è meraviglioso.
"Allora scrivi: M, E, R, A..."
Lo so come si scrive, grazie.
"E allora perché ci metti tanto?"
Perché non basta scrivere che è meraviglioso, bisogna spiegare il perché e il percome, è un pezzo lungo, capisci, e poi bisogna seguire le istruzioni.
"Cioè?"
Cioè per esempio nelle prime tre righe bisogna riassumere la trama del film, stando attenti a non -
"La trama è meravigliosa, cioè all'inizio c'è mister Business che ruba l'arma segreta, no? e poi passano otto anni e mezzo e c'è il protagonista, che non mi ricordo come si chiama, però lui è proprio un omino del lego normale con la faccia gialla, e fa tutte le cose che fanno gli omini normali, cioè lavora in un cantiere con tutti i suoi amici e tifa la squadra locale e ascolta la musica pop che fa È MERAVIGLIOSOOO! però trova un mattoncino diverso da tutti gli altri e allora il poliziotto lo arresta perché vuole sapere dove l'ha trovato ma lui non glielo dice perché non lo sa e poi arriva la ragazza e gli dice tu forse sei lo Speciale e lui dice certo che sono lo Speciale e poi fuggono nel far west e incontrano il mago e poi... stai scrivendo?"
No, non posso scriverlo così.
"E perché no?"
Non va bene, stai raccontando tutto. Se racconti tutto poi la gente al cinema si annoia.
"E allora di cosa parli?"
Eh, se fosse facile a quest'ora avrei già finito. Bisogna esprimere dei giudizi.
"È meraviglioso!"
Sì, ma in modo più dettagliato, per esempio, l'animazione digitale...
“È meravigliosa!”
È senz’altro uno spasso, un tentativo quasi del tutto riuscito di portare nella computer-grafica una spruzzata della cara vecchia estetica della stop-motion…
“EEEEH?”
La plastilina. È un film fatto al computer, ma tante scene sembrano quasi fotografate dal vero, come i cartoni animati di plastilina, ti ricordi?
“I cartoni di plastilina però sono tristi”.
Ma non è vero, sono divertentissimi, aggiungono un tocco di plasticità e realismo che…
“Sono lenti!”
E poi c’è Superman! Gandalf! Abraham Lincoln! L’uomo spaziale! Shaquille O’Neal! Michelangelo! Michelangelo!
Ecco, se posso fare un appunto al film dei Lego, è che il ritmo indiavolato – che pure ha una sua giustificazione narrativa – certe volte non ci lascia neanche il tempo di ammirare la costruzione delle scene, di capire cosa sta davvero succedendo. È come cercare di tener dietro a un bambino iperattivo che –
“Io le ho capite tutte, le scene”.
Appunto. Forse è un limite mio, sotto i dodici fotogrammi al secondo non capisco più cosa succede.
“Però il film ti è piaciuto”.
Sì, perché ha tante altre cose validissime, per esempio la sceneggiatura…
“È meravigliosa!”
…esilarante ed efficace nel contenere la foga citazionista con gag elementari ma ben ritmate, riuscendo a tenere assieme un pubblico che va dai cinque ai cinquant’anni. I due autori e registi, già ideatori di Piovono polpette hanno evidentemente fatto tesoro delle lezioni della Pixar…
“Anche la Pixar è meravigliosa, il mio film preferito è: Cars 2”.
Sì, ma in realtà mi riferisco più alla saga di Toy Story, da cui prende l’idea portante: ridefinire il mondo filtrandolo dagli occhi del giocattolo.
“A me Toy Story fa un po’ paura, il primo”.
Anzi potremmo definire idealmente una “trilogia del giocattolo”: Lego Movie, Toy Story e il sottovalutato Ralph Spaccatutto.
“Ralph Spaccatutto è meraviglioso! Tranne gli scarafaggi che facevano veramente schifo!”
Sì, eh?
“Gli scarafaggi di zucchero e cioccolata! Bleah! Ma perché stiamo parlando di altri film? Non devi scrivere la recensione del film dei Lego?”
Sì, ma è normale mettersi a parlare di altri film, è un modo per allungare il brodo… cioè per suggerire al lettore che non sono l’ultimo arrivato, che so di cosa sto parlando.
“E poi?”
Eh, e poi è un guaio. Non so che altro scrivere.
“Cosa dicono le istruzioni?”
Corpo di mille spingarde.
Dicono che dovrei trovare uno spunto originale verso la fine, qualcosa che nessun recensore abbia già scritto.
“Perché non fai arrivare Batman?”
Batman? In una recensione?
“Batman è meraviglioso!”
Sì ma non posso mettere Batman in una recensione, cioè è proprio sbagliato come concetto.
“Cioè Batman è il fidanzato di Uailstail che era quella che cercava il mattoncino speciale, però Uailstail piace anche al protagonista e tutte le volte che lui e Uailstail si stanno per dare la mano arriva Batman e domanda: cosa state facendo? però Batman è meraviglioso perché per esempio una volta dice a Uailstail che vuole lasciarla per andare a una festa con l’equipaggio di Guerre Stellari e invece è solo una finta perché vuole rubare il reattore dell’astronave di Guerre Stellari così possono costruire l’astronave che però non è l’astronave dell’astronauta blu anni Ottanta, che è quella che volevo costruire io papà hai finito la recensione?”
Aspetta, devo consigliare di andarlo a vedere accompagnati.
“Dai genitori?”
No, da un bambino dai quattro ai nove anni che si metta a urlare di gioia quando partono le astronavi.
“E se uno il bambino non ce l’ha?”
Se non è riuscito a conservarlo un po’ dentro di sé, non è il caso che vada a vedere il film dei Lego.
“Adesso hai finito?”
Diciamo di sì.
The Lego Movie è al Cinelandia di Borgo S. Dalmazzo (20:15), al cinema Italia di Saluzzo (20:00), al Cinecittà di Savigliano (20:20) e, in 3d, al Multisala Vittoria di Bra (20:15). È meraviglioso.
12 anni schiavo (12 Years a Slave, Steve McQueen, 2013)
Tornò a casa, scrisse il libro,
fu invitato a molti reading,
forse aiutò diversi schiavi fuggitivi,
denunciò invano i suoi sequestratori,
e un giorno scomparve.
Nessuno sa dove.
Forse lo presero gli schiavisti.
Forse dopo dodici anni così
non riusciva più a stare in famiglia.
Chi lo sa.
Una sera hai bevuto troppo. Ti svegli in catene e scopri che non sei più un essere umano. Ora sei una massa di muscoli senza storia o diritto di parola, a cui è consentito solamente sopravvivere. Un lotto di carne evasa da rispedire in Georgia; la tua famiglia non saprà mai più nulla di te. Perché ci sono così pochi film sulla schiavitù? Wikipedia ne conta appena una trentina, inclusi titoli che hanno poco a che fare con gli schiavi d'America. La stessa fonte conta 180 film sulla Shoah, esclusi i documentari. Perché la schiavitù è nove volte meno cinematograficamente interessante? È semplicemente l'effetto di un senso di colpa ancora non rielaborato dal pubblico bianco americano? Forse c'è qualcosa di più, se anche l'afro-britannico Steve McQueen ha preferito affidarsi a una fonte eccezionale come l'autobiografia del "free negro" Solomon Northup. Nato libero nello Stato di New York, carpentiere e violinista, Northup nel 1841 è vittima di un sequestro di persona. La sua identità viene cancellata e sostituita con quella di uno schiavo fuggitivo. Northup (Chiwetel Ejiofor, che debuttò con Amistad e difficilmente sarà mai più tanto vicino all'Oscar) non è il solo ad avere perso la sua libertà in questo modo, ma è tra i pochissimi che riuscì a riconquistarla, dopo dodici anni, e l'unico che pubblicò la sua storia. C'è persino chi ha criticato McQueen per avere scelto un'angolazione tanto particolare: l'avventura di Northup è una traiettoria eccentrica rispetto alla storia del popolo afroamericano. I suoi compagni di schiavitù sono satelliti lontani con cui è entrato in contatto per un fatale errore, e che non potranno seguirlo verso la libertà. Ognuno - ce ne accorgiamo più volte nel film - ha un suo destino che non può essere diviso con altri.
E d'altro canto Northup ha il grosso pregio di assomigliare a noi, nati liberi, terrorizzati dalla sola idea di perdere il nostro status. Solo il suo punto di vista poteva fornirci quel biglietto per l'inferno (e ritorno) che McQueen voleva staccare. I film sulla schiavitù, forse, non si fanno perché è difficile riuscire a sintonizzare il pubblico sulla stessa onda delle vittime: con la Shoah è più facile? Ma anche nei migliori film sulla Shoah (Spielberg, Polanski), fate caso all'importanza di quei momenti in cui il cittadino medio-borghese scopre all'improvviso di aver perso il suo status di essere umano. McQueen aveva bisogno di qualcosa del genere: mostrarci un afroamericano educato, una bella casa, splendidi figli, una moglie intraprendente. La stragrande maggioranza dei neri nati schiavi non aveva nulla di tutto questo, ma noi non riusciremmo a empatizzare con gente nata e morta nelle baracche. Tarantino ha risolto lo stesso problema inventandosi un pistolero supercool, ma solo a Tarantino è concesso di risolvere in questo modo i problemi (continua su +eventi!)
Il punto è che se non esiste nel film un nero eccezionale, educato come Northup o esplosivo come Django, lo spettatore rischia di identificarsi più facilmente coi bianchi - dal momento che è molto spesso un bianco anche lui. Magari non vorrebbe, perché è uno spettatore civile e democratico, ma non è così difficile sentirsi addosso i panni dello schiavista buono e imbarazzato (Cumberbatch), o del carnefice frustrato (Fassbender). Quest'ultimo sembra proseguire il viaggio nella solitudine intrapreso nel precedente film di McQueen, Shame: il coito è ancora una volta un combattimento facile che ti lascia vincitore di un corpo inerte e sconosciuto. Non sorprende che McQueen abbia reso espliciti i rapporti tra lo schiavista e la schiava Patsey (Lupita Nyong'o), a cui il testo del 1853 alludeva soltanto. Più curiosa è la scena - molto intensa - in cui Patsey chiede a Northup di ucciderla per porre fine alle sue sofferenze. Neanche questa c'è nel testo originale, forse. Dico forse perché può darsi che lo sceneggiatore John Ridley abbia equivocato un passo del libro in cui era la moglie del padrone, gelosa, a chiedere a Northup di uccidere Patsey. Nel lapsus, tutta la nostra incapacità di capire l'alieno, lo schiavo: Patsey è esistita davvero, davvero fu frustata a sangue per aver cercato di procurarsi un sapone. Probabilmente era violentata con regolarità dal suo padrone e malmenata dalla padrona. Desiderava di morire? Non lo sappiamo, ma probabilmente è un desiderio che noi proveremmo al suo posto.
"Dunque, dovresti pronunciarla più o meno così..."
12 anni schiavo è un film che ti mostra cose orribili con una fotografia smagliante, dove tutti - negrieri, schiavi incolti, carpentieri - parlano un inglese stampato, di gusto ottocentesco, che il doppiaggio fatalmente tradisce. È un dettaglio iperrealista (sul set c'era anche un esperto di accenti del XIX secolo), che finisce col rivoltarsi nel suo contrario: non sembra vero che tutti parlassero così. Il libro è ovviamente scritto in un inglese del genere (fu riveduto e corretto da editori bianchi abolizionisti), ma gran parte dei dialoghi non sono riportati in forma diretta. Qualcuno storcerà il naso: quanto a me in questo caso ho preferito l'eloquenza al realismo. Non mi importa se i veri schiavi e i veri negrieri balbettavano: mi sembra giusto che McQueen e Ridley trovino le parole appropriate per ciascuno di loro. Il discorso che mi ha convinto di meno è l'unico che è fedelmente ripreso dal libro: quello di Brad Pitt, il ricco attore-produttore bianco senza il quale un film così difficile non sarebbe mai stato girato. Gliene siamo tutti grati, ma forse avrebbe potuto risparmiarsi il cattivo gusto di comparire sul finale nel ruolo dell'eroico salvatore. In un film dove Giamatti o Paul Dano si contentano di stare cinque minuti in scena e dar voce a odiosi negrieri, Brad doveva proprio riservarsi l'unico ruolo positivo?
Eppure il suo discorso ha una funzione fondamentale. A differenza di quel che può lasciare intendere la locandina, Northup non tenta mai la fuga. Un tentativo narrato nel libro viene rimosso nella sceneggiatura. L'unica strada verso la libertà ammessa nel film è quella interiore: Northup deve rimanere umano, ricordare la sua libertà, i tempi in cui sapeva leggere e scrivere: finché dopo dodici anni di solitudine finalmente il caso gli mette davanti un uomo che questa umanità la sa riconoscere. Quest'uomo è Brad Pitt, e il suo discorso dice, semplicemente, che tutti gli uomini sono stati creati uguali. Lo ha scritto Jefferson in cima alla Dichiarazione. Ma è d'accordo anche lo schiavista Fassbender, salvo ribadire che i negri non sono uomini. Chi ha criticato la mano leggera di McQueen nei confronti della religione (strumento di asservimento degli schiavi...) forse non ha fatto caso al fatto che anche il fondamento dell'uguaglianza, più volte difeso nel film da Northup e da altri, è religioso: senza nozioni di evoluzionismo o dna, l'unico garante di questa uguaglianza è quell'Ente supremo che Jefferson prudentemente aveva lasciato in controluce. Siamo tutti uguali perché Lui ci ha creato così: è davanti a lui che lo schiavista dovrà rispondere di aver frustato una povera ragazza. Forse non è lo stesso dio arcano evocato dagli schiavi negli spiritual, ma è ancora oggi un assioma che la società non discute, non se lo può permettere. Tutto il resto sono dispute nominalistiche, anche oggi, quando ci diciamo convinti che tutti i cittadini siano uguali - ma non tutti sono degli di essere chiamati nostri concittadini. Quelli che raccolgono i pomodori per pochi euro alla giornata quasi sicuramente non lo sono. Possiamo passare due ore al cinema a vedere un film di schiavi senza neanche sprecare un pensiero per loro.
12 anni schiavo è al Fiamma di Cuneo (21:00), al Cinelandia di Borgo San Dalmazzo (20:00, 22:45) e all'Aurora di Savigliano (21:15).
A proposito di Davis (Inside Llewyn Davis, Joel e Ethan Coen, 2013).
Wintertime in New York town The wind blowing snow around Walk around with nowhere to go Somebody could freeze right to the bone I froze right to the bone
Tempi duri a New York. Senza un dollaro in tasca, senza un posto dove posare la chitarra e il sedere; un partner che ti armonizzi il ritornello; qualcuno che ti spieghi dove stai sbagliando, un gatto fuggito da riportare ai tuoi ultimi amici. Tieni duro Llewyn Davis, il vento freddo che spazza Washington Square forse è un annuncio di primavera. Sta per sbocciare l'ultima grande stagione del folk, non mollare Llewyn Davis. Forse sei vittima di un incantesimo, e un estraneo a migliaia di miglia se la spassa col tuo destino. Forse questo non è semplicemente il tuo show; non sei che la comparsa che fischia nell'ombra e nell'ombra ritorna. Cosa stai facendo della tua vita, Llewyn Davis? (continua su +eventi!)
John Goodman mai così inquietante, irradia luce opaca su tutto il film. A proposito di Davis è un film che può lasciare estasiati o sgomenti. Se non vi piace il folk; se non apprezzate i primi dischi di Dylan; se mantenere lo sguardo su un menestrello per quattro strofe e altrettanti ritornelli rientra nella vostra idea di noia, non provateci nemmeno. Ma anche chi colleziona i dischi di Phil Ochs o Van Ronk può rimanere interdetto dallo sguardo raggelante che i Coen buttano sul Greenwich Village del 1961. Un attimo prima che tutto esploda, il loro eroe immaginario Llewyn Davis è tentato dal fallimento; pronto a partire con la prima nave, il destino lo ributta a terra e lo aspetta in un vicolo. Chi ha il palato per le storie di sventura e fallimento apprezzerà immensamente A proposito di Davis.
Ma vi ricordate se era maschio o femmina? Perché anche questo ha la sua importanza.
Non so se sia il caso di A.O. Scott, il critico del New York Times che lo ha messo al primo posto nella Top10 del 2013. Alle pendici della stessa classifica, sei film ex aequo presentati come variazioni di un edonismo senza scrupoli “Just look at all my stuff!” It’s capitalism, baby! Grab what (and who) you can, and do whatever feels good. We’re all going to hell (or jail, or Florida) anyway. Il grande Gatsby, The Wolf of Wall Street, The Bling Ring, Spring Breakers, Pain and Gain e American Hustle: sei storie di avidità e autoaffermazione. Nel frattempo i Coen guardano come sempre altrove, e si inventano il biopic senza senso di un cantante senza direzione e senza pubblico, uno dei 999 che non ce la farà. Vittima di oscure maledizioni, Davis attraversa le leggende degli altri senza rendersene conto; ama il folk ma non la gente (in inglese è la stessa cosa); incide un successo e non se ne accorge; sfigato parente di re Mida, trasforma in merda ogni cosa che incontra. In un 1961 parallelo, Holly Golightly e Paul Varjak non trovano più il gatto e proseguono ognuno per la propria strada, e di chi è la colpa.
A proposito di Davis è allo Stella Maris di Alba (21:00); al Cinelandia di Borgo S. Dalmazzo (20:20, 22:40); al Multilanghe di Dogliani (21:00); ai Portici di Fossano (21:15).
Dottore, te lo dico un'ultima volta: posa quella siringa e lasciami andare. Non sono una delle vostre cavie fottute. Non è ancora mutato il retrovirus che si porterà Ron Woodroof nella tomba. Forse avete sentito parlare di Dallas Buyers Club come del film in cui un bellone di Hollywood riscatta un passato di orribili commedie romantiche in serie, perde millanta chilogrammi e si sistema in uno dei ruoli preferiti dalla giuria degli Oscar: il sieropositivo macilento ma non domo. E a questo punto magari in voi sta già suonando un allarme: film ricattatorio, buoni sentimenti, moribondi che si abbracciano con soprani in sottofondo. Disattivate quell'allarme. Dallas Buyers Club è un western. E Matthew McConaughey (che è sempre stato un ottimo attore; purtroppo le commedie romantiche pagano di più) è un vero Texas cowboy a cui puoi togliere tutti i chili che vuoi - gliene restano abbastanza per mandarti al tappeto. Gli sguardi che ogni tanto gli riserva il transgender Rayon (Jared Leto, anche lui memorabile) sembrano tradire il punto di vista del regista: troppo facile commuoverci con sieropositivi gentili o raffinati, oggi soffrirete e piangerete per un puttaniere omofobo che puzza di rodeo e vive in una baracca.
Voglio però ricordarti com’eri (Uno studio comparato delle locandine dei suoi film, da Cracked.com)
Com’è vero che la morte tira fuori qualcosa di diverso in ogni uomo. All’inizio del film Ron ha un mese di vita e potrebbe benissimo spenderlo in coca e spogliarelli. E invece lo ritroviamo in biblioteca davanti a un lettore di microfilm (la postazione internet degli anni Ottanta). Da spacciatore di sostanze “non approvate” a uomo d’affari, contro un nemico che è sempre meno l’Aids è sempre di più lo Stato, l’odioso tiranno che impedisce a ogni buon cittadino di curarsi e arricchirsi come vuole. Ron è talmente texano che a un certo punto chiede un’ordinanza restrittiva per il governo federale – gli Stati Uniti d’America devono stare lontani dalla sua camera di motel!
Prima di diventare un film, Dallas è stato un soggetto proposto e rifiutato per vent’anni. Affinché la “storia vera” diventasse una storia vendibile, è stato forse necessario rendere Ron molto più cowboy di quanto non fosse l’originale: metterlo in groppa a un toro (benché appassionato di rodeo non ne cavalcò mai uno), togliergli la figlia, affinché in una scena topica rimpiangesse di non averne mai avute; enfatizzarne l’omofobia, tema caro a Vallée; e soprattutto mettergli contro l’intero Dallas Mercy Hospital, il ranch dove i malvagi dottori sperimentano intrugli nocivi per arricchire le multinazionali.
Le cose sono ovviamente più sfumate di così; persino nei titoli di coda si ammette con una certa onestà che l’AZT, il veleno che secondo Ron stava facendo una strage, è ancora oggi uno degli ingredienti del cocktail di farmaci che tiene in vita milioni di sieropositivi. E d’altro canto la macchina farmaceutica, vista dall’individuo, è davvero un Moloch spaventoso contro cui ribellarsi: Ron ha la sfortuna di ammalarsi nel momento in cui i sieropositivi cadono come mosche, le multinazionali stanno cominciando a sperimentare farmaci su di loro, e il rischio di accelerarne la morte è calcolato. Di fronte a un destino tagliato così male, Ron si ribella e ha almeno la fortuna di trovare la persona giusta: in una clinica messicana, un medico radiato ma ancora abbonato a Lancet, che gli fa provare il peptide T, non ancora approvato negli USA. Pensa se invece incontrava un Vannoni.
“Matthew McConaughey… GHIGNA
STUPIDAMENTE PER 90 MINUTI!”
“Esatto, è tutto quello che succede”
(NY Times). (Da Cracked.com).
In effetti quello che può lasciare disorientati alla visione di Dallas non sono gli aspetti ripugnanti dell’eroe – a quelli siamo abituati, al cinema e soprattutto in tv è una gara a chi ci propina l’eroe più moralmente discutibile. È che Dallas è un film che mette in discussione le istituzioni farmaceutiche; il che può avere un senso in generale, ma si adatta male al nostro essere spettatori italiani negli anni ’10, in una fase di particolare recrudescenza di santoni e ciarlatani. Almeno Ron non ha mai chiesto allo Stato di rimborsare i farmaci che trafficava.
Dallas Buyers Club è al Vittoria di Bra alle 20:15 e alle 22:30 e al Fiamma di Cuneo alle 21:10; francamente non so se resisterà oltre giovedì (magari poi torna nelle sale dopo gli Oscar). È il tipico film di nicchia che molti preferirebbero guardare in lingua originale. Non abbastanza per farlo programmare in una sala della provincia di Cuneo, questo si sa. Ma abbastanza per rendere la versione sottotitolata in streaming un’alternativa interessante, ancorché illegale. Come può difendersi la distribuzione italiana da una concorrenza così sleale? Magari una settimana dopo il debutto nelle sale americane si potrebbe mettere in commercio una versione on line sottotitolata: qualche spilorcio continuerebbe a rubare, ma molti pagherebbero volentieri anche sei o sette euro, come al cinema. Oppure si può lasciare tutto com’è, doppiare l’accento texano di McConaughey, e terrorizzare i potenziali ladri di contenuto con qualche spot terrorizzante all’inizio dei dvd. Se hanno scelto questa seconda strada si vede che funziona.
Se il sesso è droga; se il denaro è droga (la più forte di tutte); se la cocaina, non c'è dubbio, è droga: riesci a immaginare una scena più drogata di Leonardo Di Caprio che tira cocaina dal fondoschiena di una puttana con banconote arrotolate? Non credo che gli daranno l'oscar per questo. Non credo che gliene fotta più di tanto. The Wolf of Wall Street sembra una riunione d'affari finita male, o bene, dipende dai punti di vista. All'inizio c'erano delle idee sul tavolo, si trattava di prendere la biografia di un lupo della finanza e magari approfittarne per qualche metafora sulla società, sulla corruzione non più solo economica ma esistenziale, fisiologica, la speculazione che entra nelle vene e brucia le tue cellule, corrompe e distrugge le parole che ti escono dalla bocca... finché qualcuno probabilmente non ha mascherato uno sbadiglio e qualcun altro deve aver detto Ehi, perché non facciamo un break? Giusto dieci minuti. Una mezz'ora. Un martini. Una pista. Perché non chiamiamo un paio di mignotte? Un paio a testa, intendo. E un deejay? Uno scimpanzè? Due nani da lanciare contro un bersaglio? Tre ore dopo il baccano era tale che i vicini hanno chiamato i federali. Ma chi è che ha cominciato? Chi è che ha mandato tutto, non figurativamente, a puttane?
Io un sospetto ce l'ho, anche se probabilmente è sbagliato. Cosa ci faceva Jonah Hill a quel tavolo? Da quando in qua è entrato nella cumpa di Scorsese? Chi l'ha invitato? Sorpresa: si è invitato da solo, accettando il minimo sindacale. Hill è un attore davvero simpatico, fisiologicamente portato a ruoli di commedia, al punto che gli basta mettere il naso fuori da un cappuccio kkk in Django per trasformare all'istante l'omaggio di Tarantino a Griffith in uno sketch di Monty Python. In questo film però gli tocca un ruolo cruciale che una generazione fa Scorsese affidava quasi sempre a Joe Pesci: il deuteragonista, l'amico che prima o poi tradirà l'eroe o ne sarà tradito. Hill ovviamente non ha quella luciferinità mediterranea che Pesci portava con sé sul set: d'altro canto questo è un altro ambiente, la finanza, un altro tipo di mafia (non meno micidiale, voleva dirci Scorsese? Ce lo voleva dire? Ehi, c'è qualcuno che mi sta ascoltando qua dentro? Chi è che ha invitato le majorettes, fuck). Hill non può che essere un simpatico pacioccone, che si sposa la cugina perché i bambini del quartiere cominciavano a guardarla; che prima di incontrare l'anticristo della speculazione gestiva, naturalmente, un negozio di giocattoli. Anche la sua tossicodipendenza ha un carattere infantile: l'iniziazione al crack in un cesso di ristorante è la trasformazione di due adulti in dodicenni. Tutto questo è verosimile e altamente simbolico (la speculazione è una regressione a uno stato di egotismo infantile, fuck), ma è anche necessario, perché Hill arriva alla corte di Scorsese dopo anni di commedie da sballati (Superbad, Facciamola finita), insomma il pacioccone che si droga è ormai il suo ruolo specifico.
Inserito in un film di Scorsese, però ha un effetto imprevisto; ci aspettavamo una torbida epica di squali della finanza, ci ritroviamo con due ore e mezza di orge e fattanze, e alcune delle scopate più tristi e squallide mai messe in pellicola. In mezzo a gente che sniffa e scopa a caso più volte distinguiamo Di Caprio che fora la quarta parete cercando di spiegarci la genialità di un qualche trucco da speculatore... per interrompersi quasi subito: dai, non ci capite nulla e non ve ne può fregar di meno, beccatevi un'altra scena di pasticche e mignotte. Bring on the dancing girls! Tutto ha senza dubbio un valore simbolico, ma dopo un po' viene il sospetto che Scorsese abbia semplicemente voluto girare la stoner comedy più grossa e costosa di tutte. Avete presente quei film che vanno molto adesso, di maschi più o meno giovani che fanno festa a Vegas o altrove, ecco, come se Scorsese si fosse detto fuck, lo so fare anch'io un film così. Maledetto Jonah Hill, sei stato tu? Non si vanno a disturbare gli anziani registi ufficialmente disintossicati, lo sai che prima o poi ci ricascano. Hill in un film di Scorsese è come aggiungere al solito mix di sostanze una vecchia pillola degli anni Ottanta che chissà se fa ancora qualche effetto.
A volte sembra Pain and Gain, cioè Micheal Bay
che cerca di imitare Scorsese.
Eccome se lo fa. In fin dei conti Scorsese le stoner comedies le faceva già quarant'anni fa - in realtà non erano affatto comedies, ma Mean Streets o Who's Knocking at My Door erano già, indubbiamente, film stonati: centrati su compagnie di amici che perdono tempo a bere e a donne, al punto che potremmo persino riconoscergli la paternità del genere - la soggettiva raso pavimento non l'ha inventata lui? A Scorsese quella roba piace da sempre, gli è congeniale tanto quanto la mafia o i falsi racconti di formazione. Questo rende The Wolf forse il film più quintessenzialmente scorsesiano di tutti: è la biografia (Toro Scatenato, Casino, The Aviator) di un personaggio deviato sin dalla prima scena (Taxi Driver, Re per una notte, Goodfellas), i cui talenti coincidono inestricabilmente con i vizi. Il personaggio otterrà uno straordinario successo (Toro, Re), sposerà una bionda che gli causerà problemi (Casino) e poi commetterà ineluttabili passi falsi che lo porteranno a fare i conti con la legge (Taxi, Toro, Goodfellas), ma a non imparare nessuna lezione: Taxi, Toro, Re, Goodfellas, Aviator, non c'è un solo film di Scorsese in cui l'eroe si riscatti nel finale. Al limite può chinare il capo e accettare le manette o un programma di protezione, con tanta nostalgia per i tempi in cui se la spassava, fuck, quelli erano i giorni. Insomma se volete una morale, se volete un riscatto esistenziale, un fervorino finale su quanto è alienante e disumana la finanza, o la mafia, o la droga - state chiedendo al cineasta sbagliato. C'è chi può uscire da una dipendenza quando vuole: c'è chi resta cocainomane anche dopo dieci anni che si è disintossicato. Non è dipendenza psicologica: è la candida ammissione che quella roba era incredibile, meglio degli spinaci di Braccio di Ferro, la cosa migliore che ti è capitata, anche se poi hai scelto di sopravvivere. Ma da qualche parte nascosta sai di averne ancora, per quei momenti in cui tutto il resto rischia di crollarti addosso. Magari ci sei seduto sopra in questo momento.
Alla fine Scorsese è i Rolling Stones: cosa ti aspettavi? Cosa credevi? Può fare cose uniche, persino miracolose alla sua età: un paio di scene sono esilaranti, poetiche, struggenti (l'arresto durante le riprese dello spot; il breve sguardo del federale in metropolitana). Ma a volte vuole solo stare alzato con gli amici, bere sniffare, dire parolacce, suonare il rock'n'roll. È fatto così, e non ti deve mica piacere per forza.
(Comunque Portofino-Ginevra via terra si fa in cinque ore con il traffico, cioè: che modo stupido di affondare un impero. Fuck).
The Wolf of Wall Street è al Cityplex Cine4 di Alba (17:30, 21:00); al Cinelandia di Borgo S. Dalmazzo (14:30, 16:30, 18:00, 21:30, 22:00); all'Impero di Bra (16:30, 20:30); al Cinecittà di Savigliano (17:00, 21:15); dura due ore e mezzo.
Quanto costa una vita intera? Nulla: un'imprudenza, un sentiero di notte, una jeep che sbanda, un cellulare spento. Oppure cinquecentomila, ma facciamo anche settecento, novecento; un lotto in centro, un teatro, tutti i tuoi sogni di essere una persona migliore, la faccia che guarderai allo specchio da quel giorno; e un bacio. Per chi li pagheresti. Per la persona che ami o per quella che ti fa sentire più in colpa? C'è qualche differenza? A diciott'anni, forse c'è. A quaranta, a quaranta magari mi capirai. Ma non te lo auguro.
Del film ormai avete letto tutto. Avete fatto male, scordatevi tutto: le polemiche preconfezionate sulla Brianza, le tirate sulla crisi-dei-valori, sulla civiltà-del-denaro eccetera. Ognuno poi ha il diritto di vendere il proprio prodotto come può, ma Il capitale umano è un film più intelligente di quello che vi stanno presentando in tv e sui giornali. Che poi leghisti cari è troppo facile prendersela con Virzì: chi ha le palle per denunciare i pregiudizi coi quali William Shakespeare sfigurò i sani e operosi cittadini della Verona medievale? Il Capitale umano non parla di Brianza più di quanto parli di Connecticut o di qualsiasi altro distretto imborghesito del mondo; non demolisce la nostra generazione (senz'altro povera di valori e assetata di denaro) più di quanto non demolisca qualsiasi altra; a Romeo e Giulietta in fin dei conti è andata bene. Fossero invecchiati, avrebbero senz'altro costretto i figli a un matrimonio d'interesse. Se pensate di trovarvi davanti all'ennesimo romanzo di una grande famiglia spietata e decadente, potreste uscire delusi: non so se quanto Virzì Piccolo e Bruni ne siano consapevoli, ma il pescecane della finanza esce dal film meglio di quasi tutti i comprimari. Forse erano così convinti che bastasse metterlo a capotavola di consiglio d'amministrazione per renderlo il Cattivo; non hanno spinto il pedale del grottesco, e il risultato è un Gifuni mediamente stronzo, ma assolutamente umano.
Quel che è riuscito a fare Bentivoglio col suo bauscia, invece, ha del miracoloso. Sul suo personaggio il film rischiava tutto. Sappiamo che Virzì arriva al drammatico dalla commedia all'italiana - sappiamo anche che non è stato un movimento così brusco; che il dramma se lo portava dentro sin dal primo film. Ma da quel tipo di commedia Virzì portava un gusto grottesco dei personaggi, soprattutto secondari, che la sensibilità per le stratificazioni sociali e culturali rendeva spesso dei bozzetti: il professore de sinistra, il figlio di papà, il pancabbestia, eccetera. Potevamo pensare che passando al thriller Virzì avrebbe rinunciato ai bozzetti (già negli ultimi due film erano più rari, benché indimenticabili). Ci sembrava giusto. Anche se ci sarebbe dispiaciuto, perché diciamo la verità: a noi i bozzetti grotteschi di Virzì sono sempre piaciuti; sono uno dei motivi per cui Virzì ci piace più di tutti i suoi compatrioti, ormai, e forse questo non fa di noi dei veri cinefili ma non ce ne frega niente, noi daremmo dieci Jep Gambardella o come cavolo si chiama per un altro prof Iacovoni. Anche se all'estero nessuno se li filerà mai, i tuoi leghisti in cravatta verde e il Va' Pensiero che gli suona in tasca, i tuoi critici teatrali sudici o sociopatici. C'è un personaggio che sta in scena tre secondi tre - la sorella dello speculatore - ed è perfetta, noi amiamo Virzì per queste cose. Detto questo, non puoi pensare che uno stereotipo di bauscia possa reggere la prima mezz'ora di un thriller. In teoria, perlomeno. Poi ti ritrovi davanti a Bentivoglio, conciato com'è conciato. Ha a disposizione una paletta ristrettissima, deve parlare come Faso di Elio e le Storie Tese attraverso un ghigno congelato da caratterista di commediaccia sexy. Non puoi provare angoscia per un tizio così.
È una scena che sembra ritagliata da un altro film, però è divertente e mi ha fatto tirare il fiato.
E invece ce la fai. Bentivoglio ce la fa. Non so come ne sia in grado, avrei voglia di tornare a rivederlo soltanto per capire come fa. Dopo venti minuti siamo in pena per lui. Lo vediamo andare a sbattere contro un muro che si è venduto e comprato da solo, e vorremmo fermarlo. Dopo un’altra ora di film lo odieremo. Ma sarà troppo tardi; per un attimo siamo stati dalla sua parte, abbiamo perso l’anima con lui. Che altro dire. Basterebbe Bentivoglio a chiudere la discussione, e invece è solo il preludio. Puoi credere anche solo per un’istante che Valeria Golino sia una psicoterapeuta della mutua? Puoi. Puoi empatizzare con Valeria Bruni Tedeschi che fa la ricca annoiata? Chi se lo sarebbe aspettato da lei, lo so, eppure puoi. È passata più di un’ora e gli unici che non ti hanno particolarmente colpito sono i giovani. Stanno sullo sfondo, fanno le cose antipatiche da giovani. Poi tocca a loro e ti si rovescia tutto il film – magari anche lo stomaco: capisci che tutti groppi in gola che ti hanno apparecchiato fin qui ti servivano solo a preparare quel vuoto in pancia che si prova a 18 quando fai una cazzata veramente grossa. C’è di nuovo un Romeo e una Giulietta che si fottono la vita in 24 ore, e potrebbe, dovrebbe andare a finire altrettanto male.
Il Capitale umano è un thriller vero: un congegno spietato, realizzato senza rinunciare a frecciatine di costume che qualcun altro giudicherà non equilibrate. Io mi dichiaro vinto nel momento in cui Valeria Bruni Tedeschi prende il controllo e si scopa Nostra Signora dei Turchi – la buona vecchia commedia all’italiana, commerciale, industriale, che profana il cadavere del teatro sperimentale sussurrandogli Ti Perdono anch’io, lo sai cos’eri per me? Un buon sottofondo per pomiciare, niente più, il Fausto Papetti dei ricchi sofisticati. Un giorno forse se ne accorgeranno anche gli assessori leghisti. Si sveglieranno sul divano all’improvviso davanti a un vecchio Virzì su Rete4 e finalmente lo guarderanno, finalmente si renderanno conto che l’egemonia culturale di sinistra non ha mai avuto un accusatore altrettanto feroce. Filosofi, sindacalisti, insegnanti, radical-chic, no-global, non ne ha risparmiato uno solo: avreste dovuto adottarlo, coccolarlo, invitarlo alle sagre della polenta, ma veniva da Livorno e andava da Fazio, forse da lì l’equivoco. Il Capitale umano non contiene rivelazioni sconcertanti sulla crisi di valori dell’occidente, ma mostra a ogni adulto di che nodi sono fatti i cappi che ci stringiamo al collo: è l’insoddisfazione che ci fa commettere cazzate, le cazzate ci sprofondano nel senso di colpa, dal senso di colpa riemergiamo adulti e disponibili a pagare qualsiasi prezzo, a coprire qualsiasi crimine. Che altro dire. Tenete il cellulare sempre acceso, perdio, sempre, magari c’è qualcuno stanotte che ha bisogno esattamente di voi. Per quanto disperati possiate sembrare a voi stessi.
Il capitale umano è al Cityplex di Alba (15:30, 17:45, 20:00, 22:15); al Cinelandia di Borgo S. Dalmazzo (15:10, 17:35, 20:10, 22:35); all’Impero di Bra (18:20, 20:20, 22:30); al Cinecittà di Savigliano (16:00, 18:10, 20:20, 22:30). Non ci sono molte scuse per non andarlo a vedere, a parte Peppa Pig.
All'inizio di tutto c'è Christian Bale alle prese col riporto più brutto che abbiate mai visto. Non può venirne a capo, non c'è abbastanza brillantina al mondo per sistemare quella cosa. E invece sì. L'apparenza inganna. È il sottotitolo del film. In effetti potrebbe essere il sottotitolo di qualsiasi film; della cinematografia in generale. American Hustle dovrebbe essere un caper movie, quel genere che in italiano poteva anche chiamarsi "colpo grosso", prima che Umberto Smaila arrivasse a complicare la semantica delle cose. David O. Russell voleva girare un colpo grosso, un film di truffatori e truffati. Dopo il film romantico (Silver Lining Playbook), quello pugilistico (The Fighter), quello bislacco (I Heart Huckabees), quello di guerra (Three Kings). Cambiano gli ambienti ma le storie hanno qualcosa in comune: all'inizio c'è un protagonista che commette azioni discutibili. Un maggiore delle forze speciali che vuole rubare l'oro di Saddam, un ex pugile che fuma crack, questo tipo di cose. Più avanti la crisi, la riscoperta-dei-valori-veri, la redenzione. Il lieto fine, anche quando non fosse previsto, sarà imposto dalla produzione.
Dopo Christian Bale appare Amy Adams. È meravigliosa, e veste Gucci e Halston vintage per tutto il film. American Hustle è anche un period movie come vanno adesso, un film che tenta di evocare un'epoca determinata, con una precisione che sta diventando stucchevole tanto è maniacale. Per una curiosa coincidenza, è esattamente la stessa epoca (1978-1980) di Argo, oscar per il miglior film l'anno scorso. Stesse infinite variazioni sul marroncino che ritornano in Nodi Larraín - ambientato dieci anni più tardi, ma in Cile, dove il forno a micro-onde è ancora un oggetto inquietante. Quello di Larraín è il caso limite, visto che ha girato con la pellicola e gli strumenti dell'epoca, mescolando spot televisivi originali. Negli altri casi è lecito domandarsi se costumisti e trovarobe non si stiano un po' allargando a spese di sceneggiatura e regia. Va a finire come con Mad Men, dopo un po' ti accorgi che t'interessa più l'arredamento della trama. Russell si adegua e decide, per definire i suoi personaggi, di affidarsi ai capelli: la parte di noi più deperibile, la più sacrificabile alle mode. Il grande truffatore ha un riporto impossibile: è chiara la metafora? Gli arrampicatori sociali invece si fanno ricci coi bigodini. Anche lo smalto per le unghie è estremamente simbolico. Non era una cattiva idea, ma Russell è preoccupato che ci sfugga e ci insiste finché non diventa ridondante.
In seguito arrivano Bradley Cooper e Jennifer Lawrence. Non è passato neanche un anno da quando erano la coppia quadripolare di Silver Lining, ed eccoli non-protagonisti di lusso in un film in apparenza tanto diverso. Invece assomigliano ai vecchi personaggi: Cooper è un agente federale spiritato, con episodi maniacali che a volte sfociano in scoppi di violenza (la cocaina naturalmente gioca la sua parte) (continua su +eventi!) La Lawrence è la casalinga matta, sempre più credibile. È come se il vecchio film non volesse cedere del tutto lo spazio al nuovo. Una sensazione che accresce ancor di più il sospetto che questo non sia un vero caper movie; che il colpo grosso sia solo parte dello scenario, in un film dove lo scenario è ingombrante ma non è tutto. A Russell non interessa davvero il meccanismo della truffa, il trucco da preparare nei dettagli, il trabocchetto da tendere allo spettatore (e in effetti chi è cresciuto con la Stangata non ci casca: ma non ha davvero tanta importanza). A Russell interessano i personaggi, in carne e ossa e peli e unghie e soprattutto sentimenti. Ci tiene tanto ai sentimenti. Spero che ci teniate anche voi, perché Russell con la scusa del colpo grosso vuole provare di nuovo a raccontarvi una storia d'amore e redenzione.
Se invece le storie d'amore tra personaggi non simpaticissimi non sono il vostro forte, American Hustle rischia di lasciarvi con l'amaro in bocca. Non c'è truffatore repellente che non possa redimersi, non c'è spogliarellista in carriera che non possa darci lezioni di integrità sentimentale. L'importante è trovare amici che ci sappiano scaldare al fuoco del loro affetto e della loro rettitudine. Pur di trovarli Russell è ben disposto a violentare la storia vera che sta raccontando, trasformando un sindaco colluso con la criminalità in un eroico difensore di orfani e vedove e lavoratori di ogni colore. Ora il punto non è tanto che il sindaco vero non fosse decisamente uno stinco di santo (trafficava narcotici e banconote false, robetta). Non sarebbe la prima volta che un criminale diventa un eroe sulla pellicola per esigenze narrative. Però poi arriva il momento in cui questo eroe ti porta in un casinò appena riaperto ad Atlantic City, e dopo averti spiegato com'è vitale per tutta la collettività multiculturale del New Jersey la legalizzazione del gioco d'azzardo, e quante cose belle e civiche si possono fare restaurando i vecchi casinò che sono un patrimonio culturale - dopo tutti questi bei discorsi - ti mostra un gruppo di persone in fondo alla sala e dice che prima o poi con quelli bisogna andarci a parlare. È la mafia di Miami.
Il sindaco piezz'e'core, per far marciare l'economia, deve invitare la mafia di Miami. E va bene, si vede che le cose stavano davvero così: per far funzionare le case da gioco ti serviva il know-how della mafia. Però Russell non è Scorsese, non riesce a fare del suo sindaco Carmine un personaggio complesso, un personaggio ambiguo. Il tizio continuerà a gironzolare per tutto il film spiegando quanto è onesto ed eroico e quante cose buone ha fatto per i suoi cittadini, e noi spettatori dovremmo crederci e dimenticare il fatto che ha invitato i mafiosi a fare affari nella sua città: dovremmo pure stare in pena per la sua sorte. È che a Russell interessano i sentimenti, solo i sentimenti; e se gli è scappato un minimo di affresco sociale è stato per sbaglio. Eppure sotto le scenografie e le musiche, sotto la tricologia e gli arredi, persino sotto la storia d'amore, c'è la traccia di un film impensabile in Italia: un film dove i politici sono onesti lavoratori perseguitati da folli magistrati, pardon, da agenti federali ubriachi di potere. Un film che Berlusconi si guarderebbe a rotazione tutte le sere e non è escluso che lo faccia - ha molto tempo libero adesso.
Alla fine di tutto c'è un gran senso di vuoto. Mi succede sempre così coi suoi film. Mentre li guardo mi diverto anche molto; mi commuovo, mi appassiono, provo tutti i sentimenti che Russell desidera che io provi. Poi si accendono le luci e non mi ricordo quasi più il film che ho visto. Ricordo Amy Adams; qualche vestito di Amy Adams; Bradley scamiciato come Moroder che balla un pezzo di Moroder; il sindaco bravo e buono che invita i mafiosi; il riporto impossibile di Christian Bale, tutto qui. Mi ha fregato di nuovo, David O. Russell. L'apparenza inganna - la gente crede a quello che vuole credere, e mentre lo guardavo volevo crederci. Mi sembrava proprio un film coi fiocchi, un vero colpo grosso. Ma forse il pollo ero io.
American Hustle è al Cine4 di Alba (18:30, 21:30); al Cinelandia di Borgo S. Dalmazzo (14:30, 17:15, 20:00, 22:45); all'Italia di Saluzzo (16:00, 18:45, 21:30); al Cinecittà di Savigliano (16:00, 18:45, 21:30).
I segreti di Walter Mitty (The Secret Life of Walter Mitty, Ben Stiller, 2013)
A cosa pensa Walter mentre gli parli? Cosa sta guardando mentre fissa nel vuoto? A volte semplicemente Walter è altrove, prigioniero di un film che non è mai il suo. In questi casi occorre aspettare un attimo, resettare, e tutto riparte come prima. Su Tvtropes la chiamano Daydream surprise: è quel momento di pazzia in cui un personaggio, fino a quel momento ritratto in un contesto realistico, all'improvviso compie qualcosa di folle (ad es. lanciarsi da un grattacielo). Ma è solo un sogno: un attimo dopo la storia ritorna sui binari del realismo quotidiano. Se la fantasia in questione permette al personaggio di sfogare un enorme potenziale di violenza repressa si parla invece di Indulgent fantasy segue. È il caso della sequenza più spettacolare del film, la lotta onirica tra due skater che precipitando da un ascensore sbriciolano il cemento di Manhattan; la prova della resistenza di Matrix nel nostro inconscio collettivo. Un attimo dopo siamo di nuovo nell'ascensore della Time-Life, non è successo nulla. È solo Walter che sogna ad occhi aperti. Non sarebbe Walter Mitty, altrimenti.
In inglese esiste anche l'aggettivo, "mittyiesque". Per il World English Dictionary "mitty" è un personaggio finzionale caratterizzato da sogni a occhi aperti elaborati e grandiosi. Nel gergo dell'esercito è un miles gloriosus, un fanfarone che si attribuisce successi immaginari. Ma nel 1939 Walter Mitty era semplicemente il protagonista di un raccontino di James Thurber, più famoso come vignettista del New Yorker. Un ometto insignificante che accompagna sua moglie a fare shopping e inganna il tempo immaginandosi al centro di scene d'azione che rivelano una fantasia già dominata da stereotipi cinematografici: ufficiale di marina durante una tempesta, chirurgo di fama mondiale, imputato di omicidio, pilota della RAF, condannato per fucilazione. L'intreccio è esile, ma le potenzialità sono immense, così il solito Samuel Goldwyn ne acquista i diritti.
Il film che esce dieci anni dopo è già completamente diverso dal racconto: ora Walter è uno scapolo svagato ma di bell'aspetto (Danny Kaye) che dopo qualche dubbio pirandelliano scopre che il complicato intreccio noir intorno a lui non è un sogno nutrito dai giornaletti pulp, ma è la realtà: compresa la bionda Virginia Mayo che sta cercando di salvare i gioielli della corona olandese eccetera. In sostanza è come se avessero comprato i diritti della metamorfosi di Kafka per girare un thriller sull'uomo scarafaggio. Thurber si è già dissociato, ma il suo Mitty ormai è patrimonio dell'umanità: nel '52 George Axelrod lo ribattezza Richard Sherman e gli scrive attorno la commedia The Seven Year Itch, la crisi del settimo anno: noi però lo conosciamo col nome italiano del film di Wilder che uscirà qualche anno più tardi, Quando la moglie è in vacanza, con Marilyn Monroe che combatte l'afa in quei modi originali. Probabilmente Sherman è il personaggio più simile al Mitty originale: non un giovane pronto a lanciarsi all'avventura, bensì un quarantenne esposto all'Itch, il prurito che ti coglie quando ti rendi conto che la tua vita ha preso una forma precisa, e che ormai sarà sempre più difficile voltarti, provare un'altra posizione, anche solo per curiosità - ecco, proprio in quel momento qualcosa che se ne stava buono da anni comincia a prudere. Gli ometti di Thurber erano spesso disegnati alla mercé di donne immense, che ad altre longitudini li avrebbero aspettati a casa con il mattarello.
Il Mitty tipico della mia generazione invece è Zach Braff quando in Scrubs alzava gli occhi in quell'espressione estatica... (continua su +eventi!) Anche il figlio di Samuel Goldwyn, indovinate, Samuel Goldwyn Jr, a metà anni Novanta pensava a un Mitty più giovane, visto che lo immaginava tagliato su Jim Carrey. È curioso che Mitty esca nelle sale assieme alla Regina delle Nevi (o a quel che resta di lei): sono due progetti che rimbalzano da quasi vent’anni – per Mitty furono coinvolti a turno Ron Howard, Spielberg, Owen Wilson, Sacha Cohen – e in entrambi casi il problema era lo stesso: la storia. Non funzionava mai, e così registi e attori venivano risucchiati da qualche altro soggetto meglio definito. Accantonato l’intreccio pulp del vecchio film, Mitty non riusciva a diventare il personaggio di una storia tutta sua. Tre anni fa Ben Stiller entra nel progetto come attore; in seguito ne diventa anche il regista, e forse è in quel momento che il film ha preso la svolta che lo ha reso in qualche modo possibile. Il risultato che è uscito nelle sale sembra un compromesso, un po’ faticoso ma riuscito, tra un film di Ben Stiller attore, con numeri fracassoni che si richiamano al genere delle parodie demenziali, e un film di Ben Stiller regista. Quest’ultimo è un professionista meno demenziale di quanto potremmo ricordarci: ha esordito tantissimo tempo fa, con Reality bites (Giovani, carini e disoccupati), è stato il primo a intravedere il potenziale drammatico nelle smorfie di Jim Carrey (The Cable Guy) e poi ha girato soltanto altri due film, molto divertenti ma decisamente sopra la media della commedia ridanciana per famiglie (Zoolander e Tropic Thunder).
Il suo Mitty sembra un Frankenstein ottenuto ricucendo due script nel tentativo di ridurre al minimo i dani. Nella prima mezz’ora è il Ben Stiller che piace ai bambini di ogni età, quello da Notte nel museo, a cui grazie agli effetti digitali succedono cose assurde e buffissime che però stavolta non sono mai davvero divertenti; è come se uscissero dal cilindro di un prestigiatore in una giornata no. Aggiungi che il dilagare dei “movie movie” ci ha un po’ resi diffidenti verso gli sketch parodici. A un certo punto il film salta su un binario diverso e nel secondo tempo Mitty ha praticamente smesso di sognare a occhi aperti: non se lo può più permettere. Sta girando il mondo alla caccia di un fotoreporter vecchia scuola (Sean Penn che si prende in giro da solo, almeno io spero che ci sia molta autoironia). Ogni tanto il primo film fa capolino con intermezzi assurdi, squali e risse aeroportuali; addirittura prende le forme di un nerd di Los Angeles che riesce a trovarti al telefono anche sull’Himalaya. Il secondo film nel frattempo non è che abbia scelto la via più originale: il cattivo è ancora una volta il responsabile risorse umane che deve curare una fusione aziendale (=cacciare un sacco di gente con la scatola di cartone). Però almeno la storia è ambientata in un’azienda vera, anche se re-inventata da capo a piedi: la redazione di Life, nel momento in cui interrompe l’edizione cartacea per trasferirsi su internet (anche lì sarebbe durata poco). È l’occasione per sciogliere un’elegia fuori tempo massimo al bel passato analogico, le foto da sviluppare in camera oscura, i telegrammi, i trentatré giri eccetera. Se non si è capito, stiamo parlando di quarantenni che cominciano a sentire quei pruriti imprudenti e tirano giù dal solaio i vecchi skateboard, le magliette dei Buzzcocks, i piani per un Interrail mai fatto. Se il vostro partner rientra anche solo vagamente nel quadro, tenetelo lontano da questo Walter Mitty: è pericoloso. Anche i ragazzini che si aspettano il Ben Stiller buffo potrebbero restare un po’ delusi. Altri meno giovani saranno felici di rivedere Shirley MacLaine, ti voglio bene Shirley MacLaine.
Non so a che categoria appartenesse il tizio che sedeva alla mia destra. Non ha taciuto per metà film. A un certo punto nel terso cielo d’Islanda sono comparsi stormi d’uccelli. “Vedrai che adesso disegnano la faccia della ragazza”, ha detto lui. Due secondi dopo il volto di Kristen Wiig sorrideva sullo schermo. Mi è caduta la mascella sotto la poltrona – dopo un anno di recensioni per i pregevoli cinema di Cuneo pensavo di essere diventato un po’ più esperto, e invece prendo ancora lezioni dal primo spettatore natalizio che incontro. Ne devo mangiare di popcorn.
I segreti di Walter Mitty è al Cityplex di Alba (20:00 22:15); al Cinelandia di Borgo S. Dalmazzo (15:10, 17:40, 20:10, 22:40); al Multisala Impero di Bra (16:10, 20:20, 22:30); ai Portici di Fossano (18:30, 20:30, 22:30).
Cosa succederà quando diventeremo poveri? Non dico che non ce lo meritiamo. Ma poveri davvero, capisci, come quelli che viaggiano in classe economica? Quelli che hanno case brutte piene di mobili da quattro soldi tanto la maggior parte della giornata la passano fuori a... lavorare? Tu ce la faresti a lavorare? Dico sul serio. Lo sai usare un computer? Io non so neanche come si accende, dovrei fare un corso.
Non si potrebbe semplicemente trovare qualche uomo ricco e bello con una casa vuota da arredare, e ricominciare da capo?
Guardando Blue Jasmine a un certo punto ho avuto un brivido; non mi capitava da tantissimi film di Woody Allen (e io amo guardare i suoi film). Siamo a una festa un po' "mista", un ricevimento vagamente inverosimile, e Jasmine si annoia. A un certo punto entra in una sala vuota e incontra Peter Sarsgaard. Nessuno li vede. Escono su un terrazzo assolutamente sgombro. La musica insulsa all'improvviso non si sente più. Sarsgaard apre la bocca e in due minuti ha già riconosciuto le Roger Vivier ai piedi di Jasmine e si è accreditato come diplomatico in carriera, vedovo, con una casa da arredare e un futuro in politica, e io ho avuto un brivido: allucinazione, Woody Allen ci sta mostrando un'allucinazione. Siccome in tutte le scene in cui non sta con Sarsgaard la Blanchett sembra una matta, l'idea appare più che sensata. Una di quelle cose di cui poi ti vanti con gli amici, eh, ma io l'avevo capito subito che Jasmine stava sbroccando... no. Mi sbagliavo. Nessuna allucinazione. Jasmine incontra davvero il principe azzurro a una festa.
Oggi.
È uno snodo abbastanza improbabile, ma Allen non scrive film realistici, forse non lo ha mai fatto. Puoi anche assegnargli un tema di attualità (lo scandalo dei Madoff), e dopo un po' ti accorgi che invece di approfittarne per raccontarci un po' di presente, è andato a ripescare i classici, il Tram chiamato Desiderio. Ai tempi di Match Point c'era chi ne magnificava la capacità di tuffarsi nella amoralità contemporanea, senza badare al fatto che si stava semplicemente ricucinando un buon vecchio Dostoevskij. Ad Allen il presente non interessa, a questo punto sarebbe ingiusto fargliene una colpa. Anche se non ha quasi mai la volontà o la necessità di ambientare i suoi film in un mondo che non sia simile al nostro (sempre però visto un po' da lontano, senza riferimenti cronologici precisi), Allen più che un realista rimane un autore tragico che, dopo aver messo in scena per vent'anni le sue riflessioni sul destino dei mortali su uno sfondo di grattacieli, ultimamente sta provando sfondi diversi. Ma la tragedia resta sempre la solita (Jasmine è condannata già prima che si alzi il sipario) e lo sfondo è soltanto uno sfondo. Così è comprensibile - anche se un po' triste - che negli ultimi anni i suoi impresari cerchino di attirare l'attenzione reclamizzando soprattutto l'originalità dei fondali: Woody does London! Paris! Rome! San Francisco! Un giorno lo ritroveremo a Hong Kong, magari farà l'Edipo Re con un sottofondo ragtime e ci sembrerà una cosa incredibile e nuovissima (continua su +eventi!)
Domani.
Una volta ho letto che gli abitanti di Hong Kong hanno un problema con le distanze. Nascendo e crescendo in una città di grattacieli, davanti agli spazi vuoti si trovano in difficoltà. Probabilmente è una sciocchezza, e comunque Woody Allen è nato dall'altra parte del mondo, a Brooklyn; e ha vissuto gran parte della sua vita a Manhattan. Anche se negli ultimi anni ha dimostrato che può ambientare i suoi film altrove, qualche problema con gli spazi vuoti forse ce l'ha. Magari è più facile accorgersene in California che a Parigi o Londra o Roma. Tutti ci ricordiamo quella vecchia scena in cui tenta di spostarsi con un'automobile a Los Angeles; la più grande prova d'amore per Annie Hall, ormai fuori tempo massimo. Le auto nei suoi film sono spesso armi improprie, quasi mai mezzi di trasporto affidabili. Una delle premesse dei soggetti alleniani è che i personaggi possano incontrarsi per caso, attraversando la strada: devono dunque abitare tutti nello stesso grande quartiere. La possiamo prendere come una convenzione teatrale o come una forma di manhattania che non si nota veramente finché Allen non pretende di ambientare una tragedia nella West Coast, senza derogare alla sua aristotelica unità di luogo. A un certo punto Jasmine costringe il principe azzurro ad accostare e mollarla tutta sola sullo sfondo della Baia. Nella scena seguente la troviamo in un negozio a Oakland. Avrà preso l'autobus? Un taxi? Ci piace immaginarla mentre scarpina verso la meta, ma solo il ponte è lungo sette chilometri. Nella scena successiva è a casa di sua sorella, a San Francisco, comprensibilmente un po' provata. Il mondo fuori Manhattan è una prateria ostile e non misurabile, che non si ha più tempo per cercare di capire.
Così come non riesce a raffigurarsi uno spazio più vasto della metropoli, Allen sembra in difficoltà anche quando prova a ritrarre una classe media off Manhattan. Per risolvere il problema ricorre a un espediente notevole: ritaglia un personaggio da un altro film (la Poppy di Happy-Go-Lucky di Leigh, Sally Hawkins), e la piazza sul set: forza, scuoti i braccialetti, fa' qualcosa da ceto medio: la maestra d'asilo? E perché non la commessa in un supermercato. Avrai senz'altro un fidanzato unto di grasso che guarda la boxe e mangia la pizza dal cartone. Anche Baldwin nei panni del finanziere maneggione-farfallone sembra arrivare precotto da un altro set, ma probabilmente è quel che capita quando sei Woody Allen e tutti gli attori del mondo sono disposti a lavorare a parametro zero per te: che gli attori siano forse più perfetti del necessario. Compresa la Blanchett, che alla ricerca dell'Oscar grosso ci dà una classica interpretazione alleniana, nel solco del Branagh di Celebrity: balbetta, ostenta nevrosi, straparla. Ne risulta uno dei ritratti più impietosi che un regista abbia mai fatto di sé stesso: Woody Allen calato nelle forme e nei panni di un'arrampicatrice sociale rovinata, terrorizzata dallo spettro della povertà, incapace di accettare che il tempo delle mance generose e dell'idromassaggio è finito. Blue moon era la nostra canzone. Non si capisce quanti anni abbia realmente, sembra una Stella scappata da qualche filodrammatica con gli abiti di scena. Per il viaggio che l'aspetta non c'è una Louis Vuitton abbastanza solida. E gli sconosciuti hanno smesso di essere gentili da un pezzo.
Blue Jasmine è dovunque: al Fiamma di Cuneo (15:10, 18:00, 21:10); al Cityplex di Alba (16:00, 18:00, 20:00, 22:00); al Cinelandia di Borgo S. Dalmazzo (15:15, 17:40, 20:15, 22:40); al Multilanghe di Dogliani (21:30); ai Portici di Fossano (21:15); all'Italia di Saluzzo (16:00, 18:00, 20:00, 22:00); al Cinecittà di Savigliano (20:20, 22:30). E dire che una volta qui era tutto cinepanettone.
Dietro i candelabri (Behind the Candelabra), Steven Soderbergh, 2013.
In un universo parallelo, il giovane Silvio Berlusconi un giorno si è imbarcato per una crociata più lunga delle altre e non è tornato a casa. Costretto a sostituire il fido Confalonieri al piano, si è arrabattato trasformando ogni concertino in uno spettacolo, ogni difetto di esecuzione in una gag; perfezionando nel frattempo anche l'arte di stordire gli ascoltatori di barzellette e chiacchiere tra un numero e l'altro. Una volta sbarcato negli USA, lo aspettava altra gavetta nel circuito dei saloon e dei bordelli: poi gli è capitato di fare un po' di storia della televisione (è pur sempre Silvio Berlusconi), e alla fine si è fermato a Vegas: il primo grande artista a far sgorgare dollari dal deserto. L'oasi delle slot divenne la capitale del suo impero del kitsch: massaie di cinquanta Stati venivano a toccargli il parrucchino, e a constatare che a differenza di tutti gli ex divi della tv in bianco e nero, lui non invecchiava: aveva soltanto messo fuori i colori, e che colori. In un universo non troppo parallelo, Silvio Berlusconi ha un segreto che non è esattamente quello di Dorian Gray: si tiene giovane macinando carne giovane, attirando timidi ragazzini con regali e promesse di gloria, suggendo loro la linfa vitale, per risputarli poi sul marciapiede, involucri vuoti ma segnati per sempre nell'animo e nella plastica del viso. Nel nostro universo invece Silvio Berlusconi ha fatto l'imprenditore e noi ci siamo persi un artista, un entertainer, un personaggio favoloso. Consoliamoci con Liberace.
Perdonate il curziomaltesismo - e dire che quella lunga epoca in cui ogni film era uno spunto per parlare di B. sembrava esaurita: ma poi a due settimane dalla decadenza arriva anche in Italia il Liberace di Soderbergh, e di fronte all'incredibile consistenza bavosa del personaggio impersonato da Michael Douglas, qualsiasi sforzo di tenere lontano il pensiero di Berlusconi e delle sue ragazze di Casoria o Casablanca risulta vano... (continua su +eventi!)Forse proprio perché Soderbergh sembra voler rifuggere qualsiasi spunto politico per limitarsi a ritrarre un narcisista all’ultimo stadio, anche se filtrato dal punto di vista di una delle sue vittime (un tizio non proprio affidabile: ultimamente per esempio forse è in galera).
Forse Liberace, l’inventore del camp, meritava un racconto più lungo e disteso: la storia del concertista classico che per ingrossare il suo pubblico pagante comincia a inserire in repertorio canzonacce da music hall, passando nel giro di pochi anni da Liszt al boogie-woogie, conteneva spunti più interessanti della sua tarda vita sentimentale e delle sue chirurgie plastiche. Avremmo così scoperto che il Kitsch abbracciato dal pianista nasce dalle esigenze pratiche dell’entertainer: Liberace non vuol essere un punto scuro in giacca scura che suona un pianoforte scuro in fondo a un palco immenso. Vestiti, anelli, barzellette: tutto ciò che funziona per attirare l’attenzione del pubblico è una cosa buona, e con le cose buone non si esagera mai abbastanza (“too much of a good thing is wonderful”). Nello spazio di vent’anni, Liberace passa dal tuxedo scuro allo strascico di ermellino. Sempre più grosso, sempre più vistoso, il pianista è anche sempre più vuoto: la musica è diventata un accessorio per far prendere fiato al pubblico tra una gag e l’altra. Alla vacuità del personaggio poi corrisponde una vita sentimentale melodrammatica che lui volle tenere nascosta fino alla fine. Il film decide invece di scoperchiarla, illuminando solo una piccola porzione di quello che è stato Liberace: ma il cinema è fatto così, bisogna semplificare, e lui lo sapeva bene.
Il vero Liberace, una sera che vestiva casual.
Il grande schermo è sempre stato il suo cruccio: non importa quanto fosse già ricco e famoso, il suo sogno era diventare una stella del cinema, e non ci riuscì. Gli andò meglio in tv – memorabile la sua comparsata nel telefilm di Batman – ma il mezzo gli stava stretto. A un quarto di secolo dalla sua scomparsa, la maledizione continua: Soderbergh ha girato per anni gli studios cercando di piazzare il soggetto. Persino la disponibilità di Michael Douglas e Matt Damon non è riuscita a vincere la diffidenza per un film in cui i due avrebbero fatto un po’ di sesso assieme. Alla fine anche stavolta la tv ha vinto: il film è stato prodotto dal canale HBO, quello che produce le serie serie. In Italia è uscito nelle sale, tanto vale approfittarne. (Update: a Cuneo e provincia l’hanno già tolto. Però c’è ancora all’UCI Moncalieri, alle 14:35! Secondo me inizia un po’ più tardi).
La mafia uccide solo d'estate (Pierfrancesco "Pif" Diliberto, 2013)
Arturo è un bambino normale in una famiglia normale in una città con un problema che non è il traffico. Ogni tanto qualcuno muore ammazzato. Nel garage sottocasa, nella pasticceria sulla strada per la scuola, ogni tanto qualcuno cade in un lago di sangue e il motivo pare sempre lo stesso: le femmine. Soprattutto in estate i delitti passionali non guardano in faccia a nessuno: poliziotti, magistrati, giornalisti, persino i politici. Persino Arturo: anche per lui è venuto il momento di innamorarsi, anche se è solo un bambino e ha paura.
A quarantun anni (no, non li dimostra) Pif si carica in spalla una macchina da presa un po' più grande del solito, e il risultato è abbastanza sorprendente. Di solito chi passa al cinema dalla tv cerca di riprodurre sul grande schermo quello che gli spettatori conoscono già sul piccolo: peraltro di reporter prestati al cinema negli ultimi dieci anni ne abbiamo già visti parecchi; è una formula che può funzionare. Pif invece per l'occasione si ricorda di aver lavorato con Zeffirelli e Giordana, e prova a fare qualcosa di meno televisivo confinando sé stesso e la guest star Cristiana Capotondi nell'ultima mezz'ora, concentrando l'obiettivo sul vero eroe del film, il piccolo Arturo (Alex Bisconti, bravo). Una scelta insolitamente matura, e anche un po' temeraria - lavorare coi bambini è più difficile - che coincide con una precisa scelta narrativa: il forrestgumpismo. Un giorno bisognerà trovare una parola più bella per definirlo, ma nel frattempo ecco una definizione approssimativa:
Dicesi Forrest-Gumpismo la tendenza a rivisitare il passato recente in una collana di momenti topici, infilando a forza i personaggi in tutti gli avvenimenti storici rilevanti. In Italia ci sguazzano un po’ gli autori di noir, ma l’oggetto forrest-gumpista in assoluto è La meglio gioventù di Giordana, dove se due ex coniugi si danno un appuntamento durante gli anni Ottanta, dev'essere per forza la sera di Italia-Germania al Santiago Bernabeu con le comparse che ascoltano la telecronaca di Martellini alla radio, cioè, hai capito spettatore scemo? Siamo negli anni Ottanta! Rossi! Tardelli! Altobelli!
I forrestgumpisti italiani di solito vivono in centro: tutto deve succedere nello spazio di pochi isolati. Assistono a tutti gli episodi più importanti che stanno già sui libri di Storia (in questo caso tutti i delitti illustri da Boris Giuliano a Borsellino), senza capirci mai molto: spesso sono bambini o handicappati. L’importante è che abbia già capito tutto lo spettatore. Il forrestgumpismo ci porta a spasso per la Storia contemporanea come se fossimo in gita scolastica: le cose dobbiamo averle studiate già, ora si tratta di riviverle, di provare emozioni, per cui rieccoci a Capaci da spettatori: non si capisce niente, c’è solo fumo, sembra un terremoto, ecco: abbiamo avuto un po’ di paura, abbiamo “sentito” Capaci. Il forrestgumpismo al cinema funziona molto bene. Siamo tutti contenti quando qualcuno ci racconta una storia che conosciamo già, magari da un’angolazione diversa; quanta soddisfazione nel sapere già cosa succederà a un dato personaggio, ad es. Salvo Lima; nel saper riconoscere la strage di Capaci da una gag su un telecomando. Se poi il punto di vista è quello ingenuo e fiabesco di un bambino, chi oserà mai parlare male del tuo film, rimproverandoti qualche superficialità nel descrivere un fenomeno mafioso assai più ramificato e complesso, nel trasformare capoclan e stragisti in pagliacci (sempre meglio di glorificarli come eroi maudit, come si è fatto in tv) – ok, mi arrendo Pif, hai vinto tutto. Mettiamola così: non è un film sulla mafia, è un film sull’omertà, sul crescere in una città che finge di essere sana, e scoprire uno spavento alla volta che gli adulti hanno più paura di te.
Nell’ultima mezz’ora però accade qualcosa di diverso. Improvvisamente il piccolo Arturo si sveglia trasformato in Pif: il Pif che conosciamo, che 41 magari non li dimostra, ma neanche i venti che dovrebbe avere nel film. La trasformazione è improvvisa, pinocchiesca: Arturo non è davvero cresciuto. È solo diventato più grande, come Tom Hanks in un altro film; ma dorme ancora nello stesso lettino, ed è ancora bloccato nel suo amore elementare per Flora. Qui c’era un’idea meno rassicurante: crescere nella città della mafia significa compromettersi, e Arturo non ce la fa. Ci prova. Flora, lei, è cresciuta e lavora per i grandi vecchi, perché non provarci? C’è bisogno di giovani che portino idee fresche, che inquadrino i vecchi da angolature inedite, che scrivano i discorsi. Pif per un po’ ci prova. È quel momento tipico dei vent’anni, in cui “si fanno tante caz… sciocchezze”, per amore ma anche perché è sparito qualsiasi altro riferimento all’orizzonte, e non c’è più un prete o un giornalista a spiegarti cosa fare; il momento in cui giri la tua città con un curriculum in mano e ti senti soffocare. Una situazione molto più difficile da raccontare delle epifanie dell’infanzia, e che Pif racconta molto più in fretta, forse meno sicuro di sé come attore che come regista. Mi piacerebbe dirgli che ha torto, ma il film piacerà a tutti così. E davvero per un’opera prima non ci si può lamentare.
Un ultimo perfido appunto: un bambino trascinato dai genitori davanti a tutte le lapidi di tutti i martiri della mafia, secondo me, appena compie undici anni corre ad affiliarsi alla prima cosca che trova nel quartiere. Perlomeno, quel poco che ho capito di psicologia dei preadolescenti mi suggerisce ciò – poi magari mi sbaglio, eh. La mafia uccide solo d’estate è al Cinelandia di Borgo S. Dalmazzo (20:20; 22:35), al Vittoria di Bra (16:15, 18:15, 20:15, 22:30); al Cinecittà di Savigliano (20:20, 22:30) – ma da voi li fanno i bomboloni alla ricotta con le scaglie di cioccolato? M’è venuta la curiosità.
Improvvisamente vi svegliate, non riscattati dalla stanchezza di secoli, e in tv c'è ancora Ballarò. Sullo sfondo operaie incatenate a un'azienda che chiude, bandiere di sindacati, e non vi par bello cambiare canale. Oppure non riuscite a trovare nemmeno la forza morale per cercare il telecomando negli anfratti del divano che vi sta masticando, che domani vi rigurgiterà belli e stravolti e pronti alle vostre otto-ore, e c'è gente che vi invidia. Quando improvvisamente una luce si irradia su di voi. È un coglione in tv. Non è un coglione come gli altri. È il coglione platonico, non brilla di luce riflessa, è una pura fonte di ottimismo e gioia di vivere a due passi oltre il baratro. È il marito di una delle operaie incatenate, ma non gliene frega niente. Lo hanno intervistato per sbaglio, e ci sta dicendo che il peggio è passato, che lui per esempio sta vendendo un sacco di aspirapolveri, suo figlio ha tutti i dieci in pagella per cui domani lo porta in vacanza, evvai! In Europa! È stato solo un secondo, poi la regia è tornata a inquadrare disoccupati menagrami. Ma adesso lo state cercando davvero il telecomando, adesso state cercando se per caso da qualche parte esiste ancora un canale che trasmette coglioni così. Al massimo anche un film.
È il momento in cui cercano di vestirsi come i ricchi veri.
Dev'essere questa la scena che ha fatto sobbalzare anche Renato Brunetta, un uomo che se non esistesse avrebbero potuto inventarselo gli sceneggiatori di un film di Checco Zalone. Finalmente qualcuno che ha il coraggio di dirlo, che tutti questi operai disperati in tv portano sfiga! Ok, è un pagliaccio, ma arruoliamolo lo stesso. Zalone esprime in pieno la filosofia positiva, generosa, anticomunista, moderata, serena di Berlusconi e di Forza Italia.Che è un po' come se Goebbels all'uscita del Dittatore si fosse congratulato con Charlie Chaplin per aver espresso in pieno la filosofia "positiva, generosa, anticomunista, moderata, serena" di Adolf Hitler e del partito nazionalsocialista. E tuttavia Brunetta non ha tutti i torti... (continua su +eventi!) E tuttavia Brunetta non ha tutti i torti, anche se probabilmente ignora l’etimo di Che-Cozzalone. Checco il cafone, Checco il cialtrone, Checco che vuole essere la leadership di sé stesso, Checco che esplode nel mercato porta-a-porta degli aspirapolvere con una bolla fatta di parenti, Checco che per ogni euro che entra ne spende due in cambiali, Checco che se avrà un cane lo chiamerà Taeg; Checco è il berlusconi che è in ognuno di noi, quello che in teoria dovremmo temere, e invece ci manca. Non dico che gli acquisteremmo un altro aspirapolvere, ma per lui siamo persino disposti a tornare al cinema. Per quanto possiamo passare la settimana a far ragionare il nostro amico o collega grillino, è con Checco che preferiremmo andare in vacanza – un coglione, ok, ma vuoi mettere il divertimento? Ovunque capita, proietta la sua ombra buffa su un mondo che capisce appena – un mondo immaginato da un bambino in un tema, dove i ricchi parlano tutti con l’accento francese, votano comunista e mangiano verdure vegane e champagne. Chi l’ha presa per una satira del “radical chic” probabilmente è convinto che Biancaneve sia un coraggioso atto di denuncia contro lo sfruttamento dei nani.
Che altro gli vuoi dire a Checco Zalone? Poteva accontentarsi di occupare le sale italiane montando i soliti dieci sketch, e invece ha provato qualcosa di un po’ più ambizioso. Ne è uscito un prodotto tutto fuorché perfetto, ma ha importanza? È un film che fa ridere davvero, senza distogliere lo sguardo dalla crisi. Ha una morale e un lieto fine, senza cadere neanche per un istante nel saccarosio moschicida dei buoni sentimenti, come succedeva invece al suo rivale primaverile, il Bisio del Presidente. Zalone e Nunziante sono talmente sicuri del fatto loro che si possono concedere il lusso di non essere troppo volgari – giusto un po’ di turpiloquio ogni tanto, ma dosato alla perfezione, e un solo sketch pecoreccio giusto per ricordare a tutti che fino a due anni fa tutti questi spettatori dovevano contentarsi del cinepanettone. Al terzo film Checco è ancora poco più di una maschera (Mereghetti evoca Totò, fate i vostri conti), ma funziona che è una meraviglia, anche se tutta la macchina comica gira soltanto intorno a lui. Persino la trama nel secondo tempo è quasi accantonata, come se in sede di montaggio avessero che era più importante far ridere il pubblico che spiegargli passo per passo cosa stava succedendo. Probabilmente hanno ragione, anche se mi sarebbe piaciuto vedere un po’ di più Paolini nel ruolo di industriale cattivo (quando ti ricapita?) Particolarmente sacrificate le canzoni, al punto che ti chiedi se non avrebbe avuto più senso tagliarle e basta (poi dai un’occhiata alle classifiche di vendita dei cd e ti spieghi pure quelle). L’unico serio difetto di Sole a catinelle è che un film così esce una volta all’anno; ce ne fosse non dico uno al mese; ma se si riuscisse ogni tre quattro mesi a proporre prodotti del genere a quell’enorme fetta di pubblico che vuole ridere e basta, il cinema italiano starebbe benone. E forse spunterebbe anche qualche soldo in più per tenere aperta qualche sala e proiettarci film diversi. Sole a catinelle, se ancora non lo avete visto, è al Fiamma di Cuneo (21:15); al Cinelandia di Borgo S. Dalmazzo (20:30; 22:40); all’Impero di Bra (20:20); ai portici di Fossano (21:30); al Bertola di Mondovì (21:15); all’Italia di Saluzzo (20:00; 22:15); al Cinecittà di Savigliano (20:20; 22:30).
Cosa ha permesso a Steve Jobs di diventare Steve Jobs? Un viaggio in India con l'amico fuoricorso? Qualche acido di troppo con la fidanzata fricchettona? Il trauma dell'adozione? Il garage di mamma e papà? E se fosse stata la stronzaggine?
Non c'è. Nel film mostrano soltanto la scheda madre. (In effetti il case l'acquirente doveva costruirselo da solo).
Ogni tanto, durante il film, sentirete qualche ex amico di Steve dire una di quelle classiche frasi del tipo "È cambiato, una volta non era così". Può anche darsi. Ma a questo punto c'è qualcosa che non va nella sceneggiatura, perché quello che effettivamente vedono gli spettatori è uno stronzo integrale dalla sua prima apparizione. Tanto che viene da rispondere ai personaggi: Ehi, ti sbagli, è sempre stato così, si vede che è nato stronzo, che cosa ci vuoi far. Chissà poi perché tanta insistenza su un tratto del carattere. È davvero così fondamentale sapere che ha fottuto Wozniak sin dall'inizio? Che imponeva ai dipendenti la puzza dei suoi piedi, li licenziava per capriccio, che si sfogava urlando a squarciagola in automobile, che abbandonava fidanzate incinte, e poco altro? Ok, non dico che tutto questo non possa servirci a conoscerlo meglio, ma di solito, quando muore un personaggio importante, tendiamo a farne ritratti virati in rosa. Nel caso di Steve Jobs sembra che stia succedendo il contrario, il che potrebbe stupire chi ricorda l'incredibile cordoglio telematico che esplose due anni fa anche in Italia.
Già la biografia di Isaacson, uscita in tutta fretta pochi giorni dopo, mostrava di non volerci risparmiare i dettagli più sgradevoli della sua personalità. Anche il rassomigliante Ashton Kutcher non si preoccupa minimamente di rendere il suo Jobs più simpatetico di quanto non fosse l'originale: è un manager tarantolato che non riesce a tenere le gambe ferme sotto il tavolo del Consiglio di Amministrazione, terrorizza i dipendenti, taglia teste senza scrupoli - e nel mentre ogni tanto si fa venire qualche buona idea, il Mac, l'Ipad - dettagli, sembra che quello che interessi davvero lo sceneggiatore siano le lotte per la carica di Amministratore Delegato. E dire che la prima parte del film era stata promettente: Jobs avrebbe potuto essere un meraviglioso film per nerd, un viaggio nell'età dei pionieri, quando programmare un videogioco significava anche fissare i circuiti con un saldatore. Secondo me ci sarebbe mercato per un film così.
Voglio dire, stiamo tutti davanti a un aggeggio digitale per quattro o cinque ore al giorno - chi non avrebbe voglia di dare un'occhiata alla prima schermata del primo computer, montato in un garage? Siete sicuri che non troveremmo avvincente la storia della nascita dell'interfaccia grafica, che il film liquida nei pochi secondi in cui Jobs scopre che Bill Gates gli ha fregato l'idea e gli fa una rodomontata per telefono? (Tanto più che il film omette la risposta sorniona di Bill: non ho copiato te, c'era questo ricco vicino di casa che si chiama Xerox, sono entrato a rubargli il televisore e ho scoperto che ci avevi pensato già tu). E tutti quegli oggetti che la polvere rende belli, che so, i floppy (i veri floppy, quelli che a sventolarli facevano: flop). E a proposito di flop, tutti i prodotti bellissimi sulla carta che flopparono miseramente: Lisa, il primo Mac che scaldava come un tostapane...La poesia delle vecchie schermate in bianco e nero. Uno dei momenti più divertenti è quando il giovane Steve, alla ricerca di investitori, cerca di spiegare quello che stanno facendo in quel garage: è una tastiera che si collega al televisore e... puoi farci di tutto. Ecco, Jobs avrebbe potuto essere il film che ci mostrava il primo home computer, il primo Sistema Operativo, il primo mouse che trascina i file nel primo Cestino, e così via. Il caratteraccio di Jobs avrebbe potuto rivelarsi la spia della sua insofferenza nei confronti delle scomodità e inestetismi del quotidiano, la molla che lo spinge a inventare un mondo migliore: un Jobs stanco di digitare righe di comando inventa (o copia) il drag-and-drop, un Jobs che non sopporta più di non poter scaricare la posta al gabinetto inventa l'iPhone. Tutto questo sarebbe stato spettacolare e anche abbastanza divertente, credo.
E invece nel secondo tempo il film si disinteressa dei computer e comincia a concentrarsi su quel che sta sotto, scrivanie e poltrone. Diventa un film di gente che sgomita per occupare scrivanie e poltrone. Jobs continua a dominare la scena, urlando e strepitando, licenziando e facendosi licenziare. Poi si prende una vacanza (in realtà in quel periodo fonda NeXT, un'esperienza fallimentare ma cruciale per gli sviluppi successivi) finché chi lo aveva cacciato dai piani alti di Apple non striscia a implorare il suo ritorno. Forse la chiave del film è tutta lì. Questo non è un film per nerd. Un giorno forse qualcuno farà un bel film di Jobs per nerd (Aaron Sorkin sta lavorando a un progetto, speriamo bene), ma questo non lo è. Questo è un film per manager. Ciò spiegherebbe anche la necessità di enfatizzare la stronzaggine del personaggio. Sono i manager che amano specchiarsi nel miliardario partito dal garage: e nulla li esalta come il suo secondo avvento all'Apple. La storia del manager tradito e cacciato con infamia dalla propria azienda, la quale in sua assenza va in malora, finché un bel giorno Egli non viene supplicato di salvarla, trionfando sui suoi vecchi detrattori con prodotti coraggiosi e innovativi che la porteranno al top: una storia così per i manager di tutto il mondo dev'essere irresistibile, l'equivalente di Cenerentola per le terzogenite. Ecco, Joshua Michael Stern voleva raccontare questa storia, non quella dell'inventore di incredibili aggeggi, che purtroppo restano sullo sfondo. Ed ecco quindi un Kutcher più manager che inventore: non tocca un solo circuito stampato, in compenso mangia la faccia a qualsiasi membro del suo team che non la pensi come lui. I manager di tutto il mondo, quando vanno al cinema, vogliono vedere un manager più bello di loro che licenzia furiosamente tutti gli stronzi che gli capitano a tiro, uno che abbia il coraggio di tagliare le teste che loro non riescono a tagliare. Jobs è il loro film. L'altra sua utilità consiste nel dimostrare definitivamente la Prima Legge del Biopic: la qualità della storia è inversamente proporzionale alla somiglianza dei personaggi. Purtroppo i personaggi di Jobs sono davvero molto somiglianti. Jobs è ancora al Multisala Impero di Bra alle 22:15; se siete manager in carriera magari vi divertite parecchio. Sennò, bah.
Vi state sensibilizzando sull'odioso fenomeno della prostituzione minorile?
Isabella ha compiuto 17 anni ed è uno schianto. Ha una madre che non le fa mancare niente, un patrigno che l'ama come un padre, un fratellino che si strugge per lei e forse non riuscirà a toccare nessun'altra donna. Isabella è giovane e meravigliosa e tutti si aspettano da lei una serie di mosse precise: perdere la verginità una notte in spiaggia con un ragazzo straniero bellissimo, e poi tornare a Parigi e tra una lezione e una festa trovarsi un fidanzato, magari innamorarsi davvero, comunque cominciare una liaison benedetta dai parenti da interrompere prima della laurea (quando incontri il padre dei tue due figli, da cui divorzi verso i 35). Perché più o meno è quello che fanno tutte le belle ragazze di buona famiglia nei romanzi e nei film, e i genitori lo sanno, si tengono al corrente, hanno già cominciato a lasciarti i preservativi in bella vista in bagno. Peccato che a Isabella di tutta questa trafila postpuberale contemporanea non freghi nulla.
Isabella ha appena compiuto 17 anni e le piace far sesso con gli sconosciuti. Non tanto il sesso in sé, ginnastica a tratti piacevole ma generalmente noiosa. Ma dare appuntamenti a voci misteriose con un cellulare clandestino; viaggiare nel ventre di Parigi con una missione segreta; cambiarsi nei bagni, diventare più grande e poi di nuovo più piccola; intrufolarsi come un agente segreto negli alberghi esclusivi, ottenere da mani trepidanti una misura precisa della propria bellezza (cinquecento euro a botta), tutto questo è senz'altro pericoloso e sconsigliabile e a Isabella piace. Jeune et jolie è stato presentato a Cannes come La vita di Adèle, cui somiglia come un fratello cattivo: all'amour fou delle ragazze di Kechiche, Ozon oppone la frigidità sentimentale di Isabella. E tanto appassionato è il regista di Adèle (ai limiti dello stalking) tanto stavolta sembra glaciale Ozon. Non importa quanto vecchi od odiosi saranno i clienti di Isabella: nulla riuscirà a sporcarla, nulla è irreparabile.
Sbrigatevi a sensibilizzarvi, ché lei entro le sei dev’essere a casa.
L’avessi visto in qualsiasi altro momento, Jeune et jolie mi avrebbe innervosito per il distacco con cui abbozza un tema così attuale e pesante senza darsi la pena di cercare moventi sociali, morali, psicologici – niente, pare che a Ozon interessi soltanto impaginare la giovinezza di Marine Vacth in meravigliosi fotogrammi. Ma è il novembre del 2013, e oltre al fatto che gli sono ancora debitore di uno dei film più belli dell’anno, in queste due settimane ho fatto talmente il pieno di accorati opinionismi sulla prostituzione che l’impassibilità di Ozon mi è gradita come un balsamo, un necessario colpo di spugna profumata su tante chiacchiere benpensanti e puzzolenti. Ah, per inciso, viva la Francia; dove se tua figlia si prostituisce, la polizia viene a spiegarti con molto tatto che è meglio se metti la password ai computer di casa; dove un’assistente sociale spiegherà a tua figlia che prostituirsi è pericoloso da un punto di vista igienico; il tutto senza pazziate imbarazzanti che non servono a niente e a nessuno, senza Barbare D’Urso corrucciate e croniste d’assalto appostate. I compagni non sospetteranno niente; Isabella avrà ancora un po’ di tempo per crescere e capire il rischio che ha corso (un rischio fisico, concreto, non il “degrado antropologico morale” con cui i nostri esperti marchiano vittime e genitori).
Chissà se poi funziona così davvero, non lo so. Magari è una Francia di sogno, in tal caso viva la Francia dei sogni di Ozon e miei, un luogo dove persino un ponte pieno di lucchetti non è più un oggetto degno di derisione: Ozon non ha bisogno di ironizzare su Moccia o il moccismo per sentirsi superiore; ammira la giovinezza così com’è, con la sua arroganza e il suo sprezzo del pericolo, e i suoi errori di percorso. Anche se per apprezzarla davvero bisogna tenersi un po’ distanza, sennò ti si spezza il cuore come a Kechiche, o anche in modi meno metaforici. Un caro vecchio avatar del regista interverrà verso la fine per dirci che Isabella, alla fine, è solo una ragazza che ha avuto un po’ troppo coraggio: il coraggio di non inventarsi un amore quando l’amore in effetti non c’è, il coraggio di fare sesso se ne hai voglia e di farci i soldi se ne hai voglia. Tutto qui? Tutto qui. È un film immorale? Non più di tanti altri. È un film che restituisce un’immagine fuorviante della prostituzione? Senza dubbio, di sicuro non sono tutte così carine e prive di preoccupazioni economiche. Potrebbe mettere idee sbagliate in testa alle ragazzine? Mah, prima di prendervela coi film mettete una password ai laptop di casa. È un bel film? Non lo so, ma dopo Adèle ne sentivo un po’ il bisogno.
Gonna give you some terrible thrills.
Ah, quasi dimenticavo: per me la prostituzione minorile è una brutta cosa. Ma non perché sia sintomo di degrado antropologico o cazzate del genere. A me sembra inevitabile che ci siano automobili per strada, ma non vorrei che le guidassero i sedicenni. Mi rendo conto che si tratta di un pregiudizio non del tutto razionale – in fin dei conti un sedicenne ha riflessi e vista migliori dei miei – ma ritengo che sia più sicuro, più igienico che i sedicenni non guidino. Non so se prostituirsi sia più pericoloso che guidare: senz’altro è pericoloso. Si possono contrarre malattie, si possono incontrare psicopatici, il rischio di subire violenze è altissimo. Questo è l’unico discorso sensato che io farei a Isabella, e mi piace che qualcuno glielo faccia nel film.
Giovane e bella questa settimana è al cinema Fiamma di Cuneo, nei giorni feriali alle 21; al sabato alle 17.35, alle 20.15 e alle 22.35; la domenica alle 15.15, alle 18.10 e alle 21.00.
La guerra del futuro la combatteranno i ragazzini. Quelli ancora implumi che non guardano le ragazze e sono imbattibili ai videogiochi. Gli adulti faranno solo i selezionatori; andranno in giro per le scuole medie come mercanti di bestiame in cerca del puledro più promettente. Sarà senz'altro un mingherlino caricato a molla con tutte le frustrazioni proprie dell'età, un fascio di nervi pronti a contrarsi e uccidere. Un giorno videogiocando i ragazzini entreranno in un livello appena appena più elaborato e sarà la guerra. Se ne accorgeranno, di non pilotare grumi di pixel sullo schermo, ma droni veri contro nemici mortali? Farà qualche differenza per loro? Tratto da un classico della fantascienza usa anni '80, Ender's game si è già parzialmente avverato: parla di droni, guerra preventiva, abolizione della privacy in nome della sicurezza; il tutto senza rinnegare la sua vocazione spettacolare.
Vi schiaccio come zanzare, E POI mi faccio venire anche
i sensi di colpa.
Sarà anche per l'età del protagonista (il 16enne Asa Butterfield, sempre fantastico), ma rispetto ad altri film di fantascienza della stagione Ender's Game sembra più orientato verso un pubblico giovane, anche a rischio di diventare una specie di Harry Potter Contro Starship Troopers.
In particolare il vero Starship Troopers (il romanzo di Heinlein) condivide con Ender un dettaglio rivelatore: è uno dei romanzi più letti nelle accademie militari USA. Ora, la fantascienza militare al cinema ha un problema (in realtà ce l'ha tutta la fantascienza, ma quando è ambientata in scuole d'addestramento si nota di più). Da una parte c'è un pubblico che ha esigenza di vedere battaglie, guerre, nemici annichiliti, ecc. A questa domanda la fantascienza non può rispondere con qualche varietà di mostri dalle ovvie cattive intenzioni, che sia lecito sterminare (zombie, vampiri, draghi, orchi). La fantascienza non è costituzionalmente manichea come il fantasy o l'horror; al massimo ti può fornire qualche razza aliena; ma sterminare una razza aliena non è proprio una buona cosa: senti come suona male, sterminare una razza? I film di fantascienza militare ci mettono un attimo a diventare fascisti.
Si può ovviare in vari modi: per esempio, immaginare alieni molto cattivi (Independence Day, La guerra dei mondi). Sono loro che hanno cominciato, l'uomo vuole solo difendersi. Guillermo Del Toro ci aggiunge la diffidenza latinoamericana per le forze armate e sostituisce l'esercito regolare con una brigata di robottoni partigiani che resiste all'invasore squamato. E tuttavia anche in casi come questi allo spettatore rimane un retrogusto di propaganda.
Nel futuro i fascisti hanno vinto. E indovina che macchina guidano.
Proprio su questa sensazione Paul Verhoeven costruì quel film che a un certo punto divenne Starship Troopers semplicemente perché i produttori acquistarono i diritti per il romanzo: l'idea originale era più debitrice del nazista Trionfo della volontà. Verhoeven (che non si diede mai la pena di leggere tutto il romanzo di Heinlein) risolse il problema del fascismo elevandolo alla massima potenza, con tanto di cinegiornali didascalici tra una strage di insetti e l'altra. Poi ci fece sapere che era una satira del nazismo. Purtroppo ce lo rivelò anni dopo, nei contenuti speciali del dvd: nel frattempo milioni di persone in tutto il mondo si erano goduti un film simpaticamente nazista senza nemmeno sospettare l'ironia.
Starship Troopers è anche l'esempio di scuola del film furbetto, che assume punti di vista ambigui non per disorientare gli spettatori, come la sana fantascienza dovrebbe fare, ma per conquistare due fette di pubblico senza dare noia a entrambe: il militarista ci trova tutta l'esaltazione delle virtù militari di cui ha bisogno, il pacifista si diverte pensando che tanto è tutta parodia. Anche Ender's Game purtroppo si risolve in un trucchetto simile: dopo aver insistito per un'ora e un quarto sull'irredimibile malvagità degli insetti alieni che minacciano la Terra nella sua stessa esistenza, arriva il finalino edificante in cui si scopre che, beh, non ve lo dico, comunque forse sterminarli non era tutta questa priorità. Rispetto al romanzo manca la volontà di insistere su questo aspetto (che ci costringerebbe a rivedere tutto il film da una prospettiva diversa). Sembra esattamente quel che è: un tentativo in extremis di prendere un po' le distanze dal fascismo che gronda indisturbato in tutto il resto del film. Tentativo fallito: Hood e il suo cast sono molto più a loro agio quando ci mostrano l'ascesa al potere del gerarca Ender, genocida predestinato: le battaglie sostenute per sottrarre agli altri maschi alfa la solidarietà del branco, l'astuzia innata con cui sfida o blandisce gli adulti da cui dipende il suo successo. Dietro il vetro, in realtà, gli adulti non cessano di studiarlo e di metterlo alla prova per vedere se crolla o diventa più forte. Ogni tanto passa sul set una psicologa progressista, dice che tutto questo stress farà male al ragazzo... ma suona terribilmente falsa. Non ci crediamo, Ender è una macchina per uccidere e vogliamo soltanto vederlo all'opera. Sì, beh, ha degli scrupoli, chi non ne ha... non ce ne frega niente, Ender, vai! Uccidili tutti!
La guerra del futuro la combatteranno i ragazzini. Al comando metteremo quelli che prima colpiscono e poi, solo poi, si fanno venire qualche rimorso. Daremo loro divise colorate, ne vanno matti: caschi e ginocchiere e altre bardature, anche se la guerra la faranno seduti davanti a uno schermo. Gli adulti passeranno il tempo a ripeterci, come Harrison Ford, che il nemico sta per arrivare e ci vuole distruggere, e nessun compromesso è possibile. Ma alla fine si tratterà sempre di andarlo a snidare in qualche pianetino remoto, nella fascia degli asteroidi o in Afganistan. Ender's game è al Cinelandia di Borgo San Dalmazzo alle 20:10 e alle 22:40. Ai ragazzini di prima media piacerà immensamente - finalmente un film che li guarda e vede in loro quel meraviglioso potenziale di assassini.
Più di mezzo secolo è passato e la Torre Velasca è ancora là. Spuntata come un fungo nelle notti umide e ruggenti del boom, non si è piegata a tornadi e tangentopoli e ha resistito a ogni tentativo di rivalutazione: è brutta, incredibilmente brutta, sarà sempre più brutta, e nel 2012 il Daily Telegraph lo ha inserito tra i venti edifici più brutti del mondo. Ma Dino Risi lo aveva capito nel '59: per darci tutto il brutto del boom e di Milano, inutile darsi pena di costruire set e ambienti: bastava far scorrere i titoli di testa su quel torrione malvagio. L'incapace Nardi e l'insopportabile Elvira non potevano vivere che lassù, prigionieri reciproci intenti a torturarsi fino che morte non li separi. E se la morte non si dà una mossa, le si può sempre dare una spinta...
Cinquant'anni dopo, c'è ancora qualcuno lassù. Perlomeno di notte si vedono luci. Nuovi Nardi dribblano i fallimenti e nuove Elvire tessono trame. Non c'è motivo per non provare a raccontarle. Con buona pace dei cultori della commedia italiana, Il vedovo è un buon canovaccio che ogni tanto bisognerebbe ricordarsi di rifare - semmai la notizia è che abbiamo aspettato così tanto, al punto che il nuovo Nardi risulta nato dieci anni dopo la morte del vecchio. Non è un capolavoro indissolubilmente impregnato dello spirito di quei tempi; non è Il sorpasso, ammesso che il Sorpasso sia questo; e poi quest'anno abbiamo avuto in sala pure un tentativo di 8 e mezzo: come ci si fa a offendere se qualcuno raccatta due facce note della televisione e prova a rifare il Vedovo? E invece c'è qualcuno che si offende. Giù le mani da Albertone, giù le mani da Franca Valeri, formidabili quegli anni. Sì.
Erano anni formidabili. Sordi faceva dieci film all'anno, e nel '59 tra l'altro vinse David e Nastro con la Grande Guerra: insomma era al picco di una lunghissima carriera. E mentre era al picco recitava in un film al mese: alcuni di questi, come il Vedovo, realizzati con un'attenzione quasi spartana al budget. Risi, che era pur reduce dal successo della trilogia di Poveri ma belli, gira tutto in tre stanze e in una villa di campagna. Vi ricordate che Nardi, quando scopre che Elvira è ancora viva, si ritira in convento? Se ridate un'occhiata al film, scoprite che il convento non c'è: una strada di collina, un albero, un frate che cerca di insegnare ad Albertone a far rispondere gli uccelli, e via che si va. Erano gli anni del boom, la gente andava al cinema una volta alla settimana, i soldi scorrevano copiosi dai botteghini - e però Risi continuava a girare con due lire. Oggi invece c'è la crisi, e Venier non bada a spese - perlomeno l'impressione è quella: conferenze, aeroporti, grattacieli; tutto fotografato persino con qualche pretesa artistica. Venier può trasformare la Velasca da semplice fondale a presenza granulosa e ostile; Venier può concedersi il lusso di far recitare gli attori più difficili, gli animali. Ma qualunque cosa faccia (e alcune sequenze sono fatte davvero bene) pubblico e critici preferiranno sempre il filmetto girato in pochi giorni da Dino Risi nel '59, così come nessuna Audi Quattro sostituirà nel loro cuore la Cinquecento della loro prima pomiciata. E poi certo, De Luigi non è Sordi, ma lo sa. Il riflusso e la crisi gli hanno messo a disposizione decine di altri modelli di rampante frustrato, ma lui rimane un po' sfuocato; è davvero difficile immaginarlo palazzinaro o faccendiere... (continua su +eventi!) Si capisce che qualsiasi tentazione di berlusconizzare il personaggio è stata scartata a priori: Aspirante vedovo è un film ancora meno politico dell'originale, dove i trascorsi e le nostalgie fasciste di Nardi saltavano ogni tanto fuori. Ma era più facile essere antifascisti nel '59 che antiberlusconiani oggi. Al cinema bisogna cercare di portare più gente possibile, compreso chi Berlusconi l'ha votato per parecchio e adesso non vuole sentire rimproveri nemmeno indiretti; ma magari è sensibile a un paio di frecciatine anti-kasta ("con questa crisi c'è da far soldi a palate, eh").
Anche la Littizzetto non è Franca Valeri, anche se la sua Elvira (persino meno empatica dell'originale) è il personaggio migliore che ha fatto al cinema. Certo, sostituire "cretinetti" con "gnugnu" è una delle poche cose che fanno davvero pensare a una decadenza più che culturale, linguistica: cretinetti era un'invenzione che metteva assieme frenologia e anagrafe, "gnugnu" è un'onomatopea, una resa alla non-lingua dei bambini e degli animali. Pesa come un macigno su di lei il ruolo ormai liturgico che ha assunto a rai3, la sacerdotessa della parolaccia che ci aiuta a sopportare mezz'ore di interviste a venerati maestri, dai che dopo il premio nobel c'è la Litti che dice merda fregna vaffanculo. E questa è la tv colta. Anche Aspirante vedovo è percepito come prodotto medio-alto; critici e ufficio stampa ne sottolineano per esempio l'assenza di volgarità. Allora uno curioso va a vedere come hanno fatto a girare una commedia nel 2013 senza volgarità, e scopre che i primi cinque minuti del film sono costruiti intorno a gag sulla cacca del cane. Per dire quanto ormai si sia abbassata l'asticella: a De Luigi scappa anche un vaffanculo nel trailer. Altre cose che nell'originale mancavano e che adesso si possono mostrare: topi morti, psicofarmaci, chirurgia plastica, formaggio di fossa, rumeni, vescovi mondani e intrallazzoni (bravissimo Bebo Storti). Cose che c'erano nell'originale e oggi evidentemente non funzionano: nobili in disarmo, nazisti e pedofili (l'ingegnere degli ascensori era entrambe le cose), il mambo. Cose che potevano sembrare verosimili 50 anni fa e oggi no: l'amante che si fa viva al funerale e comincia a dirigere la servitù. E ammazzare qualcuno con un ascensore poteva avere un senso. Invece il piano per assassinare la Littizzetto è in assoluto la cosa più sconclusionata e inverosimile che ho visto quest'anno al cinema - e ho visto la fine del mondo due o tre volte, zombie e robottoni e cloud atlas.
Aspirante vedovo è al Cinelandia di Borgo San Dalmazzo alle 15:30, alle 17:35 e alle 20:30; al Fiamma di Cuneo e alle 22:30. È già fuori da più di due settimane; se non ci siete ancora andati magari un motivo c'è.
La vita di Adele (Abdellatif Kechiche, 2013; palma d'oro a Cannes).
Un giorno Zeus ed Era stavano litigando su chi traesse più piacere dall'atto sessuale, se l'uomo e la donna, quando ebbero un'idea: chiediamo a Tiresia, è l'unico che possa sapere come stanno le cose davvero, per via dei suoi trascorsi transessuali. Quando uccise una serpentella che copulava col suo partner, lo punimmo rinchiudendolo per sette anni in un corpo femminile: lui lo saprà chi dei due gode di più. E dicci quindi, Tiresia, quale orgasmo hai preferito?
Tiresia non usò mezzi termini: nove decimi dell'orgasmo spettano alla donna, punto. Maledetto Tiresia, hai svelato il nostro segreto! disse Era, e per punizione lo accecò. Così almeno non avrebbe fatto il regista. La vita di Adèle è il terzo film a tema lesbico che guardo in un mese (e non mi sto annoiando). Di tutti è il più sfacciato. Kechiche si è accomodato nell'esile storia a fumetti di Julie Maroh svuotandola dall'interno, suggendola come un'ostrica, senza fingere nessun rispetto per tematiche e personaggi. A capirlo bastano le primissime scene: siamo in un liceo, ragazzi e ragazze ripassano un romanzo di Marivaux che col fumetto non c'entra assolutamente nulla. Ma Kechiche ha già provato con la Schivata a sovrapporre la retorica fiorita del drammaturgo settecentesco francese ai silenzi impacciati dei liceali di banlieue. Marivaux ha scritto il Paesan rifatto, ha composto commedie in cui i servi fingono d'essere i padroni e viceversa; Marivaux racconta di oneste fanciulle di campagna che finiscono in città, abbandonate agli azzardi del caso e dell'amore. Kechiche è un cinquantenne etero il cui amore per la cultura francese è pari soltanto alla sua diffidenza per la spocchia degli ambienti culturali francesi. La fatica di crescere lesbiche nella Lille degli anni Novanta non è che gli interessi più di tanto, e non finge nemmeno d'interessarsene, questo è in fondo apprezzabile: Kechiche lo sa di essere un intruso in una storia che non lo riguarda, e gli piace. Per girare tre o quattro scene di sesso Kechiche reclude per settimane sul set due giovani attrici che all'inizio nemmeno si conoscono, e pretende che si masturbino a comando. La più grandicella è erede di due dinastie di produttori cinematografici francesi. Kechiche è un regista di origine tunisina che si è fatto da solo, e ora sul set ha il corpo di Léa Seydoux a sua disposizione. Se conosci tutti questi dettagli, quando vai a vedere la Vita di Adele hai paura che non riuscirai a seguire la storia, che vedrai il riflesso del rancoroso paesan rifatto Kechiche in ogni occhio lucido d'attrice. Poi si spengono le luci, e scopri che c'è ben altro.
E però se davvero si è letto tutta La vie de Marianne per te,
a prescindere dalla scelta di genere, tu un po' gliela dovresti dare.
C'è che a un certo punto della lavorazione - molto presto - Kechiche deve essersi innamorato della 19enne Adèle Exarchopoulos. Ma parecchio. Una di quelle scuffie totali, che quando vai al liceo hai paura di morire per davvero, e poi per fortuna o disgrazia cresci. Un amore platonico nei limiti in cui può essere platonico il tizio che per mestiere ti ordina di leccare la tua collega su un set. Una passione senza vergogna, questa è la vita di Adèle: un film dove un regista ci mostra due ore e mezza di primi piani di una ragazza e non se ne vergogna. E poi sì, è complicato scoprire di essere lesbiche al liceo, ma... diomio avete visto com'è bella quando sorride? Adesso ve la rimostro. E la famiglia, eh, è un vero problema fare outing in famiglia, perché... ma che mi frega della famiglia, leggetevi il fumetto se vi frega di queste cose, ma guardate quand'è bella quando fa le facce stanche, è stanca perché le faccio rifare le stesse scene per ore e ore, il sindacato degli operatori è incazzatissimo e forse il film non uscirà mai, ma chissenefrega, io amo Adèle Exarchopoulos e credo dobbiate amarla anche voi: etero, gay, uomini, donne, sedetevi in poltrona e assistete all'abbacinante spettacolo di Adèle Exarchopoulos. Ve la faccio vedere che posa nuda. Ve la faccio vedere che fa sesso gay ed etero, il suo personaggio poi sostiene che l'etero le piace meno, ma a voi piacerà. Ve la faccio vedere tirata e nervosa per la festa col terrazzino degli amici intellos della sua fidanzata, gente che fa discorsi cioè troppo colti ("Schiele è morboso preferisco Klimt" "No vaffanculo Klimt è decorativo", e questa è gente che ha fatto l'Accademia di Beaux-Arts, Adèle si sente a disagio perché sa solo Marivaux a memoria). Ve la faccio vedere quando fa la maestra d'asilo, e adesso tenetevi forte, a un certo punto passa in prima elementare e per dettare alla lavagna si mette gli o c c h i a l i , ooooooooh, Adèle, ma sei proprio sicura della tua scelta di genere? Sicura sicura? Non è che semplicemente non hai ancora trovato quello giusto, che ne so, un magrebino che ti faccia ridere?
Il film che ridefinisce il concetto di "ripetizioni di filosofia"
Le lesbiche si sono incazzate? Le lesbiche avrebbero qualche diritto di essere incazzate, questa all'inizio era una storia militante. Julie Maroh ha iniziato a disegnarla a diciannove anni, con tutta l'intensità e l'ingenuità che ci si può mettere a 19 anni. La tragica educazione sentimentale gay è stata completamente colonizzata da un franco-tunisino di successo che continua a sentirsi a disagio quando va ai cocktail. Il deragliamento è così completo che alla fine è spettacolare in quanto tale: non andate a vedere La vita di Adèle per ricavarne informazioni sulla vita o sull'amore delle lesbiche, perché probabilmente esse non vivono né si amano come nel film. Andate a vederlo se vi va di innamorarvi di nuovo della ragazzina nell'ultimo banco in fondo, quella che non avete notato per tre anni e poi improvvisamente esiste solo lei. Andateci per sentire il sale delle sue lacrime su vecchie cicatrici dimenticate. Andateci per passare l'ultima mezz'ora a dirle Adèle, non far cazzate, non sarai mica scema come la protagonista del fumetto? Tu sei in carne e ossa, Adèle, all'amore si sopravvive. Per fortuna, o per disgrazia. La vita di Adele è al Fiamma di Cuneo alle 21. Dura tre ore; è vietato ai minori di 14 anni.
Naomi Watts e Robin Wright sono amiche del cuore e vicine di casa. Abitano in un'Australia che sembra un'isola deserta, passano tutto il tempo in spiaggia a mettersi un sacco di crema e doposole e a prendere un sacco di sole. Il marito di Robin è a Sidney perché vuol far carriera. Il marito di Naomi Watts è morto. Naomi Watts e Robin Wright passano tutto il tempo assieme ai reciproci figli, due pezzi di surfisti australiani appena diciottenni. Siccome lo sanno tutti come andrà a finire - è il motivo per cui sono venuti al cinema - stasera doppio spettacolo milf! Robin e Naomi si fanno i figli a vicenda! - il preambolo dura soltanto mezz'ora. È comunque una mezz'ora leeeenta in cui Anne Fontaine non riesce a costruire una tensione erotica decente. Questo è imperdonabile - voglio dire, possiamo tutti sbagliare qualcosa nella vita, ma se hai Naomi Watts e Robin Wright e due pezzi di surfisti californiani diciottenni, e con un materiale del genere riesci lo stesso ad annoiare, c'è veramente qualcosa che non va. Non è così difficile, l'erotismo.
Non dovrebbe esserlo, perlomeno. Spiagge deserte, case tutte vetri, corpi giovani, corpi maturi ma ancora in forma, tabù da distruggere, qual è il problema? Perché tutto questo non funziona? (Continua su +eventi!) Tanta nostalgia per le zie e i nipotini di Le segrete esperienze di Luca e Fanny, quelle sì che erano serate interessanti. Dopo la prima mezz'ora di tuffi e sguardi, due castigatissime scene di sesso ci fanno capire che l'erotismo alla Fontaine non interessava proprio. Rimane il mistero: cosa le interessava? Non riusciamo ad affezionarci ai personaggi, sono figurine piatte quando non francamente antipatiche. Il sospetto di lesbismo che avrebbe dovuto aleggiare su tutta la storia viene liquidato a risatine, ahahah! Lesbiche noi? Ma sì una volta per tenerci in allenamento abbiamo limonato, ma questo non vuol certo dire che. Puoi trovare più coraggio e introspezione nei bigliettini delle ginnasiali. D'altro canto, se fossero lesbiche sarebbe un problema? Nel 2013 in Australia? Two mothers forse è degno di sopravvivere all'oblio perché fotografa l'istante in cui un tabù si svuota da dentro, e un tema che doveva sembrare morboso si rivela normale ai limiti della banalità. Non solo perché su internet abbiamo tutti visto cose un filo più spinte: ma quale ragazzino diciottenne non vorrebbe, potendo, farsi iniziare al sesso da Robin Wright o Naomi Watts? Per quale motivo Robin Wright o Naomi Watts dovrebbero resistere alle avances di due aitanti surfisti diciottenni? Sul serio esiste il tabù Non Giacerai con le Amiche di Famiglia e i Loro Figli? In Australia?
E ci rimane un'ora di film. Risolta la suspense sul "Come inizieranno?", non resta che chiedersi: come andrà a finire? Ovviamente i ragazzi troveranno compagne più giovani, in modi abbastanza prevedibili - e fermo restando che la prima Milf non si scorda mai. Verso la fine Naomi Watts diventa nonna, e se lo chiedete a me, non funziona, Naomi non è una granny, proprio no. E siamo al punto di partenza: forse sulla carta l'idea di avere una relazione con una persona che ti conosce sin da bambino potrebbe risultare morbosa... ma se questa persona ha le fattezze di Naomi, andiamo, chi è che non ci proverebbe con Naomi? Persino gli scimmioni alti otto metri non resistono a Naomi. Il finale poi, se qualcuno ha la pazienza di arrivarci, non è così scontato; e riscatta in parte con una bella immagine simbolica un racconto che non ha mai ingranato veramente. Peccato che a quanto pare nella versione italiana al cinema il finale sia stato tagliato - e a questo punto probabilmente del racconto originale di Doris Lessing non è rimasto niente. Two mothers è all'Aurora di Savigliano alle 21:15 e al Fiamma di Cuneo alle 21:10. Io lo lascerei dove sta.
I bambini ci guardavano. Una volta. D'estate, specialmente, non avevano molto altro da fare, e così erano sempre tra i piedi a osservarci. Per compleanno chiedevano cineprese e rullini. I bambini ci spiavano, sapevano tutto di noi. Chi stava scopando papà (non sempre era la mamma), chi stava baciando la mamma (non sempre era un amico di papà), ai bambini poi non è che fregasse un granché di tutta quella lussuria da adulti; ma era estate e non c'era molto altro da fare. In tv c'era un solo canale in bianco e nero e anche in spiaggia dopo pranzo per fare il bagno dovevi aspettare tre ore, e intanto la mamma dov'è? Mamma? Stai piangendo? Perché piangi? Vuoi papà? Vuoi divorziare? Vuoi che m'ammazzo? I bambini una volta erano un grosso problema.
Ora non è più così. Tante cose sono peggiorate, ma almeno adesso i bambini di noi se ne fottono. E meno male. Se avessi un figlio e da grande facesse un film su di me, mi mostrerebbe sempre seduto da qualche parte a ditaleggiare su un arnese digitale ridicolo. Ma non succederà, perché se avessi un figlio non mi starebbe guardando: lui per primo avrebbe di meglio da fare, ad esempio ditaleggiare su un arnese digitale ridicolo. Viva i nintendo, viva i cellulari, i tablet, viva tutta l'oggettistica che ha conquistato l'attenzione delle giovani generazioni che non si sa bene come cresceranno, forse con deficit di attenzione irrecuperabili, ma sicuramente non faranno più film il cui messaggio, se dobbiamo proprio sintetizzarlo in una frase, è PAPA' GUARDAMI MAMMA GUARDAMI. Luchetti invece ha fatto un film così e non c'è niente di male, basta che nessuno da qui in poi ne faccia più.
Chissà per quanti anni se l’è tenuta in serbo, la storia della vita. Purtroppo quando per anni ti tieni una storia, va a finire che un bel giorno decidi che è l’ora – e solo in quel momento ti accorgi che magari non è un granché. Forse hai fatto scappare il momento giusto, è passato ma avevi ancora paura. Forse non è mai stato un granché: era una storia bella da immaginare, ma una volta realizzata è solo una storia come un’altra, ne parlava Pasolini alla fine del Decamerone credo. Il decamerone di Luchetti sulla carta era una cosa fichissima, con mamme borghesi che scoprono l’amore saffico, artisti di neoavanguardia che al primo scompenso emotivo cedono al figurativo, e un bambino che riciclando i filmini estivi trasforma la Rivoluzione femminista in un carosello commerciale; una metafora potentissima a saperla maneggiare, e invece alla fine Luchetti non ci aveva tanta voglia.
Triste ma è così. Mescolando gli stessi ingredienti (rivoluzione e spot), quest’anno Pablo Larrain ci ha regalato quella meravigliosa riflessione sulla politica e la comunicazione che è No – i giorni dell’arcobaleno. Luchetti, che tante altre volte ha mostrato di saper infilare la politica nei film con estro e leggerezza (la sinfonia di Mio fratello è figlio unico!) stavolta non ci aveva voglia. D’accordo, è tutto visto attraverso gli occhi guardoni di un bambino che non aveva la minima idea di vivere sulla soglia degli anni di piombo – ed è meglio lasciar perdere qualsiasi riferimento alla cronaca piuttosto che rischiare l’effetto Meglio Gioventù, quella situazione per cui in un certo tipo di film italiani se qualcuno accende la radio c’è sempre una partita storica della nazionale, o un discorso di un leader politico o di un Papa. Resta l’imbarazzo di trovarsi di fronte a un autore che potrebbe raccontarti storie interessanti, che ha già dimostrato di saperlo fare come pochi in Italia, e invece ha solo voglia di dire: Papà, mamma, sono qui, ci sono sempre stato, e non me la scordo l’estate del ’74. Magari vi ho perdonato, ma non prima di mettervi in un film dove ormai siete più giovani di me e fate cose molto stupide, la neoavanguardia, il limonarsi a mezzo finestrino aperto, lo scopare in posti dove nessuno oggi riuscirebbe (la Mini Minor), eccetera, eccetera, eccetera. La memoria è un nastro super8 montato in loop. Ma andrebbe bene anche così, non c’è niente di male a rivendersi il sesso che hanno fatto i nostri genitori invece di interessarsi di noi – voglio dire, dopo che da bambino hai rivenduto i fotogrammi della tua fidanzatina all’industria pubblicitaria, non puoi veramente cadere più in basso. Non c’è niente di male a voler fare un film intimo e raccontare che a tua mamma negli anni Settanta piacevano anche le donne, tranne forse Micaela Ramazzotti.
Che è bellissima, è bravissima, e la vorremmo vedere in tutti i film italiani e anche stranieri, tranne in questo, che ha il trascurabile difetto di assomigliare un po’ a un film di tre anni fa, La prima cosa bella, che ci ricordiamo ancora tutti molto bene – anche perché non si sono visti parecchi film italiani all’altezza, da lì in poi. Ecco. Allora, cari esperti di casting, secondo me le cose stanno in questi termini: se nel giro di tre anni fate rifare a Micaela Ramazzotti un ruolo di mamma bisessuale di due bambini negli anni Settanta, dovreste perlomeno assicurarvi che il film sarà così bello, così meraviglioso, da farci dimenticare all’istante e per sempre di aver visto La prima cosa bella. Siccome ciò, senza offesa, era abbastanza improbabile, bisognerebbe almeno in questo film evitare di scritturare un’attrice che ci ricorderà, a ogni fotogramma, un film magari un filo più bello di questo – onde evitare che a luci accese tutti si mettano a bisbigliare: mmmsì, però vuoi mettere La prima cosa bella? A me sembra un ragionamento abbastanza lineare. Ma forse è prevalsa la voglia di rivedere la Ramazzotti madre bisex di due bambini negli anni Settanta. Posso anche capirvi: e siccome non c’è due senza tre, a questo punto mi aspetto un terzo film di Micaela Ramazzotti che ha due bambini negli anni Settanta e scopre l’amore saffico – ma sì, una bella trilogia, se gli americani ci hanno Batman e Guerre Stellari noi non possiamo avere le mamme lesbiche degli anni Settanta? Non so, stavolta si potrebbe ambientare nel Nord industriale o meglio ancora nel Sud arcaico: una torbida passione all’ombra dei trulli d’Alberobello, una mamma sedotta e abbandonata dalla postina, mentre i due figli appostati dietro i fichi d’india spìano tutto, spìano, spìano, maledetti bambini degli anni Settanta senza nintendo in mano. Daniele Luchetti è autorizzato a tirarmi un pugno in faccia per questa, chiamiamola, recensione. Dalla mano che ha girato La nostra vita sarebbe comunque un onore.
Anni felici è ancora per questa settimana al multisala Impero di Bra (infrasettimanale 20:20 e 22:30) – se siete appassionati di film in cui Micaela Ramazzotti interpreta mamme bisex degli anni Settanta datevi una mossa.
Me l'ha prestato un amico il vestito. Mi vuole fare tipo un book, o un servizio fotografico, o boh, dai insomma, mi vuole fare delle foto e mi ha detto che mi sta bene e di prenderlo pure e cioè, è perfetto, no? Cioè è assolutamente mio, adesso. Non ti preoccupare. E fatti un account su facebook invece di venire sempre sul mio con la scusa di sapere cosa combina tipo papà. E di spiarmi. Non l'ho rubato il vestito. Assolutamente.
Ma facciamo anche l'ipotesi che io questo vestito l'abbia preso da un posto, tipo, assolutamente pieno di vestiti che non si mette mai nessuno - e che questo posto, tipo, sia una proprietà, cioè, privata, però spalancata, capisci? antifurto disinserito, chiave sotto lo zerbino - mamma, ma che cazzo vuoi da me, si può sapere? Sono tua figlia, tipo. Cioè, lo sono assolutamente.
Cioè, credi davvero che non li abbia visti su youtube i video di quando sei andata con la tua amica Kirsten nella villa di quel re a Versailles e vi siete provati, tipo, tutti i vestiti e avete mangiato assolutamente tutti i pasticcini? e allora che cazzo vuoi da me, sei la cleptofreak in capo mamma. Cioè prova a dirmi che qua dentro è tipo tutta roba tua, tutta tua... Cioè non hai mai rubato niente a una festa?
Neanche quel leone d'oro sul camino?
Guarda mamma che lo sanno tipo tutti che fu un blitz tuo e di quel tuo ex, Quentin, chissà cosa aveva da farsi tipo perdonare. E questo invece cos'è. Un Oscar, alla migliore Sceneggiatura, cioè, mamma, dai, a chi la vuoi raccontare? Che poi, cioè, il punto è proprio quello. Tu le storie non le sai raccontare, assolutamente, tu sei fatta come noi. Sei una di quelle che al cinema dopo due ore di film non sanno dirti cos'è successo, chi amava chi, chi ha ucciso chi. In compenso ti ricordi benissimo tutti i colori delle scarpe e le fantasie dei vestiti, mamma, sei fatta così. Siamo fatti così. Forse è genetica, forse è cultura. Tipo che siamo troppo attente ai dettagli per interessarci dell'insieme. O forse ci nascondiamo nei dettagli perché non siamo mai riusciti a capire l'insieme. Comunque è così e vaffanculo, ok? Sei superficiale, non è una scelta artistica, sei proprio fatta così. La tua idea di profondità è riprendere i personaggi da lontano. La tua idea di introspezione è inquadrarne i brufoli da una webcam. Però ci piaci così, mamma, non prendertela. Sei sempre così triste.
C’è sempre tanto silenzio nei tuoi film, ci hai fatto caso? Sotto a tutte le playlist che ascoltano i personaggi, c’è sempre questo rumore di fondo che cambia nota da una sequenza all’altra – il rumore di milioni di ventilatori, tipo, di milioni di motori fermi a milioni di semafori, i rumori di Tokyo filtrati dai condotti di areazione fino a diventare una sola nota di rumore bianco, come in quei dischi scemi di shoegaze che per fortuna non ci infliggi più. Il rumore della gente che all’improvviso comincia a fermarsi davanti ai cancelli di Versailles. Il rumore che ci fa paura; e allora ci chiudiamo in macchina e ascoltiamo a massimo volume la musica più forte che c’è. Il rumore del silenzio che ti picchia tra le tempie al ritorno da una festa. Il rumore, tipo, della fine. Un giorno qualcuno verrà a prenderci, i sanculotti o il Los Angeles Police Department. Ci accuseranno di aver vissuto al di sopra delle nostre possibilità e cazzo, mamma, avranno assolutamente ragione. Poi ci porteranno via, tipo, in un posto dove forse il rumore ci lascerà in pace.
Il Bling Ring, quello vero.
Ma nel frattempo mamma, come fai a farci la morale. Siamo quattro ladruncoli maniaci di gossip che si sono trovati con molto tempo libero nel brevissimo periodo storico in cui i vip di Beverly Hills avevano le ville su google streets, l’agenda degli impegni su tmz, e ancora non avevano collegato le cose e inserito l’antifurto. Cioè, abbiamo rubato oggetti per milioni di dollari senza rendercene assolutamente conto, e adesso siamo, tipo, in galera. E tu ora vai in giro a dire che sei preoccupata per la nostra generazione traviata dalla cultura pop e altre cazzate, mamma, la semplice verità è che stai facendo soldi su di noi. Hai scritto un film su di noi. Cioè, “scritto”. Hai comprato i diritti di un reportage di Vanity Fair, non hai cambiato una virgola. Non hai neanche fatto caso alle cose non dette, alla gelosia delle ragazze per Nick, non hai voluto approfondire – ma non è che non hai voluto – è proprio che non sai come si fa. Tutto quello che potevi fare era inquadrarci da vicino o da lontano. Un altro (o un’altra) al tuo posto non avrebbe fatto così. Si sarebbe inventato una storia, avrebbe scavato nello spazio vuoto tra le dichiarazioni dei personaggi e degli avvocati. Ci avrebbe raccontato di Nick che finalmente trova un’amica ed è disposto a qualsiasi cosa per lei, Nick che la porta nel Nevada guidando un’auto piena di refurtiva – cioè, ti immagini cosa avrebbe potuto fare un altro regista con materiale del genere? Innamorarsi di una cleptomane, seguirla nella sua follia, diventare il suo manichino, imparare a memoria tutte quelle cazzo di nomi di cui fino a quel momento non ti era mai fregato niente, Marc Jacobs, Gucci, YSL – passare in due settimane dalla flanella grunge a impartire lezioni di stile tipo “non puoi mettere zebra e leopardato assieme, devi scegliere”. Che ne avrebbe fatto di tutto questo non dico uno Scorsese, ma un Ron Howard. Ma sei passata tu. E tu la distanza tra i personaggi non ce la puoi mettere. Tu sei sempre in primo piano con loro. È impossibile non immaginarti nella tua cameretta con quelle manolo indosso. E vuoi farci la morale, cioè, insomma, tipo, dai.
Però il film si guarda lo stesso, perché c’è la mia amica Emma Watson che è tipo assolutamente fantastica, cioè, guardala. Si è mangiata il tuo film. Lo ha capito sin dall’inizio, come solo i grandi attori: si è resa conto prima di te che sarebbe stato tipo come una puntata lunghissima di The Hills, e ha fatto l’unica cosa sensata che poteva fare un vero professionista: si è studiata The Hills. Lei lo ha capito, non si trattava semplicemente di entrare in casa di Audrina e rubare qualche altro oggettino: stavolta bisognava rubarle l’anima, questo fanno gli attori seri e lei è serissima assolutamente. La sua Rachel è un capolavoro iperrealista, più vera del vero, assomiglia tipo a un sacco di quindicenni che conosciamo. Lei un Oscar non lo ruberebbe, assolutamente. Mangia in testa a tutte le starlette ex Disney di Spring Break, e a quel guitto compiaciuto di James Franco. Che poi c’è da dire che in generale tu sei molto meno autoindulgente di Korine, anche se la categoria è la stessa: usare la superficialità dei giovani d’oggi per valorizzare tipo la propria.
A proposito, Sofia, io non sono tua figlia. Ho più o meno la tua stessa età, e nessun titolo per giudicare, né te, né i tuoi personaggi. Per esempio, senti questa: il tuo film forse l’ho rubato. Cioè, non proprio, ma ammettiamo l’ipotesi che ne abbia tipo scaricato una versione – è stato più forte di me, era peggio di una villa col cancello spalancato: mi è arrivato in casa coi sottotitoli e tutto, dovevo solo premere un tasto. Ma non avrei voluto, è stata la distribuzione italiana che ha deciso di programmare dopo Venezia un film uscito a Cannes, ti immagini? I femminili ne parlavano già in marzo, se uno aveva un po’ di curiosità come faceva a tenersela? Il film però esce oggi, e ci dev’essere senz’altro una strategia commerciale dietro, ma io mi domando sinceramente quale sia: non l’ho capita. Forse è un esperimento sociologico, forse facciamo tutti parte di un’opera d’arte, tipo una gigantesca installazione di ladri di film che guardano e giudicano un film di ladri. Tipo. Cioè. Assolutamente.
The Bling Ring, se siete onesti, è al Cinecittà di Savigliano alle 22.30; nei festivi alle 20:20 e alle 22:30.
Disse un giorno lo Studio alla Sregolatezza: non pensare che io ti invidi, o che sia stanco di incassare i tuoi colpi e batterti sempre ai punti. Ma se ci potessimo scambiare i ruoli un solo giorno della vita, giusto per capire l'effetto che fa giocarsi tutto a ogni curva... "Lascia perdere", rispose la Sregolatezza, "quel giorno pioverebbe e perderesti la faccia". Sai che perdita, replicò l'amico. E poi la faccia a che mi serve, fin tanto che posso infilarmi un casco.
Questo non è il film, vi rendete conto.
Rush è il film con i modellini che avete da qualche parte in solaio, salvo che sono 1:1 e fanno brumbrum per davvero. Proprio quelli di metà anni Settanta che sembravano davvero pacchetti di sigarette un po' ammaccati, e probabilmente non ne costruirono mai di più brutti, ma chi se ne frega, sono proprio loro. C'è la Tyrrell a sei ruote? Giusto in un paio di fotogrammi: ma c'è. La Lotus nera col bordino dorato c'è? Non poteva mancare. La Ferrari Atlas Ufo Robot con quell'aspiratore da disco volante? È in prima fila. E ce li hanno quei meravigliosi nomi scritti sulle fiancate? Regazzoni, Fittipaldi, Ickx, Andretti? I nomi dei piloti di Formula 1 non suonano come i nomi normali. Un nome normale ("Fisichella", "Schumacher") smette di sembrare normale quando lo porta un pilota di Formula 1. Non suonano italiani né inglesi né nulla, sono un popolo a parte, e quello che suonava meglio di tutti era: Lauda.
Un latinismo assurdo e necessario, un'invocazione, un ringraziamento. Niki Lauda, sin da quando riesco a ricordarmelo, per me è sempre stato un freak. Non faceva paura, il suo volto era solo un'ulteriore pellicola tra il cervello e il casco. A farmi impressione erano le vecchie foto, di quando era ancora un essere umano tra gli altri. Prima che morisse tra le fiamme e risorgesse come il cattivo di una storia di supereroi, freddo, crudele, inestinguibile. Ma come si chiamava il supereroe biondo? Non se lo ricorda più nessuno. Hunt. Strano, non suona come un nome da pilota (continua su +eventi!)
Rush è un film di Ron Howard, che in 30 anni ne ha fatti tanti, e molti ve li ricordate benissimo. Splash. Cocoon. Willow. Apollo 13. A beautiful mind. Il codice da Vinci. Frost/Nixon. E tanti altri che spesso vi sono piaciuti. Ma forse non ricordate che sono suoi. È bravo, ha la mano sicura, non fa passi falsi, gli sono capitati film sbagliati ma non a causa della sua regia: difetti strutturali, poco carburante, gomme sbagliate, incidenti di percorso. Lui finché può un film in pista riesce a tenerlo. Ma non appassiona i critici, non lascia segni riconoscibili che li stuzzichino. Può compiere mosse spericolate, se ritiene che ne valga la pena; ma non ha affatto paura di prendere la strada più banale, se è la più efficace per portare il film al traguardo. Dissolvere una scena di sesso in un pistone che sbatte nel cilindro, si può ancora fare? E perché no, vecchia metafora fa buon brodo. Come fai a mostrare che le macchine vanno davvero forte? Foglie secche che svolazzano, in tutte le stagioni, viva le foglie secche, non ce n’è mai abbastanza. Austriaci inglesi e italiani che parlano sempre la stessa lingua, come nei vecchi film di guerra dove al massimo il nazista calcava un po’ le consonanti? Personaggi che passano il tempo a riassumere la loro vita alla prima bella sconosciuta che incontrano? O a rammentarsi a vicenda le regole della disciplina che praticano insieme da anni? Non è realistico, i biopic seri non fanno più così da un pezzo. Però funziona ancora benissimo, la trama fila che è un piacere, e non c’è nemmeno bisogno di inventarsi snodi assurdi, perché il Campionato Formula 1 del 1976 fu veramente così: nessuno scrittore oserebbe più inventarsi una storia con tanti colpi di scena e tanto inverosimili.
Ron Howard ha fatto decine di film, ma è come se non li avesse firmati. Non li associamo alla sua faccia. Quella continua a farci pensare a Richie Cunningham, il ruolo di ragazzone-medio americano, per il quale aveva studiato sin da bambino, e che avrebbe dovuto fare di lui l’attore tv più popolare d’America e del mondo. Se un giorno sul set non fosse capitato un tizio qualunque, nemmeno troppo bravo a recitare, un personaggio secondario, ma irresistibile. Si chiamava Henry Winkler, doveva fare il bullo italamericano: non era nemmeno di origine italiana, ma con quel giubbotto indosso era irresistibile: era Fonzie. Si mangiò il telefilm, ne divenne il protagonista, e Ron Howard se ne fece una ragione. Studiò da regista, e il primo lungometraggio glielo finanziò proprio l’amico e rivale. Giorni felici, ma nulla di veramente indimenticabile, che senso ha rivangare? Niente. È solo che.
È solo che nel film c’è stato un momento, uno solo, in cui il bravissimo Daniel Brühl infilandosi il cappuccio coi fori degli occhi non mi è sembrato più né Lauda né Brühl. Per un attimo ho visto il volto sempre diverso e uguale di Ron Howard, finalmente tornato sulla scena: Ron Howard, archetipo del wasp noioso, che si decide a mettere la sua faccia su un suo film. Un ritratto di Ron Howard nei panni di Niki Lauda, il pilota più regolare e noioso del mondo, un ragioniere nel circo itinerante dei matti suicidi: Niki Lauda, davanti al quale la Morte e la Gloria, quando hanno voluto farsi capire, hanno dovuto esprimersi in percentuali. Ron Howard che ci mostra il dito e ci suggerisce dove ficcare i nostri discorsi sull’autorialità: non sarò mai il vostro Fonzie, non mi è mai interessato. L’ho invidiato? Può darsi, ma alla lunga ho sempre vinto io. Vincerò anche stavolta. Ma applaudite e premiate pure i film degli altri, il vostro amore non mi interessa, le vostre coppe non saprei dove appoggiarle. C’è una sola cosa che vi chiedo, e non è la stima, non è la gloria, né le foto sul tappeto rosso. Una cosa soltanto.
Otto euro.
E in certe sale mi arriva anche una percentuale sui popcorn.
Ma voi innamoratevi pure del Fonzie di turno. Sbrigatevi anzi. Che quelli invecchiano più in fretta. È l’unica pista in cui riescono a sorpassarmi.
Rush si lascia guardare che è un piacere, al Cityplex di Alba (21:00), al Cinelandia di Borgo San Dalmazzo (20:00, 21:00, 22:40), al Multisala Impero di Bra (20:10, 22:30), al Cinema Italia di Saluzzo (20:00, 22:15), al Cinecittà di Savigliano (20:20, 22:30). All’uscita, fate guidare la ragazza: voi non sapete il perché, ma lei sì.
Non mi ricordo nemmeno chi dei due sta convincendo l'altro che mettersi il costume è il suo destino - si scambiano ruoli e battute, dai, è chiaro che sono due proiezioni della stessa persona.
Dave Lizewski è cresciuto. Sta per andare al college. Non è più quel coglione che mascherato da super-eroe se le faceva dare di brutto nei video più cliccati di youtube. O no? Da qualche parte nella sua testa riccioluta di tardo teen-ager annoiato si aggira ancora quella fantasia allucinata, la bambina assassina. È cresciuta anche lei, adesso ha, gasp, quindici anni. Ancora pochi per alimentare fantasie sessuali consapevoli, quindi continua a vivere in un fumetto iperviolento dove salva Dave dai criminali spaccando ossa e tranciando mani. Dave Lizewski non è cresciuto. Non può. Da qualche parte sa di essere anche lui il protagonista di un fumetto. E che malgrado ogni logica e verosimiglianza, si ricalcherà il cappuccetto verde in testa e si rimetterà a prendere botte in compagnia di qualche altro cosplayer sciroccato.
Ci sono vari motivi per cui un film di Kick-ass è più interessante di quasi ogni altro film di supereroi. Uno è Chloë Grace Moretz, la bimba assassina. Un altro è Chloë Grace Moretz, ora anche teen-ager alle prese con le risaputissime dinamiche dell'high school (indovina, ci sono tre cheerleader che la prendono di mira, ma lei è più tosta. C'è anche la gag sul vomito, che nelle comunità giovanili americane dev'essere una specie di tabù: chi vomita in pubblico perde automaticamente il suo status). Il terzo motivo è l'ambiguità fondamentale del concetto di Kick-ass, una serie che nasce per prendere per il culo i cosplayer (quelli che si travestano da personaggi alle convention), ma alla fine per esigenze di drammatizzazione finisce per trasformarli in eroi veri. È come se don Chisciotte a un certo punto, in virtù della sua purezza di cuore, diventasse realmente un grande cavaliere, e Ronzinante un focoso destriero, e Dulcinea prendesse le forme, che ne so, di Chloë Grace Moretz. Nel primo episodio Lizewski inaugurava le imprese facendosi accoltellare e investire da un'automobile; nel finale saliva su un grattacielo con uno zainetto a reazione. Succede più o meno la stessa cosa anche stavolta. La storia comincia nel reame del verosimile, raccontando di sfigati che per varie traversie esistenziali hanno deciso di andare in giro in maschera e opporsi al crimine, rischiando di farsi molto male. Non sono tutti nerd incurabili, c'è anche la coppia che ha perso un figlio e lo fa per tenere alta l'attenzione sul caso: il quarto motivo per cui Kick-ass è interessante è per questa commistione di ridicolo e struggente, purtroppo appena accennata.
Lentamente però si entra nel regno della fiaba; è un percorso irresistibilmente regressivo, in cui Chloë Grace Moretz ti prende per mano. Un quinto motivo per cui Kick-ass può darti i brividi, è che i due piani (realtà e fumetto) non combaciano mai bene, e ti suggeriscono che qualcosa non stia funzionando: lo stesso pugno può romperti il naso o rimbalzare. Forse qualcuno sta sognando. Forse l'unico vero supereroe, Chloë, in realtà non esiste, è soltanto un fantasma nella testa di Dave... (continua su +eventi!) Il suo coniglio fantasma. Una scheggia di infanzia che non si rassegna: non andrai mai al college, il tuo posto è qui, tra i fumetti. Presto o tardi il fiabesco prende il sopravvento. Un Jim Carrey quasi irriconoscibile è il mago sacrificabile che proverà a rifare di Dave un eroe. Christopher Mintz-Plasse è l’ex amico viziato delle medie: per trasfigurarsi in antieroe gli basta calcarsi in faccia le maschere sadomaso della mamma appena morta. Coi soldi dell’eredità ha deciso di finanziare una squadra di super-cattivi che sono, definitivamente, non di questo mondo; tra cui la gigantessa Mother Russia, protagonista di una delle scene più assurdamente violente e, lo confesso, divertenti.
Un sesto motivo per cui Kick-ass mi è piaciuto di più di tante altre trasposizioni da fumetti, è che non ho letto il fumetto. Chi lo conosce si sta già ovviamente lamentando delle edulcorazioni – però capiamoci; è pur sempre un film dove una quindicenne ti taglia le mani e una falciatrice da giardino può tranciare un paio di giugulari. È comunque interessante notare alcune autocensure: una riguarda uno stupro, ribaltato in farsa ma con un dettaglio realistico: come succede a molti violentatori veri, il supercattivo non riesce ad avere un’erezione, e quindi decide di compensare con le botte. L’altra riguarda un cane, con tanto di strizzata d’occhio dello sceneggiatore: a un personaggio umano si può tagliare la testa, al suo cane no. “Non sono così insensibile”, dice il perfido Chris.
Il settimo motivo per cui Kick-ass, a dispetto di molte recensioni insoddisfatte, mi ha divertito parecchio, è che io i cosplayer li sento torbidamente affini. Certo, non mi dispiacerebbe vederli tutti orrendamente menati. Ma poi appena qualcuno ci prova davvero comincio a sentirmi in pena. È che alla fine anch’io ho avuto per tanti anni una doppia vita, un’identità segreta. No, di notte non mi mettevo dei cappucci buffi, ma quasi. Mi bastava assumere un nick ugualmente buffo. E anch’io andavo in giro a caccia di bricconi, saltando di sito in sito; e li inchiodavo alle loro malefatte, e in qualche caso mi facevo pure male. Ero un blogger. Lo sono ancora. Da che pulpito posso fare la predica a uno sfigato come Dave. La sua fame di avventura la capisco benissimo. Lo sguardo rassegnato del padre, perché m’è capitato un ragazzo così, l’ho già visto. Calcinculo prima o poi crescerà. Ma fino ad allora, vai di calcinculo.
L’ottavo motivo è Chloë Grace Moretz – stavo per dimenticarmi che in questo film c’è Chloë Grace Moretz. In seguito ne farà tantissimi altri. Ma non avrà più sedici anni, e non assalterà più un furgone in vestito nero e camicetta bianca gridando ai gangster: “siete morti, succhiac****”.
Kick-Ass 2, indovinate, è al Cinelandia di Borgo San Dalmazzo alle 20:20 e alle 22:40. È un film molto violento. Meglio aver già visto il primo episodio. Buon divertimento.
La notte del giudizio (The Purge, James DeMonaco, 2013)
In un futuro ormai prossimo, gli Stati Uniti sono soverchiati dalla produzione di film inutili. Decidono di purgarsene in agosto, facendone un mucchio unico e gettandolo nelle sale cinematografiche di un Paese alleato troppo debole per opporsi, che ne so, l'Italia. No, scherzo. In un futuro ormai prossimo, per rimediare alla violenza endemica, i Nuovi Padri Fondatori degli Stati Uniti hanno deciso di concentrare tutti i fatti criminosi in un giorno dell'anno: un solo giorno in cui si può fare qualunque cosa, compreso ammazzare, senza pagarne le conseguenze. Il giorno dopo sono di nuovo tutti tranquilli e non hanno più voglia di delinquere. Ve l'ho spiegata in tre righe, non crediate che il film ci metta molto più tempo.
È un peccato, perché è uno spunto interessante. Ricorda la cara vecchia fantascienza sociologica anni Cinquanta-Sessanta: è quella tipica idea su cui Robert Sheckley avrebbe scritto un raccontino fulminante, non più di cinque pagine. Anche questo script non dev'essere molto più lungo: in molti punti è palese l'affanno del montatore per raggiungere un minutaggio decente ("aggiungiamo ancora qualche minuto di tizi spaventati che brandiscono una torcia elettrica contro una parete"). Ricorda anche certa onesta produzione di serie B degli anni Settanta, ma con tanta crudeltà gratuita in meno. Ha visto giusto Nanni Cobretti (Nanni Cobretti vede sempre giusto) quando lo ha definito una specie di finto remake: malgrado sangue ne scorra, si ha costantemente la sensazione di vedere la copia sbiadita di un originale molto più cinico. Un indizio interessante sta nel curriculum dell'autore e regista, James DeMonaco: prima di questo film ha scritto, tra gli altri, il rifacimento del 2005 di Distretto 13 - le brigate della morte. Cosa aveva cambiato - cosa aveva ritenuto necessario cambiare per rendere il primo capolavoro di Carpenter appetibile e commerciabile a una nuova generazione? Tante cose. Troppe.
Per esempio: niente scena del gelato. Non si ammazzano più i ragazzini gratuitamente, non si può proprio più fare. E poi: le “brigate della morte”, gente che ammazza e si fa ammazzare per un niente, in sostanza la risposta di Carpenter agli zombie di Romero… nel rifacimento scritto da DeMonaco sono poliziotti deviati. Hollywood non può più stuzzicare il fascismo inconscio dello spettatore medio con lo spettacolo di gang fuori controllo: negli anni Settanta si poteva fare, adesso no, non a caso di tante cose ’70 che si sono rifatte, manca ancora all’appello il Giustiziere della Notte: troppo fascista. Il giorno che finalmente ci riusciranno (Stallone si è già prenotato) gli toccherà di sicuro ammazzare anche qualche poliziotto deviato (come succedeva pure all’ispettore Callaghan, mettiamo le cose in prospettiva). Secondo me a DeMonaco l’idea per The Purge è venuta proprio mentre riscriveva Distretto 13, che è più o meno lo stesso film: un assedio urbano. Insomma, sotto un involucro originale, che attirerà al cinema qualche appassionato d’antropologia (in fondo il carnevale medievale non funzionava allo stesso modo? E i saturnali nell’antica Roma?) c’è una storia vecchia come il cinema: quando scriveva il vero Distretto 13 Carpenter aveva in mente sia Zombi che Un dollaro d’onore.
Siccome coi soli appassionati di antropologia non si riempiono le sale (soprattutto in agosto), DeMonaco non si preoccupa minimamente di sviscerare l’idea del rito carnascialesco, e si dedica quasi subito alle variazioni sul tema della famiglia barricata in casa. Dalla sua parte ha almeno due attori d’eccezione (Ethan Hawke e Lena Headey) che da soli probabilmente valevano tutto il budget, e un sacco di spunti promettenti. La figlia ribelle col fidanzato sgradito a papà; il fratellino nerd con velleità umanitarie; il padre arrivista che deve dimostrare di avere conservato un barlume d’umanità; il quartiere “bene” che si barrica invano; i vicini impeccabili e antipatici, la gang di wasp assassini… con tanto materiale, qualche scena gli viene persino bene (memorabile il buon padre di famiglia che per salvare i figli spiega alla moglie come infierire su un ostaggio bendato), ma il bilancio finale è abbastanza fallimentare: un film di barricati in casa dove i personaggi saltano da una stanza all’altra continuamente, senza motivo sensato e senza raccordi, è un furto. Perché poi a far suspense coi corridoi bui sono bravi tutti ormai.
DeMonaco vorrebbe mantenere la barra a sinistra, e mostrare tutta la sua disapprovazione per una middle class che si difende dai poveri armandosi e alzando barricate; alla fine però si ha la sensazione che i personaggi che rinnegano la middle class e rifiutano il rito di violenza si comportino in modo assolutamente irragionevole. Il bambino, soprattutto. Dovrebbe dar voce all’innocenza, ma perlopiù commette coglionate incomprensibili. Alla fine non credo che nessuno si possa alzare dalla poltroncina senza la sensazione di essersi purgato di cinque o sette euro – e la cosa non ci rende meno violenti. Per niente. La notte del giudizio (titolo disonesto, il film si svolge di giorno) è al Cinelandia di Borgo San Dalmazzo alle 21:30. Bisogna tener duro, l’estate sta finendo, la prossima settimana esce un Pixar, dai.
Wolverine l'Immortale (The Wolverine, James Mangold, 2013)
Wolverine è il migliore in quello che fa. Uccidere? Sventrare? Annusare prede in mezzo al traffico metropolitano? No, quello era il Wolvie dei fumetti. Il Wolverine cinematografico è il migliore del mondo a nutrire rimorsi, avere incubi, ecc.. Non c'è notte che non si svegli con gli artigli in fuori, è seccante soprattutto se hai delle trombamiche, per cui è andato a vivere in montagna. Lo raggiunge una giapponese che parla come una guida turistica, avete presente, quelle che prima di affettarvi con la katana vi devono spiegare tutto il pedigree della katana, che era appartenuta al prozio del grande samurai Sto Katzo-San e tutto il resto. Indovinate che gli racconta: Logan, non puoi nasconderti al tuo destino, sei una macchina per uccidere, sei John Rambo col 100% di adamantio in più, dai, vieni in Giappone che ci divertiamo, c'è la Yakuza e il boss moribondo di una multinazionale che hai salvato da giovane a Nagasaki e ha un bellissimo ricordo del tuo fattore rigenerante, e i ninja neri sui tetti come nei vecchi fumetti di Miller, te li ricordi i vecchi fumetti di Miller, bei tempi quelli, però anche adesso non si sta male, dai, abbiamo katane vere e un sacco di effetti speciali, possiamo saltare sui treni a trecento chilometri all'ora, dai, vieni in Giappone con me.
"Va bene, ma solo 24 ore".
È uno di quei pochi casi in cui la
voce fuoricampo sarebbe
perfettamente giustificata. E
infatti non la usano.
Pagano sceneggiatori per scrivere frasi del genere. Vengo in Giappone - dal Canada - ma solo per 24 ore. All'inizio di un film di Wolverine. È come se i fratelli Grimm mettessero a Cappuccetto Rosso in bocca la battuta: "Beh, scambierò qualche parola col lupo, dopotutto; ma solo buongiorno e buonasera". Potrei continuare a lamentarmi per tutta la recensione. Perché mi ricordo la storia originale, e vederla saccheggiata così, profanata - non si potrà più riutilizzare, hanno bruciato in due ore sia l'idillio con Mariko sia la strage della famiglia - fa male. Ma lagnarsi non serve a niente. È come insistere sul fatto che Hugh Jackman non sia nella parte, per quanto si faccia crescere i basettoni io continuo a immaginarmelo col farfallino mentre canta scemenze a Broadway o presenta gli Oscar - ma dopo sei film forse vale la pena di rassegnarsi, o no? Nel frattempo si sono ruotati due Spider Men, due Supermen e ben tre Terribili Hulk, e Jackman è sempre lì. Si vede che a qualcuno piace. Qualcuno che non sono io, ma che compra più biglietti di me, evidentemente.
Alla fine il problema è tutto lì, cari appassionati di fumetti... (continua su +eventi!) Ogni volta che riportano un nostro personaggio al cinema, noi ci caschiamo. Entriamo aspettandoci cose che il cinema forse non ci può dare - o forse potrebbe almeno provarci - ma perché al mondo dovrebbe accontentare proprio noi, che siamo gli unici che di sicuro pagheranno il biglietto comunque? Noi siamo lo zoccolo duro dei film di supereroi, ce ne piace uno ogni tre ma ci andiamo lo stesso, e quando usciamo riempiamo l'internet di lamentele perché Silver Samurai non si può presentare e bruciare in quindici minuti, e che senso ha spendere tutti quei soldi in paludatissimi sceneggiatori se la storia originale di Claremont era cento volte più bella e cinematografica, eccetera eccetera eccetera. Siamo come gli elettori del PD. Per quale motivo al mondo i dirigenti del PD dovrebbero preoccuparsi di darci qualche soddisfazione? Se li abbiamo votati fin qui, è abbastanza chiaro che li voteremo anche la prossima, e quindi loro hanno altre priorità: conquistare gli elettori di Berlusconi, gli elettori di Grillo, ho sentito che esistono persino gli elettori di Ingroia, e gli astensionisti, tutta gente che con un po' di effettacci speciali che non c'entrano nulla col PD si può sul serio conquistare, e scassare il botteghino, che è quello che vogliamo anche noi elettori del PD, no? E comunque se la cosa non ci va possiamo sempre riempire l'internet con le nostre accorate lamentele, è un modo di divertirsi anche questo. È così che funziona. Il PD è fatto apposta per deluderci, e anche i film di supereroi. La malinconia che proviamo ogni volta che ci accorgiamo che di una bella saga magistralmente raccontata non è rimasto che qualche oggetto di scena, non è un fenomeno accidentale: è la natura stessa dell'oggetto "film di supereroi". Se il cinema è la fabbrica dei sogni, il cinema tratto dai fumetti è quel tipo di sogno che ti delude ogni volta che lo fai, quel sogno in cui le cose non vanno mai, mai, mai come vorresti. Allora esci dalla sala incazzato, ti sfoghi in un blog, e tre mesi dopo ci ricaschi. A proposito, la settimana prossima esce Kick-Ass 2. Probabilmente è una cazzata. Però, quasi quasi.
Wolverine l'immortale è al Cinelandia di Borgo San Dalmazzo alle 20:10 e alle 22:45. Perché non andate al cinema d'estate? No, sul serio, perché? C'è l'aria condizionata, si sta bene, potete far tardi, perché?, se più gente ci andasse d'estate i distributori smetterebbero di trattarla come la stagione dei fondi di magazzino, e io non perderei ore della mia vita a guardare Wolverine l'immortale.
Pain & Gain - Muscoli e denaro (Michael Bay, 2013).
Daniel Lugo (Mark Wahlberg) crede nel fitness, crede nei bicipiti, crede nel sogno americano. È stanco di recitare la parte di palestrato senza cervello, è stanco di motivare ricchi flaccidi in palestra per pochi $ all'ora. I muscoli che si è pompato addosso si meritano più. Daniel Lugo ha un piano: con un paio di colleghi bistecconi sequestrerà un suo ricco cliente, lo torturerà ma poco, quanto basta per farsi intestare tutti i suoi beni. Daniel Lugo mostrerà tutti di che cosa è capace. Purtroppo Daniel Lugo è capace di fare cose veramente molto stupide.
Michael Bay (Bad Boys, Armageddon, Transformers) crede nel cinema, crede nel montaggio serrato, crede nel sogno americano. È stanco di recitare la parte di regista senz'anima, è stanco di montare quindici sequenze in un minuto per ubriacare teen-ager iperattivi. La sua sensibilità di videoclipparo si merita di più. Michael Bay ha un piano: farà un film a basso budget e dimostrerà a tutti di che cosa è capace. Purtroppo, in effetti, Michael Bay è capace di tutto.
È facile odiare Michael Bay. Persino i cinefili antisnob, quelli che vogliono soltanto strafogarsi di pistacchi mentre guardano robottoni e lucertoloni: persino loro disprezzano Michael Bay. Perché, che cos'ha che non va. Ecco, è questo il punto. Non ha proprio niente che non vada. È il sogno americano alla massima potenza, senza controindicazioni, senza retropensieri, è come farsi di steroidi senza pensare al domani e alle controindicazioni ai testicoli, senza neanche il sospetto che ehi, forse stiamo esagerando, forse stiamo trasformando il cinema in un bambolotto gonfiato e senz'anima. Michael Bay ce l'ha, un'anima? Il compianto Roger Ebert propendeva per il no: se l'era venduta per girare The Rock. In cambio Satana aveva probabilmente imposto il cut finale di Armageddon - chi altri se non lui.
Se anche non avesse venduto l'anima al demonio, sicuramente Bay ha venduto il suo corpo alla Hasbro, il giocattolificio che produce i transformers... (continua su +eventi!)
Da sette anni, pensateci, sette anni, Bay come regista non fa che girare le cineprese intorno a robottoni e modellini di robottoni, a chi non verrebbe la nausea? Ok, guardarne un'avventura di Optimus Prime è divertente, ma vi ci sposereste? Ve lo portereste a letto tutte le sere? È una miniera di soldi, ma è comunque una miniera, sudore, fatica. E tra un anno esce il prossimo. Nel frattempo in un qualche modo è riuscito a girare questo piccolo film, che aveva in mente da anni, su un caso di cronaca avvenuto nella sua amata Miami: l'ascesa e la rapida caduta di una gang di sequestratori palestrati e stupidissimi. Ci sarebbe da ridere, se non fosse quasi tutto vero. Il guaio è che a un certo punto si ride comunque, malgrado un sottotitolo avverta: È ANCORA UNA STORIA VERA. Nel frattempo Dwayne Johnson sta usando un barbecue per grigliare pezzi di cadavere. Forse alla fine davvero non ce l'ha, un'anima, Michael Bay. Per quanto si sforzi.
Lui ci terrebbe a mostrarne una. Non pretende di essere originale, il film è per sua ammissione una tarantinata. In realtà sulla media distanza saltano fuori reminiscenze meno scontate - Scorsese, i fratelli Coen - il tutto mescolato senza il solito ipercinetismo: vuoi che stavolta non c'è l'esigenza di ubriacare i ragazzini, vuoi per le limitazioni del budget, fatto sta che questo è il suo primo film dai tempi di the Rock che non sconsiglierei a un epilettico. Bay vuole dimostrare che sa raccontare una storia adulta, che conosce l'ironia, che è capace addirittura di inserire un messaggio politico: in tutto questo andrebbe incoraggiato, perché Tarantino magari quando discetta di razzismo è più consapevole di lui, ma predica ai convertiti. Invece un Michael Bay, re del cinema tamarro, che si mette a satirizzare sul sogno americano è un po' come se Neri Parenti facesse cadere la dentiera a Berlusconi in un cinepanettone: quelle cose che incidono davvero, che spostano voti. Davvero, andrebbe sostenuto Michael Bay, che tra un robottone e l'altro invece di spaparanzarsi in spiaggia gira una satira a base di body builder cocainomani o impotenti, professionisti dei motivational speech da quattro soldi, poliziotti razzisti e cialtroni, notai corrotti (sì, anche in Florida esistono i notai). Un affresco sgargiante e corrosivo, e ci lamentiamo pure? Bay lo ha praticamente girato nel tempo libero. Whalberg e Johnson hanno rinunciato al compenso (si rifaranno con le percentuali degli incassi). Tutta gente ricca e famosa che invece di stare in spiaggia a sorseggiare daiquiri si impegna a darci un film cinico e divertente, e noi ci lamentiamo? Di cosa ci lamentiamo?
Del cinismo. È davvero un film troppo divertente. I tre protagonisti sono talmente pasticcioni che non puoi voler loro un po' di bene, come ai soliti ignoti di turno. Se poi nel mazzo c'è Dwayne Johnson, la più simpatetica montagna di muscoli mai inquadrata a Hollywood - purtroppo può fare un solo tipo di personaggio, ma lo fa veramente bene: in mezz'ora di film usa più espressioni facciali che Schwarzenegger in tutta la sua carriera. Il problema è che con tutta la sua simpatia, in questo film fa cose orribili. Non è solo questa cosa dei tranci umani in un barbecue. A un certo punto c'è una signora che si aggira a carponi sul pavimento dove giace suo marito con la testa schiacciata. Ogni volta che cerca di scappare, le fanno una pera di tranquillante. Sembra una comica. Ma è successo davvero. Quando ci pensi, ci resti male: sul serio ho riso per una cosa del genere? È un incubo, Michael Bay, come hai fatto a presentarmela come una cosa divertente? Ok, lo so, è intrinsecamente divertente. Ma non capisci quanto sia devastante, sul piano morale, ridere per dei crimini realmente commessi? Sul serio, non lo capisci? Cos'è che ti manca, se non l'anima cosa?
E il tuo senso dell'umorismo. Riempire un film di piselli di gomma, perché? È una scelta del tutto autoriale, nella storia vera la prima vittima del sequestro non viene imprigionata nel magazzino di un sexy shop: nel baule della sua macchina i poliziotti non rinvengono un dildo bruciacchiato. Bay ha già tradito la "storia vera" in tanti modi (si è inventato lo sceriffo buono che capisce tutto, ha trasformato un sadico violento in un timido impotente innamorato della solita Ciccia Wilson). Tutte licenze abbastanza comprensibili (se n'è prese più Spielberg per Lincoln, o Affleck per Argo), tranne questa ossessione per i falli in gomma che forse vorrebbe introdurre un sottotesto omoerotico, con la delicatezza di un tredicenne con un pennarello che di fronte a un muro disegna la prima cosa che gli viene spontanea. Viene il dubbio che Bay sia un po' quel tredicenne lì, anche se invece di un pennarello ha carrelli e macchine da presa ed effetti speciali a strafottere. Forse è tutto qua il mistero: Bay non è che giri film per ragazzini, Bay è ragazzino dentro. Anche se fa finta di annoiarsi dei Transformers, alla fine i suoi palestrati continuano a montarsi e smontarsi in un modo molto simile, e perdono anche i pezzi (vedi la gag dell'alluce amputato a Johnson, anch'essa del tutto gratuita e dichiaratamente fallica).
Così alla fine non sai bene cosa pensare. Se Bay voleva dimostrare di saper fare qualcosa di diverso che montare e smontare robottoni, il film non è del tutto riuscito. Se voleva divertirci, accidenti, sì, ci ha preso in pieno. Se voleva farci vergognare del nostro divertimento, maledizione, sì, sei veramente il demonio Michel Bay.
Pain & Gain è al Cinelandia di Borgo San Dalmazzo alle 20:05 e alle 22:45; al Multilanghe di Dogliani alle 21:30. Buon divertimento, e vergognatevi.
Facciamola finita (This Is The End, Evan Goldberg e Seth Rogen, 2013)
Michael Cera e Rihanna in una scena toccante.
Seth Rogen (Seth Rogen) e Jay Baruchel (Jay Baruchel) sono due attori canadesi che magari di nome non vi dicono niente ma appena li vedete in video vi sembra di riconoscerli. Seth ha fatto un po' più di carriera di Jay e vive a Hollywood; Jay non sopporta Hollywood ma è arrivato per il week-end e vorrebbe avere il suo vecchio amico tutto per sé. Seth invece lo trascina alla festa d'inaugurazione della nuova casa di James Franco (James Franco, in una delle sue interpretazioni più convincenti), dove ci sono altri vip che riconosci a malapena e Michael Cera che sniffa come un bidone aspiratutto e tocca il culo di Rihanna (Rihanna). E qualcuno secondo me al cinema ci va semplicemente per questo: vedere Rihanna che prende a ceffoni l'insopportabile strafatto Michael Cera. Jay è sempre più a disagio, e poi... finisce il mondo. Il mondo non fa che finire, al cinema, ultimamente. È il terzo film apocalittico che vado a vedere in un mese. È senz'altro il più bizzarro, ma richiede un po' di pazienza. Ci sono due modi per approcciarsi a Facciamola finita senza liquidarlo come un film dove attori famosi che non conosci tanto bene interpretano sé stessi in assurde scenate di gelosia e scappano da implausibili mostri digitali.
Il primo è stonarsi, prima durante e dopo. Gli autori non ne fanno un mistero: la trama di Facciamola finita è stata buttata giù mentre si passavano la canna, sembra di sentirli mentre si domandano, boh, come funziona l'apocalisse? Come si sale in cielo? Facciamo che si apre un faretto a occhio di bue dal cielo e ti risucchia? Certo, chi non vorrebbe essere risucchiato? Ahahah, risucchiato, hai capito? L'hai capita? E passala, dai. L'altro sistema per penetrare il film è mettersi a studiare il contesto, i generi e i sottogeneri, tanto quanto basta per scoprire che Facciamola finita è una stoner comedy con molta bromance, che si evolve in un apoca-blockbuster. Insomma lo avete capito, io tra la cannabis e wikipedia non ho mai avuto un attimo di esitazione. Il cast del film è lo stesso di una commedia apprezzata anche dalla critica, Pinapple Express, che io ho snobbato, chissà perché? Forse perché in Italia lo hanno venduto al botteghino col titolo Strafumati? Per carità, dal punto di vista commerciale avevano probabilmente ragione. Insomma è una banda di amici che si divertono a prendersi gioco di loro stessi, e questo è notevole: soprattutto James Franco, che si atteggia a collezionista d'arte e poi distrugge le sue opere per barricarsi. Franco e compagni sono attori, tutto quello che sanno è mediato dal mezzo cinematografico: le loro armi sono le armi di scena, quando provano a effettuare un esorcismo usano lo script dell'Esorcista come "manuale". Tra un colpo di scena e l'altro restano barricati nella villa a mettere in discussione i loro rapporti, sicché il modello inevitabile è quello del Grande Fratello. C'è persino il confessionale. Un grande fratello con le celebrità, la droga, e i mostri demoniaci: non male. Cosa manca? Cosa manca? Rifletti bene. Un aiutino: Rihanna viene inghiottita dagli inferi dopo pochi minuti. Cosa manca? Forse ci sono.
Dove sono finite tutte le donne?
Emma spacca sei culi alla volta, se la fate incazzare.
Cioè no, a un certo punto salta fuori Emma Watson (Emma Watson) con una grossa ascia. È un momento abbastanza esilarante, ed è bello vedere la piccola Ermione mostrare più scorza di tutti quei maschietti messi assieme, ma svela anche la difficoltà di fare entrare donne in questo film. Così com’è entrata, la Watson se ne deve andare il più presto possibile. Non può restare lì, non funzionerebbe. Porterebbe una tensione erotica, e questo film non può gestire questo tipo di tensione. È un film per adulti, secondo le metriche americane, ma l’eros non c’entra nulla. È per adulti perché è una stoner comedy, un film dove si mostra la droga e la gente che si droga. Tanto la droga è occultata nel realismo televisivo, tanto è esibita in questo tipo di film. Se trovi una lattina aperta, di sicuro ci hanno messo l’ecstasy, e Michael Cera va in giro a soffiarti la coca nel naso. Un’altra cosa che esibisce questo film – tenetevi forte – è una rivista porno. Segnatevela, potrebbe essere l’ultima rivista porno che compare in un prodotto cinematografico. Ne sono consapevoli anche i personaggi: chi è che si compra un giornaletto al giorno d’oggi? James Franco. Dice che gli piace leggere. Una gag d’altri tempi. I personaggi se la contendono con molta più energia di quella spesa per cercare di trattenere Emma Watson. D’altro canto non c’è molto spazio nel loro cuore. Sono troppo impegnati a rimproverarsi tra loro per non essere stati amici fedeli, e perdonarsi, e tradirsi di nuovo, come in un reality ma di soli maschi.
È quella cosa che in America si chiama bromance, e che da noi ho il sospetto che non funzioni più di tanto: l’insistenza sull’amicizia virile, ai limiti dell’omoerotismo (che però alla fine viene sempre negato). Il gran bene che vuoi ai tuoi vecchi compagni di spogliatoio, pare che non ci sia altro al mondo. Miliardi di persone sono state o risucchiate in cielo o inghiottite dagli inferi, e non c’è un solo personaggio del film che mostri preoccupazione per famigliari, parenti – mamme, mogli, fratelli, fuori non c’è più nessuno che importi. Le uniche persone importanti sono dentro, e dentro è importantissima questa cosa che Seth abbia tradito Jay con James o con Jonah. Come nei reality, alla fine ti rendi conto che passano il tempo a parlare di nulla. Nemmeno di sé stessi, sarebbe già qualcosa. Ma non ricordo di aver mai visto qualcuno capire sé stesso durante un reality, di solito sono tutti concentrati a parlare alle spalle del tizio che ha imboscato la lattina di fagioli. Il film prende esattamente questa china ed è un peccato, anche perché quando qualche critico USA la definisce la commedia più riuscita e corrosiva dell’anno, io ho il terribile sospetto che abbia ragione; che il convento non stia passando niente di meglio. Facciamola finita è un film divertente, ma ci sono film divertenti che parlano dell’amicizia, dell’amore, della vita, della società, di com’è difficile crescere o invecchiare, eccetera. Facciamola finita non parla quasi di niente. Per un attimo – quando decidono di “farsi tutte le droghe” rimaste in casa, cominci a sperarci: ci siamo, adesso saltiamo di livello, e il film diventa una specie di Grande Abbuffata Americana anni Dieci. Oppure si scopre che tutta l’apocalisse è soltanto un delirio… Invece no, si mettono a ballare come coglioni e finisce tutto lì, anche la droga ne esce malissimo, come un passatempo innocuo che annoia prima della playstation. Il vero tesoro, la cosa più ambita di tutte, più della droga, del giornaletto porno e di Emma Watson, è una merendina.
A un certo punto si capisce che non sapevano come andare avanti e si sono detti: mettiamoci i mostri. È un limite di Hollywood, se vuoi, l’assenza di limiti. Se Evan Goldberg e Seth Rogen vogliono dei mostri in un loro film, li ottengono. Anche abbastanza spaventosi. Non importa che spostino i film in una direzione horror che ha poco senso. In passato le limitazioni tecniche avrebbero convinto i registi a farsi venire una vera idea, ma oggi… perché farsi venire buone idee quando puoi risolvere tutto con qualche bel mostro? Così alla fine Facciamola finita rimane sostanzialmente un film dove attori famosi che non conosci tanto bene interpretano sé stessi in assurde scenate di gelosia e scappano da implausibili mostri digitali. Sì, dovevo venire fumato, lo so. Lo trovate al Cinelandia di Borgo San Dalmazzo alle 20:20 e alle 22:40, è vietato ai minori di 14 anni.
I Kaiju. Io non sono sicuro che a Cuneo possiate capire, che rompimento di coglioni siano i Kaiju. Uno guarda il telegiornale e pensa di farsi un'idea. Anch'io la pensavo così, poi si è aperta la faglia qua dietro. Niente di paragonabile per carità, lo sappiamo che i nostri son kaiju ruspanti, che non tirano giù grattacieli o centrali nucleari. Al massimo se la prendono con un condominio, una palestra, un magazzino. Però davvero non avete idea, di quanto rompano i coglioni i kaiju. Anche quando non escono. Magari stanno fermi per un mese - pensate che in quel mese noi si dorma? No, no, ci vanno nei sogni, li calpestano, sgambettano nei nostri progetti del futuro, ci lasciando la bava, fanno questo i kaiju. Ti svegli urlando: ma prenditi piuttosto un condominio. E lasciami i sogni. Prendi quello sfitto qua di fianco. Tanto i prezzi son crollati. Fanno questo i kaiju. Si siedono sul tuo mutuo ventennale, ci fanno la cacca di ammoniaca. Ti svegli sudato e vedi tua moglie che sta ditando lo smàrfon.
"Ma cosa fai a quest'ora".
"Ho sentito qualcosa".
"Stavi sognando".
"L'hai sentito anche tu, ti sei svegliato".
"Mi sono svegliato per la lucina di quel cazzo di smàrfon".
"Vedi? Lo sapevo io. Ne è uscito uno di seconda categoria, a Massa Finalese".
"Un kaiju di seconda categoria".
"Esatto".
"Mi hai svegliato per un cazzo di kaiju di seconda categoria, non lo senti nemmeno con gli strumenti un kaiju di seconda categoria".
"Magari adesso viene qui".
"Da Massa fin qui, certo. Manco i pompieri chiamano più, per un kaiju di seconda. Non ci vanno neanche i vigili urbani".
"Potrebbe essere l'inizio di una sequenza".
"Se prova ad attraversare il Secchia se lo mangiano le pantegane, un kaiju di seconda categoria. Io te lo rompo quello smàrfon di merda".
"Me l'hai regalato tu" (continua su +eventi)
Non so se da Cuneo riusciate a capirci, è che ce li portiamo a letto i kaiju. Di giorno rovistiamo i solai, le cantine abbandonate. Troviamo vecchi bracci di gru, motori dei Landini, campane sganciate da campanili sigillati. “Ma cosa ci vuoi fare con la campana, dai”. “È bronzo, è buono, ci facciamo la testa”. “All’età del bronzo siam tornati?” “Per prendere la rincorsa”.
Siamo la resistenza, cos’altro dovremmo essere. Abbiamo vaghe nozioni del tempo e dello spazio. A volte in qualche cassetto ci imbattiamo in un tesoro dell’infanzia – un torso intero di un Mazinga Z, qualche arto di Jeeg robot d’acciaio.
“Questo a diesel funziona”. “E i raggi gamma?” “Potremmo usare le resistenze”. “Si fonde tutto”. “Va bene, fottiamoci dei raggi gamma. Cerchiamo un’alabarda”. “Spaziale”. “L’antenna di via Marx”. “Perfetta”.
Se avessimo saputo che tutto questo ci sarebbe servito – le catene di trasmissione dei Ciao Piaggio, carcasse di betoniere, l’argano dell’OM Lupetto, le teste di Daitarn…
“Non ci facciamo un cazzo con una testa di Daitarn”. “Ma dai, è così bella”. “Lo sai che va a energia solare, sì?” “Così non sporca”. “No, macché, devi soltanto rivestire tutta la città di pannelli fotovoltaici, pregare che non piova e aspettare che carichi per una settimana. E dopo hai abbastanza energia per fargli fare la demo. Hai presente la demo, sì?” “E ora con l’energia del sole vincerò!“ “Con l’aiuto del sole vincerò. E poi si spegne”. “Ma no, dai”. “E il kaiju se lo incula”. “Che schifo”. “È successo, sai. A un Gundam di Crevalcore. Si è sbilanciato e si è bloccato a novanta. Il kaiju gli è arrivato dietro in un attimo”. “Viviamo in tempi orribili”.
Ai bambini non sappiamo cosa dire. Tesoro, ci dispiace, abbiamo fatto un mutuo in una terra di mostri che non avevamo previsto – benché in certi affreschi cinquecenteschi ferraresi risultassero chiarissime evidenze di combattimenti tra draghi ed enormi armature – pensavamo fosse mitologia, pensavamo fosse fiction, ci dispiace tanto. Pensavamo che sarebbe andato tutto bene, l’economia avrebbe tirato per sempre, e sopra i vani degli euromissili americani avremmo riempito tutta questa vallata di villette a schiera col giardino l’altalena e la cuccia del cane. Invece stiamo scavando rifugi anche per te, tesoro. Facciamo fatica a guardarli in faccia, i bambini, e ci rimettiamo a rovistare vecchi garage.
“Una tastiera alfanumerica, potrebbe servire”. “Se si leggessero le lettere… butta via, è uno Spectrum a sfioramento, ti partono le lame rotanti senza che te ne accorga. Ci tagliamo i piedi da soli”. “Non ce le abbiamo le lame rotanti”. “Mio cugino ha detto che ci porta le frese in ghisa, andranno bene. E questa che cos’è?” “Robaccia, butta via”. “Ma sembra antropomorfa”. “È un pezzo di transformer”. “Bleah. Ti suona il telefono”. “Ah sì, è… è l’allarme”. “Che palle. Che dice?” “Ma niente, un… un terza categoria”. “Dove?” “A Fossoli”. “Che palle. Che palle”. “Avevano appena riaperto la scuola”. “Viene verso di noi”. “Piscerà su tutta la ciclabile, io adoro quella ciclabile. E la ferrovia…” “Se intercetta il regionale per Suzzara fa un macello. Ci andiamo?” “Non so. Abbiamo il torso di un Mazinga, i cingoli di un fiat trattori, la testa in bronzo…” “Abbiamo l’alabarda”. “In fondo è solo un terza categoria, voglio dire, gli fai un po’ di paura e scappa via”. “Oppure gli spacchiamo il culo”. “Pensi che possiamo?” “Guardati intorno, fratello. Sta andando tutto a puttane. Dove vorresti essere mentre tutto va a puttane? Dietro una scrivania? In un cantiere? O dentro un torso di Mazinga?” “Va bene, si va a Fossoli”. “Stavolta gli spacchiamo il culo a quel bastardo. Dammi la mano”.
Abbiamo l’alabarda. Abbiamo i cingoli. Le lame rotanti arriveranno. Cancelleremo l’apocalisse un po’ per volta, come uno scarabocchio: con le nostre gomme staedtler smangiucchiate. I bambini alzeranno la testa e ci guarderanno negli occhi, e vedranno degli eroi.
(Pacific Rim è un film di Guillermo del Toro, costato dieci milioni di dollari in meno di World War Z e dieci milioni di volte più bello, con i robottoni di quando eravamo piccoli – sono proprio loro, sono arrugginiti, hanno tutte le scritte consumate, e si smontano appena provi a usarli. Ma sono tornati. Il mondo ormai se ne frega, il mondo ha altre priorità, ma loro hanno un lavoro da finire, un’apocalisse da cancellare. È difficile da spiegare, e non so se a Cuneo interessi. È un film di enormi robot che le prendono da enormi lucertoloni, e io ho pianto per mezz’ora. C’è che odio i kaiju. Li odio veramente tanto).
Pare che sia molto bello anche in 3d – lo dice Bernocchi ed è uomo di fede – la versione in occhialini è al Cinelandia di Borgo San Dalmazzo alle 20:05 22:45 e al Multisala Impero di Bra alle 21:15. Lo trovate in 2d al Cinelandia di Borgo San Dalmazzo alle 20:00 e alle 22:40; ai Portici di Fossano alle 21:30; al cinema Italia di Saluzzo alle 21:30.
1. Qualcosa sta succedendo a tutti i film di zombi. Forse è cominciato con quel telefilm tratto da quel fumetto. O con qualche remake del sequel del remake - insomma, a un certo punto tra i film di zombi si è sparso il contagio, in tutto il mondo sono diventati noiosi e prevedibili. Brad Pitt indaga. Passa da un set catastrofico a Philadelphia a un film di guerra girato in notturna per risparmiare, a un altro set catastrofico in Israele, e ovunque non trova che noia e prevedibilità. Da dove si è diffuso il morbo? "Non importa chi è stato il primo" gli dice una comparsa qualsiasi, "cerca piuttosto un modo per ravvivarli". Dopo un atterraggio di fortuna in Galles (equipaggio e passeggeri erano stati annoiati a morte dall'ennesimo film di zombi), Pitt precipita nei pressi di una cineteca e ha un'intuizione: per salvare il genere bisogna iniettargli il peggior virus narrativo dell'ultima generazione.
"Ditemi dove lo tenete rinchiuso".
"No, non possiamo... no! Guarda come ha ridotto Star Trek!".
"È la nostra unica speranza, liberatelo. Facciamoci tutti un'endovena di Lindelof".
2. Che poi non è nemmeno giusto dare la colpa a Lindelof. È un film nato sbagliato, da un'idea compromissoria (un film di zombi con meno sangue possibile, affinché non sia vietato ai 14enni negli USA che altrimenti restano a casa a guardarsi Romero in dvd), e con la terribile responsabilità di avere devastato un libro omonimo che proprio non se lo meritava. Il risultato finale, dopo ripensamenti e riscritture, sta al libro di Max Brooks come uno zombi sta a un essere umano: il libro era vivo, brillante, pieno di idee e di riflessioni sociali, politiche, economiche; il film è un brandello di narrativa morta, anzi più brandelli di narrativa morti messi assieme, che camminano stancamente in direzione del finale all'unico scopo di infettare qualche altro film, magari un sequel. In un certo senso Pitt e compagnia sono riusciti a realizzare non già un film di zombie, ma un film zombi, un film morto vivente. Più morto che vivente.
CIAO! Che fate di bello? Io
ACQUISTO IL CORPO della moglie
di Brad nei contenuti speciali.
3. Finalmente un film di cui posso rivelare il finale, visto
che lo hanno buttato via e Lindelof ne ha scritto uno diverso (che poi non è neanche così malissimo, dai). Dunque, l'aereo da Gerusalemme atterra senza grossi intoppi in Russia. Qui le simpatiche guardie aeroportuali sparano a tutti i vecchi i deboli e i malati, e arruolano gli altri nella grande guerra patriottica contro gli zombi. Brad e la cecchina israeliana vengono quindi impiegati nella difesa di Mosca, e hanno modo di notare che gli zombi slavi sono molto più lenti di quelli americani o israelopalestinesi. La geniale intuizione è che non reggano il freddo. Appena Brad se ne rende conto, primo al mondo (i canadesi troppo scemi per condividere l'informazione) si appende a qualche telefono satellitare e cerca ovviamente la moglie. Non so se avete notato, ma l'agente segreto delle Nazioni Unite, se deve fare una telefonata sola, non la fa alle Nazioni Unite, ma alla moglie per chiedere se i bambini stanno bene, e la fa coi nostri soldi di contribuenti mondiali, e poi uno si sorprende che gli zombi vincano le elezioni. Comunque. Adesso tenetevi: la famiglia si trova in un campo profughi in Florida, zona subtropicale (quindi zombi velocissimi), e per garantirsi la sopravvivenza la moglie VENDE IL SUO CORPO. E non lo vende a chicchessia, ma per esempio A MATTHEW FOX DI "LOST", che se siete pronti di riflessi avete notato in una scena iniziale su un elicottero; e se lo avete notato vi sarete pure chiesti: ma che ci fa Matthew Fox di Lost? Nulla; passava sul set per caso in elicottero; ma prima che Lindelof ci mettesse le mani COMPRAVA IL CORPO DELLA MOGLIE DI BRAD PITT, o le faceva da pappone, non ho capito bene. Brad capisce che deve assolutamente tornare a casa prima che le cose si mettano davvero male, quindi attraversa la Russia e il Pacifico e sbarca in Oregon. Fine del film e arrivederci al prossimo. Sette euro bene spesi, vero? Dopo tre anni che ci lavoravano lo script era una cosa del genere. Ne hanno anche girato dei pezzi (la battaglia di Mosca). Poi qualcuno deve essersi detto: ma sul serio? Dopo tutti gli sforzi per produrre un film di zombi senza sangue e sbranamenti; dopo averne girato metà al buio per evitare che si vedano i morsi e le budella; dopo aver dosato il sangue col contagocce... sul serio ci infiliamo il mercimonio della madre di famiglia iuessei? Come siamo riusciti a trasformare un bel romanzo satirico in un polpettone deprimente come questo? Chi ci aspettiamo che verrà a vederlo, quale famiglia porterà i figlioletti al cinema estivo a vedere un film di zombi in cui il papà diventa un fantaccino russo e la mamma con tanto amore per i figli fa le marchette in un campo profughi? Come ne usciamo da questo guaio?
"Apri la valigetta" (continua su +eventi!)
"No, la valigetta no!"
"Non abbiamo altra speranza".
"Ma hai visto cosa è successo a Prometheus"
"Ti dico che è l'unica speranza. Dieci milligrammi di Lindelof, sparati in vena. Persino gli zombi lo schifano".
4. Ma Brad Pitt da qui in poi farà sempre così? Metterà la famiglia in tutti i film che fa? Adotterà un bambino ogni volta? Se gli danno i Tre Moschettieri, lo trasformerà in "La famiglia D'Artagnan?" Se Craig gli cede il ruolo, lui sposa Ms Moneypenny nell'episodio "007 - Casa Dolce Casa"?
Però non è un muro.
5. Per fare un esempio di come il film abbia mortificato il libro: l'episodio di Gerusalemme. Come tutte le cose che c'entrano con Israele, è molto controverso; i muri nel film sono molto simili a quella "barriera difensiva" (era vietato chiamarla "muro") costruita nel decennio scorso che rese ancora più difficile la vita dei palestinesi ma pose fine agli attentati suicidi in Israele - anche se alla prova dei fatti gli zombi si mostreranno assai più determinati ed efficienti di Hamas e Jihad Islamica. Ma il risultato finale è così amorfo, anche da un punto di vista ideologico, che puoi persino accusare il film di antisemitismo subliminale: c'è una pandemia mondiale di morti viventi e gli israeliani LO SAPEVANO CON UN MESE DI ANTICIPO. Che bella idea, chissà a chi è venuta, chissà quante pacche sulle spalle gli hanno dato, ehi, eppure mi ricorda qualcosa... ebrei che conoscono una catastrofe in anticipo... dove l'ho già sentita? era una leggenda metropolitana, vero? Nel romanzo l'episodio assumeva un indirizzo politico chiaro: Brooks immagina che l'emergenza forzi israeliani e palestinesi a creare uno Stato unitario per fare fronte comune contro i morti viventi - salvo dover fare i conti con una rivolta degli ultrafondamentalisti ebrei che degenera in guerra civile. È forse l'idea portante del libro: gli zombi non sono il vero problema, il problema è la difficoltà degli umani a ad andare d'accordo, a fronteggiare un'emergenza in modo razionale. E poi sì, per Brooks i fondamentalisti sono la quinta colonna degli zombi. È un'idea forte, può farti discutere, ma è irriproducibile in un blockbuster. Non puoi offendere gli israeliani, fondamentalisti o meno, in un blockbuster. Nemmeno i cinesi puoi più offendere, e quindi a Brad nessuno vuole dire che il paziente zero è in Cina. Nel libro era chiaro, nel film non si può dire. Non si può nemmeno spostare in qualche altro Paese, perché è un blockbuster e deve andare nelle sale di tutto il mondo. L'unico Paese di cui può parlare male un blockbuster, lo si capisce con chiarezza, è la Corea del Nord. Quindi, insomma, la globalizzazione porta alla pandemia. Non importa quanto un'idea di partenza sia originale, e interessante, e piena di contenuti originali: quando la trasformi in un blockbuster diventerà invariabilmente la storia di un padre di famiglia che salva il mondo da una minaccia. A quel punto perché non riguardarsi la Guerra dei Mondi, dove i bambini non sono semplici burattini in balia degli incidenti stradali?
6. Ancora sull'episodio di Gerusalemme: alla fine gli zombi riescono a saltare la barriera, ma perché? Perché la gente dentro fa troppo rumore. E perché fanno troppo rumore? Perché i palestinesi e gli israeliani stanno innalzando canti di pace, sciagurati! Il complesso militare industriale ce la mette tutta per salvarci dai morti viventi, e i pacifisti con le loro canzoni inutili aprono i cancelli ai morti viventi. Ora, da un punto di vista politico i film catastrofisti si possono dividere in due famiglie, a seconda di come trattano il potere. Possono denunciarne la miopia, mettendo in scena presidenti e generali inetti che prendono decisioni sbagliate (spesso osteggiando con un geniale scienziato che ha capito tutto facendo equazioni sulla lavagna mesi prima). Oppure possono attaccarsi alle braghette dei generali come l'unica risorsa: viva lo Stato d'emergenza. Abbiamo bisogno di un esercito forte, in caso di catastrofi. E abbiamo bisogno di catastrofi, sennò ci stanchiamo a finanziare un esercito forte. Questo film - questa carcassa di film - è del secondo tipo, più per pigrizia che per reale convinzione. Vedi la disinvoltura con cui ammazza subito presidente e vicepresidente, così non c'è neanche bisogno di mostrare un fotogramma di Casabianca, ormai comandano gli ammiragli. E il geniale scienziato? Lo mandano subito nel posto più infestato al mondo, via il dente via il dolore.
7. Più che un film catastrofico, insomma, una catastrofe in sé: vedibile, persino divertente a sprazzi, come certi incidenti stradali che ci fanno rallentare, anche se il giorno dopo ricordiamo soltanto il senso di colpa. Vi susciterà la stessa simpatia delle lamiere contorte: un po' le stesse sensazioni di un B-Movie, ma con tanti milioni di dollari in più. E alla fine capisci come deve sentirsi Lindelof: l'ebrezza del Frankestein della narrativa fantastica anni '10. Mi avete dato dei pezzi di carne morta, organi sparsi che nemmeno combaciavano, io li ho cuciti assieme, gli ho dato un senso, e adesso vedete: cammina. Sì, via, più che camminare barcolla. Però funziona, si può fare! E arrivederci al sequel. Sì, certo, aspettaci.
Se volete evitare War World Z, state alla larga dal Cinelandia di Borgo San Dalmazzo (20:10, 22:40, oppure in 3d, che scuro com'è dev'essere una fregatura memorabile, alle 20:15 e alle 22:45); dai Portici di Fossano (21:30); dal cinema Italia di Saluzzo (20:00, 22:15); dal Cinecittà di Savigliano (20:30, 22:30).
6 luglio - Thomas More (1478-1535), politico, utopista, persecutore dei protestanti, perseguitato dagli anglicani.
The Sixteenth Century is the Century of the Common Man. (He puts down the jug) Like all the other centuries. And that's my proposition. (Robert Bolt, A Man For All Seasons, I).
Non pensarci troppo, amico Thomas (è il film del 1966, tratto dal dramma di Bolt).
Thomas More, a dire il vero, la Chiesa cattolica lo festeggia il 22 giugno, che è la data in cui fu tagliata la testa al suo amico, il vescovo John Fisher. Per disfarsi della sua Thomas dovette aspettare il 6 luglio. In questa giornata, dal 1980, lo celebrano gli anglicani, con sinistra ironia: fu proprio il fondatore della Chiesa anglicana, Enrico VIII, a chiedere e ottenere da una corte compiacente la testa di Fisher e di More: e proprio perché i due rifiutavano di riconoscerlo come un'autorità religiosa superiore al papa di Roma. Vi immaginate una cosa del genere nel calendario cattolico romano? Non so, un 17 febbraio festa di San Giordano Bruno martire?
Ma gli inglesi sono fatti così. Sanno ammirare anche gli avversari – non che ne ammazzino di meno, anzi. Però un posto nel calendario lo tengono anche per loro. Fair play. Thomas More visse sulla sua pelle le contraddizioni del Rinascimento, e ne morì: dopo aver teorizzato nella sua Utopia la tolleranza religiosa (ma anche la giornata lavorativa di sei ore, il comunismo, la decrescita felice, il controllo delle nascite, l'eutanasia) quando in Inghilterra cominciarono ad arrivare i protestanti veri fece di tutto, da Cancelliere del Re, per reprimerli, bruciandone i libri quando non riusciva a bruciarne i diffusori. È una contraddizione che fa discutere da cinque secoli. Cosa trasformò More da umanista a inquisitore? Stava invecchiando? O è il potere che ti logora, nel momento in cui lo erediti e all'improvviso lo status quo non ti sembra poi così male? Tante chiavi di lettura sono state proposte, ma quella che aggiungo qui è sicuramente inedita, perché coinvolge Beppe Grillo. Voi cosa ne pensate di Beppe Grillo?
Io fino a qualche anno fa non lo trovavo così male. Non avrei mai votato per lui, ma il fatto che riempisse le piazza non mi dava fastidio. Mi sembrava che desse voce a gente che non ne aveva, magari in modo un po' volgare ("Vaffanculo!"), ma in certi casi necessario. Poi però Grillo ha fatto il venti per cento, e ho cambiato idea. Ha stravolto l'assetto politico – il che avrebbe potuto essere un bene – ma alla fine il nuovo equilibrio che ne è derivato è molto meno decente del precedente. Ha fatto molto, molto più danno che utile. E mi ha trasformato in una persona peggiore. Sul serio. Sono diventato di destra, grazie a Grillo. Non sopporto più i movimenti di piazza, da quando li organizza Grillo. La "democrazia diretta", che sulla carta e soprattutto sul web poteva sembrarmi un'idea interessante, da quando la professa Grillo mi pare una favola per grulli. Non credo più nell'attacco alla Casta, da quando lo dirige Grillo. La politica come volontariato: qualche anno fa ci avrei creduto, ma Grillo coi suoi scontrini e i suoi assegnoni è riuscito a convincermi che i politici vanno pagati bene, anzi benissimo. Persino i pannelli solari comincio a guardarli con insofferenza – insomma, un sacco di cose (quasi tutte "di sinistra") che prima di Grillo esistevano soltanto sul piano teorico, quasi utopie, da quando c'è Grillo sono diventate proposte pratiche, il più delle volte pasticci inguardabili. E forse ho capito cosa successe a Thomas More quando conobbe Lutero.
Non lo incontrò mai fisicamente, ma ebbe con lui degli scontri memorabili nella realtà virtuale cinquecentesca, che era tutta di carta e piombo ma non meno litigiosa e virulenta di quella di oggi. L’Utopia di More esce nel 1516: Lutero è ancora un monaco sconosciuto che qualche mese più tardi appende alla bacheca della chiesa di Wittemberg 95 tesi teologicamente un po’ ardite. Nel giro di un paio di anni i suoi libri e opuscoli faranno il giro d’Europa: More non può fare a meno di leggerli e forse di trovare nella prosa furiosa del monaco una caricatura di certe idee che qualche anno prima aveva condiviso anche lui – però tutto distorto, semplificato, e portato avanti con una violenza verbale che non promette nulla di buono, insomma tutto... grillificato.
In un primo momento More non rispose a Lutero in prima persona. Preferì offrire la sua penna e i suoi concetti a Enrico VIII, trasformando il suo grosso e grasso monarca in un intellettuale di spessore europeo con un best seller cattolico, l’Assertio Septem Sacramentorum (difesa dei sette sacramenti). Il papa Leone X andò in sollucchero; nominò Enrico VIII Difensor Fidei, ma quando il difensor gli chiese di divorziare da Caterina d’Aragona fece orecchio di mercante. Nel frattempo Lutero stava meditando la risposta a Enrico VIII, che avrebbe contenuto tra le altre le parole “maiale” e “idiota”. Io non sto dicendo che Lutero sia stato il Grillo del sedicesimo secolo – non è stato solo questo – non voglio sminuire la sua figura di teologo e riformatore eccetera – però c’è qualcosa di grillino nel suo ostinato ricorso al turpiloquio. Sono tutti maiali, tutti diavoli, stanno tutti pasturando nello sterco del demonio, insomma sono tutti morti, morti, morti; la sua prosa di polemista è una saracinesca impestata di guano che si abbatte sulle forbite eleganze del Rinascimento.
Quando legge la risposta More ci rimane male (“Niente è stato più doloroso per me che dover ripetere simili parole a orecchie rispettabili”), ma poi, da buon polemista, decide di rispondere per le rime, stavolta sotto pseudonimo. Del resto Enrico il Difensore della Fede non avrebbe potuto sottoscrivere un libello (Responsio ad Lutherum) in cui lo “schifoso fraticello” veniva definito “scimmia”, “ubriacone”, “cloaca di ogni merda,” eccetera. A difesa di Lutero intervenne qualche anno dopo William Tyndale, un protestante inglese la cui traduzione della Bibbia More osteggiò in tutti i modi. Alla Risposta al Dialogo di sir Thomas More, More replicò con una lunghissima Confutazione della Risposta, in cui smontava il libro di Tyndale in tanti paragrafi e replicava a ciascuno, per centinaia e centinaia di pagine, il più grande flame del Cinquecento, che si concluse col rogo purtroppo non metaforico dell’autore protestante.
In Utopia ci sono le cartine e c’è anche l’alfabeto finto, insomma Tolkien non si è veramente inventato nulla.
Infatti proprio mentre l’umanista Thomas More replicava a questi riformatori; mentre il proto-socialista Thomas More ne notava i limiti, i pericoli, i disastri scatenati (il massacro dei contadini in Germania, che Lutero non seppe prevenire e alla fine approvò), l’ex utopista Thomas More si spostava sempre più a destra. Ai tempi dell’Utopia il cristianesimo poteva sembrargli una fede tra tante. Era facile pensarla così, nell’Inghilterra del 1516: un paese senza minoranze (gli ebrei erano stati cacciati da due secoli), in cui la tolleranza religiosa era una speculazione intellettuale, un’ipotesi per assurdo. Altra cosa era vedere i protestanti veri, scoprirli ben diversi da quelli immaginati sulla carta. Vederli imbastire teologie senza riflettere sulle ripercussioni politiche – salvo correre disperati a baciare il mantello dei principi quando i contadini si mettono a bruciare le chiese – e argomentare a furia di “maiale” “idiota” e “diavolo”. Questa gente è pericolosa, deve aver pensato More. Questi vanno eliminati, uno alla volta, prima che si diffonda il contagio come sul continente. Meglio bruciarne qualcheduno, che doversi trovare a bruciare interi villaggi tra un paio d’anni, come in Germania. L’umanista More, il teorico della tolleranza religiosa, divenne il persecutore dei cristiani riformati.
Nel frattempo il destino gli stava preparando il peggiore degli sberleffi. Il suo re, il Difensore della Fede Cattolica, l’autore di quelle meravigliose pagine sui sette sacramenti scritte da More… stava diventando protestante anche lui. Un protestantesimo molto sui generis, tutt’altro che interessato alle disquisizioni sulla giustificazione mediante la fede e la dottrina delle indulgenze. Enrico voleva solo divorziare, e alla svelta, da una moglie che non gli stava dando nessun erede maschio e rischiava di legare per sempre la sua dinastia a quella degli Aragona. E poi, certo, voleva portarsi a letto Anna Bolena, ma quello nessuno davvero poteva impedirglielo: il punto è che voleva da Anna Bolena un erede, e che tutti lo riconoscessero tale. Il papa da quell’orecchio non ci sentiva – il papa era team Aragona. Non restava che farsi protestante, anzi, trasformare in protestanti tutti i propri sudditi, così, con un semplice taglio indolore, zac! Ahi, no, qualche testa comunque sarebbe dovuta cadere.
Di diventare martire, Thomas More non fu particolarmente entusiasta. Fece il possibile per evitare lo scontro diretto con un re che aveva servito con zelo per tutta la vita. Rassegnò le dimissioni da cancelliere – respinte – le rassegnò di nuovo allegando un certificato medico – e vabbe’, accettate. Si chiuse in un silenzio-assenso nel tentativo di salvare capra e cavoli; scrisse persino un bigliettino di auguri per le nozze di Enrico con Anna Bolena. Però al matrimonio no, non ci poteva andare. Dopo aver scritto fiumi di piombo contro i nemici della Chiesa cattolica, non poteva trasformarsi in anglicano come se niente fosse. Che figura ci avrebbe fatto coi lettori di tutta Europa? Non poteva perdere la faccia. Preferì perdere la testa. E gli inglesi queste cose le apprezzano. Noi invece, mah, forse preferiamo respirare.
Io sto respirando in effetti, e voi? È una gran cosa, nevvero? Non è difficile restare vivi, amici, basta non combinare guai – o se proprio li dovete combinare, fate solo i guai previsti. Ma non c’è bisogno che ve lo spieghi. Buona notte e, se dovessimo incrociarci, riconoscetemi.
Che fine fanno le coriste degli high school musical quando finisce l'high school? Non è certo il caso di Beca (Anna Kendrick), che al liceo si faceva i fatti suoi con un certo successo, visto che nessuno si è mai accorto della sua notevole voce. Per poterla usare evitando qualsiasi rapporto umano è diventata una mash-uppara: ruba le canzoni altrui, le mixa e sovrappone finché non diventano sue e poi ci canta sopra, di nascosto. Vorrebbe ovviamente sfondare nel musicale, ma invece di sostenerla e finanziarla il suo cattedratico padre (che pure avrebbe di che farsi perdonare) insiste che faccia il college, che abbia esperienze, eccetera. Per compiacerlo Beca entra anche in un un competitivo gruppo canoro universitario: quanto scommettete che le cambierà la vita? E il bacio finale al tizio che incrocia a un semaforo il primo giorno del campus, a quanto lo date? Ci sono film che applicano le formule già collaudate con tanta precisione, tanta fiducia nelle regole del gioco, che non ha nemmeno più senso chiamarli convenzionali. Pitch Perfect non è un film convenzionale: è la Convenzione, la pietra di paragone. Da qui in poi i talent movies americani ambientati nei college si potranno misurare in frazioni o multipli di Pitch Perfect, perfetto anche nel titolo (in Italia si è optato per il più immediato Voices, evitando saggiamente qualsiasi variazione sul termine "a cappella", anche se Dieci ragazze a tutta cappella secondo me avrebbe avuto un suo mercato).
La formula in sé non ha nulla di banale: è solo che l'abbiamo già vista e rivista. La giovane adulta impara a condividere il suo talento con i compagni. La sua presenza stravolge l'equilibrio precedente, portando il rap e i mash-up dove prima c'erano soltanto delicate e costipate fanciulle à la Anguilera, del tipo brave-ma-basta, quelle che non passano la seconda puntata di X Factor per intenderci. Accanto a questa rivoluzione però c'è un'evoluzione in senso apparentemente inverso: l'individuo geniale deve sottomettersi, finalmente, ad alcune regole di umana convivenza. E soprattutto accettare che esiste una gara, esistono oggettivi parametri attraverso i quali passerà e in base ai quali sarà giudicato. Il college è una sineddoche della società, un minimondo in cui ci si mette alla prova, con tante miniregole e minicompetizioni da prendere mortalmente sul serio. Scordatevi il liceo, dice un tizio a un certo punto, non siete più qui per ‘esprimervi’ o ‘socializzare’... (continua su +eventi!) Siete qui per cantare (e ballare) bene, e se non sapete farlo siete fuori. Data la formula, si tratta di far convivere nella stessa pellicola originalità e professionalità. Per la seconda non ci sono problemi: tutti gli attori sono ottimi cantanti e ballerini, gli arrangiamenti vocali sono godibilissimi (e anche i mash-up hanno un certo tiro). La prima si risolve con qualche attrice visibilmente fuori dallo standard estetico americano (Rebel "Ciccia" Wilson, e Hana Mae Lee: un'asiatica che sembra un pesce e sostiene in effetti di essere nata con le branchie) e qualche guizzo demenziale, ad esempio le gag sul vomito. Sì, cari amanti di gag sul vomito, era questo il film da andare a vedere: non l'Esorcista che già sapete a memoria. Però un po' di spruzzi di succhi gastrici e una cantante cicciona non bastano a rendere Pitch Perfect un film "diverso", e in fondo nemmeno ci provano. Non ha nessuna rilevanza statistica, ma i due film americani più convenzionali che ho visto quest'anno erano entrambi girati da esordienti: la Frode di Jarecki era un noir che correva liscio senza sbavature, proprio come Pitch Perfect che è di Jason Moore, regista di musical che atterra nel mondo del cinema senza nessuna velleità di cambiare le regole del gioco, con un'aria compunta da primo della classe: molto più simile alle antagoniste perfettine di Beca che a Beca stessa.
Beca - piccolo dettaglio geniale - non ama il cinema. Soprattutto i finali dei film, non li guarda mai, li trova prevedibili, e lo spettatore di Pitch Perfect non può darle tutti i torti. Il suo aspirante fidanzato non si capacita, vuole redimerla - oltre che ovviamente pomiciare - e per ottenere entrambe le cose pensa bene di caricare su un laptop Breakfast Club. (Tutti i "classici" citati nel film sono film degli anni Ottanta, o almeno post - Star Wars: e parliamo di matricole del 2012, gente nata nella seconda metà dei '90). Secondo lui Breakfast Club ha il finale più bello della Storia del cinema. Non ci avevo mai pensato, ma per un attimo ho considerato l'idea. Breakfast Club potrebbe anche lui essere considerato la pietra miliare dei film da high-school, ma non ha un finale prevedibile. Trovate che sia prevedibile? A ben vedere il film stesso è contro le convenzioni, le etichette che in seguito sono diventate così codificate anche nel cinema: la bellona, il nerd, l'atleta, il criminale... È evidente che il breakfast club ha perso, e che tutti hanno smesso di frequentarsi dal giorno dopo, e che il film è rimasto una parentesi chiusa all'inizio di un genere che ha preso, e non poteva non prendere, la strada opposta: l'osservazione dell'adolescente americano attraverso categorie immutabili ed elaborate a priori.
Eppure io mi ostino a pensare che almeno quel breakfast club abbia funzionato, che il criminale abbia continuato a frequentare la principessa, ebbene sì: faccio parte di quella sparuta e interclassista frangia di persone che ogni tanto, soprattutto attraversando un campetto di calcio, provano il desiderio di alzare il pugno ed esultare per segreti motivi che conoscono solo loro. Mentre Jim Kerr canta controvoglia il verso più bello della canzone più commovente di sempre, che fa: La, la la la la, la la la la, la la la la la la la la la la. Una canzone che ti gonfiava il cuore e ti proiettava nel mondo dei sentimenti seri anche se stavi leccando un ghiacciolo all'autoscontro, non ne scrivono più di canzoni così. Nessuno sa perché, semplicemente a un certo punto non se ne sono scritte più. Pensavo fosse una percezione generazionale, ma se le giovani generazioni sul divano continuano a caricarsi il film che guardavo io con la canzone che cantavo io evidentemente il problema si sta trascinando.
La canzone ovviamente, prevedibilmente, convenzionalmente, entrerà nel mash-up finale a cappella che regalerà a chi se la merita la gloria e l'amore, ma non la mia stima. Anzi, l'unica cosa che non posso davvero perdonare alla crew di Pitch Perfect è il massacro di Don't You, un classico degli anni Ottanta che però come tutti i classici degli anni Ottanta ha qualcosa di veramente strano, casuale, irriducibile: tu credi di poterlo mescolare e mesciappare a qualsiasi altra cazzata ma non è così: e sotto sotto credi che anche il Breakfast Club sia una piccola eccezione che conferma la grande regola, ma non è così, non è così, e forse è il motivo per cui i mash-up mi hanno sempre annoiato in modo molesto, e anche le macedonie a cappella che in fondo sono una versione analogica della stessa cosa.
Voices è rimasto al cinema Italia di Saluzzo fino a mercoledì (ore 20 e 22.15): per gli appassionati è una buona occasione per sentirlo in stereo al massimo volume. Tra qualche anno probabilmente lo avremo rivisto alla noia in seconda serata o al pomeriggio in tv, ma non avremo mai il coraggio di settare l'equalizzatore col telecomando per far vibrare i mobili coi bassi umani, per cui se il genere vi piace ne vale la pena. Più che della solita presa in giro con gli occhialini 3d, diciamo.
Siamo ancora troppo vicini alla Terra, Capitano.
Non va bene. Siamo troppo pesanti, si rompe tutto.
Spazio, ultima frontiera. Questi sono i viaggi dell'astronave Enterprise durante la sua missione quinquennale, diretta all'esplorazione di strani, nuovi mondi, eh, magari. No, in realtà siamo ancora in orbita intorno alla Terra o quasi. Siamo nell'universo angusto di Gigi Abrams e Compagnia: un posto così poco "strano", così poco "nuovo" che, per fare un esempio, c'è sempre campo col cellulare. Non so se mi sono spiegato. Quando il Giovane Capitano Kirk nello spazio cosiddetto profondo ha voglia di chiamare Scott che è rimasto sulla Terra a sbronzarsi in un pub, prende il suo cellulare griffato Flotta Spaziale (oscenamente simile a un motorola) lo chiama, e Scott gli risponde. Più veloce della luce. Neanche il tempo di infilare un messaggio registrato, che so, Accetta una chiamata dallo Spazio Profondo, inviata tramite propulsione a curvatura? L'addebitiamo al mittente? Chissà le tariffe, in effetti. Spazio, ultima frontiera. Andremo dove nessuno è mai andato. Ma tranquilli, il cellulare prende anche lì. È solo un dettaglio (benché necessario allo sviluppo della trama), non ti rovina mica il film. Ma secondo me è illuminante. Quattro anni per trovare un soggetto all'altezza delle aspettative, chissà quante trame vagliate e scartate, chissà quanta professionalità, quanta competenza... e poi ti ritrovi con un cellulare che fa le chiamate intergalattiche. Possibile che nessuno al tavolo degli autori abbia detto: ehi, fermi lì, ma non vi sembra un po' inverosimile? Dopotutto è il giovane capitano Kirk, nella serie originale non estraeva mai un telefonino per chiamare terra. Nella serie originale non si vedeva mai, la Terra. Era lontana. Ma cosa vuol dire lontano, ormai.
In Star Trek nella Tenebra, che sarebbe anche un bel titolo - e sarebbe anche un bel film - c'è una scena da film d'azione così trita che io l'ho già vista due volte in sei mesi, e non sono un patito del genere: l'eroe in un palazzo, minacciato da un elicottero di guerra, lo abbatte mediante mezzi non convenzionali. Già visto in: Die Hard 5, Iron Man 3, e adesso Star Trek 12. Deve essere un must per qualche mercato in espansione, l'abbattimento dell'elicottero a mani nude; che so, magari ne vanno matti in Cina. Al termine di questa scena, così poco star-trekkiana, ma soprassediamo, il pilota dell'elicottero scompare. È evidente che si è teletrasportato. Il teletrasporto lo sappiamo tutti cos'è: anche chi ha visto una puntata sola di ST in vita sua sa più o meno cos'è il teletrasporto. E sappiamo che ha dei limiti, non è una magia, è una tecnologia che può incepparsi, che va usata con cautela, ecc. Dunque ci immaginiamo che il nemico sia lì nei pressi, al massimo in un'astronave in orbita; di solito è da lì che ci si teletrasporta. Ma poi Scott scopre che nell'elicottero c'era un affare chiamato "teletrasportatore portatile" o giù di lì, in grado di teletrasportare i nemici dalla Terra al pianeta Klingon, anni luce a strafottere di distanza. Hai capito la tecnologia? Tu premi il pulsante e tac, un istante sei sulla Terra, l'istante dopo sei in mezzo ai Klingon. Ed è portatile, non so se mi sono spiegato: una valigetta. A questo punto però dovreste dirci cosa la paghiamo a fare la flotta spaziale, con tutte le sue esosissime missioni quinquennali pagate con le mie tasse di cittadino della Federazione galattica, se basterebbe una valigetta per trasportarci dove nessuno è mai stato teletrasportato prima. Voglio dire: i Klingon rompono i coglioni? Teletrasportiamo un miliardo di triboli e vediamo quanto rompono ancora i coglioni. E invece no, continuiamo a pagare tutti quei tecnici, tutto quel propellente, tutti quei motori a curvatura... Dev'essere una congiura del complesso militare-industriale, in combutta coi sindacati, Svegliaaaaaaa! Tutte quelle tutine rosse sono in realtà dei mangiapane a tradimento.
Quando cominciò, Star Trek, l'Enterprise era una misteriosa astronave che spuntava dalla Tenebra. La Terra era lontana: ogni tanto inviava messaggi, ordini più o meno vincolanti, ma nessuno chiamava al cellulare. Quando trovava un pianeta, agganciava l'orbita e teletraportava Kirk, Spock e un paio di tutine rosse. La tenebra cedeva lo schermo al colore artificiale dei fari dello studio televisivo. Teletrasportarsi era come sorgere dalla tenebra: un minuto non ci sei, il minuto dopo sei in mezzo a qualsiasi storia stia per capitare, un'ucronia nazista o una rivolta di gladiatori o una guerra termonucleare simulata. Come nella migliore fantascienza americana degli anni '40 e '50, ogni puntata era un racconto, un universo a sé stante, autoconclusivo. Quelli erano i viaggi dell'astronave Enterprise. Ma poi... Ma poi si sa come vanno le cose.
La gente è curiosa (continua su +eventi!)La gente vuole sempre saperne un po’ di più, su questo o quel personaggio.Perché i Klingon hanno messo su la cresta, e com’è andata tra Venusiani e Romulani, che fine ha fatto l’iroso Khan, eccetera. Gli autori prima o poi una spiegazione la devono trovare. Con un po’ di impegno e professionalità si spiega qualunque cosa. E alla gente le spiegazioni piacciono, ai telespettatori soprattutto. D’altro canto dopo cinque serie, più di trenta stagioni, migliaia e migliaia di ore di tv, di spiegazioni, l’universo di Star Trek è diventato più piccolo. Ogni pianeta è già stato esplorato da qualcuno; dovunque ti muovi trovi un riferimento, una citazione, una strizzata d’occhio; e il senso di frontiera non c’è più. In compenso c’è una brulicante enciclopedia di sistemi solari e razze e guerre e trame e sottotrame, una città infinita come la Londra del film, di cui lo spazio profondo non è che l’hinterland: tanto che ci prende pure il cellulare. Tutto incredibilmente complesso, e poco appetibile ai nuovi arrivati. Se poi cominciano a stancarsi anche i fan, la saga muore. Ha rischiato grosso appena dieci anni fa, quando il decimo film floppò clamorosamente, e il resto lo sapete. Gigi Abrams ha rilevato la baracca, con un’idea mica male: reboot, il riavvio. Ricominciamo dall’inizio, quando c’era solo Kirk, Spock e un’astronave che veniva dal buio. Non saremo condannati a riscrivere le stesse storie, come l’Uomo Ragno che ogni tre film si fa mordere dal ragno, o Superman che ogni volta deve atterrare bambino sul pianeta: non siamo obbligati perché la Storia è cambiata, qualcuno venuto dal futuro ha ammazzato il papà di Kirk cambiandogli la vita, e già che c’era ha pure fatto a pezzi il pianeta di Spock, quindi le cose prenderanno per forza una piega diversa.
“Guarda come sono belli, come fai a odiarli? Eddai…”
D’altro canto, i Klingon sono ancora lì. Le altre innumerevoli razze incontrate dall’Enterprise in tutti i suoi viaggi secolari sono ancora lì. Sta a Gigi decidere se farglieli re-incontrare o no, o partire per una nuova Tenebra, e regalare ai nuovi spettatori un nuovo senso di mistero, di meraviglia, analogo a e diverso da quello che ci bloccava da bambini di fronte alle prime avventure di Kirk e Spock. Sta a lui, e al suo amico Lindelof che stavolta produce e che tante cose avrebbe da farsi perdonare – ma non recriminiamo. Abrams e Lindelof hanno tanto difetti, ma non ho mai avuto dubbi sulla loro capacità di lasciare lo spettatore di qualsiasi età a bocca aperta davanti a un mistero qualsiasi – anche solo una botola vuota, una sequenza di numeri. Queste cose le sanno fare. Se invece decidono di darci l’ennesimo film d’azione con le astronavi che sbattono contro i grattacieli e gli elicotteri abbattuti a mani nude, io ci resto male. È vero, il giovane Kirk è veramente Kirk. È vero, Spock McCoy Sulu e Scott fanno un gioco di squadra meraviglioso, ti divertiresti a sentirli dialogare anche senza tutto il baraccone imax-3d. Il problema è che questo argomento l’ho già sentito: “sì, ti abbiamo preso per il culo la trama, ma goditi i personaggi”… dov’è che l’ho già sentito? Alla fine di Lost, quando gli autori fuggono sgommando con la borsa piena di soldi. Bastardi.
Abraaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaams!
Lindeloooooooooooooooooooof!
Che altro dire. È uno di quei classici casi di 3d che non voleva essere 3d: risparmiatevi almeno quei tre euro.
Star Trek: Into Darkness non in 3d è al Fiamma di Cuneo alle 21:10, ai Portici di Fossano alle 21:15, al Bertola di Mondovì alle 21:00, al cinema Italia di Saluzzo alle 21:30, al Cinecittà di Savigliano alle 21:30. C’è anche in tanti altri posti in versione 3d, ma non ve lo consiglio.
Se pensi a chi entra per vedere il suo bel faccino
Solo Dio perdona (Nicolas W. Refn, 2013)
(Ci sono alcuni spoiler, tanto non è che sia questo gran film).
Ryan Gosling è uno sfigato. No, in realtà Ryan è sempre il grande attore e sex simbol che conosciamo, sempre più ieratico. Stavolta però interpreta uno sfigato figlio di mammà, che per le strade di Bangkok-Pericolosa dovrebbe vendicare l'assassinio del fratello, ma le prende soltanto. Ne prende veramente tante: malgrado il trailer cerchi di vendervi un film d'azione in cui Gosling si fa strada spaccando facce ai cattivi, nell'unica vera colluttazione non riesce ad assestare un pugno che è uno; finisce per suscitare tenerezza mentre si fa pestare a sangue da un poliziotto in pensione. Considerato che Ryan gestisce la palestra di boxe thai che fa da copertura alle attività criminose della sua famiglia, e si atteggia per tutto il film a esperto di combattimenti, misurate la spaventosa entità della sua figura di merda.
Questo è il tipo di film che Gosling si sceglie ultimamente. Non lo obbliga nessuno, ormai, è Ryan Gosling, se solo volesse secondo me potrebbe fare un supereroe o un pirata dal cuore d'oro o qualsiasi altra cosa - al limite anche l'insegnante eroinomane come ai vecchi tempi, secondo me adesso la gente farebbe la fila per vedere di nuovo un insegnante che fuma crack nel tempo libero o il self-hating jew di The Believer. E invece negli ultimi mesi ha già fatto il rapinatore sfigato con Cianfrance, e adesso il camorrista sfigato che si fa tumefare il volto da un poliziotto con Refn. Non è che vuole dirci qualcosa? Non so, ma a ogni buon conto intendo esprimere solidarietà a tutte le donne e agli uomini che provano attrazione per Ryan Gosling e pagano un sacco di soldi di biglietto per vederlo farsi distruggere la faccia, senza neanche più accennare un sorriso, una smorfia, niente. Ormai non è più una faccia, è una maschera kabuki che allude forse all'incapacità di esprimere i propri reali sentimenti e altre menate molto scandinave. Come l'Amlodhi delle antiche saghe nordiche, Gosling è un inetto. Non sa vendicarsi, è debole, pure impotente, non riesce a sottrarsi dalle morbose attenzioni materne, insomma una frana totale. Quando la madre, giunta dall'America in fretta e furia, si lamenta del fratello invendicato, Gosling cerca di spiegarle che la cosa è più complicata, sai mamma, in realtà è stato ammazzato perché aveva massacrato una ragazza sedicenne...
"Avrà avuto i suoi buoni motivi".
È la battuta più divertente del film, tanto vale dirvelo... (continua su +eventi!) La mamma è una notevole Kristin Scott Thomas finto-bionda, tigrata, versacizzata, la Clitemnestra più tamarra mai vista sul grande schermo. Anche lei patisce di una certa ieracità, non fosse per il fatto che Refn tiene la camera fissa su qualsiasi immagine finché è sicuro di aver annoiato anche lo spettatore più ben disposto. È un film statico, troppo statico, qual è il superlativo di statico? È un film lynchano, sapete quel tipo di film con i carrelli lentissimi nei corridoi che quasi sempre sono metafore della mente, e dove non si esita mai abbastanza davanti a una porta dietro alla quale a un certo punto ti aspetteresti saltasse fuori Laura Dern – invece arriva il poliziotto in pensione con la katana e ti taglia le mani. Si tratta forse del diavolo, del Vendicatore: non aveva forse detto “vado a incontrare il diavolo” il fratello di Gosling prima di partire per il suo ultimo fatale puttantour? Ma ovviamente non è chiaro, e sicuramente mi sono perso alcune metafore – come coi film di Lynch, ma fa lo stesso: tra qualche anno se mi viene la curiosità troverò un sito internet con un sacco di teorie interessanti sul perché il poliziotto esca dagli armadi e dal rubinetto esca il sangue. Ho paura che comunque scoprirò che si tratta in fin dei conti di una cosa banale, del tipo “mamma ri-accettami nelle tue viscere”, tutti questi edipi irrisolti che se fossi il re di Danimarca bandirei per una generazione: cari cineasti, siete l’orgoglio della nostra piccola nazione, però… però Edipo ha anche rotto. No, così.
Qui è mentre la mamma svergogna la fidanzata, che è poi una finta fidanzata perché si vergogna di non averne una.
Oltre a essere molto statico, è un film assai violento. Quanto violento? Se per voi Tarantino è violento, ecco, lasciate proprio perdere; in una scena Refn suggerisce a tutte le ragazze (con la sua usuale levità) di chiudere semplicemente gli occhi, mentre i maschietti dovrebbero “godersi lo spettacolo”. Non mi sono goduto lo spettacolo. La lentezza può essere una voluta aggressione ai montaggi ipercinetici dell’action contemporaneo, o un tentativo di ipnotizzare lo spettatore con ritmi da horror di serie B, ma forse semplicemente Refn non sapeva cosa girare per novanta minuti. Questo è un certo handicap per i cineasti; per dire, gli scrittori, se hanno una storia breve, possono anche farci un romanzo breve: ma un regista se vuole essere distribuito in sala almeno un’ora e un quarto te la deve montare. È un vero peccato che non ci sia mercato per i mediometraggi. Si potrebbero fare dei double-feature, non so, quaranta minuti di Amleto refniano e poi una riflessione di Von Trier su quanto le donne siano il demonio, o mezz’ora di conigli di Lynch: magari funzionerebbe, si intercetterebbe un pubblico che è sensibile a Lynch ma si annoia a vedere due ore di corridoi; e anche i danesi secondo me c’è tanta gente che li apprezzerebbe più in piccole dosi. Non so, la butto lì.
Solo Dio perdona, se proprio ci tenete, ma non dite poi che ve l’avevo consigliato io, è al Cinelandia di Borgo San Dalmazzo alle 15:30, alle 17:40, alle 20:30 e alle 22:40; al Cinecittà di Savigliano alle 16:00, alle 18:10, alle 20:20 e alle 22:30. È vietato ai minori di 14 anni.
Capiterà anche a voi da Cuneo di passare ogni tanto per Roma, e di chiedervi se è proprio Roma, e non uno scherzo che vi sta facendo qualcuno; un fondale per vecchi peplum, un parco a tema per turisti giapponesi. Magari la vera Roma è da qualche parte nascosta che se la gode. Questo spiegherebbe alcune cose: le cartacce intorno al Pantheon, l'insofferenza dei tassisti, e tutti quei pini marittimi, ma il mare dov'è? Anche quei poveretti che a 60 anni continuano ad andare alle feste e sbracciare sniffare e fare le smorfie: si chiama mondanità. Magari è tutta una sceneggiata anche quella, per turisti che vengono dall'altra parte del mondo e si aspettano il satyricon, si aspettano la decadenza psicofisico-morale, e chi siamo noi per negargliela.
Il sospetto è che anche Sorrentino, regista di grandi ambizioni, sia finito invischiato in una di queste operazioni per turisti. Per remixare la Dolce Vita nel 2013 ci vuole il coraggio di un suicida lanciato verso un muro con un'auto in corsa; oppure potrebbe semplicemente trattarsi del fatto che gli stranieri vogliono quella roba lì: sennò non applaudono, non premiano, non pagano. Un qualche produttore, mi piace immaginarmelo francese, deve essere stato abbastanza drastico: "Mi è piaciuto il Divo, non ci ho capito niente, ma la scena in cui i vecchi ballano la samba in salotto era formidable. Perché non ci fai un film tutto così, tutto di vecchi che ballano? Sui terrazzi romani. Col solito contorno di robe di cinema italiano: preti in altalena, artisti matti, animali dello zoo, la pizza, tutto quel genere di cose, e vedrai che a Cannes li avrai ai tuoi piedi. Come dici, la critica italiana non capirà? Cioè mi stai dicendo che in Italia avete anche la critica? Tu m'étonnes, non lo sapevo. E dà i voti anche alla pizza?" (continua su +eventi!)
Gli stranieri. Ma perché non dovrebbero aver ragione loro? Non è meraviglioso che rischino l’infarto per un paesaggio a cui non abbiamo mai fatto caso, che vadano in sollucchero per un fondale di ruderi di templi romani e brandelli (finti) di vecchi film, uno sketch di un finto Moretti qui, una terrazzata di un finto Scola qua? e il film va avanti. Cioè, no, non è quel tipo di film che va avanti. Gli eroi di Sorrentino sono troppo spesso uomini finiti: tutto quello che potava ribaltare il loro destino è già alle spalle, e ora si tratta di girare in cerchio – ma senza carrelli circolari, sarebbero volgari. Sorrentino è barocco, preferisce l’ellisse. Procede accumulando cose, a volte gira al largo, altre volte si avvicina, si ferma, vorrebbe mettere in bocca al suo Jep Gambardella una battuta memorabile, purtroppo non sempre la scrittura lo assiste. Ed è un peccato. Per esempio: “I nostri trenini sono i più belli di Roma perché non vanno da nessuna parte”. I trenini delle altre feste invece dove andranno, chi lo sa. “Lo vuole sapere perché mangio solo radici?” Meglio di no, sorella, che se mi dice una banalità poi ci resto male. A sorreggere Sorrentino è il solito Toni Servillo, una meraviglia per occhi e orecchie: non ci si stanca mai di guardarlo ammiccare, di sentirlo strascicare il suo amabile accento che rende gradevole ogni resistibile battuta: se il film scorre liscio per più di due ore è tutto merito suo. E nel complesso hanno ragione gli stranieri, non è un brutto film.
È divertente: in un paio di occasioni ti strappa proprio la risata. È chiassoso, ogni tanto quelli che guardavano Fast and Furious 6 nella sala di fianco venivano a lamentarsi. È commovente in un modo quasi volgare (le lacrime sono volgari, dice Jep prima di sciogliersi). Ci sono tante figure davvero grottesche, tanti fondali davvero suggestivi, che solo gli italiani possono snobbare: trovalo un film francese o inglese o diversamente europeo che ti sappia mostrare la decadenza così. È il nostro core business la decadenza, è la cosa che sappiamo meglio fare in assoluto – o forse la cosa che ci sanno copiare peggio in assoluto. La pizza la sanno fare anche a Shangai, ormai. E tra vent’anni anche a Shangai magari sapranno anche fare film così, milioni di film di anziani cinesi che ballano e tirano la coca e a 65 anni non sanno che fare della loro vita. Ma se fino a quel momento restiamo gli unici a cui questa roba viene ancora credibile, perché non approfittarne? Hai ragione tu Sorrentino, scusaci. Lasciaci perdere, siamo tutti incazzati perché quando arrivano i turisti poi i prezzi nei locali si alzano. Gira pure la tua pizza e non ti curare di noi, che come la giri tu non la gira ancora nessuno.
La grande bellezza è al cinema Fiamma di Cuneo alle 21.10. Buona visione!
Non è mai sembrato un giovane, l'amavo anche per ciò.
Dell'infanzia ho ricordi confusi, come tutti. L'intro di Light My Fire potrei averla ascoltata per la prima volta sul divano, infilata a forza in un jingle pubblicitario di un Best of the Doors, magari il primo dei quindicimila Best of the Doors che uscirono in seguito. Vorrei poter dire che mi sbalordì subito - non avevo mai ascoltato una serie di note così, con un timbro così stridulo e marziale insieme - ma ero piccolo, ogni cosa mi sbalordiva, e poi scomparve e per molti anni non ci pensai più. "Doors" tornò a essere un adesivo sui serbatoi dei motorini, di cui apprezzare la grafica essenziale.
La prima volta che ascoltai Light My Fireero a letto. Sentii l'intro e mi alzai in piedi sul letto. Quando Dylan racconta che gli Animals lo fecero saltare dalla sedia io ci credo; mi successe qualcosa del genere, se fossi stato su una sedia mi sarei potuto far male. Forse rivivevo già un ricordo di me bambino sul divano: forse la musica è tutto un sovrapporsi di ricordi e oblii futili che diventano importanti, perché? boh, in mancanza di meglio. Avevo quattordici anni e avevo appena comprato la cassettina del primo album dei Doors. Già al primo ascolto i pezzi mi sembravano tutti vividi e diversi l'uno dall'altro - questo è sempre stato per me un parametro importante, se i pezzi sono diversi l'uno dall'altro secondo me il disco è buono - ma uniti dalla voce di quell'organo unico, che Manzarek poi accantonò perché i tasti di plastica si rompevano troppo facilmente, maledetta plastica. Dopo quattro canzoni avrei dovuto comunque essermi assuefatto, e invece l'intro di Light My Fire mi colpì forte dietro la schiena, un ricordo ancestrale e insieme una promessa di delizie future; non lo sapevo ma le Porte si erano appena appena socchiuse per farmi vedere Coltrane e Bach, sovrapposti, per un attimo. Un tonfo alla grancassa, come lo sfregamento di un cerino, e poi quelle note come una fiamma che divampa all'improvviso.
Light My Fire fu la prima canzone che feci suonare a un juke box, nella Sala Giochi del Bronx - il Bronx era l'Istituto Professionale, erano ovviamente gli studenti a ribattezzarlo così - una fiumana di giacche di jeans che si riversava all'una verso l'Autostazione, con qualche chiodo di pelle che galleggiava nell'azzurro del denim - un giorno entrai nella loro Sala Giochi, andai al juke box e misi Light My Fire, la versione di sette minuti. Mi sembrò un gesto coraggioso, dadaista e punk. Il paesaggio musicale non era indulgente ed eterogeneo come adesso, potevi vivere una vita intera ascoltando soltanto glam da classifica, Sanremo e gli Iron Maiden per chi era assordato dai dubbi sulla propria virilità. Per quelle orecchie offese dagli anni Ottanta, i veri Ottanta di chi ci è vissuto, si è sorbito tanta merda e ci si è strizzato tanti brufoli, Light My Fire suonava di un altro pianeta. O mettevi a fuoco Light My Fire o mettevi a fuoco i Bon Jovi, non riuscivi a fare stare le due cose insieme nel cervello. Beccatevi la vera musica, stronzi. Accendetevi.
Ci misi ancora qualche anno a capire veramente che note stesse facendo. Alla fine la incisi rallentata, con i rudimentali strumenti a mia disposizione, e la riascoltai a ripetizione finché non mi parve di riuscirla a suonare. Non ne vado fiero, non l'avevo mai fatto; mi facevo punto di onore di non aver mai studiato un solo pezzo di musica - ero molto stupido. Ma quando seppi suonare l'intro di Light My Fire ne fui felice come un pappagallino, e di lì per alcuni anni a nessun organo lasciato incustodito in nessuna chiesa del circondario fu risparmiato il sacrilegio di intonare l'inno di Manzarek. Così Bach tornava a casa, dalla porta della sacrestia.
Poi sono diventato più serio e per anni non ho più ascoltato i Doors, che sembrano tagliati su misura per essere ascoltati da ragazzini e quindi liquidati. Pretenziosi e pop, teatrali, con quel sex simbol da birreria e tutta quella scadentissima poesia da ginnasio - i nostri Baudelaire, nessun adulto si rilegge Baudelaire, se non l'hai fatto prima dei 18 lascia perdere. Ogni tanto un sussulto, il film di Oliver Stone o una campagna promozionale per l'ennesimo disco sempre con gli stessi pezzi dentro. E ogni volta un'osservazione: ma come suonano ancora freschi, i Doors. Contro ogni aspettativa. Con quel cantante improbabile e ingestibile, e tutti quegli incidenti di percorso - azzeccavano un disco ogni tre - centinaia di canzoni inutili, eppure quanto restano ascoltabili i Doors. Nel frattempo ti sei fatto una cultura a tutto tondo, sai che in quella zona c'era un sacco di roba magari più ispirata e più seria, senza guitti e baracconate. Ma i pezzi dei Jefferson Airplane o degli Spirit o dei Love non hai veramente voglia di riascoltarli quanto quelli dei Doors. E l'intro di Light My Fire rimane lì, la promessa di una musica nuova intricata e meravigliosa che Manzarek non seppe mantenere - alle radio volevano pezzi più brevi, ma Jim durante gli assoli lunghi si annoiava, diventava pericoloso. Finirono a suonare blues lenti, il cimitero della creatività - ma sempre meglio del Père-Lachaise.
Come ha osservato ieri Giancarlo Frigieri, la carriera di un musicista pop è qualcosa di davvero avvilente, se non muori a 27 anni. È un'arte talmente fortuita che chiunque la pratica non ha a disposizione che quattro o cinque anni per sparare tutte le cartucce: il resto è mestiere. Alcuni sanno reinventarsi, ma anche lì servono tragedie o botte di culo incredibili. Tutti gli altri di solito passano la vita a suonare e risuonare dal vivo le canzoni che hanno scritto in fretta e per sbaglio quando avevano vent'anni. Quelli che si evolvono, che continuano a far dischi e sperimentare cose, sono i più sfortunati: quel che il pubblico continuerà a voler da loro saranno i pezzi che hanno scritto da giovani e stupidi, quando le note uscivano per caso. Anche Manzarek ci mise un poco ad abituarsi all'idea, poi si rassegnò all'onesta carriera di coverista di sé stesso. Ci speculò anche, con operazioni discutibili come An American Prayer. Come musicista probabilmente continuò a evolversi. Può anche darsi che da qualche parte nei cento dischi che incise ci sia un pezzo che mantiene la promessa di Light My Fire: per ora è ben nascosto. Le Porte restano per lo più chiuse, solo ogni tanto trapela uno spiraglio che ci illude di aver sentito qualcosa, chissà cosa: e il resto del tempo passa nel tentativo di ricordare, di ritornare su quel divano o su quel letto e sentire di nuovo quel brivido. Nel frattempo studiamo, acceleriamo, rallentiamo, impariamo; ma la porta non si apre, non è detto che si apra mai più.
Ciao, sono tornato. Cioè, non me ne sono mai
veramente andato via
Il grande Gatsby 3d (Baz Luhrmann, 2013)
Giulietta Capuleti, se proprio volete la verità, non si è mica uccisa. Nel director's cut inedito ha dato retta ai genitori, si è sposata il suo pezzo grosso di Verona Beach e adesso ha tre bambini, un conto offshore e una terza abbondante mastoplatica - sta già cominciando a stirarsi le rughe. Anche Romeo non si è ucciso, ha solo messo un po' di chili. Ha fatto la guerra, il giro del mondo in barca a vela, un semestre a Oxford e tante altre cose, non tutte legali. Ma è ancora lui, è il Romeo di Baz Luhrmann: si innamora al volo, e ogni volta è per sempre. Tanto carino e ombroso, eppur gioviale e alla mano, però ogni tanto gli scappa la pazienza e capisci che potrebbe ammazzare qualcuno. Ha sicuramente ammazzato qualcuno. Probabilmente il modo migliore per apprezzare il Grande Gatsby 3D è prenderlo per il sequel di quel vecchio Romeo+Juliet che ci fece conoscere sia Luhrmann che Di Caprio. Eravamo tutti molto più giovani, tranne il testo di Shakespeare. Quello era già stato condito in tutte le salse, Bernstein ci aveva già musicato West Side Story, cosa ci si poteva aspettare di più? Lo abbiamo scoperto allora, cosa aspettarci da Luhrmann: più tutto. Il cielo stellato a Luhrmann non basta, lui nel firmamento come minimo ci vuole la nebulosa di Andromeda ingrandita un milione di volte. Non c'è un pedale che abbia mai premuto con cautela, lui sa solo schiacciare a tavoletta: più luce, più colore, più melodramma, più baraccone, più canzoni, più buffoneria, più divismo, ma anche più aderenza al testo. Luhrmann lo tradiva meno di Zeffirelli, con la sua Verona toscaneggiante e le sue calzamaglie improbabili. Perché in fondo poi cos'è Romeo e Giulietta se non una storia di tamarri che si sfottono fino alle estreme conseguenze, e allora forse è giusto affidarsi a Luhrmann che è il più tamarro di tutti. Non che Zeffirelli sia la damina inglese che vorrebbe essere, eh; ma Luhrmann è di più. Più grosso. Più luccicante, più rumoroso. Luhrmann è uno che ti pimpa di brutto, Baz, mi è piaciuto come hai pimpato Shakespeare, perché non ti cimenti con qualche capolavoro della letteratura americana del Novecento? Non tirarti indietro, Baz, pimpami Francis Scott Fitzgerald!
Il Grande Gatsby è un film che va visto in 3d, mai mi sarei immaginato di scrivere una cosa del genere. Ma forse non avevo mai visto un vero 3d. Quello di Luhrmann fa impallidire Iron Man: niente oggetti lanciati al pubblico, ma una girandola di fondali di cartone - all'inizio sembra un film di animazione - come un libro pop-up. Il Grande Gatsby 3d è, in effetti, un libro pop-up, come quelli che si comprano ai bambini che non sanno ancora leggere per stupirli con i personaggi di cartone che spuntano fuori dalla pagina appena la apri. Fitzgerald scrive: "automobile", Luhrmann te la fa spuntare dallo schermo, lucida come un giocattolino appena uscito dal negozio. Scrive "luce verde", e lui ti mostra la luce verde, cinque, sei, venticinque volte, nessun bambino analfabeta deve perdersi la pregnanza della metafora. Anche l'insegna con gli occhiali, si è capito cosa rappresentano gli occhiali? Volete che ve la mostri un'altra volta? Non c'è problema (continua su +eventi!)
Non c'è problema, abbiamo due ore, due e mezzo. All'inizio più che a un film hai la sensazione di trovarti in un rebus, a ogni parola corrisponde la cosa, su un foglio che è la pagina bianca nella macchina da scrivere ma anche la proiezione google earth di New York 1922; e tu sei il cursore, Baz ti muove con la velocità della luce da West Egg alla Quinta Strada, investito da una pioggia di parole dattilografate. Tobey Maguire sembra la sagoma di cartone di sé stesso, le sequenze gli girano attorno come pagine sfogliate da un bambino che si esalta per i coriandoli, e i fuochi artificiali, e poi arriva Leonardo: e per l'occasione, Luhrmann riesce a rendere tamarra persino la Rapsodia in Blue. Perché sono tutti bravi a fare i tamarri con l'hip hop, ma provateci con Gershwin, provateci. Baz ce la fa. E Francis Scott Fitzgerald non vi sembrerà più lo stesso, in effetti ora che ci penso non me lo ricordo più, chi era esattamente questo Francis Scott Fitzgerald?
Baz una sua idea ce l'ha. Scordatevi tutto quello che avete imparato nella classe di letteratura. Scordatevi il libretto che leggevate al liceo per darvi un tono. Scrostate la superficie, le frasette ben tornite. Soprattutto dimenticatevi tutti i cataloghi sugli anni Venti messi assieme in seguito da stilisti e trovarobe, tutta roba che si è incrostata su un libro di scarso successo man mano che diventava un feticcio culturale e finiva nei programmi scolastici. Scordatevi i maglioncini di Redford e gli sbuffi di Mia Farrow, perché è a quello che pensate il più delle volte che fate finta di pensare a Scott Fitzgerald. E ogni volta scivolate senza accorgervene dal West all'East Egg perché è da là che vorreste venire, non dal quartiere dei truzzi midwest in odor di camorra. Ma guardate meglio: non vedete? Gatsby era un tamarro, e lo siete anche voi. Cosa c'è di più tamarro, arcaico e tribale del suo potlach per amore, cosa c'è di meno elegante e più scemo di caracollarsi a Manhattan in macchina nel solleone, chiudersi in una suite al Plaza e pretendere di comprarsi non solo il tuo amore, ma anche il tuo passato. Gatsby, Nick, Daisy, Tom, sono tutte falene impazzite del midwest che corrono verso le luci della città senza sapere come ci si comporta. Come il loro creatore, Scott di Saint Paul, Minnesota. Non esattamente quell'arbiter elegantiarum che col tempo ci siamo immaginati che fosse (e anche lui, del resto, all'inizio Gatsby lo aveva chiamato Trimalcione). Aveva gusti discutibili: vedi l'entusiasmo per la brutta copertina originale, che nelle edizioni anglosassoni è diventata un elemento paratestuale obbligatorio: tanto che l'idea che qualche editore la voglia sostituire con una copertina ispirata al film, magari una foto di Di Caprio, desta scandalo in molti lettori. Luhrmann se la ride: a vedere il suo baraccone anni Venti verranno tutti comunque. I bambini e gli analfabeti faranno "ooh" per tutto il primo tempo, con la gioia di chi si imbosca a una festa. Gli intellettuali noteranno la lungaggine della seconda parte, quando le munizioni a coriandoli sono tutte sparate e l'energia orgiastica cede il passo alla fatica di dover comunque raccontare una storia.
Ma ci terranno lo stesso a vederlo fino alla fine, per assicurarsi che il libro era meglio, proprio come i lettori dei fumetti di Iron Man che sedevano nella stessa poltrona, con gli stessi occhialini, una settimana prima. The Great Gatsby forse non vi piacerà, ma vi piacerete da soli mentre lo stroncherete. È una tamarrata galattica, è pimp my Scott Fitzgerald, è Baz Luhrmann in tutto il suo splendore di cartone, e Leonardo Di Caprio è la migliore sagoma che gli sia mai capitata tra le mani (ma anche Maguire e Carey Mulligan, citiamoli, sono cartonati perfetti).
Il Grande Gatsby 3d è al Cinelandia di Borgo San Dalmazzo alle 19:50 e alle 22:40, e al Multisala Impero di Bra alle 21:30. La versione in 2d è presente in molti altre sale in provincia e persino a Cuneo, ma secondo me vale la pena di vederlo in 3d.
Effetti collaterali (Side effects, Steven Soderbergh, 2013)
Ha detto Steven che, ihih, noi due adesso dobbiamo fare gli psicoterapeuti, capisci?Dai, fammi una faccia da psicoterapeuta.
Emily (Rooney Mara) dovrebbe essere contenta: suo marito ha finito di scontare la pena. Pensa che vennero ad ammanettarlo alla festa di nozze, gli screanzati. Quattro anni per un po’ di insider trading, in America non c’è veramente rispetto per chi fa girare i soldi. Comunque è andata, e poi la famiglia le è stata vicina, persino la datrice di lavoro è stata comprensiva, e allora perché verso metà pomeriggio le piglia sempre questa voglia di ammazzarsi? Per fortuna che c’è il dottor Jonathan (Jude Law), terapeuta inglese che è venuto a esercitare negli States perché “in Europa le pillole sono per i malati, in America per gente che vuole star meglio”. Cito a memoria. E voi state già immaginando un certo tipo di film di denuncia sulle derive americane della farmacopea antidepressiva, ed è esattamente quello che Soderbergh vuole farci credere. Prima di darci un film completamente diverso.
Comincio a pensare che sia una tendenza. Non è il primo, non è neanche il secondo film negli ultimi venti mesi che comincia con una falsa partenza e dopo un po’ prende una direzione abbastanza imprevista. L’esempio più eclatante è Come il tuono di Cianfrance (ATTENZIONE ADESSO PARTE UNO SPOILER DI COME IL TUONO), che sin dal trailer si presentava come un film-con-Ryan-Gosling-in-moto, fatto apposta per attirare in sala quel tipo di gente che vuole vedere Ryan Gosling e le moto (e la sala era piena), salvo ammazzare Gosling e moto dopo quaranta minuti. Molto coraggioso. Pure troppo, a sentire i borbottii del pubblico quando hanno acceso le luci.
In questo caso forse Soderbergh rischia ancora di più... (continua su +eventi!), visto che la trama come ve l'ho descritta io potrebbe motivare giusto quel centinaio di persone che vanno al cinema Monviso in infrasettimanale: e invece questo ve lo trovate in tutti i multisala; e c'è Jude Law, c'è la Zeta-Jones nascosta dietro occhiali da strizzacervelli, insomma, è chiaro che qualcosa non va. Ma il problema di questi film è che non puoi nemmeno raccontare un po' di trama. Non è il semplice twist, il finale a sorpresa, per dire, come in Oblivion - (ATTENZIONE ADESSO PARTE UNO SPOILER DI OBLIVION) dove infatti ce lo aspettavamo un po' tutti, e molti si sono lamentati della prevedibilità. Rifletteteci, perché un mese fa è uscito nelle sale un blockbuster hollywoodiano in cui il protagonista Tom Cruise a un certo punto si rivela essere un clone malvagio dedito allo sterminio degli esseri umani - e c'è pure stato qualche recensore che ha scritto (me compreso) "mmmmsì, prevedibile": ok, va bene, i cinquemila che avevano visto Moon potevano anche trovarlo prevedibile, ma scrivere sceneggiature originali sta diventando veramente un lavoraccio. C'è una specie di saturazione, assuefazione, noia per l'intreccio canonico, anche quando è ben fatto; che peraltro è stato la molla che ha portato i Wachowski a dirigere Cloud Atlas, un'altra impresa coraggiosa ai limiti della follia. Ma almeno non assomiglia a nessun film, vuoi mettere la soddisfazione di lasciare i cacciatori di riferimenti a bocca aperta e mani vuote?
Con Soderbergh è più difficile, leggi "thriller psicologico" e mal che vada puoi sempre dire Hitchcock. Funziona sempre, al punto che c'è da chiedersi se li abbia soltanto inventati o anche un po' esauriti: impossibile ignorarlo, prima o poi ti ritrovi a riflettere se una situazione richiami di più Psycho o Marnie; se non sono modelli diventano ostacoli da aggirare (i veri cinefili, comunque, li riconoscerete perché non diranno Hitchcock, diranno Clouzot).
Ma ho già detto che è un bel film? È strano, da quando li recensisco a Cuneo mi sembrano tutti bei film. Sarà l'aria. Comunque è piaciuto quasi a tutti, Rooney Mara è almeno da nomination e sarebbe già la seconda volta. Se vi chiedete dove l'avete vista - e non siete patiti di rifacimenti USA di thriller svedesi - beh, è l'esile fanciulla che molla il protagonista all'inizio di The Social Network, insomma è lei la causa scatenante di tutto, il suo ruolo è quello della ragazza per colpa della quale perdiamo tutti ore di vita su facebook e gli insegnanti convocano i genitori per dire ci dispiace vostra figlia ha messo delle foto su facebook e qualcuno ha commentato e patatrac, non è incredibile pensare che da qualche parte nel vasto mondo quella ragazza esiste davvero? Al cinema è Rooney Mara. Anche in questo film, tutto ruota intorno a lei. Ma stavolta è un motore molto meno immobile. Basta, non posso più dire niente.
Effetti collaterali è al Cityplex Cine4 di Alba (ore 17:30, 20:00, 22:30); al Cinelandia di Borgo San Dalmazzo (15:15, 17:35, 20:15, 22:35); al Multisala Impero di Bra (20:20, 22:30); al Multilanghe di Dogliani (22:30); al Cinema Italia di Saluzzo (20:00; 22:15). Buona visione.
In un residence sospeso su un pianeta Terra in fase di smantellamento, ogni mattina Jack e Victoria si svegliano, si danno due bacetti e vanno a combattere gli alieni che hanno distrutto la Luna e reso il pianeta inabitabile. Non è che si ricordino molto del passato; comunque la loro missione è difendere le gigantesche idrovore che trasformano l'acqua in energia per il resto della razza umana, che adesso vive su una luna di Saturno. Ma le cose stanno davvero così? No.
È anche un porno per architetti, diciàmocelo.
E lo spettatore un po' smagato lo capisce subito; diciamo che al primo minuto del film Tom Cruise ha già accennato a una procedura di Cancellazione della Memoria, che è un po' come quando all'inizio del Sesto Senso Bruce Willis sembra che muoia, poi invece sembra di no, poi ti accorgi che nessuno gli sta rivolgendo la parola, e devi restare al cinema per un'altra ora e mezza. Voglio dire, è chiaro che c'è qualcosa che non va, se ti hanno cancellato la memoria. Siamo in un (bel) film di fantascienza; se all'inizio ti cancellano la memoria il minimo che possa succedere è che qualcuno non ti stia raccontando le cose come sono andate veramente. E a questo punto che mi resta da fare, bullarmi perché in sala ho capito il colpo di scena con tre quarti d'ora d'anticipo? Sgattaiolare nella sala di fianco e guardarmi Brignano? Invece no, sono rimasto inchiodato davanti a Oblivion e ne è valsa la pena come poche volte quest'anno.
Certe volte bisogna rassegnarsi. Se un film ti ricorda altri film, se nessuna trama ti sembra più originale, se a metà film stai già indovinando come andrà a finire, non è necessariamente colpa del film. Può anche essere colpa tua, ne hai visti troppi. Non sei più lo spettatore ideale di un film di fantascienza, un ragazzino disposto alla sorpresa. Sei diventato un'enciclopedia ambulante di luoghi comuni cinematografici e la cosa non è necessariamente piacevole - soprattutto quando nella scena topica del film ti viene in mente Indipendence Day. E non è un'allucinazione, la situazione ricorda davvero il più cazzaro dei blockbuster anni Novanta, salvo il particolare che quello era un brutto film, questo no. Non è un problema di Joseph Kosinski, che ha attinto allo stesso immaginario da cui pescavano i cazzari di Indipendence. È un problema tuo che ancora ti ricordi quel filmaccio, ti ci vorrebbe un protocollo per la cancellazione della memoria che ti permettesse di godere di più i film che valgono la pena.
Oblivion vale la pena. Somiglia ad altri film del passato più o meno recente, salvo che è fatto meglio: con più rigore, più amore per il materiale, più effetti, più soldi. Fortunata la generazione che può andare al cinema e stupirsi per film così, invece che per Indipendence Day. Il fatto che non dica molto di nuovo è meno paradossale di quel che possa sembrare per un film di fantascienza. Diciamo che c'è un tipo di immaginario, fatto di basi spaziali un po' squadrate e paesaggi desolati dopobomba, che quando eravamo bambini era già maturo e stratificato sulle pagine dei fumetti, e che solo negli ultimi anni è diventato trasferibile nei lungometraggi non animati. Kosinski è arrivato al cinema dall'architettura (e si vede) e dai fumetti (e si capisce); nella sua opera prima ha trasformato l'universo di Tron in qualcosa di credibile. Stavolta mette in scena una sua graphic novel, e senz'altro il suo interesse è più per la resa visuale (andrebbe visto in un Imax) che per la storia. Che in fin dei conti è una storia di sf classica; ecco, forse noi enciclopedie di luoghi comuni ambulanti dovremmo smettere di surfare sulle onde di questo o quel revival, e capire che certe cose non passeranno mai di moda: le capsule di ibernazione, i computer cattivi con l'occhio rosso, i Led Zeppelin, le biblioteche sepolte coi libri putridi, le orde di freak che vivono negli scantinati, tutti questi elementi non sono citazioni dagli anni Settanta Ottanta o Novanta: sono cose classiche, è normale che si ripropongano a ogni generazione, perché sono fuori del tempo come il berrettino degli Yankees e le borse Chanel, ecco un argomento che potete spendere con la ragazza mentre la portate a guardare Oblivion.
Un altro argomento è Tom Cruise, che fa benissimo a fare e finanziare film di fantascienza: dovrebbe farne di più, e probabilmente dovrebbe fare solo quelli - fateci caso, ormai sono gli unici in cui funziona ancora - probabilmente è l'unico modo in cui la nostra generazione di spettatori può esorcizzare il fatto che la nostra prima fiamma delle elementari aveva già sul diario più o meno la stessa faccia di Tom Cruise che nel 2013 ripara i droni di Oblivion. Sono passati davvero tutti questi anni? O siamo stati rapiti da un'entità aliena che in una notte ci ha invecchiato di un quarto di secolo, e l'unico che si è salvato è Tom Cruise, che ci sta inviando messaggi tramite i suoi film? Oppure è un clone (ops).
Il terzo argomento (non c'è mai abbondanza di argomenti) è la frase "Siamo ancora una squadra efficiente?" Dopo il film passerete anni a chiedervelo, un po' scherzando e un po' no. Forse la differenza tra Oblivion e prodotti brutti che un po' gli somigliano sta anche in dettagli che nei filmoni-di-effetti-speciali in genere passano in secondo piano, come la recitazione. L'attrice inglese Andrea Riseborough con pochi minuti a disposizione ci regala una perfetta moglie-dell'astronauta-frustrata. Melissa Leo ha ancora meno spazio e tempo per interpretare un personaggio memorabile. Olga Kurylenko è la bella addormentata che tutti vorremmo trovare nella capsula di ibernazione, Morgan Freeman è il solito vecchio saggio in quota minoranze ma va bene. Se vi piace il genere, è uno dei due o tre biglietti di quest'anno che sarete contenti di aver staccato.
Oblivion è al Cine4 di Alba (ore 19:30, 22:00); al Cinelandia di Borgo San Dalmazzo (20:10; 21:00; 22:45); al Vittoria di Bra (21:15); al Multilanghe di Dogliani (21:30); ai Portici di Fossano (21:30); all'Italia di Saluzzo (20:00; 22:15); al Cinecittà di Savigliano (20:20; 22:30). Buona visione. Siete ancora una squadra efficiente?
Come un tuono (The Place Beyond the Pines, Derek Cianfrance, 2013)
Ryan Gosling è un mentecatto. No. Ryan Gosling è sempre il bravo attore e sex symbol che sappiamo. Ma all'inizio del film, intendo, Ryan Gosling è un mentecatto che nella vita sa fare una cosa soltanto: correre in moto, come un fulmine. In attesa di schiantarsi, prevedibilmente, come un tuono. Ma finché se ne sta bravo a vorticare nella sua ruota per criceti, l'attrazione della fiera itinerante, va tutto bene. Probabilmente ha una donna in ogni città, per esempio a Schenectady, New York, si vede con Eva Mendes: caccia via. Un anno però quando bussa alla sua porta si trova davanti un neonato. "E questo chi è?" "È tuo figlio". A questo punto qualcosa nella testa comincia a girargli nel modo sbagliato, come una ruota che sta per mollare il mozzo. Ryan lascia il circo e decide di cambiare vita. Il che non significa cambiare la stessa maglietta unta e bucata che sta indossando da mezz'ora alla rovescio (la porta anche in chiesa quando assiste al battesimo). Nel suo caso consiste nell'accamparsi in un garage nei boschi e mettersi a rapinare le banche: è così che si conquistano le madri dei propri figli, non lo sapevate? Facendosi vivi all'improvviso con un sacco di soldi o pacchetti senza perder troppo tempo in spiegazioni, mandando all'ospedale il nuovo compagno di Eva non appena se ne presenta l'occasione. C'è poi il piccolo particolare che Schenectady è una cittadina di sessantamila abitanti, e Ryan ci ha preso gusto e vuole svuotare tutte le filiali di tutte le banche con la stessa semplicissima modalità. In pratica sta solo aspettando di andarsi a schiantare, ma lo schianto avrà conseguenze impreviste su tanti altri personaggi interessanti che non vi racconto (ma continuo su +eventi!)
MILF DEL MILLENNIO
Come un tuono comincia come un esercizio sul fascino di Ryan Gosling. Ogni tanto i registi le fanno, queste cose. Cianfrance, che all'attore deve il successo della sua apprezzata opera seconda (Blue Valentine), gli ricambia il favore calandolo nei panni di un povero coglione senza prospettive, forse solo per il gusto di dimostrare che anche se gli metti in testa i capelli di Enzo Paolo Turchi e gli dissacri i polpacci e gli zigomi coi tatuaggi più dozzinali, Gosling rimane assolutamente Gosling. Non deve dire nulla, anzi, meno parla meglio è, visto che non dice e non fa nulla che non sia intrinsecamente stupido. Ed è giusto così, se gli scappasse qualcosa di intelligente l'Incantesimo si spezzerebbe di colpo e ci troveremmo davanti un rospo con la parrucca bionda. È Luke il Bello, non gli si chiede altro che essere bellissimo e stupido e andarsi a schiantare contro muretti e marciapiedi. Quando arrivò a questi livelli, Mickey Rourke cominciò ad andare in giro a farsi spaccare la faccia da professionisti. Speriamo bene.
Come il tuono è anche la storia di Avery Cross (Bradley Cooper), un giovane laureato in legge che invece di seguire la carriera del padre giudice di Corte Suprema, decide di passare ai fatti, sporcarsi le mani, arruolarsi nella polizia di Schenectady. Salvo rimanere disgustato quando le mani dovrà sporcarsele davvero. Il "posto oltre i pini" del titolo originale è l'antico significato del termine Schenectady, una di quelle cittadine americane in cui sembra che nulla possa succedere e invece è successo di tutto. Ma è anche la radura dove sia Luke che Cross perderanno l'innocenza, scoprendo i fili delle rispettive marionette sociali: un figlio di giudice di Corte suprema sarà sempre un figlio di giudice, e un figlio di NN resterà sempre una scheggia impazzita fuori dalla ruota dei criceti. Come il tuono è un film sulla paternità, sul panico che ti assale quando ti mettono in braccia per la prima volta un piccolo tizio e non sai come pulirti le mani dal grasso d'officina, né come difenderlo da un mondo che tu stesso non capisci; il primo istinto è uscire nella foresta a cercare il cibo, ma se ti allontani troppo dalla caverna quando torni lui sarà un sedicenne deficiente che si fa le canne cogli amichetti in casa tua.
Come il tuono è un film che attira gli spettatori col miraggio di un Gosling in motocicletta e di una raggiante Eva Mendes in sottoveste, ma poi li sequestra sulla poltrona con una lunga riflessione sui tragici casi della paternità e più in generale della vita che ricorda un po' Iñárritu, in particolare quella sensazione che prova il cinefilo dilettante dopo due ore di Iñárritu, "non è che non mi interessino tutte queste storie, anzi, magari quando esce il dvd mi vedo altri sessanta minuti di destini intrecciati a causa di tragici incidenti, però adesso fatemi andare al bagno, per favore". È un film lunghissimo, dovrebbero avvertire la gente di una certa età: non prendete la Coca grande, venite già pisciati, ecc.. Lo so, non è il massimo come recensione.
È che non mi sono mai sentito così inadeguato. Ieri è morto il principe dei recensori USA, Roger Ebert. Sul web c'è un sacco di gente che linka le sue stroncature più divertenti. Dopo averne lette un po', mettersi qui a scrivere un pezzo su un film è un po' come fare karaoke dopo aver sentito le Variazioni Goldberg. C'è solo da fare in fretta, chiedere scusa e andare a sbattere. Di me non raccontate niente ai bambini.
Come un tuono è al Cityplex Cine4 di Alba (ore 21:00) e al Cinelandia di Borgo San Dalmazzo (20:00 22:45). Dura veramente parecchio. Buona visione
In Parlamento parlano parlano, e non concludono niente. Da mesi i tre maggiori partiti non riescono ad accordarsi sul nome del nuovo presidente della repubblica, tanto che gli onorevoli votano cognomi a caso o in codice. Durante una votazione viene eletto, per un disguido, Giuseppe Garibaldi: che però esiste davvero, ha appena perso il lavoro e viene da un'immensa provincia, indovinate quale. Ed è inoltre Claudio Bisio, che al cinema ha sfondato tardi ma sta recuperando - il nostro Louis de Funès, il clown che riflette sulla sua pelata l'italianità e la scompone come un prisma in tutti i suoi colori primari e no. Da quand'era che non assistevo a un applauso a scena aperta in un cinema?
Mi è capitato lunedì guardando una delle primissime scene di Benvenuto Presidente!, in cui un politico si becca un uovo in faccia davanti a Montecitorio - applausi. Non sappiamo di che partito è - non lo scopriremo per tutto il film. Però è un politico e un uovo in faccia se lo merita, è liberatorio. Ora è pur vero che il lunedì sera qui da noi c'è lo sconto, però tutti questi precari o disoccupati o esodati incazzati in sala non c'erano; la signora che si è alzata e si è messa ad applaudire a fine mese secondo me c'è arrivata abbastanza bene, s'è pure concessa il film di Pasqua in cui tirano le uova ai politici, non importa quali. Tanto son tutti uguali, no?
Nel film ce ne sono tre, che inciuciano tutto il tempo. Quello che si piglia l'uovo nelle schede sul casting è chiamato "il politico bello" (un Cesare Bocci molto meno bello del solito). Beppe Fiorello invece è "il politico con il pizzetto", mentre Massimo Popolizio è "il politico ruspante", una riedizione dello Sbardella che interpretava nel Divo. Non si capisce se siano i leader o i capogruppo parlamentari dei rispettivi partiti: comunque decidono loro per tutti. Si incontrano ogni tanto in location architettonicamente rilevanti per inciuciare, e inciuciano, inciuciano che è un piacere. Quando si accorgono di avere eletto per sbaglio Claudio Bisio, vanno a prenderlo al torrente con le Audi Nere (=arroganza) con l'urgenza di corromperlo. Pensano di riuscirci facilmente perché se l'hanno eletto a caso sarà l'italiano medio, no?
Non esattamente. Malgrado cerchino di vendercelo così, il personaggio di Bisio non è proprio un arci-italiano; oppure può essere utile a capire l'idea che c'è in giro dell'arci-italiano, quello che se solo riuscisse ad arrivare al Palazzo lo aprirebbe come una scatola di sardine, oggi si dice così. Per esempio: in un'Italia che non legge (ma ama sfoggiare libri intonsi alle pareti) Bisio-Garibaldi è un bibliotecario (appena licenziato dal comune per motivi di budget). Dunque un umanista? Ma no, più un animatore-matto del villaggio - qualche antico sociologo lo chiamerebbe "intellettuale declassato" - un tempo, è implicito, aveva un lavoro vero e una famiglia vera (continua su +eventi!), poi ha perso tutto, la moglie è scappata e il figlio è un "gimbominchia", un deficiente amorale impelagato in fallimentari imprese piramidali, un berluschino del crepuscolo. Garibaldi lo rimprovera più volte rispolverando l'etica del nonno: "tutto quello che fai ti ritorna indietro".
Come i cittadini-parlamentari del M5S, Garibaldi ha grosse difficoltà con l'etichetta. Riceve lo Stato Maggiore in mutande, gli scappa la parolaccia, ha la gaffe facile. Non capisce le leggi che deve firmare e quindi, come la Lombardi, preferisce non firmarle, e pazienza se c'è qualcuno che ci rimette, il bibliotecario pretende che tutte le leggi siano leggibili. Come Crimi, prima o poi gli capita di appisolarsi in un'occasione ufficiale, e per l'occasione i giornali si scatenano: DIMISSIONI! Come Casaleggio, il suo consulente immagine (Remo Gironi!) si fotte dei giornali e conta i like su youtube: "Il video del tuo sfogo in pizzeria ha avuto centomila condivisioni!!!!1111!" Come tutti i grillini, ha un cuore grande così,e in attesa di potersi calare lo stipendio sistema tutti i barboni di Roma nei corridoi del Quirinale. Come Grillo, è convinto che da qualche parte ci siano migliaia di idee bellissime per cambiare l'Italia, tutte realizzabili: Bisio le trova in uno scantinato del Colle mentre pattina coi rollerblade (...): si tratta solo di dar voce alla gente e vedrete quante idee geniali, a parte i maniaci del signoraggio delle scie chimiche della decrescita felice guardate che c'è anche del buono, sotto sotto ci sarà, bisognerà un po' scavare ma ci sarà.
A Fabio Bonifacci, già sceneggiatore di alcune delle meno stupide commedie italiane degli ultimi anni (A allora mambo!, Diverso da chi?), è stato occasionalmente concesso il dono della profezia. Benvenuto, presidente!, scritto qualche anno fa ma realizzato appena in tempo per l'imminente cambio della guardia al Quirinale, anticipato da un accorato discorso sullo stato della nazione di Bisio a Sanremo, non sarà la commedia meno stupida del 2013, ma è un film che descrive alla perfezione il qui e l'ora, da un punto di vista prezioso: la pancia dello spettatore, quello che salta in piedi e applaude se tirano uova a un politico. Qualsiasi politico. Ci sono persino i Poteri Forti. Si chiamano proprio così, dato che a furia di leggerli sul giornale ci siamo un po' tutti scordati a cosa stavamo alludendo, e quindi Bonifacci e Milani decidono di incarnarli in quattro commensali incartapecoriti a un banchetto. Non si sa cosa rappresentino: i grandi industriali, la finanza, la massoneria, boh. L'importante è che da qualche parte, in qualche stanza, ci siano ancora dei Poteri Forti che tramano, che ancora devino i servizi segreti come ai vecchi tempi. È un'immagine quasi consolante - e infatti l'Agente Segreto Deviato è un malinconico Gianni Cavina che canta Pensiero perché ha nostalgia degli anni Settanta, quando si lavorava sul serio. Storie vecchie, ma gli italiani non ci rinunciano - ci tengono, ai complotti. Non vorrebbero mai svegliarsi in un mondo in cui i Grandi Vecchi se ne fossero andati, lasciandoli soli con problemi incomprensibili. Come disse quella volta Mario Monti: "Avercene, di poteri forti"; c'è davvero ancora qualcuno là fuori, veramente potente e veramente interessato a non lasciarci sfracellare al suolo? Non si sa, ma un po' ci si spera - forse ci sperano pure i grillini.
Riccardo Milani conferma dopo Tutti pazzi per amore il talento per la farsa danzante - e in effetti i suoi attori sono sempre sul punto di mettersi inopinatamente a ballare, a un certo sculetta persino il ruspante Popolizio. Il populismo però è un tema insidioso, non sempre il regista riesce a danzarci sopra con leggerezza: in particolare sprofonda in una sequenza così ricattatoria che è ambientata in un reparto di oncologia infantile. Si salva grazie a una certa diffidenza per il vero italiano-medio, che a differenza di Bisio-Garibaldi è corruttibile e disonesto come i politici che elegge. Anche nel paesino innocente, appena guardi bene, trovi qualcuno che intasca fondi UE e ti assume in nero.
(Qui è ancora un po' ingessata. In seguito canta Comandante Che Guevara con la chitarra durante un'orgia a base di pizza al cannabis con i plenipotenziari della Repubblica Popolare Cinese, giuro).
Il film può essere utile per capire perché i senatori m5s non sosterranno mai un governo Bersani. In fondo Crimi e soci in questi giorni devono avere la sensazione di vivere in un film del genere - che poi non è niente di nuovo, almeno dall'Onorevole Angelina in poi (Zampa, 1947). Il canovaccio prevede che l'uomo-comune , dopo qualche tentativo di cambiare le cose condotto in perfetta buona fede, ritorni abbastanza presto al nido famigliare. Spesso, oltre ad aver constatato l'irrimediabile sporcizia della politica, si è anche reso conto di essere lui stesso corruttibile. Gli eletti di Grillo a quel momento preferirebbero non arrivarci, e quindi è comprensibile che abbiano fretta di chiudere. Non sono equipaggiati per le schermaglie politiche, non conoscono le regole della diplomazia e non ritengono di doverle imparare. Il boss ha imposto di rendicontare anche le caramelle e fa una scenata se qualcuno cena al ristorante di Montecitorio. A questo punto molti di loro probabilmente hanno solo voglia che il film finisca presto, con qualche botto. Torneranno a casa dagli amici e avranno una bella storia da raccontare. Se poi nel frattempo l'Italia va a rotoli - vabbe', si vede che così volevano i diabolici Poteri Forti.
Un altro motivo per darci un'occhiata potrebbe essere Kasia Smutniak che fa la sottosegretaria alla presidenza, e per mezzo film si aggira impettita per il Quirinale come frau Rottenmeier; finché a un certo punto succede qualcosa, scrocchia i muscoli del collo si spoglia e ti salta addosso in soggettiva. E il film decolla! In realtà no, ma per dieci secondi è bellissimo, lei ti sbatte sul lettone presidenziale e ti piglia a ceffoni; poi ti ricordi di essere Claudio Bisio cinquantenne e l'erotismo si sfascia in farsa. Ma anche in questo il film riesce a interpretare correttamente istanze provenienti dal basso ventre collettivo: il sesso con la Smutniak non può che essere concepito come uno sport estremo.
Benvenuto Presidente! è al Cityplex di Alba (ore 20:00; 22:15); al Cinelandia di Borgo San Dalmazzo (20:20; 22:40); al Multisala Vittoria di Bra (20:15; 22:30); al cinema Italia di Saluzzo (20:00; 22:15); al Cinecittà di Savigliano (20:20; 22:30). Buona visione e Buona Pasqua!
Robert Miller (Richard Gere) è un pescecane di Manhattan, un signore degli hedge fund, un patriarca, un pescecane, un sessantenne tirato al massimo con la moglie noiosa (Susan Sarandon), la figlia in affari che vuole mettere il naso nei bilanci e poi si scandalizza se sono falsi, l'amante artista (Laetitia Casta) che lo tampina al blackberry, e neanche un soldo in cassa. Neanche uno. Li ha tutti inghiottiti una miniera di rame in Russia, incidenti che succedono a voler rischiare in casa di Putin. Ma può ancora farcela, può tenere unita la famiglia e non perdere l'amante e vendere la cassa vuota a qualcuno che abbocchi, però deve stare attento a non mollare nemmeno per un istante ed è difficile, la corda è già tirata al massimo. Dopo pochi minuti lo ritroveremo disperso in campagna con una costola rotta e un omicidio da occultare. E tiferemo per lui. Sul serio (continua su +eventi!) Questa è la vera, incredibile truffa che l’esordiente Nicholas Jarecki gioca allo spettatore: ritrovarsi nei panni insanguinati di un capitalista truffatore e adulterino, e sperare di farla franca. Confidare nella debolezza della legge, nel potere degli avvocati, dei soldi, anche imprestati. Robert non può mollare. Non è egoismo, poverino, anzi fosse per lui si costituirebbe immediatamente, ma non può, ha dei doveri nei confronti dei clienti, degli investitori, un sacco di gente perderà i suoi dividendi se il poliziotto Tim Roth riesce a incastrarlo. Tieni duro Robert! Sembra una di quelle partite a scacchi che stai dando per perse, ti è rimasto solo un Alfiere che sa dare buoni consigli, la migliore Torre del foro di Harlem e un povero Pedone da sacrificare, eppure, eppure, quando tutto sembra perso basta azzeccare una mossa, indovinare una finta dell’avversario, e puoi recuperare. Purché all’ultimo momento non si muova la Regina… La frode è stata una delle più grosse sorprese al botteghino americano dell’anno scorso, con una delle medie più alte di spettatori per sala. Jarecki, che firma anche la sceneggiatura, sa il maledetto fatto suo: per due ore costringe lo spettatore a sostenere il suo Robert negli abissi della sua coscienza, mettendo in scena questioni morali senza inutili moralisti; nel frattempo tratteggia una mezza dozzina di personaggi interessanti e non bidimensionali. È uno di quei film per cui ti viene in mente l’aggettivo “televisivo” e non è un offesa: sembra il pilota di una serie che seguiresti, ti piacerebbe sapere cosa succede a Robert e alla moglie, al Pedone nero e alla sua ragazza, alla figlia pedante e al poliziotto che ce l’ha coi ricchi, come il nostro caro Mariano Bonifazi. Senza pretese autoriali, uno dei film più riusciti che ho visto quest’anno – e comincio ad averne visti un po’.
La frode è al Cinema Fiamma di Cuneo (21:10); al Cinelandia di Borgo San Dalmazzo (ore 15:20; 17:35; 20:30; 22:45); al Cinema Bertola di Mondovì (20:15; 22:30); al Cinema Italia di Saluzzo (22:15).
Il lato positivo (Silver Linings Playbook, David O. Russell, 2012)
Patricio, Pat, è un bipolare. Non lo sapeva. Se n'è accorto nel suo box doccia, mentre stava picchiando a sangue l'amante della moglie. Ma questo è il passato, anche il ricovero coatto è il passato, anche l'ordinanza restrittiva passerà, l'importante è essere ottimisti, positivi, riempire un libretto (il "silver lining playbook") di buoni propositi, mantenerli, e Nikki tornerà. Nikki è la moglie scomparsa. Era dal 1981 che un film non otteneva quattro nomination agli Oscar nelle quattro categorie riservate agli attori (l'ultimo fu Reds di Warren Beatty, chi l'avrebbe mai detto). Anche se alla fine la statuetta l'ha portata a casa soltanto Jennifer Lawrence. Per il suo personaggio, Tiffany, era stata opzionata Anne Hathaway che però aveva un'impegno, ed evocate tra le altre Angelina Jolie e Kirsten Dunst: dopo un provino che doveva essere una formalità, Russell ha scelto la 21enne Lawrence, assolutamente fuori parte. Non si è trattata di una scelta al risparmio: la Lawrence è un talento naturale fuori discussione (chiunque ha visto Winter's Bone lo sa, purtroppo siamo in pochissimi che ci svegliamo nel cuore della notte davanti a Rai Movie e non riusciamo a trovare il telecomando). Ma soprattutto è la protagonista di Hunger Games, ovvero il primo capitolo di una saga per adolescenti, ovvero una montagna di soldi che deve ancora emergere del tutto. È brava, è bella, e a 21 anni ha vinto un Oscar interpretando una vedova ninfomane che incontra Pat e lo trascina in un concorso di ballo.
Ce l'ha messa tutta Jennifer, ha anche preso dei chili per esplicita richiesta del regista; ugualmente la cosa lascerebbe un po' perplessi se non fosse così brava e bella che in fondo chissenefrega, i film americani sono belli perché la mantide del quartiere, quella che si fa licenziare solo dopo esserci stata con tutti quelli dell'ufficio, è Jennifer Lawrence Ventunenne. Ah, è molto bravo anche Bradley Cooper, che fin qui io avevo visto solo in tv e in commedie un po' coglione. Il suo Pat, sempre in bilico tra ottimismo e disperazione, era un personaggio rischiosissimo. E anche lui ha dovuto imparare a ballare - o magari sapeva ballare già e ha disimparato. Ed è bravo persino Robert De Niro, pensateci bene: da quand'è che non vedevate De Niro recitare bene in un film bello? Vi sconsiglio di contare gli anni, a me è venuta la vertigine. De Niro, se ti dimentichi un attimo quelle commedie coglione in cui fa il padre rintronato, te lo ritrovi in questo film che fa davvero il padre rintronato, e saranno i lineamenti italiani, ma è così credibile che ti mette in imbarazzo, hai voglia di telefonare a tuo padre alle tre del mattino per dirgli che gli vuoi bene.
Ma insomma che film è? Una commedia? Non proprio... (continua su +eventi!, c'è anche Muccino sul fondo). È un film che resta sospeso fino all’ultimo intorno al mistero di Nikki, la moglie perduta. Tornerà? Non posso dirvelo, ma davvero cambierebbe tutto. Da commedia romantica, con una trama che a leggerla ci sembrerebbe scontata (due ballerini lottano per ritrovare la fiducia in sé stessi! che idea! che palle!) a thriller psicologico. Seguendo quella che ormai mi sembra una tendenza, Russell ha deciso di ambientare il romanzo di Matthew Quick non nel Magico Mondo delle Commedie, ma in una realtà molto simile alla nostra; un luogo dove quando un uomo incontra una donna non parte mai la musica giusta, e dove ballerini non ci si improvvisa – ma se avete amato i colli dei piedi inadeguati degli Amici di Maria, scoprirete di tifare Pat e Tiffany contro ogni buon gusto, perché ci mettono il cuore, e soprattutto perché il padre ci ha messo anche un sacco di soldi, che fuori dal Magico Mondo delle Commedie sono davvero importanti. Nel 2012 hanno fatto qualcosa di simile Kathryin Bigelow, Gus Van Sant, P.T. Anderson, Ben Affleck, rifiutandosi di spettacolarizzare storie di spie, guru ed ecomostri che si sarebbero ben prestate; lo stesso Spielberg ci ha dato con Lincoln uno dei suoi film meno spettacolari e più – mettiamoci le virgolette – “verosimili”. Le virgolette hanno un senso perché la verosimiglianza non implica che la realtà non venga modificata e romanzata; anzi a ben vedere (ne abbiamo già parlato la scorsa settimana con Argo) film del genere sono persino un po’ sleali, per come rischiano di sostituirsi alla realtà vera. Nel caso di Silver Lining Playbook, oltre all’assurdità della Lawrence divorziata+ninfomane, abbiamo due psicotici che si corteggiano, da qualche parte nella nostra testa dovrebbe suonare un allarme antiatomico, però sono così bravi, sono così belli, sono così teneri quando vanno a Ballando con le Stelle sperando nella media del Cinque (su Dieci), che ti ritrovi a sperare che si mettano assieme, NO PERDIO GLI PSICOTICI NON DEVONO METTERSI ASSIEME nessuna farmacia pratica sconti famiglia sugli psicofarmaci. Ma almeno non è la solita commedia. Anzi, sapete cosa sembra? Ora rischio grosso. A un film di Gabriele Muccino, però fatto in America, però fattobene. No, non è soltanto perché i personaggi urlano e strepitano sovrapponendosi e ogni tanto parte un carrello circolare – ok, è soprattutto per i carrelli circolari. Però a me è rimasta la curiosità di immaginare cosa riuscirebbe a fare Muccino davvero, a Hollywood, se riuscisse a lavorarci bene. Mesi fa si lamentava tanto del modo che hanno laggiù di ragionare per categorie che sono comportamenti stagni: per le commedie sentimentali si applica un protocollo, per il genere drammatico un altro protocollo, ecc.. Muccino era molto italiano mentre cercava pretesti per una sconfitta professionale, però magari non aveva tutti i torti: gli americani sono fatti così. Non è solo una questione di mercato e di industria: anche la cultura è compartimentata in modo molto più stagno che da noi. Eppure proprio mentre Muccino si lamentava stavano uscendo tutti questi film, storici senza battaglie, spionistici senza i gadget di 007, sentimentali ma con gli psicofarmaci. Insomma tieni duro, Gabriele Muccino, forse i compartimenti si stanno alzando, provaci ancora. Noi tifiamo per te, non è che ci sei sempre piaciuto, eh? Però sei di famiglia, tieniti in forma, perdi magari qualche chilo, tieni duro, trova uno script di quelli fatti apposta per te con un sacco di bei personaggi che si urlano in faccia le peggio cose.Excelsior!*
(*) Tradotto in italiano fa ancora troppo Mike Bongiorno.
Il lato positivo è al Fiamma di Cuneo (21.00); all’Impero di Bra (20:15; 22:30); all’Italia di Saluzzo (20:00; 22:15); al Cinecittà di Savigliano (20:20; 22:30). Buona visione.
Teheran, 1980; durante l'assalto all'ambasciata americana, sei diplomatici escono dalla porta di servizio e si nascondono all'ambasciata canadese. Per riportarli a casa l'agente CIA Tony Mendez escogita la copertura più assurda della storia dell'agenzia: si finge il produttore di un film di fantascienza, in cerca di location orientaleggianti. La beviamo? Il problema con Argo è un po' questo perché, come capita a molte storie vere, è abbastanza inverosimile. Girare un film di fantascienza a Teheran durante la crisi degli ostaggi, con le barbute Guardie della Rivoluzione in giro a caccia di occidentali? Eppure dicono che andò proprio così, le Guardie se la bevvero e non si accorsero che i sei accompagnatori dell'agente Mendez non erano registi fotografi e sceneggiatori, ma sei diplomatici in fuga.
La locandina finta (del 2012) del film finto (del 1980)
Uno dei primi aspetti che colpisce di Argo è la precisione, ormai un po' stucchevole, con cui viene riprodotto il 1980: arredi, acconciature, musica (i Dire Straits), telefoni e così via. Tutto virato al beige ("erano anni marroni", come scriveva Jonathan Coe della seconda metà dei '70). Persino il logo all'inizio del film è quello stilizzato e minimale che la Warner usava a quei tempi. Bei tempi. Ti aspetti che da qualche corridoio spunti Robert Redford, invece ti devi arrangiare con Ben Affleck, e il bello è che dopo un po' ti accorgi che si può fare.
Argo è tornato nelle sale sull'onda lunga degli Oscar: ne ha vinti tre (miglior film, montaggio e sceneggiatura non originale) su sette nomination. Affleck però non ha ottenuto la nomination per la miglior regia, il che ha fatto molto discutere, perché al terzo film la sua sicurezza e versatilità dietro la macchina da presa non sono più una sorpresa per nessuno. Lui ci ha scherzato su, facendo notare che non l'avevano nemmeno nominato tra i migliori attori. In realtà Affleck Attore non sarà Redford ma non è il cane che tutti pensano (nelle sue teche c'è pure una Coppa Volpi, butta via); paradossalmente il viso belloccio non l'ha aiutato a essere preso sul serio, specie dopo che lo abbiamo associato a un certo tipo di film (Armageddon, Pearl Harbour) terribili. In Argo trova il ruolo ideale: un flemmatico agente a cui nessuno domanda di manifestare le proprie emozioni. Al massimo se ha qualche dubbio o imbarazzo prende in mano una bottiglia di whisky, che è una specie di sigaro-di-Clint-Eastwood: e a un certo punto abbiamo questa scena, Affleck-Mendez solo in una stanza con i suoi dubbi e una bottiglia, che prende in mano e rimette giù, e poi riprende e poi rimette giù. Pensatela come volete ma io ci ho riconosciuto qualcuno, c'è gente che veglia intorno ai suoi problemi in questo modo.
Una locandina finta del 2012 del film vero del 2012.
Tutta un'altra cosa rispetto all'altra agente CIA che abbiamo visto all'opera di recente, la Maya di Zero Dark Thirty(continua su +eventi!) coi suoi muscoli facciali tesi allo spasimo mentre tormenta i superiori. Impossibile non confrontare i due film, diversissimi anche se condividono alcune maestranze (il compositore della colonna sonora; il montatore che si è ritrovato in lizza per l'Oscar con due nomination nella stessa categoria). Per fare un esempio, in entrambi i film a un certo punto c'è un furgone pieno di americani circondato da indigeni ostili. In Zero è un enorme hummer dotato di cecchino in assetto di guerra che gira per i bazar di Islamabad cercando di intercettare una telefonata di Al Qaeda e nessuno ci fa caso, compreso il membro di Al Qaeda: mentre guardi non sai che pensare. È un'ingenuità dello sceneggiatore o dei servizi, o degli americani in genere che vanno in giro in hummer e credono che nessuno li noti? In Argo c'è uno scassato pulmino della Volkswagen che si ritrova in mezzo a due manifestazioni antiamericane, e dentro nessuno è armato, hanno tutti una paura fottuta e ce l'hai anche tu: il rumore più brutto del mondo sono i pugni nudi contro la lamiera di un pulmino Volkswagen. Mi ha tenuto col fiato sospeso molto di più di tutta la sequenza di Zero (professionale, impeccabile) in cui ammazzano Bin Laden. In Zero a un certo punto rischi di tifare per gli integralisti: in Argo sei subito dalla parte dei prigionieri americani, che non sono nemmeno così simpatici. Ma non importa, è un Caper movie, un "colpo grosso": c'è una truffa da mettere in piede ed eseguire, e alla fine vuoi soltanto che tutto vada per il meglio.
Poster vero (2012) del film vero (2012).
La squadra messa in piedi da Mendez, con un produttore ignorante e sboccato e il truccatore del Pianeta delle scimmie (John Goodman, gli vuoi subito bene) assomiglia più a una gang di soliti ignoti che a una cellula della CIA. Allo stesso tempo, è anche un film meno manicheo di Zero, probabilmente per l'impostazione un po' liberal, da nuova Hollywood, dei produttori (c'è anche George Clooney): il film chiarisce subito, nel preambolo, che prima dei cattivoni barbuti c'era un figlio di puttana sostenuto da Washington, Reza Pahlevi. Lo ribadiscono ogni tanto lungo il film gli agenti della Cia, molto più cinici e umani dei gelidi quadri di Zero. Nonostante questo il film è stato criticato per il modo in cui descrive tutti gli iraniani come fanatici barbuti. Eppure pare che in Iran vada fortissimo, non solo al mercato clandestino dei DVD: lo proiettano nei cinema di nascosto. Del resto se avete almeno visto Persepolis (scritto e disegnato da una testimone diretta) l'onnipresenza minacciosa delle Guardie della Rivoluzione non vi stupirà più di tanto. Senza dubbio il film calca la mano, si inventa un quasi-linciaggioal Bazar che non c'è mai stato: ma che una finta troupe canadese potesse essere circondata da iraniani incattiviti, non guardie della rivoluzione, ma parenti di vittime delle torture di Pahlevi, non è così inverosimile.
Eppure non è vero: e sostituire il verosimile al vero è un'operazione delicata. Argo e Zero hanno questo in comune: romanzano un eclatante fatto della Storia recente, mantenendo però un registro così realistico che rischiano di sostituirsi alla Storia, più che descriverla. Per esempio: Argo trasforma un'operazione in gran parte congegnata dall'intelligence canadese in una missione CIA, che poi sembra quasi l'iniziativa di un agente solitario, Mendez: non è andata affatto così. Anche gli inglesi ci fanno un'immeritata brutta figura (non è vero che respinsero i sei fuggitivi, se li passarono ai canadesi fu perché ritenevano la loro ambasciata più sicura). Il colpo di scena che movimenta l'ultima mezz'ora è del tutto inventato, l'operazione filò molto più liscia e non ci fu nessun inseguimento all'aeroporto. Dove il film si tradisce è probabilmente nella sua ossessione per la simultaneità, poco plausibile nel 1980. Per dire, ci sono televisori dappertutto, in cucina, in bagno, dappertutto: sono scatoloni ingombranti, ma stanno dove oggi starebbero tablet e notebook. Affleck e compagnia fanno il possibile per recuperare il sapore analogico dei file cartacei, delle telefonate criptate, ecc.; ma a un certo punto vogliono farci credere che bastassero pochi secondi da Washington per prenotare un aereo a Teheran: faccia refresh, dice Mendez all'addetta all'imbarco, vedrà che la prenotazione c'è. Un refresh nel 1980. In realtà i biglietti li avevano comprati i canadesi, molto per tempo (bellissima l'immagine dei bambini iraniani che ricompongono i documenti tritati in ambasciata, strisciolina dopo strisciolina: hacker analogici, l'immagine del mondo non è ancora stata convertita in pixel ma ormai i tempi sono maturi).
Poster vero (1980) del film finto (1980).
Argo è un film del 2012, non un documentario del 1980, ma allora perché insiste per sembrare così vero, così documentario? È un sogno, ed è un film sui sogni: anche nel più barbuto fanatico c'è la voglia di vedere un'astronave che decolla e se ne va, anche nella più chiusa teocrazia ci sarà sempre una porta aperta dalla fantasia del bambino che guarda le stelle e cerca gli Ufo. Però è un sogno che maneggia immagini pesanti e delicate: anche l'ayatollah Khomeini all'inizio del film è un fumetto, un bozzetto di scena. È una bella idea quando la rivedi: è come se il film ti volesse dire attento, anche i cattivi barbuti non sono veri, sono solo cattivi da film. Peccato che la sigla finale ti dica proprio il contrario, accostando foto originali del 1980 e dintorni a inquadrature del film: quindi è vero, impiccavano gli oppositori alle autogrù; quindi è vero, la gigantesca scritta "Hollywood" era a pezzi (no, non è vero, l'avevano appena riparata); quindi è vero, insomma, è tutto vero. No, non è tutto vero. Ma ci somiglia molto. Forse troppo.
Argo è in programmazione al Cinelandia di Borgo San Dalmazzo (ore 20.00 e 22.30) e al Cinecittà di Savigliano (ore 22.30). Buona visione.
Matt Damon è il migliore in quello che fa, purtroppo anche stavolta si tratta di raccontare bugie (è incredibile quanti ruoli da bugiardo abbia interpretato, pensateci). Stavolta batte l'anonimo Midwest comprando per un tozzo di pane la terra che la sua Malvagia Compagnia Petrolifera poi frantumerà per estrarne le scisti, per il fracking insomma. Se qualcuno ha qualcosa da dire, lo corrompe. Finché in un paesino sperduto del Sarkazzota non incontra la sua nemesi, il suo Gemello Buono, che ha il sorriso amabile di John Krasinski e rappresenta un'Eroica Associazione Ambientalista. Ma se Matt non è del tutto cattivo, anche John potrebbe non essere del tutto buono... possiamo guardarci cento minuti di Promised Land senza nemmeno accorgerci che, gratta gratta, è proprio lui, il caro vecchio Film Western.
Eppure c'è tutto: il paesino dimenticato da Dio, la Compagnia disposta a tutto per ottenere le terre che gli spettano dai contadini riottosi e ignoranti; i due pistoleri che si fronteggiano – senza pistole, il che non è nemmeno così realistico: considerati i dollari in ballo, qualche pistola dovrebbe pur sparare prima dei titoli di coda, e invece... c'è persino il saloon. Una delle scene più intense è una colluttazione in un saloon, nemmeno Tarantino ci ha provato. C'è la bella del saloon (anche se di giorno fa la prof di scuola media) e indovinate, i due pistoleri se la disputano. È questo il vero film western del 2012/13; Djangoè troppo meta, e poi è ambientato nel Sud. Promised Land invece non ha nessuna ambizione citazionista; se racconta la solita vecchia storia di C'era una volta il West o del Petroliere è semplicemente perché questa storia è maledettamente attuale, il petrolio facile sta finendo e le Compagnie stanno realmente comprandosi la terra sotto i piedi dei bifolchi per tentare di spremere qualche succo bituminoso. È l'affare del secolo, ma è anche orribilmente pericoloso e inquinante (continua su +eventi!). Dave Eggers ne approfitta per illustrare il solito conflitto interiore tra soldi e dignità, senza calcare troppo né il bozzetto rurale né la polemica ambientalista (tanto più che nella prima stesura non si parlava di fracking, ma di pale eoliche); a un certo punto poi Krasinski gli ha comprato la sceneggiatura e ci ha lavorato un po' su (Krasinski aveva già interpretato un personaggio di Eggers in Away we go, in Italia ribattezzato American Life); alla fine ci ha messo mano anche Matt Damon che stava per girarlo, ma ha preferito passarlo al sodale Gus Van Sant. In tutti questi passaggi il film potrebbe aver perso un po' di originalità: l'estro visivo di Van Sant compare a sprazzi che appaiono quasi accademici: la sua smodata passione per le Nuche, i bei tempi in cui sognava di fare un film di soli Primi Piani di Nuche (con Elephant ce l'aveva quasi fatta), perché non c'è niente di più espressivo di una Bella Nuca, ecco, quelle cose lì sono ormai alle spalle e dal mio punto di vista è un bene, le nuche mi mettono a disagio.
Il film in realtà potrebbe meritare una visione per tutt'altro motivo: se condividete l'insana fantasia di avere Frances McDormand come collega di lavoro, ecco, questo è il film in cui l'adorabile Frances divide con Damon il caffè, il film in cui gli guida la macchina perché il biondino è negato col cambio manuale, il film dove gli telefona in camera verso sera per dargli la buonanotte – buttando lì scherzosamente che per lui la sua camera è sempre aperta, e non sai mai fino a che punto eccetera. Ma sul serio, chi non vorrebbe lavorare con Frances McDormand. In teoria è persino un personaggio negativo, il compare del pistolero che ha già definitivamente venduto l'anima e mentre ruba la terra ai bambini borbotta "it's just a job": però è Frances McDormand, il Male non è mai stato così così simpatico, alla mano, così verosimile.
Il finale è davvero interessante. Purtroppo non posso parlarne perché è un finale a sorpresa – e anche la sorpresa, visivamente, si poteva organizzare meglio, ma è un film che si prende pochi rischi. Quindi in questo paragrafo fingerò di parlar d'altro, di politica, mi ricordo per esempio che quando ero tanto giovane le Multinazionali Malvagie nei film e nei libri c'erano già, e c'erano anche già gli Eroici Individui che le contrastavano: erano bravissimi, competentissimi, facevano gli hacker ma questo non significava che sotto la loro Immensa Consapevolezza non brillasse una Specchiata Integrità Morale. Erano i miei eroi, anche se già allora non ero del tutto sicuro che esistessero. Quando andavamo alle manifestazioni contro le Multinazionali Malvagie speravo sempre che ci fossero anche loro da qualche parte, probabilmente stavano riprendendo tutto con la videocamera per mandarlo su Internet – perché loro erano già su Internet, anzi Internet l'avevano inventata loro. E di loro ci si poteva fidare.
Può fare la bella del Saloon finché vuole, tanto la mattina alle prime ore agli alunni "mostra dei video" (ha detto proprio così, mi ha trafitto).
Ad anni di distanza, quel poco che ho capito del mondo è che le Multinazionali Malvagie esistono e sono davvero Malvagie. Pensa solo a quel che han combinato nel Golfo del Messico, pensa che potrebbero rifarlo nel Mediterraneo tra un po', pensa che alla fine riuscirebbero a pagare un decimo dei danni che fanno, la spuntano sempre. Magari da piccolo ero ingenuo, ma su di loro avevo ragione. Quello su cui invece mi sbagliavo, purtroppo, era il lato dei Buoni. Non ci sono. Cioè, qualcuno c'è, ma non è così bravo, non è così competente, anzi il più delle volte è un disastro, anche se fa l'hacker molto spesso defaccia la gente sbagliata, e poi quasi sempre si affeziona a qualche teoria del complotto strampalata e diventa paranoico, se non lo era già in partenza. C'è tanto dilettantismo, tanta improvvisazione, tanta cialtroneria: ce ne accorgeremo. Adesso no, adesso è troppo presto, adesso tutti votano il Movimento nella Rete convinti che dietro ci sia della gente che in Rete discute davvero, e condivide conoscenze d'avanguardia: e invece, spero di sbagliarmi, ma in Rete quel poco che c'è davvero è il solito manicomio di complottismi e paranoie. Non so perché debba andare a finire sempre così, perché da una parte ci debbano sempre essere i Malvagi e dall'altra i Cialtroni: probabilmente perché i non-cialtroni se li comprano tutti i Malvagi prima che sviluppino un senso morale. Dopodiché non è detto che debba andare sempre così: dipenderà da noi, da ognuno di noi, il film vuol dirci questo. Ma non riesce a convincere del tutto. E dire che Van Sant ha dimostrato con Milk di sapere come maneggiare argomenti politici per convincerci e commuoverci: forse però perché scatti il meccanismo occorre che GVS sia realmente interessato a quel che succede davanti alla macchina da presa: stavolta non più di tanto.
Promised Land è al Monviso di Cuneo (ore 21) e allo Stella Maris di Alba (21). Buona visione.
Zero Dark Thirty è un film unico nel suo genere: l'autobiografia di un personaggio vivente che forse non conosceremo mai. Nel film si chiama Maya ed è l'agente della CIA che ha passato quasi dieci anni a cercare Bin Laden, finché non l'ha trovato (forse) e l'ha fatto ammazzare (così dicono, ma perché hanno buttato il corpo in mare immediatamente? E perché non hanno divulgato al pubblico nemmeno una foto? Vabbe', storia vecchia, parliamo del film).
C'è stato un momento - non posso dire quale - in cui guardando il film della Bigelow mi sono accorto che stavo tifando per i cattivi, i malvagi terroristi islamici. È stato un solo momento, comunque imbarazzante. Il punto è che dopo un'oretta nei corridoi della CIA, trascorsa a guardare dei professionisti seri e poco empatici alle prese con procedure standard che prevedono la tortura di alcuni mentecatti, quando finalmente un mentecatto riesce a organizzare un tranello e ammazzarne un po', ti viene spontaneo pensare qualcosa del tipo toh, beccatevi questa yankees, chissà se succede a tutti. Probabilmente no. Zero Dark Thirty è un film ambiguo, il che andrebbe benissimo, se fosse un sistema per disorientare lo spettatore e costringerlo a rivedere le sue opinioni. Da quel che ho letto in giro però non mi pare che le cose siano andate così: ognuno ha semplicemente pescato nell'ambiguità del film quello che serviva a sostenere la propria tesi preconfezionata. Per aver mostrato semplicemente come funzionavano gli interrogatori dei prigionieri (waterboarding, musica ad alto volume ecc.), la Bigelow è stata accusata di apologia di tortura. Per Michael Moore invece il film sarebbe la dimostrazione che la tortura è inefficace, infatti Bin Laden viene trovato soltanto dopo che Obama la proibisce (ma l'inchiesta era partita molto prima, dalla soffiata di un tizio sottoposto a waterboarding...) Per Andrew Sullivan è addirittura un atto di accusa ai criminali che governavano nel 2002 (quando Sullivan li sosteneva), ma in fondo è inutile porsi il problema di quel che pensa Sullivan, tra qualche anno avrà cambiato di nuovo idea. Se però uno spettatore medio entra convinto che la tortura possa essere necessaria per prevenire stragi come quella dell'11/9, non sarà Zero Dark Thirty a fargli cambiare idea: il film a un certo livello di lettura sembra proprio dire che Bin Laden è stato trovato anche grazie al waterboarding.
Se ne parli con un cinefilo puro ti dirà che è un film, soltanto un film: mostra cose che semplicemente sono successe, e lo fa molto bene. La sequenza dell'attacco al compound di Abbottabad è senz'altro lo stato dell'arte del film di guerra nel 2012: tra cinquant'anni guarderemo ancora Zero Dark Thirty se vorremo sapere come era fatta la guerra ai nostri tempi. Purtroppo era una cosa molto noiosa, con elicotteri invisibili e occhiali infrarossi da una parte e kalashnikov impolverati dall'altra, un lunghissimo estenuante match di nervi tra Juventus e Nocerina di cui peraltro conosci già il risultato finale. E i giocatori della Nocerina sono brutti, sporchi, fanatici. Ciononostante, quando fanno almeno un gol... (continua su +eventi!) mi è venuto da alzare il pugno, ma è un problema credo solo mio.
Forse ha ragione chi sostiene che la Bigelow è diventata una specie di regista embedded. Dopo il successo di The Hurt Locker (premio Oscar alla faccia blu dell'Avatar dell'ex marito Cameron) si è subito rimessa a scrivere un altro film di guerra vera, non videogiocata: all'inizio doveva raccontare la battaglia di Tora Bora (in cui Bin Laden non veniva trovato), poi la scoperta del vero nascondiglio dello sceicco del terrore l'ha portata a riscrivere la sceneggiatura in corsa. Film del genere sono interessanti e persino necessari, però per girarli devi avere dei contatti nell'esercito, forse anche nell'Agenzia - ed è gente preparata, magari non sono bravissimi a trovare Bin Laden, ma è indubbio che ai registi la sappiano raccontare. I giornalisti embedded sono inquadrati nell'esercito senza la possibilità di vedere le cose dal di fuori: non c'è scelta, l'unico modo di vedere la guerra è assumere il punto di vista di chi la fa. Allo stesso modo la Bigelow non può permettersi di mettere in dubbio la sua fonte. Col tempo forse scatta anche una specie di sindrome di Stoccolma: a forza di stare in mezzo ai soldati (o agli agenti CIA) non puoi che sviluppare un po' di simpatia per questi uomini rudi, per queste donne tutte d'un pezzo che lottano contro mille avversità per uno scopo, e se torturano qualche talebano nelle gabbie lo fanno comunque con professionalità e senza partecipazione emotiva, figurati, poi si sfogano vezzeggiando le scimmiette nella gabbia più piccola. Per la verità, da quel poco che sappiamo, i carcerieri sadici (e le carceriere) non sono affatto mancati; però la Bigelow non ce li mostra, non ha tempo. Deve raccontarci la storia di Maya, piccola grande Maya, che sola contro tutti e contro tutto riesce a trovare Bin Laden e poi - siccome ai suoi superiori alla fine sembra che non interessi più di tanto questo Bin Laden - pianta una grana infinita finché Obama non si decide a farlo ammazzare.
Maya, ha osservato qualcuno, a suo modo non è meno fanatica dei tizi che vuole eliminare. Sotto ai capelli rossi di Jessica Chastain (bravissima) è ancora e sempre il capitano Achab che non si darà pace finché la Balena Bianca non sarà catturata, e con la Balena tutto il dolore e tutto il terrorismo del mondo. Non ha un passato e, una volta liquidata la Balena, nemmeno un futuro; non si capisce nemmeno come possa far carriera, visto che l'unica cosa che ammette di saper fare è dare la caccia a Bin Laden, con risultati (per i primi nove anni) piuttosto frustranti. In un qualche modo, comunque, i compagni la rispettano e i superiori la temono, e lei va dritta per la sua strada finché la Storia non le dà ragione. Quella che vuole raccontarci la Bigelow, per sua stessa ammissione, è la success story di una persona che non tradisce la sua fede. "Tutti noi come esseri umani possiamo identificarci con il credere in qualcosa - crederci così tanto che non rimane nient'altro nella nostra vita" (tutti? Sul serio?) La narrazione americana procede per success stories: anche la biografia complessa di Lincoln deve essere bignamizzata da Spielberg in un singolo episodio in cui lui deve avere ragione e tutti gli altri torto, a onta di tante altre situazioni in cui gli altri acceleravano e lui frenava, e del chiaroscuro degli eventi precedenti e successivi. Alla fine della fiera Zero racconta la stessa storia dei film di ballerini da talent: devi credere fortissimo nel tuo successo finché si autoavvera; tutti i falliti che ti scorrono attorno non ci hanno creduto abbastanza forte.
Per una Maya testarda che cerca Bin Laden e alla fine incoccia nella pista giusta, chissà quanti agenti hanno continuato a brancolare per dieci anni nel buio, leggendo e rileggendo verbali di interrogatori tradotti alla carlona, bevendo caffè e mangiando ciambelle a spese del contribuente senza cavarci un ragno dal buco - ma la Bigelow ci mostra solo Maya, quell'una su mille che ce l'ha fatta. E ci mostra il mondo con gli occhi di Maya: un luogo pieno di maschi lenti che non vogliono convincersi che Maya ha ragione. Neanche quando un superiore glielo dice chiaro e tondo: Bin Laden è morto, o comunque chissenefrega di Bin Laden, il terrorismo è ovunque, le cellule si scambiano informazioni via internet... Maya non capisce, non può. Nemmeno per un istante l'attraversa il dubbio di essere una semplice pedina: trova intollerabile che una volta rintracciato il compound i dirigenti esitino a fiocinare la Balena. L'unica spiegazione che riesce a darsi (ed è l'unica che ci offre la Bigelow) e che vogliano essere assolutamente sicuri che quello sia proprio Bin Laden e non, poniamo, un trafficante di droga: sono rimasti traumatizzati dalla figuraccia di Colin Powell che mostrava delle foto di camion alle Nazioni Unite spergiurando di aver trovato le Armi di Distruzione di Massa in Iraq. Nemmeno il dubbio che ai piani alti non preferissero tenersi un Bin Laden anziano, stanco, tracciato, piuttosto di farlo fuori a rischio di scatenare rappresaglie e una prevedibile gara tra i successori per conquistarsi sul campo la carica di "Numero uno di Al Qaida". Nemmeno il sospetto che l'ordine finale non sia dovuto all'esasperazione di un direttore che non ne può più di vedersi Maya tutte le mattine che tiene il conto dei giorni col pennarello, ma a un presidente che magari comincia a pensare alla campagna per la rielezione. Niente. Un pezzo grosso saudita offre un'informazione fondamentale? Sarà senz'altro perché gli hanno offerto una Lamborghini, i sauditi sono tutti bambinoni viziati. Così almeno le fonti governative devono averla raccontata alla Bigelow, ma potrebbe anche essere andata diversamente: qualche pezzo grosso saudita potrebbe aver deciso che era il momento politico adatto per mollare l'osso, e la Lamborghini potrebbe essere stato un semplice lubrificante di una trattativa più complessa. Non è che ci voglia molto per farsi venire il dubbio, ma la Bigelow non sembra nutrirne, né ha l'aria di credere che ne debbano nutrire i suoi spettatori.
Solo in un fotogramma l'arcigna Maya si scioglie in un sorriso: quando un soldato, in attimo di relax alla vigilia della battaglia, ammette con un commilitone di essere convinto che Bin Laden c'è, soltanto perché ci crede lei, Maya, e in Maya lui confida. Lì tutto il femminismo della Bigelow si stacca come una concrezione calcarea, e sotto riusciamo a vedere ancora la fanciulla medievale che gode nel vedere il cavaliere pronto a morire per lei. Perlomeno io l'ho vista, ma forse è solo un problema mio eccetera.
Zero Dark Thirty è al Cinelandia di Borgo San Dalmazzo (ore 21). Buona visione.
"La bussola ti indica il nord, ma non ti mostra dove sono le paludi", dice più o meno Abraham Lincoln al leader radicale Thaddeus Stevens durante uno dei dialoghi che scandiscono il film. La frase sembra fatta apposta per essere citata, linkata, twittata all'infinito da un certo pubblico che temo sia quello che soprattutto Spielberg aveva in mente (dico "temo" perché ahimè, ne faccio parte): i progressisti moderati, liberal ma non troppo. Quelli che si incazzano con gli amici che votano Ingroia anche se su tanti argomenti starebbero molto più a sinistra di quanto starà mai qualsiasi Ingroia: la nostra bussola indica quel Nord, ma noi abbiamo anche una carta del territorio e sappiamo che in mezzo c'è un'enorme palude e che forse toccherà passare da Sud, attraversando Monti, forse addirittura Casini. Sono cose che succedono e ci fanno vergognare, ma di cosa, poi? Di avere cartine aggiornate?
Spielberg, come il migliore cinema americano, ha la bussola e ha la cartina: non dimentica il nobile ideale a cui tendere (l'abolizione della schiavitù) ma non si sottrae alla complessità del reale (bisogna comprar voti al Congresso uno scilipoti alla volta), anzi ci si tuffa con passione, restituendo agli spettatori una sintesi affascinante anche se, nel caso di Lincoln, più utile a discutere il presente che il passato a cui fa riferimento. Questo è un altro tratto tipico di Spielberg: se la Guerra dei Mondi parlava dell'11 settembre, Minority Report del Patriot Act, Lincoln potrebbe essere definito il primo biopic su Barack Obama. Tony Kushner, lo sceneggiatore di Angels in America e Munich, ha lavorato per più di tre anni, leggendosi scaffali di libri sul personaggio, per poi uscirsene con uno script in cui la first lady e la sua sarta nera (personaggio storico) assistono alle sedute del Congresso, una circostanza veramente poco probabile a metà Ottocento. Di fronte a invenzioni come queste, tanto più sleali quanto più il film sembra garantire la solita precisione filologica spielberghiana di Schindler's o del Soldato Ryan, il regista non ha trovato di meglio che affermare che una ricostruzione come Lincoln è da considerarsi "un sogno". La Storia americana ci mette gli arredi e i costumi, ma sotto barbette e giacche blu i protagonisti siamo sempre noi, sognanti noi stessi. All'inizio del film un pugno di soldati yankee bianchi e neri imbarazza Lincoln recitando un suo celebre discorso a memoria. Gli storici storcono il naso, i soldati della Guerra di Secessione erano perlopiù analfabeti ed è improbabile che cercassero sui giornali testi di discorsi scritti in piccolo per impararli nelle trincee, come i fans di Obama che li trovano su youtube. Ma nel sogno accadono queste cose: che i discorsi schiudano le porte e spezzino le catene, e che i cittadini le imparino a memoria per motivarsi mentre scannano i ribelli. Più tardi il film darà l'impressione di credere che un buon discorso a quattr'occhi di Abe "l'onesto" Lincoln a un deputato avversario possa riuscire dove non riesce l'offerta di incarichi e prebende. La parola è più forte della corruzione. Ci crediamo?
Gli americani ci credono, tanto che spesso si fanno governare dagli avvocati: dateci un podio, fateci leggere un’arringa, dicono gli avvocati Abe e Barack, e vi solleveremo il mondo (il fatto che sia Abe che Barack siano stati anche comandanti in capo, e il mondo lo abbiano cambiato più coi cannoni e i droni che con le chiacchiere, scivola in secondo piano). È una cosa di cui ci accorgiamo ogni volta che Obama fa un discorso ufficiale – qualche giorno fa per esempio ha giurato su un paio di bibbie per il re-insediamento, una formalità. Negli USA è anche uno spettacolo, Beyoncé ha cantato l’inno e tutti si sono arrabbiati perché era in playback, ma non è questo il punto. Il punto è che milioni di persone negli USA, nel mondo, persino in Italia, sono pronti a dare a un discorso formale un senso politico: c’è una diffusa convinzione che Obama cambi il mondo con le parole che dice, più con i droni che comanda. Alcuni si lamentano che in Italia non funzioni così: perché i nostri politici non fanno discorsi altrettanto belli e importanti? Tanto vale chiedersi perché non friggiamo il bacon e il baseball ci annoia, comunque dipende da fattori storici: la centralità del sermone nella cultura protestante, la diffidenza italiana per la retorica da cui il fascismo dovrebbe averci vaccinato, ma anche la difficoltà dell’italiano medio a mantenere l’attenzione per più di tre minuti, per cui delle infinite dirette di Santoro o Floris nelle conversazioni del giorno dopo resistono solo due o tre scambi di battute estemporanee.
Temo che uno spettatore italiano possa avere qualche difficoltà a capire cosa succede in Lincoln, un film dove Spielberg dà per scontate veramente troppe cose sul personaggio, il che non è da lui. A scuola non lo studiamo molto, gli anni intorno al 1860 sono già fin troppo ricchi di date e battaglie e trattati da memorizzare; già ci rammentiamo a malapena che i grigi sono gli schiavisti e i blu sono i buoni; ma il fatto per esempio che i Repubblicani siano per l’abolizione della schiavitù e i Democratici contrari ci fa girare la testa, sembra un mondo alla rovescia. Secondo una tendenza dei biopic moderni, il film preferisce concentrarsi su un periodo molto ristretto della vita del protagonista. Il risultato lo fa assomigliare, più che a un bell’affresco spielberghiano, al pilota di una miniserie televisiva di lusso, o se preferite a una season finale di West Wing in costume. L’episodio descritto risulta probabilmente sopravvalutato rispetto al contesto: si tratta della battaglia congressuale per far passare il Tredicesimo Emendamento, che abolisce formalmente la schiavitù su tutto il territorio dell’Unione. Se non fosse passato, gli Stati del Sud riammessi dopo la sconfitta avrebbero potuto reclamare gli schiavi che si erano emancipati durante la guerra, compresi quelli che avevano combattuto per anni con la giacca blu. Così almeno la pensa Lincoln, che come ogni politico è molto bravo a convincerci che la prossima battaglia è quella definitiva, quella più importante, quella da cui dipende il destino delle future generazioni. Gli storici sono un po’ più scettici: all’abolizione si sarebbe anche arrivati in altri modi, non è detto che il decisionismo di Lincoln (in altri casi molto più prudente) sia stato il metodo migliore. Ma questo comunque è il Nord che la bussola addita a Lincoln per tutto il film, mentre si destreggia nelle paludi del Campidoglio proprio come fa Obama quando scende a compromessi col demonio per far passare la riforma sanitaria o superare il Fiscal Cliff. Barack può stare sereno, Abe fece di peggio: mentre un suo pool di maneggioni corteggiava i senatori democratici a scadenza di mandato, lui si permise di allungare di qualche mese la guerra con un Sud in ginocchio per evitare che la pace cambiasse gli equilibri del Congresso, gravandosi la nobile coscienza di qualche migliaio di ragazzini morti in più. Ma se la tua bussola ti mostra il Nord giusto, non c’è palude che ti possa insozzare. In Italia diciamo semplicemente “il fine giustifica i mezzi”, e non ci facciamo un film sopra: un po’ perché non siamo capaci di scrivere un procedurale, un po’ perché da noi i guerriglieri parlamentari sono visti con diffidenza, sia quando acquistano scilipoti un tanto al chilo sia quando si riducono a precettare senatori a vita in fin di vita. Un’altra cosa di cui diffidiamo sono i politici che si affidano troppo spesso alle battute, anche se quelle di Berlusconi non si possono neanche lontanamente paragonare alle storielle da avvocato messe in bocca allo straordinario Daniel Day-Lewis.
Ma insomma il film vuole farci pensare – il film ha un disperato bisogno di farci pensare – che un presidente che sappia quel che è giusto non deve risparmiarsi a ottenerlo da riottosi organismi democratici, anche con metodi ai limiti della decenza e della legalità (solo “ai limiti”: Lincoln tecnicamente non corrompe, offre solo incarichi federali; non mente al Congresso, racconta solo verità parziali). Siccome il film non parla d’altro (dieci secondi di battaglia, qualche grana famigliare tutto sommato dimenticabile), siamo autorizzati a pensare che la grandezza di Lincoln consista in questo suo machiavellismo etico. Non è vero: Lincoln è stato molto altro che il film ha deciso di non mostrarci. Un presidente di guerra, da principio recalcitrante, e poi determinato a intestarsi uno dei più sanguinosi massacri della storia dell’umanità, il primo conflitto industriale con le trincee, la dinamite e le armi a ripetizione. Ma Spielberg preferisce mostrarcelo sbigottito davanti alle fosse comuni, indeciso se graziare un disertore. Thaddeus Stevens, il memorabile personaggio interpretato da Tommy Lee Jones, può essere scambiato dallo spettatore inesperto per un radicale di ultraminoranza: viceversa, da esponente di spicco della corrente maggioritaria tra i Repubblicani, si stava avviando a diventare il “dittatore” del Congresso nei primi anni della ricostruzione post-bellica. Ricostruzione che fallì, platealmente, nel tentativo di trasformare di punto in bianco gli schiavi delle piantagioni in cittadini elettori, forse anche a causa del radicalismo con cui Stevens e i suoi colleghi la portarono avanti. Il tentativo di imporre l’uguaglianza con le baionette federali portò alla nascita del Ku Klux Klan e alle leggi segregazioniste che per un altro secolo fecero degli afroamericani dei cittadini di serie B. Una palude che né Stevens né Lincoln avevano previsto. I due personaggi, pur simpatici e interpretati al meglio, non hanno la profondità di un autentico machiavelli come Oskar Schindler, ed è un peccato, soprattutto per l’impegno che ci ha messo anche stavolta Daniel Day-Lewis. Il suo Lincoln rimane un bravo avvocato e un simpatico conferenziere, con una vita privata non semplice e una vita pubblica sfibrante: un uomo leale, astuto, amabile eccetera eccetera, il presidente che molti americani vorrebbero, e infatti ce l’hanno.
Lincoln stasera è al cinema Fiamma di Cuneo (ore 21); al Cinelandia di Borgo San Dalmazzo (21:10), al Multisala Vittoria di Bra (21:00), al Multilanghe di Dogliani (21:05), al Cinecittà di Savigliano (21:30). Dura due ore e mezza.
Alla vigilia della guerra Civile il dottor Schultz (un Christopher Waltz di nuovo divertentissimo) si aggira per il Sud praticando questo mestiere di recente invenzione, il cacciatore di taglie. Django è lo schiavo che ha liberato perché lo aiuti a identificare una banda di criminali. Ma Django (Jamie Foxx) non è un "negro" qualunque, uno come lui ne nasce una volta su diecimila. Ogni volta che lo buttano a terra, risorge in una versione più cool. Dopo l'orgia citazionista di Kill Bill in parecchi lo avevamo dato per perso, Quentin Tarantino, nella sua cineteca di vhs sbiadite: avrebbe frullato per sempre tutto quello che gli veniva in mente per un pubblico che comunque dimostrava di mandare giù qualunque cosa. Abbiamo dovuto ricrederci con Inglourious Basterds, dove il regista ha messo a punto il congegno che ritroviamo perfettamente oliato nella lunga parte centrale di questo film: un'estenuante trappola per gli spettatori, che in Django hanno ancora meno digressioni e siparietti per tirare il fiato - per salvare la sua principessa l'eroe scende in un inferno vero, un luogo dal quale non si risale senza aver venduto un po' d'anima, dove ci attende un luciferino Leonardo Di Caprio e il suo terribile schiavo-patrigno (Samuel L. Jackson, micidiale). Se in Basterds ci ritrovavamo per qualche minuto a vivere il dissidio e la vergogna di un padre di famiglia che per salvarsi tradisce gli ebrei che ha nascosto, in Django dobbiamo reggere la vista di fuggitivi sbranati senza tradire un sentimento. Tutto questo, per qualche strana alchimia che Tarantino ha raggiunto dopo anni in cui non sembrava nemmeno provarci, capita ai personaggi sullo schermo, ma capita anche a noi sulla poltrona. Siamo cavalieri senza paura ma con moltissime macchie, dobbiamo scegliere con chi stare e il più simpatico spara alle spalle di mestiere (continua su +eventi). Si scherza anche, si ride persino, ma sempre con la mano alla fondina e il dito sulla sicura.
Chi pensa che in questi film Tarantino stia solo scherzando con le pagine più delicate della Storia, quasi sempre non li ha visti. Spike Lee per esempio Django non lo vuole vedere perché, cinguetta, lo schiavismo è stato “un olocausto”, non “uno spaghetti western di Sergio Leone”. Il solito equivoco, così protratto che alla fine chi va al cinema aspettandosi un semplice omaggio cinefilo ai vecchi spaghetti rischia di restare deluso. Senz’altro gli ultimi due film di Tarantino si prendono nei confronti della Storia delle libertà a cui non siamo più abituati. Sarebbe interessante capire il perché. Fino a qualche anno fa il West dei cacciatori di taglia, il Sud della Guerra Civile – ma anche la Seconda Guerra Mondiale – venivano usati tranquillamente come sfondi di canovacci per film dalla serie B alla Zeta. Poi la serie B ha chiuso bottega, sostituita dalla narrativa televisiva che non poteva che proporre contenuti meno disturbanti. Nel frattempo si imponeva il politically correct, e Spielberg (che coi nazisti cattivi da fumetto aveva giocato fino all’Arca perduta ) con Schindler’s List imponeva un approccio iperrealista documentario e didattico che purtroppo ha fatto scuola. Dico purtroppo perché non è affatto semplice essere documentari e didattici: per esempio quando ci ha provato Spike Lee, col Miracolo a Sant’Anna,ci siamo ritrovati i Buffalo Soldiers in gita in Garfagnana che si palleggiano teste di marmo come fossero basketball – Mr Lee, si fidi, era più profondo Sergio Leone.
Per una coincidenza troppo curiosa per esserlo davvero, anche Spielberg come Tarantino, dopo aver dedicato un capolavoro alla seconda guerra mondiale e allo sterminio degli ebrei, si è immediatamente rivolto al passato schiavista americano, con Amistad. È come se un olocausto richiamasse l’altro, come se, dopo aver accusato i nazisti, due registi così astronomicamente diversi avessero sentito entrambi la stessa necessità di scavare negli orrori di casa propria. Ovviamente Tarantino non è didattico, non è documentario, ovviamente pasticcia con antichi amori e nuove infatuazioni, Corbucci, il rap e la mitologia norrena, ovviamente strizza l’occhio ai suoi ammiratori storici (c’è la scena da feticista dei piedi? C’è). Nella sua fiaba infila dettagli storicamente inaccurati o non documentati (i duelli di mandinghi all’ultimo sangue). Ma Spike Lee dovrebbe stare tranquillo, se c’è un film che può aiutare spettatori di tutto il mondo a considerare lo schiavismo un olocausto, questo è Django. Tarantino si libera da qualsiasi catena di verosimiglianza e sceglie una via tutta sua, maturata guardando senz’altro gli spaghetti western ma trovandoci cose che, per sua ammissione, forse non ci sono. “Stavo scrivendo un libro su Sergio Corbucci, quando ho trovato un modo di raccontare la storia […] Stavo scrivendo di come i suoi film avessero questo selvaggio West malvagio, orribile. Era surreale, aveva molto a che fare col fascismo. Così stavo scrivendo questa cosa sull’argomento e ho pensato: non sono sicuro che Sergio ci stesse pensando mentre lo faceva. Ma so che io ci sto pensando adesso. E io posso farlo!” Che gli spaghetti-western fossero ancora posseduti dai fantasmi del fascismo e della Resistenza, è un’osservazione non così banale da parte di uno spettatore non italiano. Il tentativo di riattivare il meccanismo a trent’anni di distanza, usando un linguaggio di genere ormai in disuso per denunciare in modo surreale gli orrori dello schiavismo americano, sulla carta poteva sembrare un’operazione impossibile. Il punto è che a Tarantino ultimamente riescono film impossibili. Speriamo che duri.
Un appunto sul doppiaggio: anche Django, come Inglourious, è un film parlato, dove ogni personaggio ha un accento particolare tranne alcuni che ne hanno due o tre, e tutto questo doppiato in italiano va ovviamente a farsi fottere. Chi lo ha visto in versione originale non fa che lamentarsi del doppiaggio, quindi il consiglio è di non guastarsi il fegato e non vederlo in versione originale, tanto più che è distribuita in pochissime sale. Secondo me è meglio vederlo un po’ rovinato la prima volta, e poi goderselo la seconda, in dvd o altrove. Dico una cosa antipatica: le versioni originali non sono per tutti. Chi non ha abbastanza dimestichezza con l’inglese rischia di passare il tempo a leggersi i sottotitoli invece di guardare il film, e a quel punto saper distinguere l’accento del Texas da quello del Mississippi forse non è la priorità. Sì, il vero timbro di Leonardo Di Caprio è tutta un’altra cosa. Ma se ci pensate bene anche la solita vocetta doppiata da ragazzino, nei suoi panni di Giovin Signore del Sud, non è così sbagliata.
Django Unchainedè al cinema Fiamma di Cuneo (ore 21:10), al Cityplex di Alba (21:00), al Cinelandia di Borgo San Dalmazzo (20:30, 22:00), all’Impero di Bra (21:15), al Multilanghe di Dogliani (20:45), ai Portici di Fossano (21:30), al cinema Italia di Saluzzo (21:00) e al Cinecittà di Savigliano (21:30). Dura praticamente tre ore. Buona visione.
Muore Mariangela Melato (la meravigliosa, magnifica, Mariangela Melato) e sulla home di Repubblica compare, accanto ai coccodrilli del caso, il link tutto in maiuscolo: VIDEO: LA SCENA CULT . Siccome hai un debole per i culti, specie quelli che sembra che tutti condividano tranne te, clicchi, e ti trovi di fronte a una clip brevebreve in cui Giancarlo Giannini, dall'alto di una rupe (e di una trucida superiorità antropologico-culturale) le grida, testuale: M'HAIRROTTO LAMMINCHIA!
IO FACCIO QUELLO CHE STRATACAZZOMMI PARE!
TROIA!
MA CHI TI CREDI DI ESSERE!
MAVAFFANCULO, VA'!
Che per carità, forse può essere davvero un modo divertente, intelligente, e soprattutto non snob (bisogna stare sempre attenti a non sembrare snob) di ricordare una grandissima attrice. Mariangela Melato fu Medea, lavorò con Ronconi e Visconti, però se ce la ricordiamo tutti per i film della Wertmüller un motivo ci sarà.
A questo punto viene in mente che quando compì ottant'anni l'altra grandissima, bravissima protagonista del cinema italiano di quegli anni, Monica Vitti, una delle prime cose che si vide in tv fu un montaggio di tutte le botte che aveva preso nelle commedie all'italiana. Botte tremende, con rumori che oggi userebbe soltanto Neri Parenti, ammesso che Parenti faccia ancora dei film, non so, magari ha smesso. Qualche ceffone con lo schiocco se lo prese anche la Melato, d'altronde la commedia all'italiana funzionava così: mostrava l'Italia per quel che era, un posto dove le donne finivano all'ospedale. Ci finiscono ancora adesso che i registi preferiscono mostrare altre cose, quindi forse le cose non sono così migliorate. Anche se, forse.
Forse il punto non è tanto che in Amore mio aiutami Alberto Sordi si vanti delle costole che è riuscito a incrinare alla moglie (anche se non è vero che mandò la controfigura Fiorella Mannoia in ospedale). O che Giannini in Travolti da un insolito destino violenti la sua datrice di lavoro. Il fatto è che entrambi i film sono congegnati in modo da stimolare la complicità dello spettatore - almeno dello spettatore maschio. Quando a metà del film Sordi chiude il pugno e decide di passare alle maniere forti, è come se quel pugno glielo piegasse telepaticamente lo spettatore, che ha visto la Vitti rendersi sempre più insopportabile e non la regge più, Quella lì ha scassato la minchia. Quando Giannini urla il suo proclama, siamo tutti con lui, finalmente qualcuno ha il coraggio di dire a voce alta cosa pensa delle insopportabili borghesi di Milano: troie. E scatta il cult. È lo stesso fenomeno che ha fatto sì che la frase più famosa degli ultimi trent'anni di cinema italiano (almeno in Italia) sia diventata La corazzata Potiemkin è una cagata pazzesca. Non è vero (d'altro canto chi l'ha mai vista, la corazzata in questione, da Fantozzi in poi nessuno ha sentito la necessità di verificare), ma dirlo era tantissimo liberatorio, e il sospetto è che i nostri padri andassero al cinema soprattutto a fare questo: a liberarsi. Un'esigenza tra il fisico e il morale che oggi si sfoga attraverso altre valvole, se siamo incazzati con Berlusconi o Monti o le donne fedifraghe e arroganti che non sanno stare al loro posto gliene diciamo quattro su twitter o facebook e poi stiamo subito meglio. Forse i cinema, quando erano pieni, erano pieni di gente che non avrebbe mai menato la moglie, ma che a vedere una donna menata, giustamente menata, si metteva di buon umore. Con l'alibi della commedia, del paradosso, della critica sociale eccetera.
È morta Mariangela Melato, e la scena a cui tutti pensano, la scena "cult", è quella in cui si sente dare della troia. Un ruolo come un altro in fin dei conti; e poi che senso ha prendersela, gli attori interpretano quello che la gente vuole. Si sarebbe probabilmente meritata film migliori, qualche ruolo meno macchiettistico, e un pubblico meno finto-progressista, meno intimamente devoto al culto del ceffone. Ma è un rimpianto senza senso, ognuno vive la vita che può, recita al meglio i copioni che la vita gli offre. Meglio di Mariangela Melato, qui da noi negli ultimi trenta o quarant'anni, poche. Forse nessuna.
Cloud Atlas(Andy e Lana Wachowski, Tom Tykwer, 2011).
Hugo Weaving, avete presente? No. L'agente Smith, il cattivo di Matrix, precisamente, ecco, non è stato formattato, ma ha infettato la memoria fissa di quattro secoli. È diventato un negriero sudista nell'Ottocento, ma anche un killer californiano negli anni Settanta, e una sadica infermiera in un ospizio scozzese nel 2012. Condanna a morte i cloni che a NeoSeul, nel 2144, non vogliono più servire ai tavoli
Siamo nei mari del sud. Ma anche a Edimburgo nel 1936. Halle Berry, nel 1973, sta lavorando a un'inchiesta su una centrale nucleare malfunzionante, e invece dell'ingegnere Jack Lemmon incontra l'ingegnere Tom Hanks che però muore in circostanze misteriose ma è in circolazione 40 anni dopo sotto forma di scrittore burino che lancia i critici dai grattacieli. Siamo a Neo Seul nel 2144, i cloni servono ai tavoli. Siamo alle Hawaii, in un futuro alla Mad Max ma sempre con Tom Hanks e Halle Berry, quanto mi mancavano quelle preistorie all'ombra di rottami tecnologici, perché non ne fanno più? Perché non ne fanno di più? Siamo di nuovo nel 2012, e prima di andare a vedere Cloud Atlas dobbiamo verificare di avere tre ore e di essere gli spettatori adatti. Altrimenti rischiamo di addormentarci o innervosirci molto, e scrivere recensioni che ci sarebbe da buttarci dai grattacieli. Amare i film di fantascienza o d'azione non è una garanzia: metà del film non è ambientato nel futuro, non ci sono sparatorie ma compositori omosessuali disperati, pensionati in fuga dall'ospizio, ciurme ubriache. Io credo comunque di aver messo a punto il test ideale per Capire Se Sei Lo Spettatore Adatto. Una sola domanda, semplicissima, di quattro lettere: Lost?
No, sul serio, se ti dico Lost, come reagisci? Non ti piaceva, non lo hai mai visto? Lascia perdere Cloud Atlas. Ti piaceva finché non è diventato una baracconata? Lascia perdere Cloud Atlas. Ti è piaciuto quasi fino alla fine, ti sei bevuto con piacere anche le puntate ambientate nel Seicento o in Mesopotamia, non hai cambiato canale neanche quando personaggi invisibili hanno ordinato di spostare l'isola di qua e di là nel tempo e nello spazio? e mentre lo guardavi imploravi dio, ma più spesso gli sceneggiatori, di dare un ordine, un filo, un senso a ogni cosa? Forse sei lo spettatore adatto a Cloud Atlas. Non dico che ti piacerà come Lost - è troppo breve per dare quella forma di dipendenza - ma non ti deluderà nemmeno come le ultimissime puntate di Lost, quelle in cui gli sceneggiatori gridano: "Guardate i personaggi!" e intanto scappano con la grana. Per quanto ambizioso, con la sua struttura a sei piani, e non sempre definito nei dettagli, L'Atlante delle Nuvole non lascia alla fine quel senso dolciastro di fregatura. Un senso ce l'ha, una direzione dove andare a parare era prevista.
In certi momenti guardare Cloud Atlas è come sfogliare in piedi un fumetto in libreria (continua su +eventi): se non vi è mai capitato, forse è meglio che giriate alla larga. Se invece siete di quelli che cominciano a sfogliare per vedere se la storia vale la pena; a cui capita di trovarsi nel giro di pochi secondi immersi in una mezza dozzina di mondi diversi, genealogie di eroi che si incontrano e scontrano, roba da perdersi, ma stranamente non vi perdete, anzi riuscite a seguire tutto e dopo un po' la storia è finita, e state già dando un'occhiata per vedere se c'è un secondo volume; se siete quel tipo di lettori, varrà la pena anche dare un'occhiata a Cloud Atlas. Ci vuole una certa abilità, per seguire trame che si snodano rapide e tutt'altro che lineari - ma anche una gran disponibilità a farsela raccontare da affabulatori non convenzionali. Vale la pena giusto per ottenere la conferma: i Wachowski sono fumettisti. È da lì che vengono, forse è lì che dovrebbero tornare, dove gli unici limiti alla fantasia sono le chine e gli inchiostri e il formato delle tavole. Fare cinema dev'essere frustrante, quando dare forma a una semplice idea può costare milioni di dollari e gli spettatori pretendono di capire tutto alla prima visione. Mi ricordo un personaggio di Matrix 3 che a un certo punto lo dice proprio in faccia a Morpheus: "Mi dispiace che non ci sia una spiegazione semplice per questo". Un modo educato per dire Hollywood fottiti.
Cloud Atlas in effetti non è passato per Hollywood, lo chiamano "film indipendente" anche se c'è un cast un po' stagionato ma da grandi occasioni (Hugh Grant, Susan Sarandon, Jim Broadbent, Jim Sturgess, Zhou Xun nuda) ed è costato cento milioni di dollari. In realtà è un blockbuster - però tedesco: il primo kolossal della cinematografia federale tedesca. Tre episodi su sei non sono girati dai Wachowski (che avevano comprato i diritti del libro dopo che Natalia Portman lo aveva fatto leggere a Lana sul set di V per Vendetta) ma da Tom Tykwer, il regista di Lola corre e Profumo, che per non far notare troppo la differenza mette una pistola in mano a Hugo Weaving e poi gli fa inseguire i buoni per le strade di San Francisco e per un attimo sembra che Matrix abbia infettato Starsky e Hutch. Però non è un film pretenzioso. O meglio. Una volta accettata l'ambiziosissima pretesa iniziale - offrire in tre ore la versione cinematografica di un romanzo ambientato in sei luoghi e tempi diversi - Tykwer e i Wachowski non si fanno prendere da nessuna ansia esplicativa, riducono gli spiegoni al minimo necessario, e portano a casa un film che possiamo guardarci d'un fiato anche se per due ore non abbiamo la minima idea di dove andrà a parare. La differenza, come in Lost, la fanno i personaggi (e gli interpreti): per quanto poco li vediamo sulla scena, ci affezioniamo abbastanza presto e restiamo fino alla fine curiosi del loro destino. Un sacco di cose ovviamente sfuggono, tanti dettagli meriterebbero una seconda visione, o addirittura il recupero del libro: però bisogna ammettere che date le condizioni di partenza gli autori sono stati onesti, si capisce che hanno tagliato tante cose e hanno privilegiato l'azione sulla filosofia. Non era scontato.
I Wachowski, a ogni film che scrivono, fondano una religione. Con Matrix riuscirono a riportare in voga la gnosi, non accadeva da una ventina di secoli. V per vendetta ha fatto arrabbiare Alan Moore (autore del fumetto originale) ma ha fornito ad anonymous e grillini una specie di manifesto, ideologicamente ambiguo quanto basta per trovarci tutto e il contrario di tutto. Quando ho visto il trailer di Cloud Atlas mi sono detto: l'hanno fatto di nuovo, stavolta hanno scoperto la metempsicosi. Bisogna dire che avevo appena visto the Master, dove la reincarnazione è una favola per spillare denaro alle vecchie ereditiere: ma anche ai nerd - e Dianetics nacque nei circoli di appassionati di fantascienza, non scordiamocelo - ecco, i nerd che dieci anni fa si bevevano la filosofia gnostica di Matrix mi sembrano pronti per cominciare a immaginare le loro vite precedenti e future: sono a quello snodo esistenziale e anagrafico in cui l'insofferenza per il proprio destino, se coltivata, può trasformarsi in allucinazione. Se c'era qualcuno in grado di piazzare a milioni di gonzi un film mistico sulla reincarnazione, quelli erano i Wachowski. Ma non l'hanno fatto; gli interessava di più raccontare una bella storia, anzi sei. L'argomento metempsicosi è liquidato con qualche battuta (ogni tanto due personaggi si domandano se non si sono già visti), e soprattutto è delegato ai trucchi e ai parrucchi. Che sono l'aspetto più discutibile del film: non solo perché se nell'episodio coreano monti gli occhi a mandorla sul faccione di Weaving qualche associazione antirazzista protesta formalmente, ma perché nell'episodio dell'ospizio ce lo troviamo truccato da infermiera e mi dispiace tanto, ma non è credibile: come il Tom Hanks scrittore pugile o Zhou Xun fanciulla del west, precipitiamo a livelli filodrammatici ed è un peccato. Ma alla fine è un peccato veniale perché chi rimane a vedere Cloud Atlas ha sospeso gran parte della sua incredulità: ha la stessa voglia di immergersi nella storia del ragazzino che sfoglia fumetti in piedi, o dei bambini intorno al fuoco, che chiedono una storia al vecchio del villaggio. Con tutta la sua complessità stratificata, con la sua filosofia di fondo che si può sintetizzare in Volemose Bene, Cloud Atlas non smette neanche per un istante di essere una favola per bambini che hanno voglia di stare alzati e di viaggiare un po' tra i mondi. Se ne avete voglia; in caso contrario, tenetevi decisamente alla larga da Cloud Atlas.
Cloud Atlas a Cuneo non c'è, in compenso dilaga in provincia: Al Cityplex di Alba (ore 21), al Cinelandia di Borgo San Dalmazzo (ore 21 e 22, in quest'ultimo caso uscite all'una), al Vittoria di Bra (ore 21), al Bertola di Mondovì (ore 21), all'Italia di Saluzzo (ore 21) e al Cinecittà di Savigliano. Tenete conto che dura tre ore.
Posto che Benigni è un grande artista, e che lo sarebbe anche se non riuscisse a calamitare il 40% di share con niente più che una lezione frontale sulla Costituzione, vorrei provare a spiegare perché ieri sera io non sono riuscito a guardarlo più di qualche minuto - un fenomeno per nulla eccezionale, ma ultimamente c'è twitter che rende più visibili minoranze fino a ieri poco interessanti, ad esempio quelli che in teoria rientrerebbero nel target degli estimatori di Benigni (over 40 "de sinistra") e invece non lo sopportano; magari con tanto affetto per quando bestemmiava e inneggiava al corpo sciolto, ma è successo secoli fa. E poi c'è un'altra minoranza curiosa, ovvero quelli che non se ne capacitano: non capiscono come si possa malsopportare un genio come Benigni che fa il 40 di share parlando di una cosa come la costituzione. Al punto di scomodare il demone dell'Invidia: saremmo tutti Invidiosi, ecco perché non riusciamo più a guardare Benigni e goderne come ne godono vecchi e bambini. L'Invidia ci ha rosicchiato il cuore. Il che tra l'altro è vero.
Almeno nel mio caso: certo che invidio Roberto Benigni, mi sembra il minimo. Ha fatto di tutto, compresi i milioni; ha vinto un Oscar; ma soprattutto riempie le piazze spiegando Dante, io giusto stamattina spiegavo Dante e me ne accorgevo da solo che non sono altrettanto bravo. Me ne accorgevo per esempio perché sul più bello, con il conte Ugolino chiuso nell'orribil torre che sente inchiodare l'uscio, c'è sempre qualcuno che chiede di andare in bagno. Ci fosse al mio posto Roberto Benigni sono sicuro che non succederebbe, nessuno oserebbe perdersi la scena in cui si morde le mani e i figli gli propongono di addentare piuttosto le loro misere carni: se la farebbero addosso sul posto per sapere se alla fine li mangia o no. Quindi l'Invidia c'è, e gioca un ruolo. Ma non credo che sia decisiva.
Anche perché se invidiassi tutte le cose che non mi piacciono più... per esempio ieri sera a un certo punto ho cambiato canale e mi sono reso conto che Italia1 controprogrammava V per Vendetta, una scelta tanto sottile che forse è casuale: al campione dei democratici progressisti, Roberto Benigni, il settore giovanile mediaset opponeva il campione degli anarco-antipolitici grillini, il V con la maschera di Guy Fawkes. In effetti se avete l'età per apprezzare Benigni magari neanche sapete chi è 'sto V... ma la maschera l'avete vista in giro senz'altro, ecco: pochi film negli ultimi anni si sono infilati nell'immaginario collettivo occidentale come questo, che come sempre in questi casi non è nemmeno un gran film... eppure evidentemente funziona. Proprio come Benigni, a un certo punto bisogna arrendersi: toccano le corde giuste, corde che tu non sai toccare e forse nemmeno vedere, ma ci sono e fanno vibrare per simpatia milioni di persone.
Ora io ho un problema. Forse faccio parte di una generazione di mezzo. Forse sono io che sono sempre stato in mezzo. Questa cosa ormai mi si ritorce contro nel momento in cui mi rendo conto che non solo non riesco più a guardare Benigni, che è bravo per carità... ma neanche Natalie Portman che prepara il funerale vichingo a V: neanche lei riesco più a prendere sul serio. Sarà il doppiaggio, i troppi break pubblicitari, ma mi sembra un'autoparodia; quando lui le dice "sto morendo" e lei una cosa del tipo "no, non puoi lasciarci adesso" istintivo mi ricorre Supergiovane che piange Catoblepa, o rido o cambio canale, e questo cosa vorrebbe dire? Che invidio Natalie Portman? Che non sopporto che sia più bella di me, o in generale più brava a recitare? Può anche darsi ma forse il problema è un altro.
Il problema è che vedo due generazioni l'una contro l'altra armate, e non so scegliere: stare in mezzo non si può ma soprattutto non è la mia posizione. Per stare in mezzo bisogna apprezzare e comprendere gli uni e gli altri e invece è il contrario: non li capisco e non li apprezzo entrambi. La generazione che si beve con entusiasmo una lezione frontale di due ore sulla costituzione "più bella del mondo" ha un'età media di 55 anni, chi ha preso sul serio il messaggio politico di V per Vendetta difficilmente ha superato i 30. Non credo che siano in grado di capirsi: già Benigni è indigesto per me, dopo di me vengono i barbari baricchiani, gente fisicamente incapace di restare immobile davanti a uno schermo se sullo schermo c'è un tizio che parla per due ore. E lo so che c'è qualcosa di commovente in questa resistenza della parola sull'immagine, del discorso sul montaggio serrato: ma so anche che non può durare. Certo, siamo in Italia, Benigni ha ancora 15 anni a disposizione per entusiasmare il suo pubblico e, quel che più importa, è quello il pubblico che ti fa vincere le elezioni. Ma ti fa vincere anche Sanremo, se per una volta in mezzo ai vari concorrenti di Talent si presenta un Vecchioni. Lo stesso Renzi, nei suoi comizi, mi sembra segua ancora strategie retoriche simili a quelle messe in atto da Benigni: la dialettica tra rottamabili e rottamatori è tutta interna all'insieme di gente che ieri sera si poteva guardare lo spettacolo sulla Costituzione. E che V per Vendetta non sa cosa sia: roba per ragazzini, un film d'azione con un tizio mascherato che rotea coltelli al ralenti, un Matrix aggiornato all'epoca della paranoia sulla febbre aviaria.
V per Vendetta è tutto ciò, ma è anche un oggetto più complesso. Lasciamo perdere le nobili origini (all'inizio era un fumetto di uno dei geni letterari ahimè del secolo scorso, Alan Moore, nato dall'inquietudine di quel decennio che adesso invece sembra essere stato tutto giocoso e colorato, gli anni Ottanta: chi li ha vissuti lo sa, quanto invece si prestassero bene a fantasie di apocalisse). Moore questo film non l'ha mai voluto, già lo script dei fratelli Wachowski (gli stessi di Matrix) non gli piaceva. Per guardarlo bisogna davvero scordarsi il fumetto, così come probabilmente per apprezzare la lezione di Benigni bisogna temporaneamente dimenticare eventuali mesi trascorsi a studiare diritto costituzionale. Come nel caso di Matrix, è molto difficile per me capire cosa abbia reso proprio questi due film d'azione due testi sacri, fonti di ispirazione filosofica, esistenziale, addirittura politica per tanti membri di una generazione alla quale evidentemente non appartengo. Mi è solo chiaro che i Wachowski ragionano per immagini, molto più di quanto lo facesse un autore già visionario come Moore. E che nella costruzione del loro linguaggio visivo non si vergognano minimamente di riutilizzare immagini (ma anche discorsi) che la mia sensibilità 'vecchia' rifiuta immediatamente come banali, scontati, risaputi, kitsch; se il mio senso estetico avesse una spia sonora, questa bipperebbe in continuazione: pericolo kitsch / attenzione! populismo da due soldi in avvicinamento / procedere con prudenza, qualcuno sta trasformando i totalitarismi del Novecento in cattivi da operetta / stooop! qui usano un terrorista come deus ex machina, invertire la marcia immediatamente!!!! / warnung, dietro l'angolo stuprano Orwell per due spicci. E così via.
Ma questo significa semplicemente che la mia sensibilità non riesce ad aggiornarsi, perché V per Vendetta funziona, porta migliaia di persone in piazza in tutto il mondo. Quelle che io interpreto come continue cadute di stile fanno parte di una strategia retorica che non riesco a cogliere, trasmessa su una frequenza che le mie antenne non captano, ma d'altro canto già in Matrix quando chiedevano di scegliere la pillolina blu o quella rossa io ridevo e pensavo soltanto ad Alice nel Paese delle Meraviglie e mi stavo perdendo la metafora più potente dei tardi anni Novanta. E non c'è niente da fare, in V riesco a vedere solo un film d'azione con ralenti e dialoghi stucchevoli, allo stesso modo come in due ore di Benigni riesco solo a vedere un insegnante di mezza età che cerca di fare il simpaticone, e ci riesce per carità, ma non viene anche a voi voglia di alzare la mano e fare una qualsiasi domanda stupida, prof ma quale giuria esattamente ha deciso che la nostra costituzione era "la più bella del mondo", e quando è successo? Perché nascono nazioni nuove tutti gli anni, chissà se il Sud Sudan non ne abbia una più bella della nostra; probabilmente no ma qualcuno si è preso la briga di leggerla e fare un confronto? E poi, prof, il fatto che sia la più bella, e il fatto che sia anche la meno applicata; non le è mai venuto in mente di collegare le due cose? Ma anche più semplicemente
posso andare in bagno?
Che è un messaggio che secondo me li contiene tutti: i ragazzi, è una delle poche cose che ho imparato negli ultimi anni, protestano con la vescica. È l'unico strumento che gli consente di controbattere alla retorica degli adulti, dei professionisti.
Ecco, se c'è qualcosa che hanno in comune, V e Benigni, è che non ti autorizzano ad andare in bagno: devi guardarli con un'adeguata partecipazione emotiva, ridere quanto ti viene chiesto di ridere, piangere quando si toccano i tasti del pianto: e niente battutine. Sono due spettacoli del tutto privi di ironia. Benigni non è mai stato molto ironico, anche quando faceva il comico mi sembra che ricorresse all'ironia solo occasionalmente, magari con il tocco del maestro. Da quando è salito in cattedra anche queste brevi frecciate sono sparite; l'approccio che Benigni adopera con Dante o con la Costituzione è sempre estremamente empatico: ed è poi questo che mi rende faticoso restare a lungo sul suo canale. Non è una questione di contenuti, sempre abbassati il più possibile, ma avete fatto caso al tono? È una specie di musica ossessiva, la voce di un tizio che ti invita continuamente a commuoverti, ma lo capisci che ti sto dicendo qualcosa di commovente, ma lo capisci che ti sto spiegando qualcosa di nobile, di grande, come la costituzione scritta dai nostri nonni, ma lo capisci che te lo sto spiegando con parole semplici, e che anche questo è nobile e grande, ma lo capisci che mentre ne parlo mi commuovo io stesso, ma lo capisci, e allora perché non ti commuovi, ma lo capisci, ma lo capisci, ma perché non piangi? se non piangi adesso, ma di cosa? e piangi su.
"Prof, posso andare in bagno?"
No adesso tu piangi.
"Preferirei piangere in bagno".
Non mi fido piangi qui.
"Ma non è un po' anticostituzionale questa cosa?"
Allora cambi canale e c'è V coi suoi discorsi bisbigliati sotto la maschera, ma ti viene il dubbio che anche lui, con molta più azione e molte meno parole, voglia solo farti piangere o ridere a comando; la sua grande idea di palingenesi rivoluzionaria consiste nel fare esplodere il Parlamento dopodiché la Gente festeggerà e si autogovernerà; buffo, se la terrorizzi con le epidemie la stessa Gente va in confusione e vota i fascisti cattivi; invece se gli fai saltare in aria il parlamento la Gente si sveeeeeegliaaaa!!!11! capisce e festeggia. E io resto in mezzo, un po' perplesso. Da una parte vedo la civiltà dei Benigni, dei Bei Discorsi, dei Padri Nobili, che ha ancora un buon decennio davanti, ma poi inevitabilmente sfumerà. Dall'altra arriva una generazione che si esalta per cose che non riesco a capire. Ci penso e mi sento un peso dentro.
Giovedì è uscito Lo Hobbit: un viaggio inaspettato, di Peter Jackson. Jackson è il regista neozelandese che più o meno dieci anni fa è riuscito nell'impresa impossibile di trasformare in cinema Il Signore degli Anelli, la trilogia fantasy di J. R. R. Tolkien. Una cosa che o la ami o la odi, e se la odi hai già smesso di leggere alla seconda riga e quindi non c'è bisogno di spiegarti che Lo Hobbit è un romanzo che racconta fatti precedenti alla trilogia, scritto da Tolkien vent'anni prima in uno stile molto diverso. Per farla breve: mentre Il Signore degli Anelli è una saga finto-celtica composta a tavolino da un affermato professore di inglese medievale, Lo Hobbit è una favola scritta da un papà per i suoi bambini. Così, anche se alcuni personaggi sono gli stessi (il mago Gandalf, il mostriciattolo Gollum), il mondo in cui si muovono ha tutt'altra consistenza.
Mettiamola così: quando leggi lo Hobbit, a qualsiasi età, torni come un bambino davanti a un grande libro di fiabe con nani e draghi, e Gandalf ti sembra un grande mago onnipotente; se riapri Il Signore degli Anelli ridiventi per un attimo adolescente, ma sul serio: se non sei lesto a chiuderlo ti rispuntano i brufoli e coi brufoli si rifanno vive certe ossessioni da nerd come imparare l'alfabeto runico e la cronologia della Terza Era, mentre lo stesso Gandalf ti sembra un mago, sì, potentissimo, non c'è dubbio, però in certi tratti piuttosto discutibile, e poi cos'è questa storia che vuol sempre aver ragione lui, certe decisioni andrebbero prese all'unanimità, Occupy Terra di Mezzo! Sarebbe interessante verificare se Jackson, il cui profondo amore per Tolkien e le sue creature è fuori discussione, sia riuscito a rispettare questo approccio diverso: da quello che ho letto, e soprattutto dai trailer, mi pare di no. La semplice scelta di dividere lo Hobbit in tre parti, e di farne insomma una saga della stessa durata del Signore degli Anelli, mi sembra che tradisca il proposito di dare al pubblico, e soprattutto agli adolescenti brufolosi, ciò che gli adolescenti brufolosi vogliono, e cioè saghe, saghe, saghe. Però questi sono pregiudizi: per verificarli dovrei come minimo andare al cinema e dare un'occhiata, ma (il pezzo continua su +eventi! Sarà un grande 2013, almeno a Cuneo e provincia) non ne ho tanta voglia.
Non è una questione di durata - anche se centosessanta minuti, alla mia età, non sono mica sicuro di reggerli ancora; e pensare che siamo soltanto alla prima parte di tre - alla fine sarà uno dei rari casi in cui ci si mette più tempo a guardare il film che a leggere il libro (un altro caso: Eyes Wide Shut vs Doppio Sogno). È che me la sono un po' legata al dito con Jackson, per quello che ha fatto al mio Signore degli Anelli. Lo ha distrutto. Con tanto amore, per carità, tanta dedizione, tanta filologia, e tuttavia lo ha fatto fuori, non esiste più, e ancora non me ne sono fatta una ragione.
Sia chiaro, non credo che gli amanti di Tolkien potessero ragionevolmente aspettarsi una riduzione cinematografica migliore della sua. Non si tratta solo di fedeltà al testo: se è per questo di tradimenti ce ne sono, e parecchi. Ma è un film realizzato con molto amore, e l’amore si vede anche nei tradimenti.
Il guaio forse è proprio che è stato realizzato fin troppo bene. Senza scomodare scenografie ed effetti speciali, pensate solo al casting. Frodo èFrodo, Bilbo èBilbo, Gollum èGollum. A un decennio di distanza mi sembra di avere sempre immaginato gli hobbit coi volti dei loro attori, tanto bene sono stati scelti. Eppure, quando ancora il film non c’era, io devo aver avuto un altro Gollum in mente. Ma com’era fatto il mio Gollum? Non me lo ricordo più. Il Gollum del film si è perfettamente sovrapposto a quello della mia immaginazione.
Vale per quasi tutti i personaggi: elfi, nani, uomini: che volto avevo dato a Galadriel? Troppo tardi. Ormai ha quel nasone. E mi sembra che non potrebbe avere mai avere avuto un naso diverso. L’immaginazione è una cosa fluttuante, ma ora i volti degli elfi e dei nani sono fissati per sempre. Tutto quel che riesco a ricordare è che Aragorn, per me, doveva essere sbarbato. Un’idea abbastanza stupida: è chiaro che Jackson a queste cose ci ha pensato molto più, e ha preso le decisioni giuste - peraltro ha capito che grande attore fosse Viggo Mortensen molto prima di chiunque (anche di Viggo Mortensen). Ma allora è questo il Cinema? Delegare la propria fantasia a dei professionisti?
Prendi il ragno gigante, Shelob. Si può immaginare qualcosa di più orrido di Shelob? Anche nella mia immaginazione, avevo probabilmente lavorato di chiaroscuro. Ma Jackson fa cinema, e il cinema è l’arte delle luci. Se c’è Shelob, lui ce la deve mostrare tutta. La sensazione di trovarsi sotto l’addome di Shelob è qualcosa da provare, se non siete cardiopatici: ma per quanto possa essere ben realizzato e credibile, un mostro cinematografico resta un mostro cinematografico, parente di Gozzilla e King Kong. Può fare schifo, e in effetti ne fa parecchio, ma una volta messo totalmente in luce, non fa più veramente paura. Ed ecco un altro pezzo della mia fantasia che s’invola: l’orrore per Shelob.
Più infernale di Shelob, c’era solo (mi sembrava di ricordare) la lenta agonia di Frodo verso Monte Fato. Gli inganni di Gollum, l’angoscia di Sam. E tutto questo nel film c’è. Pensavo che fosse la parte più mistica del libro, che altrimenti sarebbe solo una lunga fiaba dove il Bene vince contro il Male. Mentre inventando l’anello, e mettendolo al collo di una creatura fragile ma determinata, Tolkien rendeva tutto molto più interessante: l’idea del male come fardello da portare con sé, il percorso di purificazione, il tradimento sempre in agguato (sia di sé stessi che degli altri), e un sacco di altre cose.
E tutto queste cose, nel film, c’erano? Insomma. Forse c’erano, ma – naturalmente – un po’ semplificate. O no?
Su qualche mensola devo avere ancora il megatascabile Rusconi (Rusconi era l’ex funzionario Rizzoli che pubblicava le cose un po' imbarazzanti per il prestigioso gruppo editoriale: i pettegolezzi sui Savoia e il Signore degli Anelli).Vado a riguardare le pagine. No, non è colpa del cinema. Il libro la fa abbastanza semplice: Sam, Frodo e Gollum si fanno strada verso il monte Fato. Ero io che tendevo a farla complicata. Perché dopo aver letto il libro, secoli fa, avevo continuato a fantasticarci su, e crescendo la fantasia era cresciuta con me: avevo trasformato l’Anello in un simbolo dell’ambizione, dell’invidia, perfino della dipendenza. Tutte belle cose, che forse J.R.R. Tolkien aveva previsto; ma non erano nel libro: erano nello spazio tra il libro e la mia immaginazione.
In questo spazio delicato, soggetto a periodiche scosse di assestamento, ora è passato il bulldozer di Jackson. Niente sarà come prima.
Tutto, in compenso, sarà più colorato (perché Jackson ha più colori di quanti avrei potuto mettercene io), più luminoso, persino più filologicamente corretto: ma non cambierà più. Frodo sarà sempre quel Frodo. E sarà uguale a quello di chiunque altro abbia visto il film. E abbiamo tutti visto il film.
Pazienza, almeno io so di avere avuto un tempo un mio Frodo che era diverso, so di avere avuto una mia immaginazione, anche se non riesco più a ricordarla - ma i bambini? Quelli che guarderanno il film prima di leggere il libro? Per loro il lavoro di fantasia è finito ancora prima di cominciare. Ecco, l'idea che i bambini vadano a vedere il film, proprio questo film, prima di leggere il libro, mi sembra uno sterminio di fantasia di massa. Commesso con le migliori intenzioni del mondo, da un regista che ama e rispetta Tolkien molto più di quanto lo ami e lo rispetti io, e tuttavia secondo me non dovrebbe avere il diritto di dare per sempre una faccia a Bilbo Baggins. La faccia a Bilbo Baggins gliela dovrebbero dare i bambini. Andate pure a vedere lo Hobbit, voi. Ma i bambini lasciateli a casa, fate loro questo favore (tanto più che non è detto che li reggano nemmeno loro, centosessanta minuti. Quanti popcorn può ingerire un novenne in centosessanta minuti? Vale la pena di fare l'esperimento?)
Lo Hobbit: un viaggio inaspettato questa settimana è al cinema Fiamma nella versione in 2d (senza occhialini). In provincia lo trovate in 3d al Cityplex di Alba, al Cinelandia di Borgo San Dalmazzo, al Multisala Vittoria di Bra e al Multilanghe di Dogliani; in versione 2d ai Portici di Fossano, al Bertola di Mondovì, all'Italia di Saluzzo; al Cinecittà di Savigliano. Buona visione.
(È un pezzo del 2007. Non aggiungo più niente, ho già scritto troppo).
Stasera non avrei scritto niente, se non che prima di coricarmi, passando davanti allo specchio, ho visto la faccia di uno che ha scampato le Diaz per pura botta di culo.
Siccome un pensiero tira l'altro, mi sono anche domandato che faccia avrei. Un po' più sbattuta di certo: magari un dente in meno (qualcuno lasciò un dente sulle scale). Forse più calvo, chi lo sa, più rugoso e interessante. Io non voglio passare per un reduce – è ridicolo, Genova furono tre giorni – però capisco perfettamente la gente che va in guerra, la scampa e poi si sente in colpa per tutta la vita. È un senso di colpa strano, misto a una curiosa invidia, e alla voglia di contar balle ai ragazzini al bar.
Io alle Diaz in quel momento avrei voluto esserci. Nel senso che avevo una gran voglia di andarci, venti minuti prima che le Diaz passassero alla Storia. Suona buffo, ma era tutta una questione di blog. Volevo aggiornare il blog, che poi era un modo di avvertire una ventina di persone che l'avevano letto fino a poche ore prima che ero salvo e stavo bene. Era tutto puerile e terribilmente serio allo stesso tempo. Le scuole cablate erano due, una di fronte all'altra: la più grande aveva la Sala Stampa e i server, ma i computer giravano con un cacchio di sistema operativo alternativo che s'inchiodava continuamente. Nelle Diaz invece c'era il vecchio stramaledetto windows duemila. Io dunque, mentre stavo in fila per accedere al sospirato blogger, avevo una gran voglia di provare se lì di fianco c'era meno fila. La Diaz, fino a quel momento, la conoscevano in pochi, tra cui io; io che due sere prima mi ero coricato con le chiavi della Diaz in tasca, perché nel cosiddetto servizio d'ordine del Movimento dei Movimenti si faceva carriera rapidissimamente, bastava continuare a preoccuparsi mentre la gente andava a dormire.
Io dunque ero indeciso se restare lì o andare alle Diaz. Se ci fossi andato, forse oggi passerei i miei pomeriggi a fissare il muro o a guardare i manga, magari soffrirei la depressione e peserei 120 chili; oppure mi sarei liberato di ogni borghese inibizione, come quelli che scampano un disastro aereo e non hanno più paura di nulla, e lavorerei sulle impalcature dei grattacieli, chi lo sa. Se invece fossi rimasto lì in fila, di lì a cinque minuti i carabinieri mi avrebbero semplicemente convinto ad accucciarmi al muro con le mani alzate, mentre sequestravano i server con un sacco di immagini compromettenti (compromettenti per loro, visto che in tutti questi anni non risulta le abbiano usate per incriminare chicchessia). Ma non feci nulla di tutto questo, perché passò Glauco a dirmi che andavano a prendere una birra lì all'angolo e io dissi ma sì, chi se ne frega. Era tutto molto serio, e allo stesso tempo no.
Come Buzzati, quando la sera tornava a casa dal grande giornale e scriveva su un quadernetto il Deserto dei Tartari; come Fenoglio quando da bambino montava sui tetti e s'immaginava di sparare agli invasori, anch'io probabilmente nel mio piccolo pensavo che ci sarebbe stata una guerra prima o poi, almeno una Battaglia, e che solo la Battaglia mi avrebbe fatto uomo. La guerra però non arrivava mai e così ho provato ad arrangiarmi con Genova.
A Genova le cose erano estremamente serie, in effetti, e allo stesso tempo restare seri era spesso difficile: tutto rischiava di diventare puerile da un momento all'altro. La cosa di cui sono più fiero è il servizio d'ordine al concerto di Manu Chao, quelle quattro ore spese a sgolarsi per avvertire i ragazzini di non oltrepassare la linea rossa della corsia ambulanze, e per cortesia di non rompersi l'osso del collo sugli scogli. Mercoledì sera, prima di ritirarmi al campeggio, avevo lungamente cercato di mettere pace tra due skin francesi impasticcati che se le davano in piazzale Kennedy, e non avevano l'età di mio fratello. Poi mi ero scocciato: ero un adulto, non Madre Teresa.
In seguito ci furono le cariche di venerdì, e bamboccioni se n'erano visti molti, in uniforme e in tenuta da movimento. Noi stessi, soliti modenesi, ondeggiavamo da una piazza tematica all'altra, cercando di mantenere un distacco critico, ma anche annusando a pieni polmoni la voglia di mettersi nei guai, il profumo con cui la troia Guerra seduce tutti i ragazzini. Poi era corsa voce di un morto, anzi di due, di tre; dalla città salivano fili di fumo e tutto sembrava allo stesso tempo serio e patetico, e per quanto non fossimo allegri eravamo più che mai fieri di essere lì piuttosto che altrove. Sabato ci eravamo svegliati con la sensazione di essere più che mai nel giusto, e le cariche e la lunga anabasi per i quartieri della città scoscesa in fondo li avevamo vissuti con lo spirito giusto: che era lo spirito d'avventura. All'ora in cui Glauco mi invitò a bere una birra tutto sembrava finito, la tensione era scesa di molto; e l'ansia di aggiornare il blog (l'unico blog a Genova!) poteva sembrare una cosa puerile.
La birreria stava dietro l'angolo e faceva affari d'oro, perché era l'unica rimasta aperta in quel quadrante della città. C'incontrammo una ex compagna di classe di Glauco che si era trasferita in Belgio e faceva teatro e tornava in Italia solo per le rivoluzioni. Quella birra non l'ho mai bevuta – ma la storia credo di averla già raccontata, o no? Ma qui c'è un sacco di gente che forse non l'ha ancora sentita, e allora sedetevi ragazzuoli, che vi spiego. Ci fu un frastuono di sirene, e quando uscimmo a vedere, restammo molto stupiti che non fossero i soliti CC o PS o GdF o Forestali, ma una colonna di ambulanze e Croce Rosse. Magari le aveva chiamate proprio Fournier, che ringrazio. Ho sempre pensato che fossero state molto tempestive, come se i picchiatori delle Diaz le avessero chiamate ancora prima di irrompere.
Voi, com'è giusto, la storia la conoscete dalla A alla Z: il poliziotto che si graffia il giubbotto con un coltello e poi lancia l'allarme (hanno cercato di accoltellarmi), i carabinieri e i poliziotti che entrano, le ambulanze che arrivano, le barelle che escono, il questore il giorno dopo in conferenza stampa che mostra le prove della resistenza armata della Diaz: un piccone fregato al cantiere di fianco, le molotov che poi qualche poliziotto confessò di avere fabbricato, e che in seguito sono misteriosamente scomparse, un sacco di coltellini svizzeri e pacchetti di kleenex da non sottovalutare (se si pensa che la principale fobia dei ragazzini in uniforme da poliziotto erano i fantomatici "palloncini di sangue infetto"). A raccontarlo sembra una comica, col sangue finto e i pugni per finta che fanno saltare i denti per finta.
Quando però le vivi, certe situazioni, ti trovi come nel mezzo della battaglia: non hai la minima idea di quello che sta succedendo. Dopo esserci nascosti per un quarto d'ora dietro la saracinesca della birreria, alla fine cedemmo alla tentazione di andare a vedere cosa succedeva. Non si capiva nulla, e non c'era nessuno che ti raccontasse la stessa cosa. Siccome nessuno mi aveva spiegato che i server avevano preso il volo, io mi fiondai subito all'ufficio stampa per aggiornare il blog, che ora mi sembrava la cosa più adulta da fare; stavo inutilmente cliccando il tasto refresh quando sentii un boato d'umana indignazione che mi scaraventò di nuovo fuori, e mi fece arrampicare sulla cancellata di fronte alle Diaz. Cosa stava succedendo?
"Portano via un morto".
Il morto in realtà era una barella carica delle famose munizioni di cui sopra, ma coperte da un telo verde impermeabile, che faceva un effetto body bag orribile a vedersi. Rimasi appeso alla cancellata per un tempo che mi sembrò interminabile, fregandomi del blog e probabilmente inveendo e fischiando a poliziotti e infermieri, ben sapendo che non era la cosa più adulta da fare.
Più tardi sono entrato, come altri cento, e ho visto le cose che avevano già visto altri cento: ma le ho viste male, in fretta, sicché quando le rifanno vedere in tv (molto di rado) non le riconosco, oppure confondo ricordi televisivi e reali, e mi vergogno. La sensazione di trovarsi al centro delle cose, che ci aveva aiutato a drizzare le antenne per tre giorni, stava svanendo. Ricordo sempre quella porta dei bagni forata da un colpo secco di manganello: m'immagino sempre di trovarmi lì, di chiudermi in bagno, di sentire le botte di manganello e poi di vedere la mano del poliziotto che si sbuca dal foro, trova la maniglia e la apre. Ma non ero lì, per cui in fondo il mio è solo un film come un altro.
Genova mi ha fatto paura, bisogna dirlo: quando tornai a casa continuavo a sentire le sirene, di giorno, di notte, per una settimana. Poi mi è passata.
Genova mi ha dato la scossa, e per alcuni mesi mi ha spinto a fare cose serie; ma in mezzo alle cose serie continuavano a esserci molte storie buffe, ridicole e apparentemente inadeguate, che col tempo hanno preso il sopravvento. Ho concluso che la vita è così, seria e ridicola insieme, che il bambino egotico e curioso che mi porto dentro non deve per forza morire in seguito a una battaglia: può restarsene lì, a patto che non rompa troppo.
Adesso vivo in una città ancora più piccola, davvero una miniatura; continuo ad aggiornare il blog per un motivo o per un altro e non racconto balle da reduce ai ragazzini, perché un reduce non sono.
I ragazzini poi sono terribili, perché ogni anno ne arrivano di nuovi, e non c'è cura migliore alle nostalgie sciocche di una nuova infornata di allegri ignoranti. Questi che stamattina han fatto l'esame sono del Novantatré, cosa vuoi che gli freghi di un tafferuglio che scoppiò a 9 anni? Quello che gli fa drizzare le antenne sono gli argentini torturati sotto lo stadio e lanciati dagli aeroplani senza paracadute. Il desaparecido volante è un enigma che coinvolge Storia, Geografia e Scienze: da che altezza venivano lanciati? Che velocità raggiungevano durante la caduta? Cadevano in moto uniforme o con un'accelerazione costante? Morivano asfissiati, inceneriti come le meteore, o annegavano? Questi sono misteri intriganti per un ragazzino.
Io non vorrei dover aggiungere misteri alla Storia del dopoguerra, che già ne sovrabbonda. Crescendo i miei ragazzini dovranno prendere appunti sull'Italicus, sulla Stazione di Bologna, su Ustica, Piazza Fontana... io vorrei che almeno si risparmiassero le Diaz. In fondo sono un mistero minore, che con un piccolo sforzo da parte dei carabinieri e dei poliziotti onesti si potrebbe archiviare in breve. Non era mica la guerra, anche se "Diaz" ha sempre avuto un suono sinistro (i giornalisti non avrebbero potuto inventarsi di meglio). Si disse subito che era l'Argentina, il Cile. No: erano le Diaz, nemmeno una scuola vera, una piccola palestra in cui le forze dell'ordine dello Stato repubblicano persero del tutto l'autocontrollo, e ancora aspettiamo che ci spieghino il perché.
Dovrebbero farlo. Sarebbe un bene per loro, per il Senso dello Stato dei nostri ragazzini, e anche per me. Personalmente non ho voglia di rivedermi tra cinque o dieci anni in un documentario sgranato, mentre mi appendo all'inferriata come un deficiente. Non vorrei perdere tempo a spiegare a mio figlio perché ero lì. Ero lì perché in quel momento non avrei sopportato di essere altrove: fine.
Nell’inverno del 1945 sulle Langhe i partigiani in servizio attivo sono ridotti a poche unità. Sulla sua collina Johnny è rimasto solo: l’ultimo amico arrestato in un rastrellamento, l’ultima sigaretta già da un pezzo fumata, calpestata e rimpianta.
Si sedette e rilassò nella più facile e sciolta posizione; poi iniziò la cerca, col più fino e sensibile delle dita, di tutti i resti di tabacco in ogni tasca e per minuti estrasse e cavò segmentini ed atomi di tabacco, misti a briciole di antico pane e fili di stoffa. Aveva ora in un palmo quanto bastava per una sigaretta [...] Poi cercò la carta. La carta di giornale sarebbe andata egregiamente, ma i giornali erano merce sconosciuta nella fattoria. Girò, frugò, rovistò e trovò infine un vecchio opuscolo, aggrinzito e ingiallito dal tempo, di agricoltura e masseria. Ne strappò un foglio e cominciò a torchiare. Era nuovo a questo lavoro, ma da quando partigiano s’era fatto avvezzo ed abile ad una quantità di nuove opere ed imprese. Lavorandoci con infinita cura e sospensione, si rese conto di quanto le sue mani si fossero fatte grossolane e inadatte a questi lavori. Se gli veniva discretamente modellata ad un capo, restava un caos all’altro, e ad un certo momento tutto il tabacco gli sfuggì a terra dalla carta aperta.
Una febbre lo prese e lo squassò, forzosamente si allontanò dal naufragio del tabacco e si disse ad alta voce: «Non perder la testa, Johnny. Non perder la testa, non è assolutamente niente. Del resto, non avevo nemmeno il fiammifero per accenderla» (Opere, vol. I, p. 840).
Dopo la presa di Forlì, nel novembre precedente, il generale Alexander aveva annunciato alla radio che ai partigiani conveniva coprirsi: di Liberazione si sarebbe riparlato in primavera. Molti prendono il suo annuncio per quello che non è, un perentorio invito a mettersi in letargo e attendere tempi migliori. L’inverno sarà in effetti durissimo. Anche nei territori che durante l’estate erano stati temporaneamente liberati qualcuno si pente di avere fornito ospitalità e sostegno ai partigiani, sperando in una liberazione rapida ed esponendo le proprie famiglie alle rappresaglie di repubblichini e nazisti. «Stanno facendovi cascare come passeri dal ramo» spiega a Johnny un mugnaio. «Ma al disgelo gli Alleati si rimuoveranno e daranno il colpo, quello buono. E vinceranno senza voi. Non t’offendere, ma voi siete la parte meno importante in tutto intero il gioco, ne converrai.» Johnny ne conviene, ma resiste: sarà “l’ultimo dei passeri”, come urla uscendo nella tormenta (e vergognandosene subito), il partigiano che non andrà in letargo. Nel lungo inverno combatterà contro fame, freddo, epidemie, solitudine, nostalgia di casa, astinenza da tabacco.
Qualche anno dopo, l’ex partigiano Beppe Fenoglio dirige un’azienda vinicola. Il tempo libero lo dedica allo studio e alla traduzione dei suoi autori preferiti (inglesi e classici) e alla scrittura. In quegli anni la guerra sembra aver dato a tutti un romanzo da raccontare.
Certe sere tornava a casa prima del solito, visibilmente gravido di pensieri da affidare alla carta. Passava veloce accanto a mia madre e a me [...]. Si ritirava subito nella camera della scala e attaccava a lavorare. Noi dall’alto percepivamo quei tre segni inconfondibili della sua presenza in casa: il fumo delle sigarette, la tosse, e il battere dei tasti della macchina da scrivere. Scriveva ininterrottamente per ore. (Marisa Fenoglio, Casa Fenoglio, Sellerio, Palermo 1995, p. 120).
Fenoglio non crede che il suo romanzo sia migliore di quello di molti altri. All’inizio non è nemmeno sicuro di avere un romanzo. La sua prima raccolta di racconti piace più a Calvino che a lui.
La Malora è uscita il 9 di questo agosto. Non ho ancora letto una recensione, ma debbo constatare da per me che sono uno scrittore di quart’ordine. Non per questo cesserò di scrivere ma dovrò considerare le mie future fatiche non più dell’appagamento d’un vizio. Eppure la constatazione di non esser riuscito buono scrittore è elemento così decisivo, così disperante, che dovrebbe consentirmi, da solo, di scrivere un libro per cui possa ritenermi buono scrittore. (Opere, vol. III, p. 201).
Il libro crescerà, lentamente, una sera dopo l’altra, una sigaretta dopo l’altra. Forse per cercare uno stile più suo, o tentare un impossibile distacco da una materia troppo scopertamente autobiografica, Fenoglio inizia a scriverlo in inglese, per passare in seconda stesura a uno strano italiano, ancora sporco di anglismi ma secco, nobile eppur maldestro, come un Cesare o un Livio tradotto alla benemeglio da uno studente ginnasiale – e in fin dei conti quale lingua migliore per l’epica dei partigiani di Badoglio? Non è solo un problema di stile: il libro è l’ennesimo memoriale di guerra, genere ormai inflazionato. Per di più, indulge in episodi che nessuno appare ansioso di condividere – l’esperienza dell’autore nell’esercito regio, prima e dopo il 25 luglio; non omette la vergogna dell’otto settembre; descrive partigiani comunisti e badogliani come antieroi volonterosi, ma prigionieri di una mentalità strategica sbagliata. L’esperienza per altri gloriosa della repubblica di Alba viene descritta impietosamente come un catastrofico errore tattico, che preclude alla rotta dell’autunno ’44: poche settimane dopo Johnny si ritrova solo sulla sua collina, a mettere insieme tremando una sigaretta che non può accendere.
Mentre il romanzo gli cresce davanti, mentre pesta sulla macchina da scrivere e tossisce, Fenoglio si rende probabilmente conto di quanto poco tutto questo sia commerciabile. Un romanzo che si concede la stessa severa ironia nei confronti dei maestri di mistica fascista e dei comandanti partigiani (a volte del resto si tratta delle stesse persone). Un libro sulla provincia senza nessuna concessione al vernacolare, dove mugnai e contadine parlano come personaggi di Omero. Un libro in cui i partigiani non fanno che commettere errori, sparare quando devono scappare, scappare quando devono sparare (ma in generale si scappa molto più di quanto si spari). Prima che scrittore Fenoglio è un uomo pratico. Con Einaudi non ci prova nemmeno. Manda invece una stesura a Garzanti. Gli rispondono proponendogli un taglio drastico: far morire il personaggio subito dopo l’otto settembre, concentrandosi sull’esperienza di Johnny nell’esercito regio, nei giorni cruciali dell’armistizio. Quanto alla guerra partigiana… a Garzanti non interessa. È un po’ come proporre a Melville di far affondare il Pequod appena salpato da Nantucket, ma Fenoglio non si considera certo un Melville. Piuttosto un mercante di vini, e scrittore di quart’ordine, e gli editori hanno senz’altro più fiuto di lui.
Il breve romanzo uscirà nel 1959 col titolo Primavera di Bellezza, senza destare particolare attenzione di pubblico e critica.
Il vero libro è quello che rimane negli scartafacci di Fenoglio, una poltiglia inestricabile di italiano classicheggiante e inglese miltoniano. Ma nel 1959 Fenoglio non sa di essere un bravo scrittore: è abbastanza persuaso del contrario. L’abitudine a pensare in miltonese e tradurre in un italiano marziale e senza tempo la vive più come un limite che come una risorsa espressiva. Eppure qualcosa in lui resiste. Dopo avere ucciso il suo alterego all’inizio della guerra antifascista, Fenoglio lo resuscita, e si rimette a lavorare sul rovente materiale della guerriglia nelle Langhe. Fa in tempo a uccidere Johnny una seconda volta, stavolta alla fine del gennaio ’45, nel primo conflitto a fuoco dell’anno nuovo (la parte finale, in cui negli ultimi mesi di guerra segue le truppe inglesi come interprete, viene accantonata senza essere tradotta in italiano).
Vuole farne un altro libro; forse ha riconosciuto nello scartafaccio il suo libro migliore. Ma non ha più tempo: si arrende al cancro ai polmoni nell’inverno del 1963. Aveva 41 anni. Lo scartafaccio finisce nelle mani dei filologi, che ci litigheranno per qualche anno senza riuscire, a tutt’oggi, a pubblicarne una versione completa e coerente.
Quello che trovate oggi sugli scaffali si chiama Il partigiano Johnny (il titolo glielo diede il primo curatore). È privo della prima parte (l’esperienza militare di Johnny fino all’otto settembre), dell’ultima (le avventure di Johnny come interprete degli inglesi), e di tanti altri episodi importanti, eliminati da Fenoglio nel tentativo di trasformare il libro di una vita in quello che sarebbe piaciuto agli editori, e magari anche ai lettori, un romanzo breve.
Fenoglio aveva chiesto di riposare ad Alba, al riparo dal vento cattivo di quella langa che Johnny aveva difeso da solo per un inverno intero, quando gli stessi abitanti gli suggerivano di farla finita, tornare a casa, non restare ultimo passero sul ramo. «Sempre sulle lapidi, a me basterà il mio nome, le due date che sole contano, e la qualifica di scrittore e di partigiano. Mi pare d’aver fatto meglio questo che quello» (Opere, vol. III, p. 200).
I suoi brani sono citati dall’edizione critica Einaudi in cinque volumi, a cura di Maria Corti, oggi fuori commercio.
Chiedo scusa se parlo ancora di Sanremo, immagino che non se ne possa più, ma la scorsa settimana tra le altre cose è successo che Scalfarotto ha visto, probabilmente per la prima volta, uno sketch di Fabio & Fabio, e ora minaccia di non tornare più in Italia, visto che è a Londra, una città dove non sarei mai definito “una donna senza ciclo mestruale” davanti a 15 milioni di telespettatori imbesuiti, ha detto così. Probabilmente ha ragione.
E tuttavia chi ha ragione non dovrebbe tenersela per sé, potrebbe fare il minimo sforzo di condividerla con gli altri; in questo caso, invece di mettere in scena la propria indignazione facendo il favore di spiegare a noi imbesuiti cosa c'era di così intollerabile nella battuta, che sì, non era una gran battuta, neanche una battuta media: funziona soltanto per far rima in una canzone, e forse non funziona nemmeno lì. Comunque, visto che siamo tutti d'accordo sul fatto che scherzare sui gay in Italia è delicato, e che sarebbe ancora più grave non scherzare affatto sui gay (sarebbe come trasformarli in un tabù, estrometterli definitivamente da quella normalità a cui giustamente aspirano), quello che ci serve è proprio un paio di indicazioni da un esperto sul campo su cosa offende i gay e cosa no: quindi, insomma, donne-senza-ciclo no. Per me va benissimo, e lo ripeto, non è mai stata una gran battuta, non vi rinuncio certo a malincuore. Ma perché no? Giusto per capire come funziona, così non rischio di farne altre ugualmente offensive. È intollerabile il paragone con le donne, una gay non può assolutamente soffrire l'accostamento? O è la menzione del mestruo?
Nel frattempo Rita De Santis, di Agedo (associazione di genitori di omosessuali), mi informa che quella battuta "contiene due offese in una: verso i gay, considerati dal pregiudizio “maschi mancati”, e verso le donne in menopausa, viste come ormai fuori uso". Giuro che una simile stratificazione di significati, tutti offensivi nei confronti di minoranze, non l'avrei mai intuita. Mandelli dice solo "è com'esser donna senza ciclo mestruale", e in un colpo solo i gay devono sentirsi "maschi mancati" e le donne in menopausa "fuori uso"? A me sembra incredibile che si possa offendere così tanta gente in una frase sola, ma è anche vero che di mestiere non vado in giro a cercare espressioni offensive nei confronti di minoranze, può darsi insomma che la De Santis abbia l'occhio più allenato. Certo che a quel punto se Biggio metteva un naso camuso faceva l'en plein - no vabbe' lasciamo stare.
Io non sono venuto qui a difendere i Soliti Idioti, che non ne hanno bisogno: a parte qualche passo falso (e Sanremo magari è stato uno di questi), in generale hanno vinto. Tra vent'anni, se la baracca tiene, i nonpiugiovani li ricorderanno come il primo programma in cui si sono riconosciuti, quello che li faceva lollare (probabilmente non si dirà più cosi, ma per farsi un'idea) ma soprattutto li identificava rispetto al mondo esterno che non li capiva e li esecrava. Da questo punto di vista farsi compatire a Sanremo ha persino un senso: che disastro se gli sketch avessero funzionato, se gli accigliati critici à la De Gregorio li avessero rivalutati, se di fronte a Fabio&Fabio i 'vecchi' come Scalfarotto si fossero fatti una risata. Forse infilare in uno show dal vivo la gag del ventilatore, che non ha nessuna consequenzialità logica e puoi capire soltanto se conosci già la serie, ha proprio questo senso: ribadire l'alienità dei Soliti Idioti all'Ariston, l'idea che a Sanremo possono andarci ma non possono essere capiti, un po' come Mark Hollis che smette di cantare in playback nell'Ottantasei. Oppure semplicemente sono due idioti, cioè, la gag del ventilatore in uno sketch dal vivo, ma come cazzo v'è venuto in mente.
Io sono qui solo per dire che secondo me Scalfarotto non ha capito Fabio&Fabio, ma non è colpa sua, non è che uno sia tenuto a studiare gli sketch precedenti per capire l'ironia di secondo e terzo livello: uno accende la tv, vede due idioti che fanno le checche e se la prende. Giustamente. Anche se poi uno potrebbe anche domandarsi cosa ci vada a fare Scalfarotto a GDay, che è un bellissimo programma per carità in cui però c'è Fullin che fa la checca senza nessun secondo o terzo livello: fa la checca e basta, e da Londra questo dovrebbe risultare altrettanto intollerabile. Oppure Fullin può scheccazzare come meglio crede perché è un gay? Perché da qualche parte ho letto anche questa cosa: che Little Britain coi gay ha il diritto di andarci giù pesante perché uno dei due autori è gay dichiarato, quindi lui può. E quindi insomma se dopodomani a Biggio e Mandelli scappasse di dire che ogni tanto vanno a letto assieme, improvvisamente la comunità LGBT smette di scandalizzarsi e si fa una risata; e allora io a questo punto se fossi uno dei soliti idioti lo farei davvero un bel coming out, tanto chi controlla. Io continuo a pensare che una scenetta sia divertente o no, omofoba o no, a prescindere dalle scelte di genere di chi la inventa e chi la recita: probabilmente Little Britain è fatta meglio, ma non è che i gay abbiano più diritti degli altri a ridere dei gay: di solito sono più bravi, tutto qui.
Io non sto dicendo nemmeno che Fabio&Fabio non siano due personaggi omofobi, però non lo sono nel senso in cui li intende Scalfarotto. Lui parla di "cliché della checca da avanspettacolo anni '50": non ci siamo. Che sia un cliché al lavoro non c'è dubbio, semplicemente non è quello. F&F, chi li conosce lo sa, sono due ragazzi che vivono insieme (e già questo ci proietta fuori dai '50), che lavorano insieme in un contesto 'creativo' dove non sono gli unici gay, e che vivono in una città contemporanea che accoglie il loro ménage con assoluta indifferenza (anzi, è proprio l'indifferenza con cui i concittadini reagiscono alle sue provocazioni che manda costantemente Fabio-Biggio in corto circuito). Di città così in Italia non ce ne sono ancora molte. Parliamo di qualche quartiere di Milano e Torino, qualche altro distretto in qualche altra città, ma poca roba. Chi abita in queste zone però dei Fabio&Fabio li ha conosciuti - meno caricaturizzati, ovviamente - e in tv li riconosce. Era già molto più difficile riconoscerli a Sanremo, che neanche nei giorni del festival diventa uno di quei distretti in questione, dove si può anche ammettere che due gay si baciano, ma devono essere due ragazze, possibilmente belle, e comunque due in mezzo a cinquanta, alla faccia di Kinsey, e comunque il regista non riesce a inquadrarle.
Nella sua immaginaria città moderna, dove essere gay non sorprende più nessuno, Fabio-Biggio passa il tempo a immaginarsi vittima di discriminazioni immaginarie. Di solito il perno dello sketch è questo, e ripeto, lo si può criticare finché si vuole, e a ragione: perché in Italia essere gay sorprende ancora fin troppa gente, e il più delle discriminazioni non sono affatto immaginarie. Insomma Fabio&Fabio pretendono di fare satira di costume ma falsificano il quadro, fingendo che quello che succede in un distretto di Milano sia la media nazionale. A un certo punto fanno anche qualcosa di peggio, quando gli sketch cominciano a ruotare intorno alla gravidanza isterica di Fabio-Biggio. Si comincia dai sintomi, si passa per il test di gravidanza (che Biggio trucca con un pennarello), si arriva in ospedale e a un certo punto lo vediamo anche con una carrozzina e un bambino dentro, anche se le cose non stanno ovviamente come le presenta lui. Tutte le gag nascono dalla stessa idea: nessuno può permettersi di dire a Fabio che non può fisicamente avere un bambino, perché sarebbe omofobia: e appena percepisce un po' di omofobia Fabio va in loop. Insomma, dietro a tutto c'è un'idea reazionaria: Fabio vorrebbe essere sia gay che madre, ebbene, la natura non glielo consente, ed è inutile che si lamenti e strepiti, la natura è così: lo potrebbe dire tranquillamente Giovanardi. Tutto questo mentre in Italia non sono ancora riconosciute non dico le adozioni, ma nemmeno le coppie di fatto. Biggio e Mandelli prima fanno un salto del futuro, satirizzando i costumi di un'Italia per lo più molto in là da venire; e poi nel passato, ricordando a chi vuole fare una famiglia che comunque l'utero serve, ed è ridicolo pensare, come Fabio, di poterne fare a meno.
Quindi sono omofobi? Sì, molto più di quanto non credano di esserlo; ma non perché fanno le checche anni '50. Anzi, almeno hanno il merito di mostrare personaggi che esistono adesso, e in certi casi nemmeno adesso, ma tra un po'. Fabio non è il classico diverso che vorrebbe essere considerato come gli altri: Fabio è già considerato come gli altri, e la cosa lo fa impazzire: lui deve gridare al mondo che comunque è diverso. È reazionario nelle premesse e nelle conclusioni, ma in mezzo ha il notevole merito di mostrarci la caricatura di una figura fin troppo ricorrente nella nostra contemporaneità: l'esponente della minoranza che si trasforma in un professionista dell'indignazione, allenandosi a trovarla ovunque, anche dove semplicemente non c'è. Lui solo ha il diritto di spiegare cosa lo offende, quando come e perché. Anzi di solito al perché non si arriva mai, di solito è sufficiente strepitare e pretendere le scuse. Sono cose noiose, i "perché", roba da blog di retroguardia.
La Storia, ho studiato, si ripete in farsa. Anche se stanotte non riesco a rammentare il perché: e non saprei a chi chiedere qui. E dire che dalla quantità di triangolini rossi ricamati dovremmo essere tutti mezzi intellettuali. In realtà passiamo il tempo a rubarci le patate.
La Storia si ripete in farsa, ma io non ci trovo molto da ridere. Può darsi che qualcun altro da fuori stia ridendo di me, di noi, ecco, questo avrebbe un senso. La fuori, nell'urlo del vento, Qualcuno ride. Io sto qui abbracciato a un deportato rumeno che trema più di me, e penso a Enea, alla prima volta che l'ho incontrato.
Non insegnavo nella sua classe, quindi ha del miracoloso che si ricordi di me. Ero lì di passaggio, sostituivo un collega con le piattole. No. Mi confondo. Le piattole ce le ha il mio collega di adesso, quello che trema, ed è pur sempre un segno di vitalità, di solito a un certo punto ti abbandonano anche loro. Il mio collega di allora era una collega, in realtà, una filologa molto brava che si fece venire un esaurimento nervoso e così la classe restò abbandonata a sé stessa per più di una settimana prima che mi mandassero a tamponare. Quando arrivai mi scambiarono per l'ennesimo supplente, avevano già predisposto il lettore dvd. I dvd!
Che tecnologia insulsa. I lettori si rompevano a guardarli. I dischi si segnavano a sfiorarli. Specie quelli educativi. Invece le minchiate che portavano a scuola i ragazzi, quelle funzionavano sempre.
“Sentiamo, cosa vorreste guardare”.
“Alien vs Predator 2”.
“Non se ne parla”.
“Ma abbiamo visto il primo, vogliamo sapere come va a finire”.
“Sentite, ce l'ho io un buon film”. (Probabilmente in quegli anni me lo portavo sempre addosso). Ed è anche nel programma di Storia di quest'anno, così uniamo all'utile il d...
“È in bianco e nero, vero?”
“Sì, ma vedrete che è appassionante, e soprattutto è un film che parla di cose reali, cose che anche se vi appariranno mostruose, ben più mostruose di un Alien o di un Predator, sono successe realmente, nel nostro mondo, ai nostri bisnonni”.
“I bisnonni?”
“Facciamo trisnonni, ormai, e sapete cosa significa? Quando guardate Alien, per quanto possa spaventarvi, siete sempre sicuri dall'altra parte dello schermo. Ma l'orrore di questo film è ancora tra noi, da qualche parte, che incuba...”
“Incuba?”
“Aspetta soltanto il momento adatto per schiudersi e crescere, prolificare, riprendere il controllo... non vale la pena dargli un'occhiata, studiarlo, capire come abbiamo fatto a sconfiggerlo?”
“Cazzo, sì!”
“Ehi ehi ehi, tu... come ti chiami?”
“Galavotti”.
“Di nome?”
“Enea”.
“Che bel nome. Enea, niente parolacce qui dentro, d'accordo?”
“Prof, ma lo guardiamo questo film di mostri veri, o no?”
“Certo, certo, guarda, comincia adesso, attento alla candela”.
Un idiota ha aperto la porta.
Una folata di vento gelido mi spazza i ricordi dalla testa, sembra voglia gonfiare la baracca e portarsela via. Qualcuno si sta alzando, cerca di mettersi sull'attenti. Quindi l'idiota che ha aperto la porta è il comandante.
“Il professore è ancora qui?”
Mi libero dalla stretta del mio collega, che forze per alzarsi non ne ha.
“Sono qui, comandante Galavotti”.
“Facciamo due passi”.
Appena fuori dalla baracca mi getta una giacca sulle spalle. Ma non sto tremando dal freddo. I miei colleghi penseranno che sono una spia. O forse è troppo tardi per preoccuparsene?
“Professore, devo dirle, in questi anni ho pensato molto a lei”. “Comandante, io però...”
“Vede, ne ho discusso anche con i miei camerati, e siamo arrivati alla medesima conclusione: gli anni delle medie sono stati i più formativi”.
“Però. Chi se l'aspettava”.
“Sì, perché in quegli anni hai la mente e il cuore... come dire... teneri. Si plasmano su quello che trovano, capisce. E io ho avuto una grande fortuna a incontrare persone come lei”.
“Davvero?”
“Ho ancora vivide nella memoria le immagini che ci proiettava, tutti quei film... a volte penso che tutto quello di buono che ho fatto nella vita lo devo a quei film. Senta (mi prende sottobraccio, la sua uniforme di ufficiale si strofina sul mio pigiama liso). Siamo venuti a sgomberare il campo”.
“Bene. Cioè... È una notizia buona, no?”
“Per voi no. Ora dobbiamo dividervi in gruppi di sei e poi mettervi in fila. Lei cerchi di stare in fondo alla fila. Sempre in fondo”.
“Ma...”
“Mi stia a sentire. Vi portano nel piazzale, e sparano al torso del primo della fila. La pallottola trapassa e ne ammazza anche altri quattro, ma a volte l'ultimo si salva, capisce? Se riesce a fare il morto fino a sera può scappare”.
“Ma farà freddo!”
“I cadaveri scaldano”.
“Enea, perdonami, posso farti una domanda seria?”
“Dica pure, prof”.
“Perché tutto questo orrore, perché?”
“Cosa vuole che le dica, stiamo esaurendo le munizioni, dobbiamo fare economia. O preferirebbe che vi strangolassimo? Converrà che questo è un metodo più pietoso”.
“Ma...”
“Credo che lo abbiamo preso da un film, forse quello in bianco e nero lungo lungo, ha presente? Che gran film! Credo proprio che ce lo abbia fatto vedere lei”.
“Sì, però...”
“Aveva ragione, sa? Anche dai film si può imparare. E noi abbiamo imparato tanto. Ora, se non le spiace, devo procedere allo sgombero. In bocca al lupo, professore”.
“In bocca al lupo, Enea, e grazie”.
“Ma grazie a lei. E mi raccomando. Sempre in fondo alla fila. Si ricordi”.
*******
"Oh, finalmente un genocidio", sospirò la paziente Verola. "Il modo migliore per festeggiare la fine del primo turno. Non resta che procedere all'eliminazione di uno di voi..."
Avrete sentito dire in questi giorni come il famoso e controverso regista Lars Von Trier abbia affermato pubblicamente di provare simpatia per Hitler, ebbene, non è così vero. Il verbo inglese “to sympathize” non significa esattamente “simpatizzare”. Il suo significato è più aderente all'originale etimo greco, “patire assieme”: compatire, comprendere il dolore. Per un'affermazione del genere, Lars Von Trier è stato bandito dal Festival di Cannes. Pare che sia vietato affermare di poter compatire la sofferenza dell'uomo malvagio, che in quanto malvagio è radicalmente diverso da noi al punto da sfuggire a ogni nostra capacità di comprensione. Altrimenti ti cacciano dalle feste. E dire che fino a ieri avevamo riempito migliaia di pagine, miliardi di fotogrammi, nel tentativo di capire, di spiegare come una persona come noi possa diventare, in certe situazioni, a certe condizioni, un assassino di massa. Ma questo era ieri, appunto, quando ci interessavano le cause, le conseguenze, le nostre psicosi individuali e di massa: oggi abbiamo deciso che gli assassini sono sempre gli altri, che non parlano la nostra lingua e probabilmente non sono della nostra razza. Abbiamo tracciato una linea, chi la oltrepassa è il Male Assoluto e non può essere spiegato né compreso: o condanni pubblicamente il Maligno come fonte e origine di ogni male o sei evidentemente un po' parte del Maligno anche tu. Questa è l'Europa di oggi, un posto dove abbiamo risolto le psicosi ritornando ai tabù.
Credo di poter simpatizzare con Von Trier, intendo, capire un po' come si sente. Ci sono vari tipi di gaffe, o meglio di gaffeur. C'è il gaffeur tattico, come Vittorio Sgarbi, che a un certo punto si rende conto che la sfida con Santoro o Saviano è persa in partenza e allora calca la mano, in pratica si auto-boicotta, affossa il suo programma e dopo due ore corre a intascare gli stessi soldi che avrebbe dovuto guadagnare lavorando qualche mese (chiamalo fesso). C'è il gaffeur trionfante, senza secondi fini, il personaggio così pieno di sé da essere convinto di avere sempre qualcosa di intelligente da dire, anche se non sa ancora cosa (ma intanto ha già aperto la bocca e sta parlando di nazismo davanti a un eurodeputato tedesco). E poi c'è il gaffeur suicida, che ha una pessima opinione di sé stesso e parla a vanvera per distruggersi, come il tuo partner esausto di te che decide di farti una scenata in società. Basta avere sfogliato la Newton Compton di Freud ((c) Enzo) per riconoscere nel balbettante Von Trier un esempio di gaffeur del terzo tipo. L'uomo ha cose orribili da rimproverarsi – di non essere un buon regista, diranno molti. Ma molto prima di castrare i suoi attori era l'etica stessa di Dogma a essere autocastrante: Non avrai altra Soundtrack al di fuori di me; Non ti gioverai di cavalletto; Non girerai esterni, ecc.
Poi, in modo non molto dissimile da quel che accade nella Bibbia, dove il popolo di Dio non fa che disobbedire alle leggi di Dio (sennò la Bibbia sarebbe assai più corta e perfino meno divertente); allo stesso modo di Isaac Asimov (autore di origine ebraica!), che prima inventa tre leggi della Robotica e poi scrive dozzine di racconti in cui, sostanzialmente, i suoi robot non fanno che rivoltarsi alle leggi della robotica... tutto quello che ci ha reso interessante Von Trier probabilmente sta nel modo in cui ha aggirato le sue stesse autolimitazioni e ha girato musical o commedie dell'assurdo. Per cui a un certo punto ci siamo convinti che tutto l'affare dogmatico era semplicemente un esercizio per stimolare la propria creatività. Potrebbe darsi.
Però potrebbe anche trattarsi di psicosi maniaco-depressiva. Il giovane Lars è cresciuto in una famiglia danese comunistoide e antirepressiva, vacanze nudiste e tutto il resto: il tipo di ambiente in cui a un certo punto un adolescente può trovarsi a rimpiangere la totale assenza di regole (o a riconoscere le regole non scritte dietro il permissivismo genitoriale). Crescendo ha scoperto che il padre, benché ateo, era di origine ebraica: quindi da qualche parte c'era una Legge, anche se negletta dal padre. A un certo punto però il padre muore e la madre spiega a Lars che comunque non era il suo vero padre: quest'ultimo non era ebreo, bensì... tedesco. Così a 33 anni Von Trier si ritrova sbalzato, da membro di una perduta tribù di Israele a figlio dei volonterosi carnefici di Hitler. Qui avviene una sorta di sdoppiamento: può darsi che Von Trier si odi seriamente, e non per posa, può darsi che ci sia un Von Trier interiore che cospira contro tutto quello che Von Trier cerca di fare di buono nella vita, un Von Trier che boicotta attivamente la sua stessa carriera, che assiste alla prima del suo film e lo trova inguardabile (“Maybe it’s crap,” von Trier joked. “Of course, I hope not. But there is quite a big possibility that this might be, you know, really not worth seeing”); poi si ritrova davanti ai giornalisti, circondato da due attrici brave e famose, e in un momento che potrebbe rappresentare uno dei due o tre possibili apici della sua carriera, e senza accorgersene – e senza che nessuno riesca a interromperlo – sente sé stesso parlare a vanvera di nazismo ed ebrei. Il modo più spiccio per rovinare una carriera, ormai lo sanno anche i fantasmi dell'inconscio. La trascrizione non rende il senso discorso: dalle pause, dalle esitazioni, emerge chiaramente che lo stesso Von Trier non chiedeva di meglio che essere interrotto, salvato dalle sue stesse chiacchiere. E invece i giornalisti lo lasciano parlare, fiutando la gaffe succulenta; la Dunst si mostra scioccata ma non lo interrompe, probabilmente spera che il regista riesca a spiegarsi meglio, a salvarsi in corner; la stessa cosa cerca di fare malamente Von Trier, ma il suo Doppelgänger autodistruttivo riesce a tenere la palla al piede, dribbla ogni tentativo di riportare la discussione alla ragionevolezza festivaliera, e continua ad ammucchiare gaffes sulla collega danese-ebraica che ha vinto un Oscar; su Hitler; su Israele che è “una rottura di coglioni” (“a pain in the ass”, mi pare che nessuno in Italia abbia osato tradurre), su Albert Speer che è un grande a cui piace fare le cose in grande, come i nazisti, come lui stesso. Nel frattempo il Von Trier ragionevole alza la bandiera bianca: “how can I get out of this sentence?"
Israel Von Trier
Nazi Von Trier
Ho pensato di essere ebreo a lungo, ed ero davvero contento di essere ebreo.
Ma poi è arrivata Susanne Bier e non ero più così contento...
No, questa era una battuta, mi dispiace.
Ma è saltato fuori che non ero un ebreo, ma anche se fossi un ebreo sarei un ebreo di seconda classe, perché c'è una specie di gerarchia nella popolazione ebrea.
Ma in ogni caso, volevo davvero essere un ebreo
E poi ho scoperto di essere davvero un nazista, sapete, perché la mia famiglia era tedesca, Hartmann, il che mi ha dato comunque qualche piacere, eh, eh, così sono una specie di...
Io... io... cosa posso dire?
Io capisco Hitler.
Ma... ma... penso che abbia fatto alcune cose sbagliate, sì, certamente
Ma posso vederlo seduto nel suo bunker alla fine.
Ci sarà un senso alla fine di tutto questo. Ci sarà...
No... stavo solo dicendo che... capisco l'uomo.
Non è quello che chiameresti un bravo ragazzo
Ma... capisco molto di lui, e provo compassione per lui, un po', sì...
Ma insomma, non sono per la Seconda Guerra Mondiale! Non sono contro gli ebrei!
E Susanne Bier?
No, neanche contro Susanne Bier... anche questa era una battuta, io naturalmente tengo molto agli ebrei
No, non così tanto, perché Israele è una rottura di coglioni.
Come posso uscire da questo discorso?
Dopo che hai offeso gli ebrei, cosa puoi fare di peggio? Offendere le donne, probabilmente. Qualche minuto dopo riuscirà a disegnare per Kirsten Dust un futuro da aspirante pornostar. “Now she wants more. That’s how women are, and Charlotte is behind this. They want a really, really, really hardcore film this time, and I’m doing my best”.
Dunque: c'è un Von Trier che credeva di essere ebreo. Che voleva essere ebreo. L'aspirazione a voler far parte del popolo della Legge si lascia facilmente interpretare. A parte l'opportunità, per un regista, di trovarsi rampollo nella stessa schiatta di Kubrick, Polanski, Lubitsch, Allen, e ne ho senz'altro lasciato fuori qualcuno enorme, c'è anche la necessità dell'intellettuale di simpatizzare col perdente, con l'oppresso, con la minoranza. E allo stesso tempo c'è la necessità di una Legge scolpita sul marmo, di un Dio che ti fulmini se non lo rispetti. Però a un certo punto, magari guardando il film di una collega che ebrea lo è davvero, Von Trier capisce di essere qualcos'altro: non oppresso ma oppressore, non ebreo ma tedesco. Un nazista. Probabilmente la realtà è in mezzo, probabilmente Von Trier è l'ebreo e il nazi di sé stesso, ma è facile dirlo da fuori. Se Von Trier fosse riuscito a fare andare d'accordo le sue due identità, non si troverebbe davanti al disastro dell'altro ieri. Von Trier è il nazista di sé stesso per le regole inflessibili che continua a darsi, per le punizioni bizzarre e atroci che infligge a chi sgarra, cioè a Von Trier stesso. E allo stesso tempo non può che provare pietà per quel dittatore frustrato che non riesce ad autocontrollarsi, e che forse si ritrova già nel bunker interiore, pronto a spararsi un colpo. 'Però non sono un nazista vero', dice il Von Trier aspirante semita, facendo appello alla ragionevolezza dei giornalisti: guardatemi, mica dichiaro le seconde guerre mondiali, mica odio gli ebrei... Anche se Israele è un pain-in-the-ass”, replica il Von Trier sadico, e questo probabilmente è il vero tabù che un regista europeo non dovrebbe infrangere. Perché comprendere Hitler, via, non è questa gran novità: col mondo interiore del Führer si sono misurati registi anche meno scomodi di Von Trier; una delle sequenze di maggior successo del cinema degli ultimi vent'anni è quella in cui Bruno Ganz ci mostra un umanissimo Hitler impartire un umanissimo cazziatone ai suoi sottoposti. Non è un caso che lo spezzone della Caduta sia diventato un tormentone del web; non è un caso che migliaia di internauti abbiano voluto mettere in bocca al Führer le proprie esternazioni, in pratica abbiano voluto mettersi nei panni di Hitler “sitting in his bunker at the end”, senza che nessuno abbia perso tempo a misurare il potenziale antisemita del giochino. No, Hitler si può compatire – entro certi limiti. Ma offendere Israele, descriverlo come un fastidioso ospite conficcato nel retto della nostra sensibilità occidentale, ecco, questo era il tabù che il Von Trier sadico andava cercando, per inchiodarcisi sopra. Missione compiuta.
Che Boris sarebbe stato un flop avremmo potuto capirlo già entrando nella sala vuota, rischiarata dall'argento delle chiome dei rari spettatori. C'è da dire che il sabato in prima serata da noi è davvero solo roba da vecchietti. Sarà colpa del precariato, dei siti russi pirati, dello strascicamento dell'aperitivo. Si rifaranno con la seconda proiezione, pensavamo. Dai dai dai. Ho passato un'ora e mezza a chiedermi se ai vecchietti sarebbe piaciuto, se ci avrebbero capito qualcosa. Non vanno sottovalutati, i vecchietti; magari non capiscono al volo, ma hanno molta esperienza e pazienza. Che poi non era mica un film difficile. Dai che magari gli piace. Dai che parte il tam tam della bocciofila. Dai.
Non è andata. Boris è stato meta anche nel suo essere un flop: un metaflop. Il film che racconta quanto sia difficile inventarsi qualcosa di nuovo quando il tuo pubblico è composto per lo più da vecchietti, è stato dai vecchietti sostanzialmente snobbato. Amen. La settimana dopo siamo tornati per il film di Moretti. Stesse teste canute. Qualche risata in più. Del resto era più facile seguire, rispetto al Caimano Moretti ha rallentato in un modo impressionante. I personaggi sono anziani, spesso stranieri, e parlano lentamente. Moretti pure parla lentamente; molte battute le ripete più volte, con la manifesta preoccupazione di farsi capire. Anche alcune scene vengono riprese due volte (il balcone in diretta e in tv). Dopo un po', sarà anche perché c'è Piccoli, mi vengono in mente certi film d'Oliveira, ma è un sospetto che caccio come una zanzara. Qualche scena dopo i personaggi si ritrovano in bocca le battute di Cechov, roba da Divina Comedia, ma vuoi vedere che Moretti si sta oliveirizzando sul serio? Voglio dire, consapevolmente?
Adesso scrivo che è un bel film, così non si offende nessuno. Aggiungo anche che non sono un esperto, metti caso che qualcuno mi scambi per uno che dà le stelline, non è davvero il mio mestiere. M'intriga soltanto questo dettaglio, magari banale, magari fuorviante: negli anni in cui le sale si riempiono coi vecchietti (o col 3d), Moretti ha fatto un film di vecchietti. Tante grazie direte voi, son cardinali. Ma sono davvero cardinali? Li avete presenti i cardinali veri? Confrontate anche soltanto gli amabili giocatori di scopone di Moretti con quegli uomini di potere che in questi giorni si stanno scagliando contro di lui: volete mettere? Non è che Moretti abbia voluto darci una versione edulcorata di un conclave: a lui proprio un conclave vero non interessava, il suo è tutta un'altra cosa, una metafora, un pretesto. Il tutto si denuncia da solo in quel balletto iniziale in cui tutti si mettono a pregare “Non scegliere me Signore”: ecco, mettere in scena un consesso di uomini di potere tutti improvvisamente refrattari alla più umana delle pulsioni – l'ambizione – è surrealismo puro: ceci n'est pas un conclave. Malvino: “Il Papa e il Vaticano c’entrano poco o niente: si offrono come espedienti, e vengono trattati con la delicatezza di chi vuole riconsegnarli intatti dopo l’uso”.
Certo, volendo mettere in scena un Rifiuto, gli sceneggiatori non potevano trovarne uno più grande. La Coppola per raccontarci la sua formazione occupa Versailles o il Chateau Marmont, Moretti per descriverci un esaurimento nervoso noleggia Palazzo Farnese. Il Vaticano ricostruito a Cinecittà è un po' come l'Altare della Patria dell'Ora di religione di Bellocchio, un feticcio da profanare per questioni sostanzialmente private. È un intimismo kolossal che un po' ti disorienta, ci vuole un bel polso per maneggiare una cosa pesante come la Chiesa Cattolica con un tocco così lieve, riducendola alla quinta di un dramma interiore. Quindi, insomma, non è di Ratzinger che si parla (ma neanche di Papa Luciani). E quindi di chi. Potrebbe davvero trattarsi di Nanni Moretti? Ne avrebbe diritto, per carità. Ma anche lui sembra un po' evasivo. Non vuole fare un film sulla Chiesa, ma neanche sulla psicoanalisi (che sembra anch'essa poco più di un pretesto). A un certo punto poteva diventare un film sulla recitazione: ho avuto i brividi mentre Piccoli diceva alla Buy che di mestiere era un attore, sta' a vedere che crolla la quarta parete... no, niente, falso allarme, anche la recitazione rimane un po' ai margini. Niente, è proprio un film sul rifiuto. Quando tutti vogliono che tu faccia una cosa e tu non la vuoi fare.
E non è neanche il primo. Si fa un po' fatica a unire i puntini, c'è sempre tantissimo spazio bianco tra un'apparizione di Moretti e l'altra; però la sensazione è che da più di dieci anni, almeno da Aprile in poi, ci stia dicendo: Non Voglio Fare Quello Che Mi Volete Far Fare. Non voglio fare il documentario sui leghisti, voglio andare al bar. Non voglio fare il solito film di nannimoretti, voglio parlare di un lutto privato senza regalarvi nessun fulminante tormentone. Non voglio fare un film su Berlusconi, mi avete incastrato con quella cosa dei girotondi, ma fino agli ultimi dieci minuti il mio film non parlerà di Berlusconi. Non voglio dirigere, voglio stare su una panchina e guardare il mondo scorrermi ai lati. Non voglio essere il più bravo, non voglio darvi a ogni mio film lo stato dell'arte sull'etnologia della sinistra italiana, non voglio fare film a tema, non voglio puntellare analisi sociologiche di critici e blogger dopolavoristi, non voglio, non voglio. Giusto. Hai ragione. Però nel frattempo cosa vuoi fare? Cosa fai? Un film di vecchietti. Un meraviglioso film di fantastici vecchietti che fanno smorfie superbe, ti viene quasi voglia di iscriverti alla loro bocciofila. Vecchietti dolenti, vecchietti rintronati, vecchietti drogati, vecchietti che giocano alla palla, e Moretti arbitra. Più o meno il sogno erotico di Fabio Fazio.
Di sicuro mi sbaglio, però Fazio mi è sempre sembrato il ragazzino che cresce coi nonni, in un contesto di bocciofila, e che una volta adulto continua istintivamente a circondarsi di persone anziane e rassicuranti. Ma per Fazio la capacità di trovarsi a proprio agio con gli anziani si è rivelata un vero e proprio vantaggio evolutivo: in una RAI e in una società italiana in rapido invecchiamento, è riuscito a proporsi come intermediario tra i Titani del passato e precari del presente. Gli diedero Sanremo, lui si portò Dulbecco. Prima che arrivasse Saviano ad abbassarla un po', l'età media degli ospiti di una puntata di Che tempo che fa poteva benissimo oltrepassare gli ottanta. Più sono anziani, più l'eterno ragazzino è a suo agio con loro. Questo rende magari Fazio il conduttore del futuro (un futuro di dinosauri in dismissione). Ma Nanni Moretti?
Lui non è cresciuto tra nonni rassicuranti; tutta la sua filmografia contiene atti d'accusa nei confronti di una generazione di genitori distratti che quando piangeva non accorrevano ad allattarlo. Qualcuno ha fatto il conto di quante volte Michele Apicella mette le mani addosso ai genitori? Nella Messa è finita, in particolare, il prete d'assalto spintona con violenza un padre in crisi di mezz'età, che si è messo con una ragazzina ma pietisce l'assoluzione. C'è stata, fino a un certo punto, una questione generazionale anche in Moretti.
E può darsi che ci sia ancora, anche se in fase di risoluzione – che questi mirabili vecchietti siano l'ombra dei nobili padri, dei venerabili maestri coi quali volente e nolente Moretti ha dovuto misurarsi fin qui. Ora però se ne stanno andando, per una mera questione anagrafica, e il regista li segue con affetto, li accompagna con allegria verso il nulla, dosando con sapienza gli antidepressivi. Non è più tempo di condurre, ma di essere condotti, già, e da chi? Non si sa, ma nel frattempo chi organizza il tempo libero è il regista. Paradossalmente, ha smesso di dare troppa importanza a quel deficit di accudimento che lo ha tormentato per tutta la vita. Lo riconosce per quello che è: una formuletta per tranquillizzare gli anziani. Adesso tocca a loro fare le scenate in pubblico, rompere le tazzine, regredire a quello stato di grazia in cui si gioca a pallone e si canta tutti assieme la canzoncina. Habemus Papam sarebbe il film in cui il Padre accetta non già di morire, ma di farsi mettere a riposo. E dopo di lui chi si affaccerà al balcone? Dopo il Padre toccherebbe al figlio, ma il figlio non vuole, lo si nota di più se non viene. In fondo nel film precedente l'attore-Moretti non faceva che nicchiare per tutto il film davanti a un pubblico che lo implorava Dai Facci Berlusconi. Alla fine cedeva (e l'unica cosa che tutti si ricordano è quel finale, mi pare). Stavolta no, il pubblico non avrà nessuna soddisfazione, la messa è finita davvero, andate a casa.
O no? Magari è ancora un po' presto per accettare un pontificato; però Moretti qualche tentazione ecumenica ce l'ha. Rallenta il ritmo, consapevole che il pubblico invecchia e ha bisogno di essere preso per mano e guidato al finale; che i guizzi di follia di Sogni d'oro o Palombella Rossa non sono più praticabili. I vecchietti forse non comandano più, ma sono ancora la maggioranza di quella minoranza che entra nelle sale, e Moretti lo sa. Ma è un problema? Oliveira dovrebbe aver compiuto centodue anni, e ancora macina film, porta a casa statuette. Negli anni in cui le sale si riempiono coi vecchietti (o col 3d), Moretti si prende cura dei suoi vecchietti. O dovrebbe buttarsi sul 3d?
Secondo me sì. Moretti 3d, che fa le scenate e ti getta le tazzine addosso, figata. No, dai, scherzo.
- Comincio con una cosa che non c'entra niente con Boris. Ma niente davvero.
Qualche tempo fa mi è capitato di vedere un antico film italiano – ci sono film degli anni Cinquanta che sono ancora attualissimi, questo invece è a colori del 1970 ma davvero sembra un reperto di un'era geologicamente lontana, si chiama Lettera aperta a un giornale della sera e racconta le vicissitudini di un élite di intellettuali romani di sinistra, oggi li chiameremmo radical chic ma sbaglieremmo, in realtà sarebbero l'intelligentsia organica del PCI, hanno fatto pure la Resistenza, ma adesso stanno cominciando a fare qualche soldo nell'industria culturale e non sanno se vergognarsene; per il resto il PCI di Longo non sa bene cosa fare di loro, così tirano tardi sui terrazzini, seducono le studentesse (senza comprendere bene tutta la frenesia sessantottarda), restaurano automobili d'epoca, firmano i comunicati. Ecco, una sera mentre sono lì su un terrazzino che discutono di Lacan, telefona il Paese Sera che vuole un intervento sui recenti fatti del Vietnam (c'era stata una strage nel Vietnam), e questi un po' per scherzo un po' per dar senso alla serata scrivono un comunicato durissimo in cui in sostanza dicono basta coi comunicati e coi terrazzini, è ora di agire, chiediamo pubblicamente di formare un battaglione volontario di intellettuali e andare a sparare agli americani sul Mekong. Il Paese Sera ovviamente non glielo pubblica, però dopo un po' la lettera esce sull'Espresso, e a quel punto a tutti questi signori ben sistemati crolla il mondo in testa. Dopo un po' di riunioni e convulsioni e autocritiche che si seguono con una certa fatica (è un film molto parlato ma la traccia audio si è sbiadita, come conviene ai reperti archeologici), alla fine il gruppetto decide di dire addio alla dolce vita e partire sul serio. Si radunano, ovviamente, in un casolare in Toscana, aspettando che passi a prenderli un compagno che ha i permessi. Il compagno arriva, li abbraccia, ma i permessi non li ha: all'ultimo momento l'esercito di liberazione Vietkong ha deciso di rifiutare la generosa offerta. E i nostri eroi restano lì, in mezzo allo stradone, senza più arte ne parte, per terra c'è una lattina e uno di loro senza pensarci la calcia via. Qualcun altro gliela ribatte. Nel giro di pochi secondi l'intelligentsia di sinistra comincia a tirare colpi furiosi a una lattina in mezzo alla strada, e questa scena finale, che vale tutto il film, al tempo pare che fu molto criticata: Maselli fu accusato di strizzare l'occhio alla commedia all'Italiana (oggi questo sarebbe un complimento, ma appunto, stiamo parlando di un'era arcaica).
Io vado più in là: il calcetto rabbioso, disperato, che chiude questo film, è la profezia di vent'anni di cinema italiano bruttino: ci si leggono in nuce tutte le partitelle dei film degli anni Zero, degli anni Novanta, forse anche degli anni Ottanta, la poetica dell'infanzia protratta oltre qualsiasi plausibilità, anche ai bordi dei teatri di guerra. Quanto siamo immaturi, ma quanto siamo simpatici, ma quanto siamo immaturi. Però simpatici. Però immaturi. Sempre così. E all'estero forse piacciamo così, per dire col calcetto di guerra Salvatores ci ha anche vinto un Oscar.
Mi chiedo invece se sia un film comprensibile all'estero, Boris; se il malessere che disseziona senza pietà sia commerciabile al di fuori della nostra nicchia angusta, magari anche dopo che ce ne saremo andati e la traccia audio comincerà a sbiadire. Non so neanche se augurarmelo, forse l'oblio sarebbe più pietoso nei nostri confronti, e allo stesso tempo mi piacerebbe che i nostri nipoti capissero come ci sentivamo, ai nostri tempi, quei tempi in ci siamo messi tutti messi a dire: Dai, dai, dai. Cosa significava dunque essere italiani nel 2011, lavorare in Italia nel crepuscolo di Berlusconi? Questa sensazione di galleggiare sul marcio, senza pretese di essere migliori, anzi, accettando i compromessi, finché non te li trovi praticamente infilati nel retto a forza, i compromessi, e allora ti ribelli: non è per politica, politica hai smesso di farla, a un certo livello è semplicemente un riflesso condizionato, potrebbe essere qualsiasi cosa, una luce troppo smarmellata, un ralenty ridicolo, a un certo punto abbiamo detto di no. Però non ce ne siamo andati, andare dove? Alla nostra età? E poi ormai c'è la crisi dappertutto, così siamo rimasti lì, aspettando che un altro riflesso condizionato ci rimettesse in carreggiata, che un'altra voce nella nostra testa ricominciasse a dire Dai. Dai. Dai che stavolta ce la possiamo fare. Dai che stavolta la portiamo a casa. Perché sarà diverso, stavolta. Non ci faremo andare bene tutto. Sapremo dire di no, anche agli amici se necessario. Stavolta faremo un buon lavoro.
Infatti non è che abbiamo tutte queste ambizioni. Forse sta lì il problema? Noi non siamo i roberto saviano di niente, noi nella vita vorremmo soltanto fare un buon lavoro, un lavoro serio. Qualunque cosa, anche un ristorantino, perché no, diteci soltanto cosa si può fare di serio in Italia e noi ci proveremo. Poi, quando tutto ricomincia ad andare a rotoli, non abbiamo neanche la forza per mandare tutto a fanculo; ci resta il sospetto di essere noi stessi il problema, noi che tolleriamo tutto quello che ci scorre intorno finché non ci sovrasta, noi che siamo sempre disposti al compromesso, anche col demonio, anche col proctologo del demonio, ma sappiamo veramente cosa vogliamo? Se a un certo punto, a furia di restringere le nostre ambizioni, a circoscriverle, le ridurremo a un punto - cosa ci sarà in quel punto? Dai dai dai, ma dai dai cosa? Cos'è che vogliamo veramente portare a casa?
Non lo so se Boris sia un buon film. So che Pannofino è un grande attore; dal momento in cui mi sono seduto mi sono ritrovato dentro al suo René Ferretti, e tutto quello che volevo era uscirne con dignità, finire un film decente, fare qualcosa di serio. E alla fine, dai dai dai [spoiler] mi sono ritrovato infilato a forza un cinepanettone. Così è l'Italia e purtroppo così sono anche io.
Mi è piaciuto, mi sono sentito male esattamente come volevo sentirmi, grazie. Temo solo che pochi al di fuori di noi possano capirlo; che il nostro malessere sia oltre un certo limite incomunicabile; e forse un po' ci spero anche. Forse alla fine avrei osato di più, avrei smarmellato più grottesco, è una spezia che non mi stanca mai. La scena in cui sono tutti al cinema a rimirare il loro stesso orrore, ecco, lì avrei calcato più la mano. Prima li avrei mostrati impassibili, tristi, mentre visionano scoregge. Poi lentamente avrei cominciato a farli ridere; risate nervose all'inizio, poi sempre più sforzate, sempre più tignose, col risucchio a scoreggia. Grandi risate tragiche, mentre la sala diventa buia. Li avrei fatti ridere fino a morirne, con la stessa energia disperata con cui gli intellettuali di Maselli infuriavano su una povera lattina, in un antico film di quaranta anni fa. Quanto siamo simpatici; però, riflettendoci bene, quanto schifo facciamo.
Quando ho letto della morte di Monicelli nel mio cervello è subito partito un motore di ricerca, molto più lento e meno efficace di google, con le parole di ricerca “film di Monicelli + morte”. E ho scoperto una cosa che mi era davanti sin da piccolo, perché i film di Monicelli sono sempre stati parte del mio paesaggio, e come il paesaggio, ci ho vissuto davanti senza mai fermarmi a rifletterci sopra troppo: ogni tanto, se qualcuno me lo chiedeva, alzavo la testa e confermavo: era bello. Ma non avevo mai veramente fatto caso a quanta morte ci fosse.
Beninteso, se penso a “morte + cinema italiano” non è che mi vengano in mente solo film di Monicelli. Posso pensare alla corsa di Anna Magnani, o all'ultimo sorpasso del Sorpasso, o alla fine del merlo in Uccellacci e Uccellini, e Monicelli non c'entra nulla. Ma penserò più volentieri al finale struggente di Amici Miei, con Philip Noiret che fa la supercazzola al confessore, e la vedova che non vuole controllare per paura che non sia morto davvero; all'assassinio brutale e lentissimo del Borghese piccolo piccolo. Penserò alle morti buffe e orrende che lardellano il Brancaleone dall'inizio alla fine. Forse quello che hanno in comune i morti dei film di Monicelli è la loro normalità: la morte è una cosa che accade, piuttosto spesso, e la vita (la vita dei borghesi piccoli, dei nobili zingari, dei fanti alla Grande Guerra) continua. Ho la sensazione che nei film di oggi (Moretti, Muccino, Ozpetek) non succeda così: c'è molta più tragedia, più prefiche esasperate; sempre almeno una scena in cui si piange e basta, come se piangere fosse di per sé interessante. Se muore un parente vostro, magari, ma un personaggio di celluloide... ma poi in generale vale la pena di parlarne così a lungo, di questa cosa che si muore; vale la pena di scriverci pezzi su internet? Se lo sarebbe immaginato, Monicelli, di ispirare un dibattito parlamentare? Ma neanche in un soggetto di Age e Scarpelli.
La vita continua, con chi rimane. Dov'eravamo rimasti? Si parlava di film scolastici, ecco, per esempio, Monicelli è un regista scolastico? Avrei tanta voglia di rispondere sì, assolutamente sì. Per la chiarezza espositiva, per l'attenzione al dettaglio quotidiano, per l'equilibrio di dramma e risate; e per le sceneggiature di Age e Scarpelli, che hanno un non so che di didattico che titilla l'intelligenza di ciascuno di noi, senza però mai offendere l'ignoranza (di ciascuno di noi). Vorrei poter dire, sì, Monicelli è un patrimonio culturale e scolastico; istituiamo ordunque l'ora di Monicelli in tutte le scuole della Repubblica. Purtroppo all'atto pratico non è vero, Monicelli è un autore difficile. Io so di classi rimaste indifferenti persino davanti all'Armata Brancaleone. Non avviene così, che so, con Chaplin. Egli mi sembra eterno: quando cade fa ridere, penso che continuerà a far ridere nei secoli nei secoli. Per contro, Brancaleone va spiegato: vedete, fa ridere per questo e quest'altro motivo. E francamente non so se ne valga la pena.
Non ho dati statistici da offrire, ma ritengo che il film di Monicelli più proiettato nelle scuole sia la Grande Guerra. Ma è un film adatto? È il miglior film sulla grande guerra che si possa mostrare a dei tredicenni? Ho paura di no. Per diversi motivi, tutti antipatici. Intanto è in bianco e nero. E man mano che sfiorisce l'ultima generazione che lo ha associato all'infanzia e alle foto dei nonni, il b/n diventa sempre più incomprensibile. Lo usino gli artisti per fare film artistici: ma a scuola se porti un film è per offrire a uno studente un fondale realistico a una serie di nozioni che altrimenti risultano troppo astratte (cos'è una trincea, cos'è una bomba a mano): e tanto vale offrirglielo più realistico che puoi. I ragazzi non lo capiscono, il b/n, non hanno mai fatto un sogno in b/n: per loro non vuol dire “vecchie fotografie dei nonni”: vuol dire noia, e lezioni noiose ne fanno già tante.
Poi c'è il problema del sonoro. È dura ammettere che uno dei cardini della commedia all'italiana, l'uso espressivo e comico delle parlate regionali, a scuola non funziona. Per ridere bisogna conoscerli già, i dialetti, e saperli maneggiare: e invece qui, se danno del mona a Jacovacci tu devi spiegare cos'è un mona. Certe battute che possono sembrarti immediate, avrebbero bisogno dei sottotitoli. Triste, ma è così.
È un film lungo, che comunque dà per scontate molte cose: se non hai studiacchiato un po', non sai da dove viene l'anarchismo di Busacca (“non l'avete letto il Bakunin?”), né le tirate retoriche, così poco convinte e convincenti, di Jacovacci. È un film di maschi, con una Mangano meravigliosa, il cui personaggio tuttavia non corrisponde più agli standard attuali del femminismo – per farla breve, la scena in cui si trova alla finestra l'intero reggimento ha delle implicazioni ributtanti (nb: uno dei test empirici di comprensione – e maturazione – è verificare se gli studenti hanno capito che mestiere fa la Costantina).
Insomma, La Grande Guerra non è il miglior film sulla prima guerra mondiale da proiettare nelle scuole. Molto meglio la versione a colori di Niente di nuovo sul fronte occidentale: niente di nuovo neanche per gli adulti che lo guardano, ma appunto, si vedono persone saltare in aria sul filo spinato a colori. C'è un ragazzino che cresce e accumula esperienze, per cui può scattare un'identificazione che Busacca e Jacovacci respingono. E tanti dettagli che affascinano i maschietti: per esempio a un certo punto dà la spiegazione pratica del perché i tedeschi rinunciarono a quell'elmo chiodato tanto caratteristico (i francesi vedevano il chiodo spuntare dalla buca e mitragliavano). Ma c'è persino di meglio.
Un film francese di pochi anni fa, si chiama Joyeux Noel. È la storia di quel Natale in cui francesi e tedeschi uscirono fuori dalle trincee e solidarizzarono (e poi furono puniti, per questo, dai rispettivi eserciti). Dire che è bello, non lo posso dire: non me lo ricordo affatto, il che coi bei film non succede. Ma un anno feci una vera e propria rassegna, un film a settimana, proiettai di tutto, Magni, Rossellini, Schindler's List... alla fine chiesi qual era il film che si ricordavano meglio e loro risposero: Joyeux Noel, che avevo preso sotto Natale perché non mi veniva in mente nient'altro. Può darsi che un brutto film recente funzioni molto meglio di un capolavoro in bianco e nero: sono cose che devi accettare: sei un insegnante, non un direttore artistico di una cineteca. Quindi, insomma, ci sono film molto più adatti di quelli di Monicelli.
Ma io continuo a mostrare il film di Monicelli. Perché sì, è lungo, ma è proprio la lunghezza che ti fa sentire la stanchezza della guerra. Perché è complicato, ma alla fine ci sono gli austriaci che arrivano davanti a un cartello VENEZIA KM. 40, lo cancellano e scrivono VENEDIG, e davvero non saprei trovare un'immagine migliore per spiegare alla svelta cosa è stata Caporetto. Perché magari lo studente non riesce a identificarsi con nessun personaggio, ma l'insegnante non può non sentirsi Bollo Tondo, e provare riconoscenza per quegli sceneggiatori che sono riusciti a trovare una fine eroica anche per Bollo Tondo. Perché è il più eroico dei film antieroici, e siccome non sai mai se ai ragazzi glielo devi offrire o no, l'eroismo, quello agrodolce di Monicelli alla fine ti sembra l'unica opzione praticabile.
Si parlava di morti al cinema. Per me la più sublime resta sempre quella di Jacovacci. Busacca, si è capito, è un umorale: se lo offendi ti prende di petto, e di petto si prende anche le pallottole. Ma Jacovacci ha una paura fottuta, e la mostra: la tira fuori tutta, nella speranza magari di impietosire chi ha davanti. E muore da eroe fingendo di essere il vigliacco che in realtà è. È un paradosso geniale, e io che non sopporto pianti e prefiche, ho questa strana devianza: mi commuovono i paradossi. Non riesco a pensare a niente di più sublime che morire da eroe gridando “Io so' un vigliacco”. Fucilata e via, la vita continua, domani arriveranno i nostri e non ci faranno certo un monumento. Quando ho letto che Monicelli si era tolto la vita, non ho potuto non pensarci: che fine eroica, che fine vigliacca. Immaginavo che qualcuno lo avrebbe giudicato un pavido. Esistono queste persone, con molto tempo libero e una gran desiderio di giudicare il prossimo. Qualcun altro invece ci ha visto del coraggio: e anch'io devo ammettere che per lasciarsi cadere così coraggio ce ne vuole. Sono due verità in un gesto solo, ognuno scelga quella che preferisce, come in un film. Io preferisco tenermi il paradosso. Ma in realtà sono solo uno dei fantaccini che arriva di corsa il giorno dopo, con tanto lavoro ancora da fare, e mi volto appena a guardare i caduti, senza fermarmi a piangere che non c'è tempo, non c'è spazio, non c'è bisogno.
Io davvero credo che si potrebbero riempire molte pagine di complimenti, sinceri, per la riuscita di un film ambizioso come Noi credevamo; un film che ti tiene in sala per tre ore parlandoti di una delle cose meno sexy in assoluto, il Risorgimento italiano; un film che riesce nell'azzardo di riaprire quel baule nascosto nella memoria scolastica di ciascuno di noi, senza farci soffocare di polvere; e senza nemmeno spacciarci quelle decalcomanie di eroi che in tv girano ancora parecchio.
Sul serio, se ne potrebbe scrivere a lungo, e bene, di un film così coraggioso. Ma non lo farò, e un po' mi dispiace.
Qui sotto invece vorrei spiegare, spero senza offendere nessuno, perché malgrado tutto io a scuola non lo userò. Naturalmente, oltre a non essere un esperto di cinema, non sono nemmeno un luminare di didattica audiovisiva. Sono un praticone, come tutti gli insegnanti italiani: ho avuto parecchie classi, ho proiettato diversi film, e credo di aver capito perché coi miei ragazzi certi film funzionano e altri no. Magari è un discorso che funziona solo al mio paese. Ma potrebbe anche avere qualche utilità per chi i film li fa, o li produce, e non vorrebbe rinunciare al pubblico scolastico; che di sicuro non è quello che riempie le sale i primi giorni, ma che sulla distanza si fa sentire, e magari può trasformare un insuccesso ai botteghini in un long seller tra i dvd. Un film risorgimentale che non funziona a scuola, per quanto pregevole, non è un'occasione sprecata?
Perché Noi credevamo non funzionerebbe nella (mia) scuola media
Premessa: noi il Risorgimento lo facciamo ancora in terza (adesso). Tra un po' lo sposteremo in seconda, con le semplificazioni del caso. Quindi no, non mi lamenterò perché Mazzini non è filologicamente Mazzini; col poco tempo che abbiamo va già grassa se riusciamo ad abbinare al volto di Mazzini alcuni contenuti basilari (Giovine Italia, Repubblica romana 1848, l'Italia si fa ma lui muore clandestino).
1) Troppo veloce
Lo so, i ragazzini sono tutti iperattivi, nintendo, playstation, ritalin. Sì, ma proprio per questo poi li metti davanti all'Odissea di Rossi e vanno in trip lisergico. Le riprese statiche li ipnotizzano. A essere onesti anche Noi credevamo prende fiato, ogni tanto, soprattutto nella parte carceraria. Ma è già passata un'ora serratissima di gente che va e viene dal Cilento, Parigi, Torino, Ginevra; non c'è il tempo di parlare di un'insurrezione che l'insurrezione si fa e fallisce. In tutta questa cavalcata la narrazione va avanti dando per scontato centinaia di nozioni che lo spettatore medio conosce già (ad es., cos'è un “giacobino”), ma appunto: le conosce perché le ha imparate a scuola. E a scuola, appunto, gliele devi spiegare. Il più delle volte con il fermo immagine (durante il quale c'è sempre qualcuno che sbuffa, la spiega del prof non essendo molto meno indigesta di una televendita). Ecco, il grado di 'scolasticità' di un film si potrebbe misurare dalla quantità di fermo immagine a cui ti costringe. Un film che puoi vedere senza telecomando in mano è un film scolastico. Spesso sono film come l'Odissea o Allonsanfan, col fermo immagine incorporato. Noi credevamo è un film che comincia con una corsa a perdifiato, e chiede allo spettatore di inseguirlo. Nel ritmo forsennato della prima parte mi sembra di riconoscere la tipica sintassi del film condensato: quello che era stato progettato per quattro ore e poi è arrivato alle tre della versione nelle sale attraverso una serie di tagli meditati e, immagino, dolorosissimi. Il risultato, a vederlo nelle sale, è più che degno; ma a scuola no. A scuola, più un film è veloce, più ti tocca perdere tempo a spiegarlo. Conosco già l'obiezione: aspetta la versione televisiva, avrà tempi sicuramente più rilassati. E arriviamo al punto (2)
2) Troppo lungo.
Signori, non li faccio io i programmi: quel che vi posso dire è che se parti a settembre con la Restaurazione e a giugno devi far crollare il muro di Berlino, e hai solo due ore alla settimana, 66 ore l'anno; e hai 25 alunni in media; e li devi interrogare – quante volte a quadrimestre? Quanti minuti l'uno? Insomma, fate i vostri conti. Un film di tre-quattro ore è una botta al calendario che non mi posso permettere. Due ore sì, tre no. Anche se...
3) Troppo collaterale.
...anche se in realtà si potrebbe trattare. Dammi un film di tre ore che mi sostituisca efficacemente una trentina di pagine di manuale. Dammi una spolverata di moti carbonari; dammi la vita e le idee di Mazzini con tutte le didascalie al posto giusto;
dammi il '48 in tutto il suo furore, un bel condensato di Garibaldi, e una mezz'ora onesta con la questione meridionale e il brigantaggio. Se nel finale riesci pure a infilare la breccia a Porta Pia, te lo compro a scatola chiusa. Ma Martone non ha voluto fare un film così (ammesso che sia fattibile). Ha preferito prendere le storie molto personali di due giovani che, per una serie di concause e di sfortune, si perdono tutti gli snodi che stanno sui libri di Storia. Non solo snobba l'impresa dei Mille, ma si sofferma sul suo sequel fallito, la marcia su Roma da sud abortita sul nascere in Aspromonte, che sui manuali occupa giusto due o tre righe imbarazzate. In una prospettiva adulta l'intento è più che lodevole. Mostrare Garibaldi come un'ombra lontana, raccontare l'attentato a Napoleone III che nei manuali di solito non c'è. In questo modo intorno agli schemini memorizzati a scuola prende forma negli spettatori qualcosa di più corposo, la Storia dei libri diventa il groviglio delle storie dei viventi. Tutto molto bello, ma funzionerebbe senza gli schemini che abbiamo imparato da piccoli? Se non sapessimo nulla di Napoleone e di Napoleone III, nulla di Garibaldi e nulla di Francischiello, riusciremmo a orientarci in Noi credevamo? È un film per adulti. Nel più nobile senso del termine.
4) Nessuna qualità agli eroi
Anche nella sua prospettiva totalmente antieroica. È un film senza personaggi simpatici: ce n'è uno che [spoiler] muore dopo mezz'ora, e il resto del film prosegue con adulti sempre più mesti e delusi. Invece ai ragazzi devi dare l'entusiasmo, l'ansia e l'allegria di crescere, la scoperta di sé, almeno un amorazzo decente. Qualcosa del genere c'è nell'ultima parte, dove troviamo finalmente un ragazzo un po' entusiasta. Però non è uscito molto simpatico, devo dire. Ora io non è che voglio crescere dei piccoli garibaldini, anzi: la retorica risorgimentale è stata uno degli ingredienti che Mussolini ha trovato nei refettori delle scuole del Regno quando si è trattato di impastare il fascismo. Però non puoi mettere i ragazzini davanti a tre ore di disillusioni e fucilazioni, è un crimine contro il futuro. Persino Allonsanfan, col suo umor nero, aveva qualche scorcio di follia vitale che riscattava tutto il pessimismo. Noi credevamo no, è una lunghissima elegia che riesce a non addormentarti per tre ore: onore al merito, ma ai ragazzini no, non hanno fatto niente di male.
5) Poche ragazze
E qui non c'è niente da fare. Le classi sono miste, i ragazzi hanno gli ormoni, le ragazze hanno bisogno di modelli di riferimento; l'Inaudi fa quel che può. Provateci voi a dar vita a un'ereditiera filo-proletaria nei salotti di Parigi, in piena età romantica, con tutte le svenevolezze del caso: poteva essere molto, molto più ridicola di così. Buono, ma non basta: su tre ore, due e mezza sono totalmente occupate da guerre, galere e attentati. Le donne sono comparse, troppo spesso destinate a fini ricreativi (qualcosa del genere accade in un altro film diversissimo che è nelle sale in questo momento, The Social Network: non un buon segno). Per carità, meglio così che inventarsi pasionarie che non ci sono state, però... un bel fumettone Giuseppe & Anita no, eh? Quello lo proietterei.
6) Cose che se me le chiedono, non saprei rispondere nemmeno io.
Il che è sommamente imbarazzante. Come funziona il trucco per alienare l'olio ai contadini? Come esce Lo Cascio di prigione? Quando i piemontesi arrestano i garibaldini, come fanno a riconoscere i disertori? Quella bomba che Orsini regala a Crispi, cosa sta a significare? Ma davvero nel bel mezzo della repressione del brigantaggio puoi andare in giro per la Calabria con un fucile a tracolla e nessuno ti dice niente?
Prologo: cinema Capitol, un anno fa. Davanti a un pubblico estasiato e accaldato scorrono gli ultimi fotogrammi di Inglorious Basterds. Buio. Titoli. Musica. Dalle file più lontane, qualcuno rompe il silenzio storpiando un nome... “Allonsanfan!”
“Ssssst!”
“Ma questa è... allonsanfan!”
“Seh, e poi c'è Fratelli d'Italia”
“Ma no, nel senso che...”
“Sssssst”.
Premessa: questa settimana dovrei andare al cinema, se non altro per una questione di aggiornamento professionale, e verificare se Noi credevamo sarà davvero, nei prossimi anni, il miglior film sul risorgimento da proiettare in terza media. Ma nicchio. Tre ore! e se poi dopo dieci minuti salta fuori che è la solita fiction in costume? Tanto vale aspettare che lo diano in tv – il Barbarossa però lo sto aspettando da un anno (ehi, lo sto aspettando sul serio). E poi c'è un altro motivo.
Io ce l'ho già, il film sul Risorgimento.
No, non è il deprimentissimo Bronte. No, niente sceneggiati su Garibaldi, né rosselliniani né d'epoca craxiana. Io tutti gli anni non vedo l'ora che si parli di Restaurazione per proiettare un film incredibile, e pensare che l'ho scoperto proprio a scuola. Dissolvenza incrociata.
Notte uggiosa di qualche autunno fa. Una nera figura si muove nella notte – sono io che sto andando a fare una supplenza alle serali. C'è un guaio, siamo in due e dobbiamo gestire una quarantina di personaggi di classi diverse. Badanti moldave e ragazzi pachistani sono i due gruppi più rappresentativi. Che si fa?
“Ho trovato una videocassetta in sala insegnanti”.
“Beh, se non c'è alternativa... che roba è?”
“Allonsanfan. L'hai mai visto?”
“No. Fratelli Taviani. Boh, brutto non sarà”.
Non è un'esperienza professionale di cui vado particolarmente fiero, però mi ha insegnato qualcosa (ai pachistani probabilmente no). Cos'è un film a scuola? Quali sono i film che funzionano? Ecco, ci potrei scrivere un libro, dal quale magari qualcuno potrebbe trarre un film, che non sarebbe adatto da proiettare a scuola. Ci sono film fatti apposta per la scuola che non funzionano minimamente: magari erano perfetti quando sono stati realizzati, adesso no. Ci sono film che dici: piaceranno! E dopo dieci minuti si stanno cavando gli occhi con gli spigoli dei banchi. Ci sono film che non ti aspetteresti mai, sceneggiati antichi e lentissimi che invece... ci sono pellicole che puoi perfino odiare, ma devi ammettere che a scuola funzionano. E poi ci sono quei film talmente assurdi, talmente fuori da qualsiasi categoria, che funzionano a scuola esattamente come funzionerebbero in qualsiasi altro ambiente: fuoriserie, fuori mercato, fuori tutto. Allonsanfan dei fratelli Taviani è il primo esempio che mi viene.
Dopo un quarto d'ora avrei voluto fermare il vhs: basta, tutto questo non ha senso, mettiamoci a studiare le flessioni verbali (alle 21:30, con due classi di sconosciuti dalle occhiaie stanche di lavoro). Poi Laura Betti, col suo sguardo incestuoso, si mette a cantare l'Uva Fogarina. E succede qualcosa. Trenta pachistani, dieci marocchini (che non sopportano i pachistani) e diversi sfusi si mettono a cantare “diridindindin”. Come se l'avessero sempre saputa. Gli arcani dell'inconscio collettivo. Avrebbero continuato col diridindindin per una settimana. Insomma, il film in un qualche modo stava facendo breccia. E cominciavo ad appassionarmi anch'io, volevo vedere come andava a finire.
In seguito ho avuto altre classi. Più o meno scalcagnate, più o meno galleggianti sulla soglia dell'alfabetizzazione. Non ho mai rinunciato a mostrare Allonsanfan. Col vhs, finché ha tenuto, poi lottai perché la videoteca si dotasse del dvd. Con la lavagna luminosa, con quella interattiva, con o senza sottotitoli. Malgrado quelle due scene di nudo da tagliare (è un film che parla anche di sesso, di quando i rivoluzionari smettono di farlo, di perché ricominciano). Purché ci sia la possibilità del fermo immagine, perché (come non manco di far notare) a ogni fermo immagine, Allonsanfan ti restituisce un affresco sulla parete. È un film fatto con un grande amore, che si vede, pochi soldi (e non si vedono): attori filodrammatici, bambini inquietanti, e Mastroianni immenso, che si regala per cento minuti. E quel motivo di Morricone che Tarantino ha ripreso pari pari, proprio in coda al suo masterpiece.
("Stiamo facendo il gioco della polizia, spiegalo tu a quest'imbecille!")
Allonsanfan è un'opera del 1974 che non ci prova nemmeno, a fare il film storico. Per intenderci, nella prima scena Mastroianni, carbonaro, viene liberato dalle carceri di Milano e gli sbirri, tutti vestiti di nero, gli fanno quella cosa che nei centri sociali chiamavano “trenino”: loro tutto intorno coi manganelli, e lui deve passare in mezzo. È una storia di rivoluzioni mancate e cialtroni armati, assolutamente attaccato a quello che stava succedendo in quegli anni; quindi ai ragazzini di oggi non dovrebbe dire niente. È un film sulla stanchezza: cosa vuoi che interessi ai prepuberi la stanchezza, la crisi dei quarant'anni. È un film sul riflusso, sul ritorno al privato; un argomento che in seguito avrebbe stuccato (alla fine ha ispirato più libri e film il riflusso che il '68)... però, aspetta... è un film sul riflusso nel 1974. Come dire che il '68 è durato pochissimo, forse solo una mezz'ora (il tempo per prendersi un sei politico), la stanchezza è subentrata immediatamente.
L'atmosfera di Allonsanfan è quella dei gruppetti di extrasinistra di quegli anni. Mastroianni viene liberato, appunto, perché conduca sbirri e spioni nel covo dei congiurati. I congiurati però lo rapiscono, lo scarrozzano per una Milano virata in verde, lo nascondono e cercano di fargli un processo. In realtà è un gruppetto di cialtroni senza un leader, che si è appena impiccato dalla disperazione. Mastroianni li abbandona e torna in campagna, dalla sua famiglia: da suo fratello, che porta ancora il parruccone (la barba incolta e romantica di Mastroianni vicina al parruccone settecentesco del fratello è una delle migliori lezioni di storia del costume che si possano fare). In un primo momento si finge un frate, indulge al melodramma, porta la notizia di sé stesso morto... ma quando vede i fratelli in lacrime si scioglie, li abbraccia, sviene, si fa curare, si rade, canta l'uva fogarina con la sorella. Non pensa più alle rivoluzioni. È felice. Ma gli amici hanno altri piani per lui, e stanno arrivando a riprenderlo. Mastroianni li tradirà più e più volte; li manipolerà, li metterà gli uni contro gli altri, farà il possibile per abbandonarli al loro destino di cialtroni: niente da fare: a un certo punto una barca di camicie rosse salperà da Genova per il sud, e lui senza volere si ritroverà a bordo... è un film comico, a suo modo. Con scene ridicole e altre da incubo, l'apparizione improvvisa di un rospo che gela il sangue nelle vene. Il tutto ambientato a carnevale, perché sia chiaro che mentre i cialtroni programmano la rivoluzioni, la gente là fuori pensa solo a divertirsi. È il Risorgimento più antieroico che si possa immaginare. Non è certo quello vero, ma fosse la prima volta che usiamo la Storia per parlare di noi. Come se la Storia ci servisse ad altro.
("Fate tacere quel meridionale. Con le sue storie eccita i Fratelli!")
A volte mi pongo il problema. Forse esagero, con questi antieroi. I ragazzini sono piccoli, prima dell'antieroismo non bisognerebbe dar loro un po' di eroismo puro e semplice? Prima di mettere in discussione la Storia, bisognerebbe insegnargliela: e a chi tocca, se non a me. È vero.
Però Allonsanfan funziona, più di qualsiasi agiografia. Ha la potenza delle immagini, che sono semplici e universali: c'è poco da spiegare, un rospo è un rospo, un fucile un fucile; una borsa di monete d'oro può servirti per finanziare una missione suicida nel Regno delle Due Sicilie o per rifarti una vita nelle Americhe. E la rivoluzione non è un valore in sé. I sognatori, a una certa età, si ritrovano la testa spaccata. Perché non si danno una calmata? Hanno fretta. Si sentono gli unici svegli in un mondo che dorme, e non lo sopportano. L'idea che il mondo comunque cambierà, ma quando loro saranno vecchi, non li consola: li tormenta. E allora cominciano a frequentare gente poco raccomandabile, mitomani, assassini.
Di film sugli eroi sono pieni i cinema. Magari mi sbaglio, ma credo che non sia grave se a scuola i ragazzini ne vedono uno un po' diverso. Uno in cui gli eroi invecchiano senza gloria, alcuni mettono le rughe, nessuno mette giudizio, e tutti han fretta che arrivi la fine, non importa quanto sia ridicola. Probabilmente il film di Martone è più adatto, più attuale, più didascalico. Probabilmente. Preferisco far finta di niente, ancora per un po'. Per un po' voglio ancora sentire, nell'intervallo, qualche tredicenne che canta diridindindin.
Su Youtube c'è poca roba. Praticamente solo la scena finale - non guardatela!
[Proprio quando credevate di essere usciti dal tunnel delle recensioni di Somewhere, indovinate un po' chi arriva fuori tempo massimo:]
Francis Ford Coppola è stato uno degli ultimi titani del cinema americano. Muoveva i suoi set tra tifoni e tossicodipendenze. Spappolava budget, indebitava produttori, occasionalmente sbancava botteghini. Lui poi ai figli ha raccomandato di non fare così: di girare film piccoli, personali, come dire, europei. Sofia Coppola ha recepito il messaggio e ha affittato Versailles per girare un film in costume su Maria Antonietta. Però con le All Star ai piedi. E in fondo, se tutto quel film fosse stato un enorme “Marie Antoniette c'est moi”, sarebbe stato persino divertente. Ma il problema è che con la Coppola non si sa mai esattamente: in certi punti sembrava un film iperrealista; poi ogni tanto sotto le parrucche partiva l'Ipod, ma il tutto restava irrisolto, non lucido; insomma alla fine non si capiva, Maria Antonietta eri tu o no? Cosa volevi dirci? Che hai avuto un'adolescenza di lusso ma a tratti assai scomoda? Ok, quindi?
Ma è una domanda sciocca, contadina. Io temo che la Coppola non voglia dirci proprio niente, che non sia il motivo per cui gira dei film. Dobbiamo intenderci su cosa intendiamo per minimalismo, perché c'è viceversa del titanismo nel modo in cui certi autori si concentrano su sé stessi. Fino a un certo livello il narciso è una persona antipatica e supponente; però salendo sulla scala logaritmica si arriva a un livello di narcisismo tale che alla fine non puoi dirle niente, alla Coppola, per il semplice motivo che nel suo universo tu non esisti. Sei un grammo di inconsistenza a miliardi di anni luce dall'abbagliante supernova Sofia C., e se ti è capitato di vedere il suo film è stato per un accidente del destino; comunque non era rivolto a te. Non era rivolto a nessuno. Io comincio a pensare che Coppola i film se li giri per sé stessa, e chiedersi perché siano fatti in un certo modo equivalga a chiederti perché sulla smemoranda di tua nipote c'è una massima di Biagio Antonacci piuttosto di un verso di Tiziano Ferro. Saranno mica fatti miei? Se a lei piace Casablancas, e lascia che si ascolti Casablancas. Si esce da Somewhere con l'aria colpevole di chi è entrato nella cameretta di una preadolescente mentre lei non c'era. Credo. Non che io entri mai in camerette, eh, non credete alle voci.
Credo che capiti a tutti di voler rivivere un po' del nostro passato. Non di ricordarlo: riviverlo proprio: annusarlo, gustarlo, rivederlo. Mille sono gli espedienti. Zeno Cosini prova con la psicanalisi. Marcel assume pasticcini per via orale. Io con un caffè alla cannella se mi concentro ho visioni del Connecticut. E poi ci sono le canzoni, e le fotografie. Abbiamo tutti i nostri trucchi, ma Sofia Coppola ne ha uno tutto suo: gira i film. Certo, perché no? Suo padre per Apocalypse Now affittò mezze Filippine, ma voleva descrivere l'involuzione della società americana, e quindi, forse, chissà, ne valeva la pena. Sofia sembra che si accontenti di movimentare le maestranze italiane e rimontare un set del Telegatto, però non è che abbia niente da dire sulla società dello spettacolo o sulla volgarità dei paesi in via d'inviluppo, o anche solo su quanto sia noiosa la quotidianità nello showbiz; lo fa semplicemente perché vuole rivivere un ricordo. Come Marcel che puccia la madeleine nel tè, lei si gira una sequenza. Io lo trovo titanico, e un certo senso lo ammiro, ma come un contadino del Settecento che vede passare un cocchio dorato e non capisce più niente. Per mal che vada Somewhere sarà costato decine di milioni; alberghi, ferrari, elicotteri... ma alla fine ha funzionato, Mrs Coppola? Perché è da settimane che stiamo tutti chiedendoci se ci è piaciuto o no, ma alla fine la nostra opinione che valore ha? L'unica che possa dirci se questo film sia riuscito o no sei tu: ce l'hai fatta? Ti sei rivista undicenne magra amata ma trascurata, sballottata da una piscina all'altra? Se il film ha funzionato, complimenti. Io continuerò a spruzzar cannella nel caffè, mi sembra più comodo, ma capisco che al tuo livello è impossibile non pensare in grande. La cosa fantastica è che invece ti danno della minimalista, a te! Supernova Sofia!
Perdonami se ho sbadigliato al cinema – è una cosa che mi succedeva con le diapositive degli amici, figurati con quelle di gente che nemmeno conosco. Non è neanche una questione di ritmo, è una reazione molto più banale: nei tuoi film la gente non fa che addormentarsi e svegliarsi, ma più spesso addormentarsi. Capisco benissimo il motivo: è nei momenti liminari al sonno che tu cerchi di ripescare la sensazione del passato. È lo stesso motivo per cui insisti con le piscine (tuffarsi, riemergere), e vai matta per certi suoni sferraglianti e ipnotici che una volta si ascoltavano in cuffia sotto le lenzuola. È lo stesso motivo per cui il cantastorie del lounge ha la chitarra orrendamente scordata: uno strumento ben temperato suona come milioni di altri, ma se tiri le chiavette a casaccio il suono diventa unico, e si imprime nel ricordo mentre tu undicenne ti addormenti. Però gli spettatori dei film, insulse scimmie che secondo me non ha mai calcolato, hanno queste reazioni banali: vedono uno sbadiglio e sbadigliano. Vedono occhi chiudersi e cominciano a sbattere le ciglia. Sentono una chitarra scordata e stridono i denti. Ma cosa vogliono? Chi li ha invitati alla proiezione dei fatti tuoi? Che stiano in casa, guardino The Hills, mangino brioches.
[Un episodio di The Hills o The City girato da Sofia Coppola, per inciso, sarebbe la quadratura del quadrato].
Perdonami se ho cercato di capire un personaggio che non ha nessuna consistenza, così come non l'hanno spesso i nostri amori trasfigurati nel ricordo: questo è un divo del cinema che sembra in vacanza da una vita. Non legge i copioni, non studia, non fa palestra, niente. Ma nemmeno si butta veramente via: nien-te, non fa niente. Vive in uno strano limbo, come un drogato senza droga: uno che con due birrette si addormenta durante l'atto sessuale. Qualche ex incattivita lo tormenta via sms ma lui probabilmente nemmeno ricorda chi sia. Un tizio a una festa gli chiede come ha fatto a diventare un attore, e lui non ha niente da dire: non sa, non ricorda. Nel momento più lucido del film se ne accorge: “Non sono neanche una persona”. Esatto. Sei la sagoma di cartone di una stella di Hollywood, una di quelle che sistemano davanti al botteghino. Sei un fantasmino froidiano e porti scritto in fronte Non-Pensate-A-Me-Come-Francis-Ford-Coppola-Non-Ci-Assomiglio-Neanche. Purtroppo Freud aveva una stravagante ipotesi su certe frasi che cominciano per “Non”.
In fondo è semplice: basta accettare che tutto il film sia una proiezione della povera undicenne trascurata. Quindi è vero che papà si porta in camera le lapdancine, però poi si addormenta e non ci fa niente, perché in fondo non è un porco papà. Anche Laura Chiatti: lui mica voleva, è lei-stronza-che-ha-insistito, stronza! Maledetta stronza! Rovinarmi la colazione italiana col papà! Il fatto che siano sempre le donnacce a provarci, a tenere le porte aperte, a sventolar tette in terrazzo, mi sembra un indizio interessante. Oddio, interessante. Interesserà il tuo analista. Ma visto che mi trovo qui davanti alla tua smemo, non posso impedirmi di psicanaleggiare alla carlona, perdonami. Questo film vuole ripristinare la verità storica, dell'unica storia che nell'universo di Sofia abbia qualche rilevanza: papà ha scopato in giro, sì, ma solo perché lo costringevano; gliela strofinavano praticamente in faccia, ma lui non è che ci tenesse più di tanto, lui, lui in realtà voleva bene solo a me. Mi ha portato a Milano, non mi avete visto tutti? E un'altra volta mi è bastato fare i capricci, venti secondi di capricci, perché lui accelerasse e mi portasse a Las Vegas. Io e lui: c'eravamo solo io e lui. Tutte le altre puttane non contano, è chiaro il messaggio?
No.
C'è sempre questo problema della lucidità. Per esempio: come facciamo ad assumere il punto di vista dell'undicenne se molto spesso non è in scena? D'altro canto, pretendere lucidità da qualcuno che vuole rivivere (non illustrare: rivivere) il suo passato non è una contraddizione in termini? C'è il problema che a volte non sa cosa fare e gira a vuoto (non il protagonista: il film). Si può anche fare un film tutto di sketch che non fanno ridere e nemmeno pensare, scenette zen in cui succede qualcosa di intenso, a volte, forse (siamo in macchina, la macchina si rompe, accostiamo: fine dello sketch). Però a un certo punto anche le scenette cominciano a ripetersi. Mi dispiace da spettatore ogni volta che un regista usa contro di me l'arma più facile del mondo: blocca la inquadratura e zooma lentamente su un'immagine fissa finché non mi fa venire l'ansia; in pratica è un sequestro, il fatto di aver pagato il biglietto mi costringe a provare ansia per qualsiasi sciocchezza rimanga inquadrata per più di un minuto e mezzo? ma così son tutti buoni. Non è cinema, è sparare ai pesci nel barile, e con dei mezzucci così ti danno il Leone D'Oro? A questo punto è finita, la prossima volta terrà la camera fissa per due ore, tanto agli europei queste cose piacciono. Aveva davvero ragione Woody Allen, se acciechi un regista americano ottieni un autore europeo?
Mi dispiace, infine, per questi finali coppoliani che vogliono sempre alludere alla fine di qualcosa ma in realtà non si decidono mai. La Scarlett molla il marito o no? Maria Antonietta, la ghigliottinano? E la sagoma del protagonista di questo film, che fine fa? Dove va? Perché deve dare l'impressione di andare da qualche parte, quando non è un personaggio, ma una sagoma di cartone senza nessuna destinazione plausibile? È come se in postproduzione qualcuno si fosse ricordato che i film hanno una trama, e quindi un finale. Quando semplicemente non è vero. Somewhere non è un film che possa finire: ci saranno altri alberghi, altre colazioni, altre piscine, e chi non è una persona non lo diventerà mai. Non è una di quelle cose che ti basta fare trenta secondi di capricci e papà ti accontenta.
Nel 2010 dopo Cristo tutta la Gallia, pardon, la Francia, è stabilmente integrata nel mercato globale. Tutta? No! Un villaggio dell'Armorica, abitato da irriducibili Galli, resiste ancora e sempre all'invasore... Perlomeno, resisteva. Fino a qualche settimana fa. Quando anche il villaggio di Asterix ha ceduto alla globalizzazione, e nel modo più plateale possibile: vendendo la sua immagine al prodotto meno francese e più globalizzato che si possa immaginare.
Immaginatevi un Topolino convertitosi al nazismo, o uno zio Paperone che scopra il Capitale di Marx e trasformi il suo deposito in una Cassa Operaia di Mutuo Soccorso. Il cartellone pubblicitario che raffigura un banchetto degli Irriducibili non più sotto le stelle, ma sotto il tetto a pagoda di un McDonald's, è uno choc del genere. Sin dal loro arrivo nelle edicole francesi, 51 anni fa, i Galli di Goscinny e Uderzo hanno incarnato l'orgoglio dei francesi, la loro “irriducibilità” nei confronti dei costumi e delle mode che arrivavano da fuori – in primis, dall'America.
In realtà Asterix deve moltissimo al sogno americano del suo inventore, René Goscinny, emigrato a 19 anni nella patria delle comic strips. Americano è il suo fratello maggiore, il pellerossa Umpa-pà, primo personaggio creato da Goscinny. Prima di essere localizzato in Armorica, il primo villaggio che Goscinny immagina assediato dai 'civilizzatori' è un proprio un accampamento di tepee. Certo, la decisione di creare un eroe gallico era un tentativo di smarcarsi da un immaginario già profondamente colonizzato dagli eroi anglosassoni: cow-boys, gangster, pirati, erano già il pane quotidiano dei giovani lettori francesi degli anni Cinquanta. Eppure anche nel momento in cui creava il suo personaggio francese al 100%, Goscinny in fondo stava mettendo in pratica le sue lezioni americane. Così come Disney aveva voluto concentrare le doti dell'americano medio in un piccolo, simpatico roditore, Asterix sarebbe stato un concentrato delle qualità francesi. I due personaggi mantengono tratti comuni: la bassa statura (che suscita nei piccoli lettori un'istintiva solidarietà), l'astuzia priva di malizie, la disponibilità all'avventura, il naso pronunciato e, sul capo, due grosse appendici che accentuano l'espressività del viso: due enormi orecchie nere per Mickey, due ali bianche per Asterix. Anche le due spalle comiche presentano caratteristiche simili: come Pippo, Obelix è un bambino che non teme di crescere, perché sa che questo non potrà succedergli mai: la marmitta di pozione magica in cui è caduto da bambino lo ha reso irriducibile anche alle preoccupazioni dell'età adulta.
Asterix e Obelix dovrebbero dunque offrirci l'immagine che i francesi hanno di loro stessi: ed è un'immagine piuttosto sorprendente, per come si discosta da quella che noi non-francesi abbiamo di loro. Mancano del tutto, nel popolatissimo universo di Asterix, gli stereotipi che più spesso rappresentano i francesi all'estero: la femme fatale disinibita e chic o l'intellettuale snob parigino. Del resto ai tempi di Asterix Parigi, anzi Lutezia, pur essendo già “la città più bella del mondo” è poco più di un affollato villaggio su un'isolotto della Senna, e i suoi abitanti non sono che paesani rifatti.
La Francia di Asterix e Obelix è sorprendente perché è quella che non si vede quasi mai nei film: la provincia profonda. Per noi la Francia è la patria dell'eleganza e della cucina raffinata: gli eroi di Goscinny disdegnano qualsiasi cibo che non sia il cinghiale arrostito, da sbafare con le mani o con lo stesso spadino con cui si affrontano gli avversari. A ben vedere, nella Gallia di Asterix e Obelix i raffinati sono i nemici, i Romani. Sono loro a cucinare piatti insopportabilmente chic, a ostentare modi effeminati, a costruire dappertutto città di marmo eleganti ma anonime, dotate di modernissime terme. A questo processo di globalizzazione Asterix e Obelix si ribellano con l'astuzia e il buon senso dei provinciali (e una buona dose di barbarica forza bruta). Dopo le prime trionfali avventure contro i Romani, nel corso degli anni '70 le sceneggiature di Goscinny diventano più complesse e profonde, lasciando intendere sempre più chiaramente che il vero invasore a cui resiste il villaggio non sono i poveri legionari Romani, ma il progresso. Nel tentativo di "civilizzare" gli irriducibili, i Romani le proveranno tutte: abbatteranno la foresta per trasformarla in un villaggio residenziale; in una delle ultime e più amare storie di Goscinny, un sosia del giovane Chirac riuscirà addirittura a corrompere Obelix, trasformando la sua attività di intagliatore di menhir in un'impresa industriale che, fortunatamente, avrà una vita breve. La voglia di menare le mani avrà il sopravvento, e la foresta ricoprirà ancora una volta i progetti imperialisti dei civilizzatori. È questo che rende la resa a McDonald insopportabile ai lettori. Asterix avrebbe potuto farsi gladiatore o legionario, visitare l'America o crescere un figlio: tutto questo nel corso degli anni è effettivamente successo, senza che nessun lettore si sentisse tradito. Ma vendersi a McDonald è davvero troppo.
Da parte loro, gli addetti marketing McDonald non possono che essere entusiasti. Sostituendo all'inquietante clown Ronald il piccolo Gallo, sanno di poter sfruttare la visibilità di un personaggio amato da generazioni di lettori. Nel gergo dell'ambiente, Asterix oggi è quello che si chiama un franchise: un personaggio già affermato che può fruttare milioni di euro grazie ai film (animazione e live action), al merchandising, e a operazioni pubblicitarie come questa. I veri asterixologi si potevano consolare, fino a qualche tempo fa, col pensiero che tutto questo avesse poco a che fare con il vero Asterix: quello, orgogliosamente artigianale, sceneggiato e disegnato da Uderzo, unico autore delle storie dopo la scomparsa prematura del grande Goscinny. Questo significava accettare che le avventure di Asterix fossero ormai giunte molto vicine al loro termine naturale: del resto Asterix e Obelix hanno ormai viaggiato in tutte le terre conosciute e sconosciute, solidarizzando lungo la strada con tanti piccoli villaggi disposti a resistere "ora e sempre" all'invasore. Ultimamente però Uderzo si è scelto i suoi successori. Asterix quindi sopravvivrà al suo autore; magari tornerà a occupare con materiale inedito quelle edicole dalle quali era praticamente sparito negli ultimi 15 anni: ma per farlo dovrà necessariamente tradire un po' sé stesso. L'universo in cui ha vissuto il suo mezzo secolo di avventure dovrà essere svecchiato e aggiornato ai gusti dei nuovi giovani lettori, che probabilmente lo hanno conosciuto prima nelle sue versioni cinematografiche: e cosa c'è di meglio, per avvicinare Asterix e co. alle nuove generazioni, di un happy meal da McDonald, stampato e riprodotto su milioni di manifesti?
Insomma il patto tra Asterix e il Big Mac conviene a entrambi, e non dovrebbe scandalizzarci troppo. In fondo Asterix e Obelix non hanno mai voluto sconfiggere il loro nemico. In molti casi si sono trovati addirittura a collaborare con Giulio Cesare. Tutte le loro energie si sono spese nel tentativo di preservare lo status quo, la loro condizione di eterni bambini: il villaggio di Irriducibili circondato da una foresta che è un giardino di delizie, ricca com'è di cinghiali da sbafare e legionari da pestare. Gli Irriducibili hanno un senso perché esiste, oltre la finestra, la modernità, che la cinge in un blando stato d'assedio. Purché tutto rimanga com'era nelle prime tavole schizzate da Uderzo: un piccolo villaggio che resiste, ora e sempre. I francesi amano immaginarsi così. E per difendere questa loro fantasia, sono disposti a venire a patti anche con Cesare. O con Ronald McDonald, in questo caso.
Interrompo l'allegro carosello musicale perché magari passa di qui qualcuno che è curioso di sapere se Inception sia davvero questo ineffabile capolavoro o non piuttosto l'ennesima baracconata holliwoodiana sulle realtà oniriche, ormai un genere a sé stante. Insomma, se vale o no il prezzo dei popcorn.
Lo vale.
Potrebbero anche essere i popcorn migliori dell'anno, visto che quelli di Toy Story 3 li avete innaffiati di lacrime (a proposito, cara Pixar, ormai ho capito che vuoi farmi piangere; ma devi proprio farlo sempre nei primi dieci minuti, il tempo dedicato allo sgranocchio? È indecente).
Vi diranno che è un film cerebrale. A prima vista sì. È intricato, barocco, escheriano, tutto quanto, però... non credeteci troppo. In realtà alla fine si capisce tutto quel che c'è da capire. Se ce l'ho fatta io senza sottotitoli, fidatevi, ci riesce chiunque. Il fatto è che a volte al cinema confondiamo la complessità con la proiezione della complessità. In un disegno di Escher ci si può perdere, ma alla fine è solo un bel po' di inchiostro su un rettangolo di carta. Ma soprattutto, i paradossi di Escher sono tutti in piena luce, e si denunciano da soli: allo stesso modo mi sembra che faccia Nolan.
Non svelo nessun mistero del film se ne racconto un pezzettino minuscolo: il protagonista chiede al suo apprendista di disegnargli in un minuto, su un foglio di carta, un labirinto che in un altro minuto lui non sia in grado di risolvere. Credo che in questa sfida consista il cinema di Nolan: ho due ore per intrappolarvi in un mondo, voi avete due ore per trovare l'uscita. Memento era troppo facile? Proviamo con The Prestige. The Prestige, se non ve lo ricordate, è un altro film stupendo, anche quello imperniato su una sfida metaforica (in quel caso il gioco di prestigio, sempre più difficile e rischioso). Era una pellicola che chiedeva molta concentrazione agli spettatori: per dire, ci sono due voci narranti che leggono due diari diversi; all'inizio del film si mostra un diario e se ne legge un altro. Eppure ricordo che qualche spettatore esigente su internet osò lamentarsi che il trucco era troppo facile, si capiva a metà del secondo tempo... ma del resto è così, se hai deciso che il tuo modo di narrare consiste in una sfida con gli spettatori (“vediamo chi mi sgama”), devi essere disposto a perdere tutte le volte, e tutte le volte a raddoppiare la posta. Nolan è disposto. Ma soprattutto, Nolan è onesto. Gioca forte, rischia e non bara.
Lo paragoneranno alla trilogia di Matrix, o alla mitologia di Lost: altri esempi di labirinti volutamente complessi. Con la differenza che gli architetti di Matrix o di Lost a un certo punto hanno dato la sensazione di essersi persi: gli spettatori non trovavano l'uscita semplicemente perché l'uscita non c'era, gli autori avevano intenzione di aprirla all'ultimo momento con una breccia nel muro, e intanto distraevano il pubblico con digressioni filosofiche, sparatorie, spiegazioni volutamente oscure, botte di sentimentalismo... Questo Nolan non lo fa. Le sparatorie ci sono perché è un film d'azione; i sentimenti ci sono perché i protagonisti hanno emozioni; ma tutto questo non copre gli sbreghi di sceneggiatura. Nolan non vi trascina su un'isola piena di trabocchetti per dirvi, sei anni dopo, che i trabocchetti erano solo un pretesto per mostrarvi dei bei personaggi. Questo è sleale. Pensate a tutte le “non spiegazioni” di Lost. Ecco, Inception è l'esatto contrario. Un film che spiega sé stesso (e riesce a non annoiare). Paradossale, ma senza oscurità. Nolan non è un mago, un mistico, un ciarlatano: è un onesto e abile prestigiatore, con in più un budget hollywoodiano e Di Caprio nel cappello.
Riguardo a Di Caprio: ho l'impressione che da qualche anno in qua stia recitando sempre lo stesso ruolo, con le stesse smorfie: il ruolo, come definirlo? Dell'ossesso. Ha sempre dei misteriosi sensi di colpa, ha sempre delle fobie, è sempre ingrugnato. The Aviator, The Departed, Shutter Island, e ora questo. Nel frattempo qualcosa di speculare sta succedendo a Matt Damon: non importa come lo trucchi, in qualsiasi film lui è il Bugiardo. È una cosa che parte da lontano, forse già da Mr Ripley, e arriva a The Informant (gran bel film, recuperatelo). Ormai vai a colpo sicuro: se c'è Damon, bugie a profusione; se c'è Di Caprio, tormenti e ossessioni. Se li metti assieme ottieni quel bell'esperimento che è The Departed, dove due ragazzi biondi della stessa età che fanno lo stesso mestiere cadono vittime uno delle sue bugie, l'altro delle sue ossessioni. Tutto molto caratteristico, però a questo punto forse le facce di Damon e di Di Caprio stanno diventando due maschere greche: le vediamo da lontano e già sappiamo cosa troveremo in scena. Il che va proprio contro quella concezione labirintesca del cinema contemporaneo alla Nolan, che le attese del pubblico vorrebbe disattenderle. A volte potrebbero scambiarsi i ruoli, giusto per movimentare un po' le cose – ma in effetti questo è già successo: Di Caprio ha fatto il truffatore di Prova a prendermi. Anche se io non me lo ricordo. Quando ho iniziato a scrivere questo pezzo ero convinto che il bugiardo braccato da Tom Hanks fosse Damon. Poi ho controllato. Ma non c'è niente da fare. Nella mia testa quel tizio è un bugiardo, quindi ha la faccia di Damon. L'inconscio è fatto così, non lo puoi controllare. È terribile, no? Ma anche un po' meraviglioso.
Come presenti Omero agli undicenni? Le ore a disposizione sono una manciata, i pochi rudimenti di Storia antica un ricordo lontano. Molti hanno difficoltà a leggere una frase in italiano corrente: per loro il traduttese della Calzecchi Onesti è un'altra lingua straniera. Il rischio è quello di buttar tutto in favoletta; con la scusa dei contenuti universali trasformare l'ira di Achille nella foga di un tronista tamarro (quello che fece Brad Pitt). Mentre invece Omero non ci somiglia per niente: anche quando sembra parlarci di cose che conosciamo, basta voltarsi un attimo e ci sorprende lo straniero, l'arcaico: un dio incestuoso, un gigante cannibale innamorato dei suoi armenti, una madre che è uno spettro assetato di sangue.
Come presento Omero agli undicenni? Sembra impossibile, in realtà c'è una soluzione a portata di vhs: l'Odissea di Franco Rossi. Sì, proprio quell'obsoleto sceneggiato girato a colori per una tv di Stato che era ancora in bianco e nero, con un Polifemo di cartapesta a cura della famiglia Bava e Irene Papas a casa a tesser tele. Datato, datatissimo. Fino a qualche anno fa non avrei scommesso un euro sulla possibilità che qualcosa di tanto statico potesse essere propinato con successo a classi di preadolescenti iperattivi.
E invece, incredibilmente, funziona. È talmente fuori dal tempo che li ipnotizza. Sono così abituati a movimenti di camera frenetici, che di fronte a un paesaggio fermo e a una voce fuori campo vanno in estasi metafisica. In un certo senso è il primo vero film che riescono a capire. Tutto quello che hanno visto fino a quel momento andava troppo velocemente per salire al cervello. Ora finalmente possono trovare sullo schermo un po' di silenzio, di quiete, ed è qualcosa che nemmeno immaginavano di poter apprezzare.
Per chi è nato a fine Novanta uno sceneggiato del '68 è arcaico quasi quanto Omero. Un film senza effetti digitali è un oggetto misterioso in sé. Le sirene restano fuori campo e non si scacciano dal cervello; gli dei che appaiono all'improvviso senza flash luminosi ricominciano quasi a far paura. Non è una questione di budget, bisogna essere onesti. Rossi e la sua troupe italo-franco-tedesco-jugoslava si stavano liberando consapevolmente di tutta la sintassi dei peplum. Volevano essere arcaici e, per tutti gli Dei, ce l'hanno fatta. L'unico paragone che mi viene in mente sono le tragedie di Pasolini (ma la Medea con la Callas è dell'anno successivo; fino a quel momento si era visto soltanto l'Edipo Re). Magari mi sfuggono dei riferimenti, non è che me intenda. Quel che posso dire, da operatore sul capo, è che funziona. L'Ulisse a cui si affezionano i ragazzini non è un supermario che passa di mostro in mostro e alla fine raggiunge la regina nel castello. È un uomo in un mondo alieno e ostile, che ha commesso crimini e imperdonabili imprudenze. Ostinato a voler tornare; rassegnato a perdere tutti quelli che incontra, secondo il capriccio degli Dei.
È anche merito dell'attore, quell'umanissimo e misterioso Bekim Fehmiu. Ai ragazzi racconto che è albanese: in fondo Itaca non è molto lontano, e non è poca gloria essere connazionali del re di tempeste. In realtà era jugoslavo della minoranza albanese (cossovara?), ma la Jugoslavia non esiste più, e studenti cossovari non mi sono ancora capitati. È l'uomo che ammette in lacrime di essere stato esecutore del genocidio dei troiani; l'uomo che abbraccia l'ombra della madre; che perde la ragione ascoltando le Sirene. Ed è l'uomo che riconquisterà la sua casa massacrando i proci, perché così vogliono gli dei. Così vorrebbero anche i ragazzini, in teoria. Lo sceneggiato li ha caricati come molle: sin dall'inizio Antinoo e soci sono stati presentati come prepotenti da western, accampati nella reggia come in un saloon. Nei panni del mendicante, Fehmiu si è fatto schernire per più di mezz'ora prima di prendere l'arco in mano. Deve scorrere il sangue, e scorrerà. Ma non sarà divertente.
È una mattanza senza gloria, lontana millenni da qualsiasi scena madre di action movie: i condannati smettono all'istante di sembrare antipatici. Sono chiusi in trappola, presi alle spalle e scannati come animali; le donne urlano, Penelope si tappa le orecchie. Lo stesso Ulisse a un certo punto non ne può più, intuisce che la storia non ha senso. E allora da un angolo appare un dio, travestito da amico di famiglia, a ribadire le ragioni della mattanza. Le ragioni di dei capricciosi e assetati di sangue: la morale è una favoletta stantia, ha le sembianze di tre vecchie bigotte.
Bekim Fehmiu è morto martedì. Il suo Ulisse, ipnotico e dubbioso, resta con noi. Non sarà un capolavoro, ma è il migliore Ulisse che si possa mostrare a un ragazzino. Credo che lo resterà ancora per tantissimi anni.
Anna (Alba Rohrwacher) è un'impiegata come tante, di trent'anni come tutte, nella città più qualunque di tutte (la periferia di Milano). Convive stancamente con Alessio (Giuseppe Battiston), placido commesso coi suoi hobby qualunquissimi: fai-da-te, giardinaggio, riparare ferrivecchi, leggere libri vecchi, morire di noia. L'incontro fortuito di Anna con uno squattrinato addetto al catering (Pierfrancesco Favino) scatena la passione che potrebbe riscattare la sua esistenza piattissima... magari. In realtà anche il sesso sfrenato nei motel, dopo qualche settimana, è già routine. E intanto è passata un'ora di film, ce ne aspetta un'altra, e sappiamo già più o meno dove Silvio Soldini andrà a parare: dai e dai i due amanti si faranno scoprire, i loro rispettivi consorti ci piangeranno un po' su e li perdoneranno, li riaccoglieranno in seno alla famiglia; magari un ultimo sussulto di voglia di vivere, e poi il trantran quotidiano l'avrà vinta su tutto.
E invece nel secondo tempo Milano è invasa da zombie affamati di carne umana! Il virus viaggia attraverso il Lambro contaminato, colpendo bambini e maschi adulti. Anna e l'addetto catering, sbarrati nel motel, vivono momenti di panico che mettono a dura prova una relazione fondata esclusivamente sull'intesa sessuale. Angosciato per le sorti dei suoi cari, l'addetto catering attraversa una Milano cupa e spettrale soltanto per scoprire che la moglie è stata divorata dai due bambini contaminati (una delle metafore più visionarie e grottesche del cinema italiano degli ultimi vent'anni). Distrutto dal rimorso, deciderà ugualmente di restare con loro, per fedeltà a un vincolo che la morte ha messo a dura prova, ma non ha spezzato. Tornerà a lavorare nel catering (ma dovrà apportare molte modifiche ai menu). Nel frattempo, al termine di una rocambolesca odissea nella metropoli devastata, Anna ritrova il placido Alessio, che in sua assenza è diventato il leader della resistenza dei superstiti contro i morti viventi: le sue doti di bricoleur e giardiniere si sono rivelate fondamentali per garantire ai sopravvissuti i beni di prima necessità. Anna capisce di amarlo, ma Alessio ora convive con altre dieci concubine (la poligamia essendo necessaria alla sopravvivenza della specie). L'ex impiegata però si dimostra all'altezza del suo uomo escogitando un piano brillante per attirare gli zombie a San Siro e farlo esplodere. Con lo stadio simbolo di Milano esplode anche l'archetipo del film italiano minimale e intimista, di cui Soldini ha messo in scena nel primo tempo un'imitazione riuscitissima, soltanto per il gusto di farla esplodere nel secondo in un horror movie sgangherato. Il risultato è un autentico capolavoronf. Ronf
“Sveglia”. “Eh? Cosa?” “Stavi russando”. “Ma è finito il film?” “Ti sei addormentato a metà, che vergogna”. “Com'è andata a finire? No, lascia, indovino. Lui torna da sua moglie”. “E lei torna dal marito”. “È sempre così. Non hanno neanche il coraggio di far finire un matrimonio, è come se avessero paura di far male ai loro personaggi”. “Ma è giusto così, è così che finiscono quasi tutte le storie”. “Sarà. Invece, pensa, stavo sognando che nel secondo tempo arrivavano gli zombie”. “Gli zombie a Milano?” “Perché no? Mi sembra una location adatta”. “Ma gli italiani non sanno fare film di zombie. Loro fanno film che rispecchiano la vita vera. Film in cui le persone normali possono riconoscersi”. “Ma io mi riconoscerei anche in un film di zombie, sai quanti ne incontro tutti i giorni? No, sul serio, sai quanti se ne devono trovare in giro per Milano... per dire, quelli che hanno scritto questo film, secondo te sono ancora vivi? Un essere vivente non scrive un film così. Voglio dire, hai la possibilità di scrivere un film, cosa fai? Cerchi di metterci un sacco di cose belle, interessanti, divertenti”. “Ma la vita non è sempre così”. “Ma i film dovrebbero. Io mi sarei anche stancato di andare al cinema a vedere personaggi che hanno un'esistenza più piatta della mia. Cioè, sul serio, le mie giornate sono più interessanti di quelle di questi due. E mi chiedo: ma come fa un essere vivente a decidere di scrivere un film così? 'Mi raccomando, mettiamoci solo cose mediocri: personaggi mediocri, incontri mediocri, discorsi mediocri'...” “Sono i discorsi mediocri che fa la gente normale”. “La gente normale fa discorsi mediocri anche perché quando va al cinema non trova nessuno che le suggerisca qualche parola in più. Una volta serviva anche a questo, il cinema: a fornire modelli di comportamento o di conversazione. Le signorine ascoltavano come parlavano le dame dei telefoni bianchi e prendevano appunti. I ragazzi studiavano le battute dei cow-boy o dei padrini. La gente ha bisogno di mettere parole nella loro vita, e il cinema gliele deve suggerire. Non può tutte le volte limitarsi a rispecchiare una realtà nel modo più piatto e fotografico possibile”. “Mah”. “Sennò contribuisce a renderci ancora più banali e afasici di quello che siamo. Almeno, è una mia teoria”. “Già, le tue teorie”. “Torniamo a casa? Ho fame”. “Cosa c'è per cena?” “Carne umana. ARRRRRGH!” “Cretino”.
Guarda avanti, Lot
Oggi vorrei parlarvi di due opere audiovisive prodotte in Italia negli ultimi anni: Gomorra di Matteo Garrone e Il Capo dei Capi di Enzo Monteleone e Alexis Sweet. Si vedrà che non hanno poi molte cose in comune.
Gomorra (2008) è un lungometraggio tratto dall'omonimo libro-inchiesta di Roberto Saviano. Il Capo dei Capi (2007) è una miniserie tv di sei puntate, tratta da un libro-inchiesta di Giuseppe D'Avanzo e Attilio Bolzoni.
Gomorra dura due ore abbondanti; Il Capo dei Capi nove.
Il Capo dei Capi racconta la formidabile ascesa di Totò Riina, da umile contadinello a capo della più grande organizzazione malavitosa italiana. Gomorra racconta le vite “normali” di alcune persone in un territorio governato dalla camorra. Nessuno di loro ascende in nessun posto; alcuni si ammalano, un paio scappa, molti muoiono.
Gomorra è un film discusso, tratto da un libro altrettanto discusso. Fu il fim più visto in Italia nel week end in cui uscì (maggio 2008). Nel marzo del 2009 aveva già incassato 10.175.071 euro. Divisi per sette fanno più o meno un milione e mezzo di spettatori paganti. È una cifra impressionante, complimenti.
Però Il capo dei capi è stato visto, nell'autunno del 2007 da un numero di telespettatori praticamente mai inferiore ai sette milioni. Il trenta per cento dello share – più o meno un telespettatore su tre, in prima serata. Più o meno una famiglia su tre ha visto il capo dei capi. Molta di questa gente di Gomorra ha sentito solo vagamente parlare (da quanto mi risulta non è mai stato programmato sulla tv in chiaro).
Questo può in parte sorprendervi. Perché state leggendo un blog su internet. Non c'è niente di male, ma dovete sapere che fate parte di una certa nicchia statistica. Chi vive in questa nicchia può essere portato a pensare che Gomorra sia un prodotto più famoso del Capo dei Capi. Probabilmente ha visto il film, magari ha pure letto il libro. Difficilmente però avrà seguito una fiction su Canale5: le fiction italiane, si sa... Ripeto, niente di male: e non sentitevi soli, parliamo di più di un milione di persone.
Ma fuori c'è tutto un mondo. Ci sono sette milioni di persone che hanno visto Claudio Gioè interpretare l'indomito Riina, e di Gomorra hanno solo vagamente sentito parlare. Giusto per ristabilire le proporzioni. Gomorra ha vinto il Gran premio della Giuria a Cannes (ma la palma d'oro è andata a un filmetto scolastico su un prof demotivato) e ben sette David di Donatello, sì, vabbè. Il Capo dei Capi ha macinato milionate di euro di inserzioni: e quanto rimpiango di non averlo videoregistrato, di non potervi dire che prodotti ci fossero in televendita (una linea di coppole trendy?)
Nella prima puntata del Capo dei Capi, Totò è un tredicenne che perde il padre zappatore su una bomba rimasta nel sottosuolo dalla Seconda Guerra Mondiale. Divenuto così capofamiglia, con tante bocche da sfamare, Riina si mette a lavorare per i corleonesi, brillando subito per ferocia e capacità organizzativa.
Nella prima seqenza di Gomorra c'è un camorrista che si abbronza in un centro estetico. Un suo collega, dopo aver scherzato con lui, estrae una pistola e lo uccide a sangue freddo. Di lui non sapremo più niente. È come se l'eroe del film morisse subito, e il resto dei personaggi brancolasse per due ore senza trovare un senso. Una cosa molto spiazzante.
Il Capo dei Capi è una success story, una specie di versione sicula del sogno americano: tutti possono diventare Presidente, se studiano sodo... ehm, no: tutti possono diventare capiclan, se si liberano dagli scrupoli e imparano ad ammazzare i traditori prima che ammazzino loro. Anche Gomorra ci mostra un capoclan, ma per pochi minuti. È un poveretto cocainomane che vive nascosto in una brutta casa, ossessionato dalla necessità di ammazzare gli altri prima che ammazzino lui, Bum! Bum! Bum! (Dice proprio così: “Bum! Bum! Bum!” Non è carismatico proprio per niente).
Pare che a Totò Riina, che dal carcere di Opera non si perdeva una puntata, l'interpretazione di Claudio Gioè non sia dispiaciuta. Invece i camorristi ritratti da Saviano, si sa, hanno un po' brontolato, tanto che l'autore è sotto scorta.
Il Capo dei Capi è un figlio di contadino che diventa capoclan, ma cosa significhi essere capoclan da un punto di vista economico non è affatto chiaro. La mafia sembra semplicemente adeguarsi alla società in progresso: quando tutti si mettono a comprare le automobili, anche i mafiosi cominciano a usarle per ammazzarsi. Gomorra mostra cosa succede all'economia nei luoghi dell'indotto della malavita: il sarto Pasquale, artista di livello internazionale, non riesce a vivere del suo lavoro. Alla fine tradisce i segreti del suo mestiere ai cinesi e si mette a fare il camionista.
Dicevamo che all'inizio del Capo dei Capi Totò Riina è un tredicenne. Molti appassionati telespettatori del Capo dei Capi avevano più o meno quell'età. Nel novembre del 2007 il pm Antonio Ingroia andò a parlare di mafia in una scuola di Palermo. La maggioranza degli studenti di quella scuola, in un sondaggio, aveva scritto di non voler far parte della mafia. Alla domanda di Ingroia “qual è il personaggio più simpatico della fiction?” risposero tutti Totò Riina. È impossibile non notare che i modi del giovane Totò sono quelli del classico bulletto da corridoio.
Anche in Gomorra ci sono alcuni ragazzini. Uno di mestiere resta nascosto tutto il giorno, pronto a dare un segnale appena passa una macchina della polizia. È lavoro, come dice lui, è fatica. Sua madre verrà uccisa alle spalle dai camorristi del clan avverso. A tradirla sarà il suo migliore amico, un bambino pure lui. E poi ci sono Marco e Ciro, proprio due bulletti di quartiere: rubano droga di qua, armi di là, sparano all'aria, toccano le donne, sono convinti di poter fare quello che vogliono. Vengono ammazzati da una squadra di vecchi camorristi spazientiti. Anche loro in un agguato. Anche loro senza gloria.
Potrei andare avanti molto a lungo, ma direi che il senso è chiaro: il Capo dei Capi è una cosa, Gomorra è un'altra.
Il mistero di Lost - beh, ma è presto detto. No, non è senz'altro una botola o una sequenza di cifre. Il vero mistero di Lost, ma non si è ancora capito? siamo noi. La nostra resistenza pluriennale di spettatori, vincitrice su ogni logica e verosimiglianza. Abbiamo visto isole che scompaiono, morti che tornano in vita, un fumo che afferra le persone e le uccide sbattendole contro gli alberi, e non abbiamo cambiato canale: se non è un mistero questo. Speravamo che trovassero una via per uscire dall’isola, e quelli hanno trovato un sistema per tornarci. È da un bel pezzo che non sappiamo più chi siano i buoni o i cattivi, probabilmente la cosa nemmeno ci interessa. Cosa ci aspettiamo, ancora? Mistero. Anche se forse io ho capito... (Fffffffroscccccccccc)
Il redesign dei Klingon
Dicevamo che ogni storia nasce come un mito: un personaggio esce dall’oscurità, combina qualcosa e scompare al momento giusto. Tanto basterebbe, se restassimo bambini. Ma cresciamo, sviluppando curiosità morbose e inutili (almeno finché continuiamo a esercitarle sulle fiabe dei bambini). Avrei centinaia di esempi, ma prendiamo Star Trek. La serie storica, intendo. Ogni puntata è un mito. Un’astronave arriva su un pianeta diverso. Ma da dove arriva? non è chiaro, non si sa (da dove viene Zeus? E Cappuccetto Rosso?) Da qualche parte c’è una Federazione, sull’Enterprise in effetti c’è scritto U.S.S. che qualcosa vorrà dire – ma in realtà l’Enteprise proviene dalle tenebre: atterra su un pianeta e fa partire la storia. Quando la storia finisce l’astronave bianca ritorna alle tenebre. I miti (le storie primigenie, autoconclusive), funzionano così.
Trent’anni dopo intorno all’Enterprise non c’è più un solo centimetro di ombra, ma un garbuglio inestricabile di informazioni che farebbe impallidire la ruota di Tiberio. Sappiamo tutto sulla Federazione, sui suoi alleati e sui suoi nemici – l’Universo non è più una frontiera, è un suk di popoli che litigano o fanno affari, e se abbiamo pazienza possiamo guardare le puntate che ci spiegano il perché. Possiamo prendere appunti, perché in vent’anni la storia si è complicata parecchio. Oppure possiamo crescere ulteriormente e mandare a quel paese l’intera franchise (come molti fecero al penultimo episodio). Ma non è colpa degli autori se l’universo misterioso e pieno di promesse della prima serie era diventato una struttura iperdefinita dove tutto era intrecciato in complicati rapporti di causa ed effetto. Siamo noi che lo abbiamo voluto così, crescendo con la Saga. A un certo punto le favole dei bambini non ci sono bastate più, abbiamo voluto sapere chi fossero i romulani e perché, i vulcaniani e perché, perché, perché, maledetti perché puberali. Non potevamo più berci le favolette del capitano Kirk, ma avevamo ancora paura a spegnere la televisione e farci una vita complicata nel mondo vero. Pretendevamo che la vita complicata se la facessero i discendenti del capitano Kirk.
Prendi i Klingon. La prima volta che appaiono, nella serie classica, sono una manciata di alieni brutti, cattivi e di colore. Un cerone bronzeo, vestiti e costumi medievali, barbette e tratti somatici orientali, perché i giapponesi erano ancora il Pericolo Giallo dell’insonscio collettivo americano. Le loro astronavi erano invisibili più per limiti di budget che per altro. È chiaro che la storia, a raccontarla così, non può reggere i limiti dell’infanzia. E quindi lentamente i Klingon si evolvono. Gli sceneggiatori si improvvisano etnologi e cominciano a spiegarci che dietro la loro presunta cattiveria ci sono nobili tradizioni… insomma è vero che mangiano animali vivi, ma vanno capiti, è la loro cultura… tutto un corso di relativismo culturale applicato a un popolo inesistente. Quando crolla il muro di Berlino se ne accorgono anche i Klingon, che diventano alleati della Federazione più o meno quando i polacchi chiedono di entrare nella Nato. Nel frattempo sono diventati un fenomeno di costume, sugli scaffali delle librerie trovi i dizionari klingon, qualcuno traduce Shakespeare in klingon, qualcun altro apre la wikipedia in klingoniano, eccetera. Siamo in piena fase mitologica: al nerd non basta la storia, vuole un mondo organizzato e coerente. Fino al punto di litigare con gli autori della storia, perché c’è sempre qualcosa che non torna.
Qui arriviamo all'annoso problema della cresta dei Klingon. Nella serie storica non c’era. I Klingon hanno cominciato a portare la cresta solo vent’anni dopo. Questa cosa inquieta il nerd, che vuole sapere il perché (According to the official Star Trek web site, the Klingons' varying appearance is "probably the single most popular topic of conversation among Star Trek fans”). Il perché sarebbe presto detto: negli anni Sessanta il Klingon era il cattivo asiatico in un telefilm a basso costo; trent’anni dopo è un fenomeno culturale in una franchise miliardaria, il minimo che si potesse fare era truccarlo meglio, farlo meno umano e più alieno… questa spiegazione non può soddisfare il nerd, perché esce dall’universo chiuso e mitologico di Star Trek e si ricollega al mondo reale, a problemi prosaici come il budget. No, il nerd vuole una spiegazione mitologica che risolva la contraddizione per cui i cattivi del capitano Picard hanno la cresta e i loro nonni no. Vengono quindi elaborate numerose teorie: clonazioni? Mutazioni genetiche causate da incidenti nucleari? E perché non chirurgia estetica? Finché finalmente gli autori non acconsentono a spendere un paio di puntate per fornire ai nerd una spiegazione canonica. Quella discrepanza, quel segno di discontinuità, minacciava l’autocoerenza della mitologia di Star Trek. Era una fessura verso il mondo reale e le sue brutte incoerenze. Doveva essere risolta, spiegata, illuminata. La mitologia uccide il mito inondandolo di luce, e chiudendo i portali oscuri che lo riconducevano alla realtà. Una mitologia perfetta si racconta da sola: intricata, ma ormai slegata dal mondo, può interessare ancora soltanto chi è cresciuto sentendola raccontare. Chi viene da fuori si tiene istintivamente a distanza. Le ragazze specialmente (invece voi maschietti non perdetevi la prossima puntata, in cui sarà finalmente rivelato il mistero di Lost!)
In questa immagine potete vedere un vaso. Oppure due volti di profilo. O ancora l'ultimo film di Muccino, che per buona metà è impaginato così: faccia a sinistra, faccia a destra, e in mezzo una coppa nera di frustrazione che può comunque sparire da un momento all'altro stritolata in un bacio che non è mai, accidenti, l'ultimo.
Ma il più delle volte le bocche sono spalancate, i volti sono rossi, e tutti si stanno urlando addosso. Nei minimi termini il film è questo: un rosario di scene madri tra due personaggi che dopo un po' si gridano in faccia le peggio cose. Che i personaggi dei film italiani contemporanei tendessero al melodramma urlato si sapeva, ma qui sembra veramente che non ci siano alternative: ogni dialogo è uno scontro, e gli scontri si risolvono così: faccia contro faccia, chi urla più forte vince (analogie tra gli italiani e gli ippopotami del Kenya). Qualcuno dirà che è liberatorio. Secondo me no. Secondo me il mimetismo vince su tutto, secondo me il 40% di chi è andato a vederlo ha sentito l'esigenza di mangiare la faccia del partner nel tragitto verso casa.
“Non vedo l'ora di mettermi a letto”.
“Io invece mi scongelo una pizza”.
“Certo, così mi sporchi tutta la cucina”.
“Senti, ma se ho fame... e poi PERCHE' MI DEVI PRENDERE COME UN IDIOTA MALEDETTA STRONZA TI AMMAZZO! TI AMMAAAAAZZZZOOOOOOOO!”
Metà del film così. L'altra metà propone la variante: invece di fissarsi come ippopotami allupati, i due volti guardano in camera, grazie all'invenzione più importante dell'ultimo secolo: l'Automobile. Essa ha rivoluzionato i nostri costumi e forse sì, vabbè, può aver contribuito a intossicare l'atmosfera, ma in compenso ha permesso ai nostri valenti film-maker qualcosa che altrimenti sarebbe irrealistico: far discutere i personaggi mentre guardano dritto verso di noi. Si capisce la convenienza, perché nelle scene di profilo butti via un 50% di faccia che comunque devi pagare lo stesso intera (e con quel che può costare al giorno d'oggi la faccia di un Accorsi o di un Favino...) E soprattutto, l'avrete sperimentato nella vostra realtà vera, certe scenate si possono fare solo in una macchina pressurizzata ai cento all'ora – a casa no, c'è rischio che i vicini s'appassionino.
Lo so cosa state pensando. Stronca Muccino, che coraggio, domani mitraglierà la croce rossa... no. Sette anni fa, quando stroncare GM era già sport nazionale, io resistevo. Una possibilità a GM l'ho sempre voluta dare, perché fra tutti i registi di film bruttini gli riconoscevo almeno una cosa che faceva la differenza: il ritmo. Per quanto potesse apparire simile a tutti quei registi romani persuasi di ritrarre una generazione attraverso i complementi d'arredo dei salotti, Muccino aveva qualcosa che parzialmente lo riscattava, ed era proprio la spudoratezza: i salotti rimanevano salotti, ma vuoi mettere, col carrello circolare! La grammatica dell'action movie applicata agli amorazzi dei trentenni, l'handycam che ti segue nel corridoio stretto verso il bagno in fondo a destra. Le isteriche che piangono hanno fatto il loro tempo? Ok, proviamo con le isteriche che urlano in mezzo alla strada! Le isteriche sotto la pioggia! E se dobbiamo ritrarre borghesi inutili, almeno ficchiamocene dentro un centinaio in due ore: sovraccarichiamo il sistema finché non si rompe qualcosa.
Qualcosa si ruppe davvero. L'ultimo bacio e Ricordami di me sono stati l'esplosione, in tutti i sensi, di un genere di cui Ozpetek e colleghi hanno faticosamente raccattato i pezzi per ribollirci il solito passato sciapo di buoni sentimenti. Ma il Muccino di dieci anni fa se li friggeva, i buoni sentimenti. Non aveva pietà di nonne o di ragazzini, disprezzava tutti e non lo mandava a dire. Probabilmente quei due sono gli unici film-italiani-bruttini che reggono ancora la prova televisiva in seconda serata. Vanno giù come piloti di serie americane, ed è il complimento migliore che si possa fare a GM. Il quale, scheggia impazzita detonata coi suoi film, si era ritrovato catapultato ad Hollywood. Tifavo per lui. La tecnica l'aveva, il coraggio pure: quello che gli mancava erano le storie originali, proprio quelle che gli americani sanno trovare. Hollywood gli avrebbe tolto di mano i soliti triti canovacci generazional-amorosi, gli avrebbe presentato qualche soggettista degno di questo nome e... un film in effetti funzionò, l'altro meno, così l'avventura sembra già finita. Però almeno hai avuto un'avventura, Gabriele Muccino. Hai fatto film con Will Smith, sei stato per due stagioni alla catena nell'autentica fabbrica dei sogni. Adesso non è che puoi tornare a rifriggere le solite storielline amorose per il pubblico bue italiano. Sarebbe come dire che hai perso l'unica cosa buona che avevi, il coraggio. E un Muccino senza coraggio cosa mi diventa. Un Ozpetek eterosessuale, un soprammobile inutile e per giunta in serie, ce l'hanno uguale i vicini, buttare via.
Baciami ancora non è nemmeno un film generazionale: non sappiamo niente sulla vita dei personaggi, sui loro gusti o le loro idee (ce n'è uno che vota Fini, il che può voler dire qualsiasi cosa ormai). Fanno cose che avrebbero potuto fare dieci o vent'anni fa: i grandi spot pubblicitari, i bambini disegni di dinosauri. E tutti corrono nel grano. Dire qualcosa sugli anni Zero era troppo rischioso: facciamoli piuttosto reinnamorare disperatamente, che funziona sempre. Magari in questi dieci anni hanno avuto una vita interessante (droga, pazzia, carcere), ma appena torna Muccino col suo teleobiettivo tutto sprofonda di nuovo nell'ossessività dei rapporti amorosi banali, fedeli alla regola per cui la vita dei personaggi del cinema italiano bruttino dev'essere meno interessante di quella della media degli spettatori (sul serio, io ho giornate molto più interessanti di quelle dei personaggi di Muccino).
Baciami ancora è un chiodo sulla bara dell'industria cinematografica italiana, gestita da personaggi che sembrano terrorizzati dall'idea di poter dire qualcosa di nuovo, qualcosa d'intelligente, o persino di stupido, insomma qualcosa. Ma L'ultimo bacio qualcosa lo diceva. Era un film che si permetteva del cinismo, aveva un finale spiazzante che è rimasto in testa a tutti. Il sequel si guarda bene da spiazzare alcunché. Se c'è un suicidio non preoccupatevi, ve lo facciamo capire un'ora prima. Nel derby della scena-madre-in-camera-ardente Muccino le prende persino dall'Ozpetek di Saturno contro, come dire perdere con l'Albinoleffe in casa, rivogliamo il prezzo del biglietto. Quando dopo un paio d'ore risenti la voce fuori campo di Accorsi, capisci che è la classica voce off che tira le somme, e ti rendi conto di quanto poco ha voluto dirti questo film: Dicono che i quarant'anni siano l'età della maturità. Ma forse la vita comincia a cinquant'anni. O a Sessanta. O chi lo sa. Buio in sala, Giro di do jovannottesco, titoli. Due ore e venti per sentirsi dire che la vita va vissuta... Nostalgia dei carrelli circolari. Non che dicessero nulla di più, ma almeno ti facevi un giro in giostra. Muccino sembra aver paura di dire persino: ehi, sono sempre io, Muccino. Un regista con un determinato stile. Ma se poi ti scambiano per un Autore, di quelli che fanno i film d'Autore? C'è il rischio che il pubblico dei cinepanettoni non ti caghi più! Poi si accendono le luci, e il pubblico dei cinepanettoni corre a casa a guardarsi una puntata di Desperate Housewives che con personaggi da fumetto e una trama totalmente surreale ti dice più cose della tua vita che due ore di quarantenni che si urlano in faccia. Prima o poi a Roma bisogna che si mettano in testa una semplice cosa.
Non è che al cinema ci si va per specchiarsi – oddio, sì, può capitare anche di specchiarsi in qualcuno, ma è sempre qualcuno migliore di noi. Come minimo è più bello. Probabilmente veste meglio, ha la risposta pronta che a noi verrebbe in mente mezz'ora dopo. Perché al cinema ci si va per cercare dei modelli. Nessuno sano di mente crede di specchiarsi in George Clooney. Le persone vanno a vedere George Clooney perché vorrebbero diventare un po' come lui, risolvere un problema come lo risolve lui alla fine del film. Migliorare, perché persino lui ci prova. Questo è il segreto del cinema americano: modelli, non specchi. Strategie per risolvere un problema, non persone che si urlano in faccia i loro problemi irrisolti e magari uguali ai tuoi. A me non interessa se i quarantenni romani passano le giornate a gridarsi Ti-Amo-Ancora-Non-Ti-Amo-Più. Se davvero fanno così, bisogna convincerli a cambiare, a migliorare un po'. A coltivare altri interessi che non siano quelli di portarsi a letto qualcuno, restare incinta di qualcuno, riconquistare qualcuno. A gestire gli scazzi in un modo meno mediterraneo, perché sul serio, non possiamo continuare a urlare tutti quanti così. Dopo due ore ti ritrovi l'Impacciatore sul tombino che sembra una prefica del Seicento, stiamo regredendo a vista d'occhio. Ci sono altri modi di discutere che non prevedono necessariamente l'Urlo Preventivo, la Minaccia di Morte (“Giuro che t'ammazzoooooo!”), lo Specchio Riflesso (“Fottiti!” “Fottiti te!”. Era la clip che hanno portato domenica da Baudo). Non stupisce che dopo un po' comincino a urlare anche i bambini. Di colpo, dallo stand-by silenzioso (“Vuoi che ti presentiamo tuo padre?” “...”) allo stadio isterico (“Dai, se vuoi ti presentiamo tuo p...” “Ho detto di NO MALEDETTI STRONZIIIIIII!”)
Anche qui, guarda gli americani. Dialogano anche loro, di amore e di altre cose. Eppure non urlano, o magari sì, ma una volta su dieci. Hanno altri sistemi per scambiarsi i pareri: per esempio, l'ironia. Nell'ultimo bacio ce n'era un po', di ironia. Qui no, niente, il pubblico potrebbe non capire. Per ridacchiare dobbiamo aspettare che Favino incocci un muro: comicità fisica, perché chi ha rivisto la sceneggiatura temeva che una battuta di troppo possa essere fraintesa dallo spettatore di Neri Parenti. Poi lo spettatore di Neri Parenti torna a casa e si guarda le repliche del dottor House che fa ironia con le proteine e le malattie infettive.
Questo è un cinema sbagliato. Un cinema che col pretesto del realismo peggiora la realtà, ci ruba due ore e venti e ci lascia tramortiti come un vecchio amico che non senti da dieci anni e poi ti tiene un pomeriggio al telefono, urlando i suoi problemi senza che tu possa offrirgli una soluzione. Se si calma, alla fine, è per stanchezza: quella che prende tutti quanti alla fine del film. I due tizi si rimetteranno assieme, continueranno a scambiarsi baci e soprattutto urla, perché non sono mai cresciuti, la vita di coppia per loro è ancora quella di due quindicenni isterici, e non ci sono alternative: la vita è così. No, maledizione, noi possiamo essere migliori di così. A nessuno piace essere sé stesso, neanche al dottor House. Vogliamo tutti avere una chance di migliorare, e abbiamo bisogno di scrittori, di registi che ce la mostrino. Di attori che ce la impersonino. E di critici che ti mandino seriamente a quel Paese, GM: torna in America, fatti restituire quel coraggio e quel cinismo che erano le uniche cose interessanti che avevi.
* Il titolo l'ho scopiazzato da qui, grazie a M. Elena.
Gli anni Zero cominciano e finiscono con la stessa storia. C'è un giovane che vive la sua vita in una città al centro del mondo civilizzato. Ha un buon posto, ma si annoia: prova la sensazione di vivere sulla superficie di un’illusione. È una cosa difficile da spiegare, i suoi amici non capiscono. L'unico che gli dà retta è un misterioso sconosciuto incontrato su Internet, che gli dà un appuntamento (continua sull'Unità online) (ho detto online, non cartacea). È una sorta di profeta: nelle sue parole si sente un vago retroterra religioso, parole orecchiate nelle preghiere dell'infanzia. Al giovane spiega che il mondo in cui vive è pura apparenza, creazione di Satana che inganna gli uomini per succhiar loro l’energia. Per questo è indispensabile trascendere, chiudere gli occhi e ritrovare la realtà. La quale non è un nirvana, al contrario: la realtà è un mondo durissimo, dove gli Eletti combattono Satana e se necessario sacrificano la loro vita nel combattimento.
Ho una teoria: il film che ci ha portati negli anni Zero è The Matrix. Anche se è uscito nel ’99 – e non è certo il primo blockbuster in cui un novellino impara le arti marziali e sconfigge i cattivi – il film dei fratelli Wachowski aggiunge alla formula qualcosa di nuovo. Le scene d’azione sempre più coreografiche sono pervase da un senso di oppressione e mistero che marca la distanza dal fragore delle baracconate anni Novanta. Quello che ci tenne incollati allo schermo dieci anni fa – e che continua a sorprenderci ancora oggi, malgrado gli effetti speciali mostrino i segni del tempo – è il misticismo del film: i lunghi monologhi di Morpheus, che ipnotizzarono il pubblico scatenando sui forum on line una deriva di interpretazioni (Matrix e la gnosi, Matrix come la caverna di Platone, Matrix e le Upanishad…) Forse i Wachowski intuivano che sotto i deliri egotici dei giocatori compulsivi di consolle video si annidava un’inquietudine più profonda, metafisica addirittura. La sensazione di vivere immersi in una smagliante e perversa simulazione, che ci nasconde il mondo vero: la disponibilità a inghiottire qualsiasi pillola per ritrovarlo; un percorso di conversione e salvezza vissuto in una condizione di profonda solitudine (anche dopo la conversione l’eroe sarà sempre “the One”, l’Unico, il Solo).
L’ultimo antieroe degli anni Zero è Umar Farouk Abdulmutallab. Classe 1986, studente brillante, figlio di un ex direttore di banca, Abdulmutallab non si è mai veramente sentito a suo agio nel suo appartamento londinese da quattro milioni di sterline, nel suo quartiere, nel suo mondo. Probabilmente ha condiviso con milioni di coetanei la sensazione di vivere sulla superficie di un sogno non suo. Finché probabilmente qualcuno non ha risposto agli appelli lanciati su Internet, dove si lamentava per la sua solitudine di studente musulmano a Londra. In Yemen, dove si è recato con il pretesto di un corso di lingua araba, Abdulmutallab ha ricevuto la conferma a gran parte delle sue intuizioni: il mondo in cui ha vissuto tutta la sua esistenza è pura apparenza, creatura di Satana che inganna gli uomini per succhiar loro l’energia. La realtà, viceversa, è un mondo durissimo, dove gli Eletti ingaggiano con Satana una lotta senza quartiere. Una volta de-programmato e riconvertito, Abdulmutallab è stato rispedito nella realtà simulata del Grande Satana, con una fiala di esplosivo e una missione: provocare uno squarcio nella simulazione, fare irrompere la realtà rivelata su un volo per Detroit.
Spesso, quando parliamo di Al-Qaida, la consideriamo un movimento retrogrado, espressione del ritardo storico del Medio Oriente: come una 'sacca di medioevo' in un mondo che va avanti. Forse ci sbagliamo: Al-Qaida è moderna quanto noi. I suoi militanti più famosi sono uomini di origine islamica, ma di studi occidentali, come il plurilaureato Mohamed Atta (autore nel 1999 di una tesi in cui si lamentava l’impatto dei grattacieli moderni sulla skyline islamica di Aleppo). Se l’Islam è una via di fuga da una realtà in cui non si trovano a loro agio, l’immaginario da cui scaturiscono i loro piani sembra risentire più dei blockbuster globalizzati che delle sure del Corano. Atta e Abdulmutallab provengono dallo stesso nostro mondo civilizzato, e condividono le stesse ansietà, la stessa alienzione che dieci anni fa trovammo rispecchiate nel film dei Wachowski. Obama può bombardare lo Yemen, come Bush bombardò Afganistan e Iraq. Ma l’alienazione e la solitudine che hanno portato Abdulmutallab in Yemen sono in mezzo a noi, e presto o tardi porteranno un altro studente brillante e solitario a colloquio col Morpheus di turno.
Ok, Tarantino, lo ammetto: di te non avevo capito niente.
Dai tempi della palma d'oro addirittura, quando Pulp Fiction sbancò Cannes e sembrava l'inizio di una nuova era. Un nuovo linguaggio, un nuovo montaggio, una nuova violenza, truculenta e scanzonata, il citazionismo ironico, tante cose a cui una generazione senza molta identità (la mia) si aggrappò immediatamente. Qui in Italia il “pulp” ci mise 15 giorni a diventare una macchietta di sé stesso, ma tu probabilmente non lo hai mai saputo. Eri già altrove. No: in verità non eri mai nemmeno stato lì. Era tutto un abbaglio, ci ho messo anni per capirlo. Tu non mostravi nessun nuovo linguaggio: non eri il futuro e non hai mai preteso di esserlo. Eri nel passato e non ne sei mai venuto fuori.
Si parla spesso della tua cinefilia cronica: di solito passi per un onnivoro senza criterio, un frullatore americano in cui Kurosawa si centrifuga con Barbara Bouchet. È vero, ami di tutto, però non ami tutto. Pensandoci bene c'è un sacco di cinema che non citi mai, di cui non parli mai. Dagli Ottanta i tuoi riferimenti si diradano all'improvviso (estremo oriente a parte, forse) per svanire del tutto. In questo il tuo amico Rodriguez ti è complementare.
Certo, è evidente, eppure ci ho messo tanti anni a capirlo: il cinema di oggi non ti piace. Tutto il vintage che rimetti ciclicamente a nuovo, mai posteriore al '79, ha un senso polemico che mi era del tutto sfuggito. In fondo sei un reazionario. E non fai film d'azione, quasi mai: magari provano a venderli così, ma non sono film d'azione. Non nel senso che oggi ha il termine. Sono film dialogati, anche quando girano katane; e questo spiega come mai con te capita sempre di vedere spettatori che si alzano: erano venuti per i bang bang e si ritrovano in mezzo a dei bla blà. Ora, c'è gente che i bla blà non li regge, peggio: non li capisce. Dopo tre battute perde il segno, chi è che ha detto cosa? Ma questo film è... difficile! Soprattutto i ragazzini: non sorprende, cresciuti a Wachowski e Michael Bay, si aspettano accelerazioni, ralenty e soprattutto molti clang clang: tu invece sei statico, inquadri facce che parlano, parlano... Stavo per dire teatrale, ma no, c'entra poco anche il teatro.
Piuttosto... anche qui ci ho messo parecchio a capire: poi leggendo un tale che non ti sopportava ho capito. Un fumettone, diceva. Beh, sai una cosa? Aveva ragione. I tuoi film migliori sono sontuose graphic novel. Sequenze meravigliosamente impaginate, scene statiche, didascalie e soprattutto fumet... dialoghi. Lunghissimi dialoghi, li leggiamo mentre restiamo fermi davanti alla vignetta, pardon, l'inquadratura, e la battuta e l'inquadratura ci entrano in testa così, icastiche, dritte dritte nell'archivio mentale dei migliori fumetti della nostra vita. Anche in questo perfettamente speculare a Rodriguez: lui prende i fumetti veri e li usa come sceneggiature; tu prendi il grande cinema e lo trasformi in uno strano bastardo, un fumetto di celluloide. E come i grandi artisti del fumetto, riesci a trasformare in qualcosa di intellettualmente appagante l'intreccio più pacchiano (la trama di Inglorious Basterds è una cosa impossibile da raccontare restando seri, eppure).
Dopo tanti stucchevoli quadretti di Tarantino cinefilo, lo scorcio inedito sul Tarantino cinefobo è ben più interessante. E allora diccelo: qual è il cinema che odi? Chi lo avrebbe detto mai, gli sparaspara. L'orgoglio della nazione, il finto capolavoro di Goebbels, non è una summa di tutto l'action movie moderno? Inquadra nemico, spara. Inquadra altro nemico, spara, spara, spara. Hitler se la gode e divora i popcorn. Ma c'è anche qualcosa del Soldato Ryan, o di quell'immondo pezzo di celluloide che Spike Lee venne a girare in Toscana qualche anno fa. Sparatorie: puah. Roba da cecchini repressi. Tarantino preferisce gli standoff: gente che si fissa con la pistola in mano. Se invece vi piacciono i montaggi nervosi e i bangbang – ci dice – siete nazisti, e non meritate lezioni di umanità. Vi farò saltare in aria sulle vostre poltroncine.
Ma non subito. Questo è il segreto. Io non sono un qualunque Michael Bay. Io prima di ammazzarvi vi terrò una lezione di vero cinema, quello antico dei Maestri, che sequestrava in sala lo spettatore. Sarete in mio potere e vi farò sentire la paura e il dolore. Da una curva farò spuntare l'emissario della Bestia – è gentile e senza umane tenerezze, e la sua lingua velenosa conosce tutte le lingue della terra e dell'inferno. Lo farò sedere al vostro tavolo, e mentre gioca al gatto e al topo con voi, io nasconderò una famiglia di ebrei sotto le assi del vostro soggiorno. Voi avrete pena per loro e per voi stessi: e li tradirete. Perché non avrete scelta, e perché siete totalmente succubi delle parole della Bestia, del meccanismo antico di un cinema che ti faceva sudare con le parole e con gli sguardi. Nient'altro che sguardi e parole, e avrete già tradito i vostri fratelli. Ed è solo l'inizio.
Poi vi reinsegnerò cos'è la violenza. Niente pistole. Troppo facili, diceva il Cavaliere Oscuro. Troppo banali. Io vi mostrerò l'incontro non spettacolare tra una testa e una mazza da baseball: senza moviole e carrelli circolari, un normale fatto della vita: mazza colpisce testa, strike. Vi farò vedere come scotennavano gli apaches. Vi mostrerò cosa significa, letteralmente, tirare il collo a una persona che vi fissa negli occhi. E non avrò fretta, mai: vi lascerò il tempo di annusare la paura e di digerire il dolore. Questo era il cinema, una volta: un meccanismo di attese. Questo è rimasto il mio. La violenza la mostro, non mi tiro indietro, ma quello che m'interessa è sempre un attimo prima: la tortura, la suspance. Lo so che a voi non piace.
Voi volete i bangbang. E io allora manderò l'operatore a sbarrare le uscite, e vi darò i bangbang nella schiena, mentre un meraviglioso faccione resuscitato dagli anni '20 vi ride in faccia la mia vendetta, la vendetta del cinema antico sui suoi indegni spettatori. E chi risparmierò sarà marchiato per sempre col segno della Bestia.
Perdonami se non ti ho capito, Quentin Tarantino. Tu non hai forse una sola parola nuova da aggiungere a Leone o a Ford; ma hai la dinamite necessaria a far saltare in aria tutti i Bay e i Bruckheimer che occupano il cervello dei ragazzini. Il tuo cinema è un atto di fede nel linguaggio che si screzia in dialetti, nei silenzi negli sguardi e nei gesti che possono valere una vita o terminare una guerra, più di cento fucili da cecchino. Sei l'ultimo europeo in America, o viceversa, non importa: sei un bastardo reazionario, e io sono con te. Ti devo cento scalpi.
L'ironia è che Mike Bongiorno un funerale di Stato se lo meritava, come tutti i partigiani. Forse nel casino dell'8 settembre per un italoamericano era più facile capire da che parte stare; ma ci voleva comunque molto coraggio, che non gli è mai mancato. Gli mancò invece la voglia di parlarne: mentre altri si sono riciclati ex partigiani per tutta la vita, lui si è messo subito a fare altro, seppellendo diligentemente l'esperienza di staffetta e di prigionia nel suo curriculum. Un riserbo ai limiti della rimozione, che potrebbe anche insospettire: l'uomo aveva tanti difetti ma non la falsa modestia. Più probabilmente non ne parlava perché non voleva correre il rischio di annoiare.
Del resto nessuno crede che Mike “Ordine al Merito della Repubblica Italiana” Bongiorno sia sepolto da eroe perché a 19 anni cercava di tradurre i dispacci partigiani in inglese e viceversa. MB si meritava solenni esequie perché era la Storia della tv di Stato + la Storia della tv commerciale. Questo in Italia è terribilmente importante. E questa importanza, temo, è terribilmente italiana.
Perché Mike Bongiorno, in fondo, era solo un conduttore televisivo. Nemmeno dei più brillanti: non è che abbia inventato un granché. Seppe sfruttare al meglio il suo bilinguismo, cominciando a importare format dagli Usa quando l'inglese in Rai era probabilmente compreso come l'arabo oggi. Lascia o raddoppia in originale si chiamava The 64000$ Question. Era un quiz, un giuoco a premi, come se ne facevano già in tanti Paesi. Prima o poi qualcuno li avrebbe portati in Italia, ed era fatale che si trattasse un uomo nato all'incrocio tra due culture (senza saperne molto di entrambe, ma che c'entra).
Quello che non ci si poteva aspettare è che Lascia e raddoppia segnasse in modo così profondo l'immaginario degli italiani. Era solo un programma, solo tv, e Mike Bongiorno era solo un signore gentile che faceva le domande, lasciandosi scappare qualche simpatico strafalcione. Poteva durare una stagione, o dieci stagioni, e poi sparire nel dimenticatoio – alla Rai MB non ebbe sempre vita facile – e invece eccoci qui, solenni funerali di Stato. Qui io direi che c'è qualcosa che non va: nel culto del presentatore, che negli altri Paesi è quasi sempre un signore brillante che legge una cartellina e da noi è l'assoluto protagonista, un art director, un profeta, un dittatore vendicativo. Ai bei tempi, MB arrotondava il salario Rai con vere e proprie tournée estive: sfuggiva da folle di signore che cercavano di toccargli i capelli, saliva su un palco di una sagra di paese e... cosa faceva? Cosa fa un conduttore senza qualcosa da condurre? Erano le prime comparsate della storia dell'umanità. Gli avranno dato una miss da incoronare, più spesso un prodotto da vendere, gli sponsor da ringraziare, patetiche scuse per ascoltarlo parlare, per l'allegria di sentirlo dire allegria. Lo spettacolo era lui, la tv dal vivo.
Nel Regno Unito nasceva la beatlemania, negli Usa Dylan diventava un divo. A Parigi andavano forte i filosofi esistenzialisti; in Italia sognavamo di toccare i capelli a Mike Bongiorno. C'era già qualcosa di profondamente sbagliato. Cosa ha reso di noi il popolo più teledipendente di Europa? La tv la guardano tutti, ma nel resto del mondo è un elettrodomestico che dialoga con altri, senza mangiarseli: ieri c'era la radio, la carta stampata, oggi c'è internet; ci si può aggiornare su tutto senza nemmeno sapere cosa c'è in tv. In Italia non è possibile, persino se uno cercasse di vivere esclusivamente di quotidiani: per esempio, di che parlano le prime pagine cartacee e telematiche di oggi? del palinsesto rai – al posto di Ballarò faranno un programma di Vespa e questo si dà scontato che leda profondamente il pluralismo democratico. La Rai è l'Italia in diretta, chiudere un programma è come chiudere una piazza e impedire agli italiani di radunarvisi. Altrove secondo me non è così.
Ma non è colpa di Mike Bongiorno. Lui faceva domande, senza nemmeno fingere di conoscere le risposte. I suoi programmi non creavano nessuna illusione di focolare nazionalpopolare, alla Baudo. MB non accarezzava l'autoindulgenza del telespettatore con la goliardia di Corrado o l'ironia un po' snob di Enzo Tortora. Mike Bongiorno registrava telequiz, punto. Quando la formula del telequiz cominciava a stancare, lui si metteva a cercare qualche formula nuova. Quando tramontò l'archetipo del signore stravagante dotato di una cultura settoriale impressionante (oggi lo chiameremmo, tagliando corto, nerd) lui scoprì i giochini enigmistici alla portata di casalinghe e pensionati, i rebus di Bis, il paroliamo della Ruota della Fortuna, un altro format americano fatto e finito. Giochi a premi senza ironia, senza riflessioni o metadiscorsi. Per quanto gli italiani cercassero in tv Art Director, Profeti, Dittatori Vendicativi, bisogna dare atto a MB di aver mai provato a essere qualcosa di più di quel che era: quello che fa le domande, o almeno le domandine. Almeno fino a qualche anno dalla fine, quando anche lui non riuscì più a resistere alla grande celebrazione autoreferenziale, e a dare retta a chi lo voleva Senatore a vita, maestro di stile (per via delle sue gaffes), protagonista del Novecento italiano. L'ultimo Mike, quello che faceva da spalla a Fiorello, era un buffo monumento a sé stesso – alla gente piacerà ricordarselo così. Ma il vero MB era un altra cosa.
Una macchina per far soldi, sostanzialmente. Nessuna complicazione intellettuale, politica, etica. Nessuna ambizione di raccontare gli italiani. MB non era distratto nemmeno dall'ego. Non andò da Berlusconi a fare il Grande Personaggio – andò a fare l'operaio alla catena, una striscia di mezz'ora al giorno e tre ore di prima serata settimanali, per dieci e più anni. Consapevole che si trattava sostanzialmente di vendere materassi e mortadelle, MB si lasciò tranquillamente alle spalle il suo passato di partigiano, alpinista, patriarca della tv, e si mise a vendere materassi e mortadelle. Senza vergogna, e senza nemmeno provare a ridersi addosso – pura televisione commerciale, senza autoironie, complicazioni sociologiche, protagonismi. Gli altri grandi conduttori, lo sentivi, volevano soprattutto essere amati, e a tal fine erano disposti a sedurre. MB no, lui non fingeva di voler bene a nessuno. Se eri bravo ti diceva bravo, se sbagliavi ti mandava a casa, se provavi a barare o ti portavi i bigliettini ti maltrattava davanti al pubblico, senza pietà o comprensione. Perché MB non comprendeva nessuno. Lui faceva le domande, punto.
Passavano gli anni, cambiavano i fondali in cartongesso; lui rimaneva immobile, indifferente ai destini umani. Sfiorivano le vallette – un autore morì, ma aveva già registrato ore e ore di Ruote della Fortuna che andarono in onda lo stesso. Niente piagnistei, è solo televisione. Oggi, se guardi Affari Tuoi, ti costringono a piangere se il concorrente esce con meno di ventimila euro.
Non è stato Mike Bongiorno a far impazzire la tv italiana. Lui fin dall'inizio ha pensato che nei palinsesti ci fosse lo spazio commerciale per un intrattenimento di livello medio-basso (come si faceva negli Usa) e si è adoperato in tal senso. Ma non ha mai invaso il campo dell'informazione, del dibattito politico, della cultura. I suoi colleghi – quelli che credevano che si potesse usare lo stesso palco per fare dibattito politico e varietà, ritrovare il parente disperso e salvare la foca monaca, vendere il libro e il caffè, dir messa e lanciare il balletto, tutto sempre in un unico enorme contenitore che avrebbe dovuto piacere a tutti per forza – loro hanno più responsabilità.
Una volta Beniamino Placido andò a intervistarlo. Scoprì che passava le notti a studiare la tv americana via satellite – eravamo ancora negli anni '80. Concluse che Mike era un alieno: viveva tra noi, senza capirci; e noi non riuscivamo a capire lui. Questo non ci impedisce di celebrarlo, come un altro pezzo del nostro passato che se ne va. Ma è il solito fraintendimento: questo passato più lo festeggiamo più ci sfugge.
Credo che esistano due tipi di capolavoro. Il primo è quello che rimane: magari nei primi tempi si fa fatica a distinguerlo dal sottobosco in cui è cresciuto; poi con gli anni e i secoli tutto intorno il paesaggio si semplifica e il capolavoro resta lì, un monumento nel deserto. Se devo fare un esempio – visto che siamo in giorni di celebrazioni kubrickiane – 2001 Odissea nello Spazio mi sembra una capolavoro di questo tipo: ammesso e concesso che qualcuno abbia potuto confonderlo nel 1969 per un qualsiasi film di astronavi, quello che lascia sbalordito lo spettatore oggi e continuerà a sbalordirlo per molti anni è la sensazione di trovarsi di fronte a un manufatto unico, spuntato un po' dal nulla, e senza epigoni di sorta; il che storicamente non è vero, 2001 scatenò una ridda di pseudo-sequel e influenzò pesantemente anche l'immaginario cinematografico e televisivo (vedi Space 1999): ma tutte queste cose difficilmente resteranno (soprattutto Spazio 1999 è destinato a essere inghiottito dal pietoso Oblio); 2001 invece resterà, una specie di monolito venuto dal nulla e che al nulla torna. Questo è un primo tipo di capolavoro.
Poi ci sono i capolavori che scompaiono nel sottobosco che hanno contribuito a far fermentare: quei dischi cosiddetti “seminali” conosciuti solo da qualche addetto ai lavori, che al giorno d'oggi suonano esattamente come migliaia di altri dischi – salvo che sono usciti dodici mesi prima. Il loro ruolo è stato fondamentale, ma per apprezzarli bisogna avere un sesto senso che non tutti hanno; il senso della storia, del tempo, la quarta dimensione in cui l'assolo di Tom Verlaine suona davvero meglio degli altri perché la sua chitarra suonava già così nel 1974! Al che qualcuno risponderà chi se ne frega, basta che suoni quella certa frequenza e quelle note, e l'esperienza estetica dovrebbe essere identica; tanto più che tu non sei al CBGB nel 1974, ma in casa tua davanti a un impianto stereo, e quindi questo tuo cosiddetto “senso della storia” puzza un tantinello di feticismo. Senza dubbio.
In realtà tutto questo non vi interessa un granché, voi volevate soltanto sapere se vale la pena andare a vedere Watchmen. No, naturalmente, non vale mai la pena di andare a vedere un adattamento cinematografico di qualcosa che per voi è un capolavoro. Come faccio a sapere che Watchmen per voi è un capolavoro? Che io sappia, non c'è nessuno che sia riuscito a leggerlo fino alla fine che non lo reputi tale. Gli altri, che non apprezzano i fumetti di giustizieri in costumi colorati, o non apprezzano i fumetti tout court, hanno già smesso di leggere. Siete rimasti solo voi, capito? Quindi, la risposta è no: non vale la pena. D'altro canto lo vedrete lo stesso, no? Come se aveste possibilità di scelta. Non siete che burattini, e anch'io: al massimo sono un burattino che vede qualche filo in più.
Chi conosce Watchmen sa che non aveva nessuna possibilità di essere reso al meglio sul grande schermo. La storia è troppo lunga e troppo intimamente fumettistica; e negli ultimi anni abbiamo avuto fin troppe occasioni per accorgerci che brutto effetto facciano le graphic novel d'azione in tre dimensioni. Banalmente: Wolverine che salta sui tetti a pagoda e in pochi graffi ammazza centinaia di sicari della Mano, sulla tavola di Miller, crea un gradevole effetto grafico, con vaghe reminiscenze nell'arte nipponica bla-bla. Ma se prendi una scena del genere e provi a farla recitare da attori veri, in Sin City o persino Kill Bill 1, ti trovi davanti a una scena che è pacchiana in modo imbarazzante, e non hai nemmeno a confortarti l'amico gay con l'alibi del camp sempre pronto, perché a lui questa roba non piace. In questo caso saltare dalle due alle tre dimensioni significa passare dal paginone di Playboy alla bambola gonfiabile: a qualcuno potrà piacere, ma no, non è un progresso.
D'altro canto, chi conosce Watchmen non vuole veramente vedere qualcosa di cinematograficamente superiore a Watchmen: rifletteteci bene, sarebbe un'offesa. Se andrete a vedere un film del genere (e ci andrete, dai), non è per conoscere una storia che avete appena finito di rileggere, ma per celebrare un capolavoro che vuol dire molto per voi, e poco per tante persone da cui volete distinguervi. Se amate Watchmen amate un certo tipo di fumetto; se amate quel certo tipo di fumetto siete intimamente convinti che la graphic novel sia arte, forse l'unica vera arte, quella in cui basta saper maneggiare la matita per farci provare la sensazione della fine del mondo. Il cinema, coi suoi prodigiosi effetti digitali, non potrà restituirci l'emozione intellettuale che ci siamo costruiti da soli, legando una vignetta all'altra; nessuna scena d'azione avrà mai l'eleganza del paginone centrale di Infernale Simmetria. Voi andrete a vedere Watchmen per il gusto sadico di vedere Hollywood che dilapida denari per ottenere con costosi effetti speciali quello che Gibbons rendeva (meglio) con qualche tratto d'inchiostro di china. Un regista geniale, provvisto di pensiero laterale, avrebbe reciso il nodo gordiano e stravolto la storia, ma noi non volevamo veramente questo: volevamo un regista che cercasse di fare il suo compitino in modo dignitoso, sicché alla fine potessimo uscire ripetendo, soddisfatti, che il fumetto, beh, il fumetto è un'altra cosa. Missione compiuta, ma resta un dubbio: chi non conosceva Watchmen, come lo troverà?
Ho la sensazione che non lo troverà un granché; e non per colpa del regista, che il suo compitino lo ha svolto sforbiciando la storia con affetto e perfino una certa eleganza. Perché Watchmen, temo, è uno di quei capolavori che col tempo lentamente scompaiono. Supereroi in contesti realistici? Uomini in costume come maniaci assassini o con disturbi sessuali? Intreccio polimorfo e congegnato come un meccanismo a orologeria? La trama come seduta analitica, dove sarà il matto a guarire lo strizzacervelli dalla sua mania di sorridere al mondo? Mostri tentacolari talmente smisurati che non si possono vedere in una sola inquadratura? Episodi decentrati su tutti i personaggi, con flash-back continui e svolte nodali riprese da più punti di vista? Episoldio-coccodrillo con lo stesso personaggio visto in periodi diversi dai punti di vista degli altri personaggi? Un'organizzazione illuminata che cerca di salvare l'umanità da sé stessa? I mass-media sfruttati un po' come narratore onnisciente, un po' come coro greco? E sento già qualcuno che sbadiglia: ancora questa roba? Ma come, è moneta corrente ormai. Sui fumetti, in tv, al cinema, non si fa altro da anni. Precisamente. Tanto più sembra incredibile che sia stato Alan Moore a inventare tutto questo, e lo pagavano solo per scrivere un fumetto di uomini in mantello: dodici episodi, neanche 400 tavole, una quantità di invenzioni impressionanti (i meravigliosi titoli d'apertura suggeriscono che Moore abbia inventato perfino il forrest-gumpismo, la riduzione del Novecento a un canone di Personaggi Illustri e Fatti Celebri). Watchmen lo conoscono relativamente in pochi, e quei pochi per apprezzarlo devono sempre più far ricorso a quel famoso Senso della Storia: ormai la battuta “Anche Hitler era vegetariano” la sanno fare anche i comici italiani, ma è di Rorschach, è sua originale. La spilletta con lo Smile ha fatto il suo tempo, ma Watchmen era in edicola due anni prima della Summer of love. E così via. A volte, quando mi sento a corto di idee, penso a come si deve sentire Moore in momenti simili. Io posso pur sempre copiare, chiunque può copiare da Moore, ma cosa accadrà quando lui non riuscirà più a inventarsi niente? Quando il clown Pagliacci non troverà più niente da ridere?
Conclusione: voi ci andrete, è già scritto forse nel vostro dna. Comprare il biglietto sarà come comprare quell'action figure da collezione che poi se ne starebbe a prendere polvere su una mensola per il resto della vostra sgocciolante giovinezza. Ma fate un favore al vostro amico che non sa chi sono i Watchmen: lasciatelo a casa. Lui non si merita l'ennesimo action movie di personaggi un po' mostruosi un po' ridicoli che salvano il mondo, in un modo appena un po' meno ortodosso del solito. Tutto quello che potete fare per lui è prestargli Watchmen, quello vero, ma probabilmente non lo leggerà.
Non gli piacciono i fumetti, tutto qui.
Hai notato come la gente come me e te si ritrovi sempre più spesso nel 1960?
Dopo cena, s'intende.
Al mattino infatti la sveglia è fissa agli anni Zero. (Dai, che è l'ultimo). (Dai, che tra un po' arrivano i Dieci, e con loro il posto e il mutuo a tasso fisso). (Dai e dai, perché non dovremmo diventare adulti pure noi?)
La gente come noi peraltro ha problemi sin dalla sveglia, che ogni notte va puntata a un'ora diversa. Se ci pensi, è un pessimo modo per finire/cominciare la giornata. Ma si sa, a un certo punto qualcuno ci ha traviato, ci ha raccontato che la flessibilità era qualcosa di nuovo ed eccitante, per cui lunedì ti svegli alle sette, martedì alle undici, mercoledì non ti svegli proprio nel senso che sei rimasto dilà a lavorare a una traduzione e sei crollato alle cinque del mattino col naso sul laptop e quando ti sei svegliato avevi riempito duecento pagine di hjjhjhjhjjjhjhjhjhjhjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjhhhjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjj
(per la verità a pag. 79 spostandoti nella fase rem e ti eri riposizionato su è+è+è+è+è+èèèèèèèèèèèèèèèèèèèèèè+++++++++++++++++++++è+è+è+èèèèè++++++++++++ùùùùùùùùùùùùùùùùùùùùùùùùùùùùùùùùùàè+èèèè++++++++++++++++++++++++++èèèèèèèèèèèèèèèèèèèèèèèèèèèèèèèèèèèèèèèèèèèèèèèèèèèèèèèèè)
e prima di svegliarti, in un soprassalto di sonnambulismo, contemplando il tuo capolavoro avevi selezionato “Stampa”.
(La gente come noi, quando le dicono “Lo so che hai un romanzo nel cassetto”, sorride.
“Hai ragione. Ma è un po' sperimentale. L'ho scritto a notte tarda”. “Come Kafka!”).
Ma tergiverso quando tu hai fretta, vuoi finire il post per rispondere alla mail che ti è appena arrivata da Tizio che ti chiede se hai finito il lavoro dello scorso mese per Caio così può farti pagare da Sempronio, e tu non hai la minima idea di chi siano tutti e tre, e la colpa di chi è? È anche un po' colpa di Leonardo che scrive pezzi lunghi. Hai ragione, scusa.
Ma hai notato questa cosa buffa? Com'è che ci ritroviamo sempre più spesso proprio nel 1960?
Alla fine di queste giornate che non iniziano e non finiscono precisamente mai, dopo una cena mangiata di fretta o saltata proprio, ci si tuffa in una puntata di Mad Men, fresco di download; oppure si va al cinema a vedere Revolutionary Road che è la stessa identica bazza: pendolari suburbani che sbarcano a Grand Central alle otto in punto, salgono un ascensore, si ficcano in un ufficio dove non c'è nemmeno la macchina da scrivere (per quello ci si serve di apposite schiave), e ding dong, è già mezzogiorno. Ristorante, bistecca ai ferri, sigaretta, si fa anche in tempo a ingroppare la segretaria e prendere il treno delle 5.
Tutto filologicamente documentato, accuratamente riprodotto, scrupolosamente standardizzato, per il nostro sofisticato intrattenimento. Da quand'è che un passato non ci prendeva così?
Escluderei il fattore nostalgia; non eravamo nemmeno nati. Del resto siamo nati anche un po' troppo tardi per Happy Days dopo la Tv dei Ragazzi. Dopodiché, certo, ci sono generazioni che hanno ereditato la nostalgia di quella dei padri, ma non pensavamo d'essere altrettanto deficienti.
E quindi? E quindi chissà? Forse in quel passato così accurato e sottilmente claustrofobico, in quel passato omologante cinico e disperato, c'è qualcosa di consolatorio. Noi che un treno da prendere tutte le mattine ormai ce lo sogniamo; noi schiavi di noi stessi e delle nostre fottute scadenze, noi che guadagniamo un mezzo eurocent per ogni tasto che spingiamo; noi guardiamo Don Draper o Frank Wheeler sconfitti e frustrati e un po' ce la godiamo.
Mentre voi che avete vissuto all'apice della civiltà del consumo, e oggi siete cenere indistinguibile da quella delle vostre sigarette che non vi siete mai goduti veramente, voi: cosa sognavate sui seggiolini del treno, mentre tornavate a casa dalla mogliettina bionda? Scene di caccia, barricate a Parigi, western in bianco e nero, vite fuori dagli schemi, selvagge, precarie. Come le nostre, già! Sognavate di essere noi, è così?
[No. Forse è meglio avvertirvi che scherzo, non è così. È ovviamente il contrario. È che a una certa ora dopocena, non c'è mansarda parigina che non venderemmo per un lotto suburbano e la casina bianca dei Wheeler, per i lenti treni che si tuffano nel bosco e riemergono a Park Ave., per un po' di vuoto patinato standardizzato e una sveglia, una sveglia cromata che suoni cinque e solo cinque mattine alla settimana, e alla stessa fottuta ora].
la classifica personale dei film che ho visto al cinema nell'08. Credo davvero siano tutti qui. Anch'io avrei voluto vederne di più.
1. Tutta la vita davanti
Un film precario in precario Stato, che sbandando da tutte le parti si tiene miracolosamente in piedi fino alla fine e a distanza di tanti mesi lascia la migliore lezione su come si può raccontare oggi l'Italia agli italiani: pedale del grottesco a tavoletta, cast televisivo sfruttato al meglio senza nessuna vergogna, giovani bravi, nessuna nostalgia per nessun paradiso perduto. L'unico passato ammissibile è la Vhs di C'eravamo tanti amati, da prescrivere ai malati terminali. Vai così, cinema italiano.
(Il mio pezzo scritto a caldo, appena appena un po' entusiastico).
2. Wall-E
Quando esci da un cinema dopo aver visto Wall-E la macchina ti fa l'occhiolino, i semafori ti sorridono, i tergicristalli ballano per te, e se c'è un po' di nebbia ti sembra di guidare nello spazio. Un'esperienza così potente non la ricordavo da quando ero bambino e “il film di Walt Disney” era una realtà artificiale in cui galleggiavo per un'ora e mezza. Sì, e poi c'è anche il messaggio ecologista. Coraggio di sperimentare, umiltà di saperlo fare coi bambini, citazioni affettuose e mai fini a sé stesse: impossibile pretendere di più.
3. Gomorra
Il film che non ti mostra Napoli, ma che ha cambiato per sempre il modo di raffigurare e concepire la malavita sul grande schermo: da guerra di bande a piaga sociale, da vittime del sistema a sistema cannibale. Lascia che dicano che l'ha voluto la camorra: chi s'aspettava un altro romanzone criminale ha fatto malissimo i suoi conti. Visionario, certo, ma forse mi è piaciuto di più perché ha il coraggio di essere anche didascalico quando ci vuole. I ragazzini schiantano il cuore.
(Il mio pezzo).
4. Persepolis
Persepolis appartiene sin dai primi fotogrammi alla categoria film-che-non-vedi-l'ora-di-mostrare-in-classe, anche se ci sono le parolacce e una nonna mostra le tette; ma chi se ne frega: se Obama ci dovesse chiedere di bombardare gli iraniani (certo che potrebbe chiedercelo: e a lui non diremmo di no) almeno ci ricorderemo quanto sono simili a noi. Perlomeno i borghesi di Teheran, quelli che la rivoluzione l'hanno persa: vivreste in una città dove i lavavetri hanno diritto di vita o di morte su di voi?
5. Burn after reading
Caos e incompetenza si contendono il mondo: chi vincerà? Clooney e Pitt a mille miglia di distanza non solo dai loro ruoli tipici di Hollywood, ma anche da quelli un po' ironici della saga di Ocean, o impegnati dei vari Syriana o Babel, ridotti a due tragiche maschere di impiastri, e la cosa è buffa solo fino a un certo punto. Come sempre i Coen lasciano la sensazione di essere un po' più profondi di quanto non appaia... ma forse è davvero solo una sensazione. “Alla fine almeno abbiamo imparato qualcosa... ma cosa?” Gli spettatori ridono, poi appena si accendono le luci si fanno la stessa domanda.
6. Non è un Paese per vecchi
Il titolo sarà una delle frasi che restano del 2008, almeno da noi; sulla distanza mi sembra di ricordarlo con meno affetto dell'altro film dei Coen, forse per il finale troppo amaro; oppure perché Bardem diventa onnipresente e onnisciente e a furia di ammazzare tutti uccide un po' anche la trama. Detto questo, entra a testa alta nella mia personale categoria di film che gridano Tarantino-nasconditi.
(La recensione di Kekkoz)
7. Control
Lo so che non è del 2008. La precisione filologica con la quale Curtis e i Joy Division sono stati ritratti fa gridare al miracolo, ma rischia anche di conferire una falsa sensazione di oggettività. Io l'ho apprezzato soprattutto perché racconta quel momento in cui i sogni dell'adolescente mostrano il loro lato oscuro; quello in cui le pillole non sono più giocattoli ma rimedi che, maledizione, non funzionano; quando ti rendi conto che nessuno ti può più controllare, devi pensarci tu. Alcuni non ne sono capaci. Altri sì: andranno al tuo funerale, si faranno una bevuta, cambieranno nome al complesso.
8. Il Divo
Date ormai per scontate le impressionanti capacità di Sorrentino, devo ammettere che il Divo si prende una certa libertà con la Storia recente che è la stessa che m'infastidisce nella New Italian Epic, dando un perfetto esempio di uso del grottesco che non mi va: non a sostegno di una tesi, ma per tirarsi d'impaccio lasciando tutto in una comoda ambiguità. Insomma: alla fine il tenero bacio tra Riina e Andreotti c'è stato o no? La sequenza è così grottesca che sembra finta, la messa in scena di una falsa testimonianza... a meno che uno non ci voglia vedere il bacio vero a tutti i costi. E così ognuno vede quel che vuole vedere, persino Andreotti alla fine lo ha rivalutato. E a furia di usare Servillo non avete paura di consumarlo?
(La recensione di Secondavisione)
9. Non pensarci
A leggere la trama, il rischio di film generazionale bruttino 2008 era altissimo. Ma forse Non pensarci è esattamente questo: un film generazionale per trentenni, però realizzato nel modo migliore possibile, senza forzature e con qualche dettaglio originale, fingendo che tutt'intorno non siano stati prodotti chilometri di vacua celluloide sullo stesso argomento. Mettere nella stessa pellicola Mastrandrea e Battiston è un colpo basso: impossibile non voler bene a entrambi, anche se il primo non può prescindere dal romanesco e il secondo non riesce a prescindere da innamorarsi di puttane. Il finale, come l'ho visto io, è più tragico di quelli dei Cohen: per quanto s'arrabattano, i trentenni non riusciranno mai a combinare niente di adulto: deve per forza rifarsi vivo il padre. Sì, è anche la storia della mia vita, ma che tristezza.
10-24 non assegnati.
25. Racconto di Natale
Me lo dovete spiegare. Sul serio. In gennaio Secondavisione imponeva: basta famiglie disfunzionaline. E in dicembre eccoci tutti a sdilinquirci su una famiglia che... ma sul serio basta apparecchiare un po' di lutti, un trapianto di midollo, un triangolo romantico ad alto tasso di glicemia e un vecchietto che cita Nietzsche? Cioè, se per un due ore continuano a ripetersi gli stessi argomenti, questo significa profondità? Ma bisogna dire che al Filmstudio7b mi gelavano i piedi.
26-42 non assegnati.
43. La Banda Baader Meinhof
Ehi, ragazzi, ci hanno sprangato alla manifestazione! Poliziotti porci! Sai che c'è? Facciamo la rivoluzione! Pim, pum, tatatatata, filmatino di repertorio, tatatatat pum, bomba, comunicato, bomba, comunicato, campo d'addestramento in Palestina (ma solo in Palestina? Possibile che la DDR non c'entrasse mai niente?) tatatata, stacchetto su Bruno Ganz che forse è il capo della polizia ma non riesce più a staccarsi dalla faccia l'espressione di Hitler, tatatata! Arrestati! Galera! Porci! Impazziamo! Ci suicidiamo! Alla fine uno rischia di rivalutare Buongiorno notte: se devo spiegare il terrorismo ai giovani meglio le favolette un po' psicanalitiche che l'action movie (in particolare l'action movie tedesco, con quell'aria da Cobra 11). L'unica cosa interessante è che le dinamiche carcerarie sembrano quelle del Grande Fratello. No, niente Orwell, proprio del Grande Fratello con la Marcuzzi.
43-88 non assegnati.
89. Juno
Il pilota di un telefilm che non seguirei.
(Ne ho parlato anche troppo).
90. Caos Calmo
Un film che l'era Brunetta ha già reso datato: insomma, per tre mesi non vai a lavorare e alla fine ti fanno dirigente? A Roma funzionerà così. Devo dire che è stato un anno più duro di altri, ed entrare in sintonia con questi borghesi a lutto con la casa al mare mi era più difficile che in passato. Però insomma, anche a noi c'è morto qualcuno in casa, sono tragedie ma la vita va avanti. Dovevate dirci altro o è davvero tutto qui? Sulla penosa scena di sesso vedi pezzo allegato.
90-998 non assegnati.
999. Miracolo a Sant'Anna
Nella mia vita avrò film più brutti, è probabile: ma più sbagliati? Pesantissime teste di marmo che passano di mano in mano come palloni da basket; generali nazisti che se il negro si comporta bene gli regalano la Luger; donne italiane che fanno il bucato con le tette in fuori nel 1943 in Toscana; sceneggiatori americani che si puliscono il sedere con la pagina più delicata della nostra Storia recente; bambini uccisi per l'unico scopo di commuovere lo spettatore; tazzine di caffè che si rovesciano in slow motion rivelando il contenuto di un bicchierone di Stairbucks; contadini toscani che sotto i bombardamenti vanno in chiesa a ballare (e invitano i negri). Di fronte a tutto questo le critiche degli storici e dell'Anpi appaiono spropositate: è come se la Protezione Animali denunciasse Walt Disney perché in Dumbo i merli sono descritti con stereotipi razzisti. Su Piste proponevo di distruggere tutte le pizze e cancellare ogni sito internet che ne parla, e continuare a pensare a Spike Lee come a un grande regista, coi suoi alti e i suoi bassi.
Genova dovremmo iniziare a raccontarcela in un modo diverso.
Quando dico “raccontare”, non parlo di bugie, ma dell’esigenza di raccogliere centinaia di testimonianze, memorie, fotogrammi, in un qualcosa che abbia un capo e una coda, un senso e una morale: un racconto.
In questo racconto, di solito, ci sono gli 8 uomini più importanti della terra riuniti in una città, e migliaia di persone seriamente preoccupate per la situazione che vanno nella stessa città a manifestare il loro malcontento. Alcuni erano pacifici, altri molto meno, alcuni erano immersi in una loro mitopoietica personale di zone rosse e armature di gommapiuma, alcuni la sapevano più lunga. E parecchi hanno preso tante, tantissime mazzate, soprattutto in una scuola (le Diaz) e una caserma (Bolzaneto). Un ragazzo è morto. Noi ce la raccontiamo così, e tutto sommato nel nostro racconto non c’è niente di sbagliato. Resta comunque un racconto insoddisfacente, che non spiega quasi nulla.
Il nostro racconto pecca del solito vecchio peccato: l’autoreferenzialità. Siccome a Genova c’eravamo anche noi, riteniamo giusto raccontarlo dal nostro punto di vista. Preso il treno, fatto il corteo, prese le mazzate, ripreso il treno. Tutto questo può essere interessante (anche le foto delle vacanze sono interessanti, a piccole dosi), ma è solo la punta dell’iceberg.
È tempo di ammetterlo: noi non siamo i protagonisti di Genova. Un livido, una cicatrice, un bello spavento, non ha fatto di noi i protagonisti. Avremmo voluto tanto esserlo, una volta almeno nella nostra vita. Con tutte quelle videocamere in giro il rischio di passare alla Storia era molto forte. Ma anche stavolta i fatti ci hanno oltrepassato, e di molto. Genova avrebbe dovuto essere la nostra manifestazione, ma non lo è stata.
Genova è stata la manifestazione dei ragazzi in uniforme blu, in uniforme nera, in tuta aderente con casco accessoriato, con scudo di plexiglas, con lacrimogeni non omologati. Genova è stata la sagra del tonfa, il manganello multiuso. Genova è stata la dimostrazione delle forze dell’ordine, che venivano da tutte le parti a confrontare le proprie esperienze: bella la tua divisa, forte il tuo manganello, fammi vedere come usi lo spray. Come se qualcuno avesse detto (e qualcuno deve averlo detto): adesso vi facciamo vedere quanto riusciamo a essere fascisti, se c’impegniamo. Quasi un esperimento, che nei giorni successivi fece molta paura: e se fosse stato l’inizio di un nuovo stato di cose? La paura sfumò quando ci rendemmo conto che no, finita la sagra la giustizia italiana riprendeva il suo corso sbuffante, incerto, ma sui soliti binari repubblicani. Era stato un esperimento, e neanche molto riuscito. Meno male. Però adesso vorremmo che ci raccontassero la storia.
La mamma bastonata, il pancabbestia straniero preso a calci in testa, non sono i veri protagonisti. Tutto quel che possono raccontare sono le loro mazzate, prese senza sapere il perché. Molto più interessante, più drammatico e più intrigante, sarebbe il racconto di chi quelle mazzate si è messo a darle: chi sei? Da dove vieni? Com’è che d’un tratto, da difensore della legge e dell’ordine, ti sei trasformato in un picchiatore di vecchiette? Hai preso qualcosa? Qualcuno ti ha fatto un discorso? Quante cose potresti dirci, se ne avessi voglia. E che storia ne verrebbe fuori, se anche i tuoi colleghi parlassero.
Altro che le nostre cronache scipite – treno-corteo-mazzate-treno – che ormai fanno sbadigliare gli invitati a cena. L’inizio potrebbe essere ambientato da qualche parte in un ministero. O nei quartieri generali di una forza dell’ordine, con un gruppo di persone che si pone problemi e trova soluzioni. Alcune di queste persone avranno avuto le mostrine, altri le cravatte; ad ogni buon conto noi vorremmo conoscerli tutti: poter dare un nome e un cognome a certe decisioni importerebbe moltissimo. Vorremmo anche un capitolo circostanziato sul training dei ragazzini in uniforme blu e nera sul piazzale di fianco al nostro: quelli che mentre noi facevamo i seminari sul disastro climatico e la Banca Mondiale, prendevano appunti sui manifestanti dotati di razzi terra aria e gavettoni di sangue infetto. Quelli che mentre noi ascoltavamo Manu Chao e mandavamo giù birra e salsicce, si caricavano con la techno e mandavano giù pasticche. Vogliamo sapere come mai su quel defender in Piazza Alimonda si trovavano due sbarbatelli, e uno aveva in mano la pistola e l’altro il volante. Quanto daremmo per dettagli anche piccoli, ma succosi, come ad esempio: quel poliziotto che si graffiò il giubbotto alle Diaz e poi si autodefinì accoltellato, fu un geniale improvvisatore o eseguiva un ordine?
Identificare le responsabilità, risalendo le catene di comando, sarebbe il minimo. Noi vorremmo qualcosa di più: preso atto che a Genova ci fu una colossale manifestazione delle forze dell’ordine, che eclissò la manifestazione anti-g8, vorremmo sapere per quale motivo i poliziotti e i carabinieri manifestavano. Vorremmo capire il senso: era un messaggio? A chi era rivolto? E ha funzionato? Perché alla fine della fiera rimane in noi la sensazione di essere stati menati a casaccio, per nessun motivo, da gente che in realtà pensava ad altro, e menava la nuora perché la suocera intendesse. Non è piacevole. Una volta si diceva “vogliamo sapere per cosa combattiamo”. Noi siamo molto più pacifisti: ci accontenteremmo di sapere per quale motivo le abbiamo prese. E ne abbiamo prese tante.
Prendete le registrazioni saltate fuori in questi giorni. Forse non aggiungono nulla al quadro probatorio, eppure è sconvolgente il solo fatto che esistano ancora. Sei anni fa, dopo essere tornati a casa, vivevamo nell’incubo che tutto quello che era successo sarebbe stato cancellato. La polizia che col blitz in sala stampa aveva preso possesso dei server indymedia avrebbe cancellato ogni prova. Si è poi visto che di prove in giro ce n’erano ancora in abbondanza. Ma le registrazioni di questi giorni sono documenti interni della polizia: qualcosa che gli uomini in uniforme avrebbero potuto cancellare infinite volte in questi sei anni, così come hanno fatto sparire le molotov di loro fabbricazione. E invece no. Queste registrazioni sono rimaste: qualcuno ha deciso di conservarle. E qualcuno le ha fatte avere ai legali delle vittime. Chi sarà stato mai? Un poliziotto che dopo una manciata d’anni ha cominciato a vergognarsi, come Fournier? O qualcuno che anche stavolta usa le botte del G8 per dire indirettamente qualcosa a qualcun altro? E a chi?
Si dice che i vecchi poliziotti non buttino mai via niente, simili anche in questo ai vecchi macellai. Anche nel nastro meno interessante, debitamente invecchiato, c’è sempre da trovare qualcosa per ricattare qualcuno. Lo sa bene Pollari, che deve avere una cantina fantastica, piena di registrazioni millesimate ("Senti, senti che aroma questo D’Alema del 1999”). Tutto questo è molto interessante, anche se alla fine della fiera resta una delusione. La delusione di chi ha visto la Storia passare davanti ai caschi e i manganelli, e si è messo in posa pensando di avere un posto in prima fila. E invece no. Eravamo solo le vittime predesignate del solito gioco italiano troppo difficile da capire, e impossibile da raccontare. Però sarebbe interessante, anche solo provarci.
In Italy for thirty years under the Borgias they had warfare, terror, murder and bloodshed but they produced Michelangelo, Leonardo da Vinci and the Renaissance. In Switzerland, they had brotherly love; they had five hundred years of democracy and peace and what did that produce? The cuckoo clock. Orson Wells, 1949.
Gomorra, di Matteo Garrone, 2008.
* Due ore d'inferno e manco si vede Napoli. Si vede Venezia.
* Non si vedono i camorristi. Quelli della tv, del cinema, i boss incravattati. Una scelta forte, perché nel libro c'erano. Qui sono scomparsi, lasciando giusto qualche mobile da lucidare mentre il loro impero cade a pezzi. Il re è nudo e si abbronza per l'inferno.
* Non si vedono conflitti a fuoco – nel senso che non li vedi, ti ci trovi dentro e basta. Si sente un gran baccano, fuori sparano, anzi no, sparano qui davanti a me, sparano a me. Tutti i colpi sono alle spalle. È la descrizione della battaglia quando ti ci trovi dentro: niente coraggio, niente eroismo, quello lo troverai al bar tra vent'anni se ne esci vivo.
* Non si vede Saviano, non si parla di Saviano. È una buona notizia per un popolo che non ha bisogno di eroi, ma di cento mille sceneggiature come queste. Per quelli che sotto le impalcature del monumento giornalistico a Saviano cominciavano a sentirsi un po' a disagio – anche perché non te li scoprono da vivo, i monumenti.
* Non si vede il reportage. Tutto è diventato fiction, senza smettere di essere fottuta verità. Io li odiavo, quelli che in una colonnina o una recensione si lasciavano sfuggire “tratto dal romanzo di Saviano”. Romanzo? Che romanzo? Ma l'hai aperto almeno? Basta averne lette trenta righe per sapere che non lo è. Bene, dopo due ore di film lo è diventato. Avevo letto un romanzo, anzi quattro romanzi, e non me ne ero accorto. Stupido io, o molto bravo Garrone.
* Palma o non palma, quanto è stato bravo Garrone? Lasciamo perdere l'attenzione maniacale per l'accompagnamento sonoro, le migliaia di quadri viventi, paesaggi e primi piani; l'occhio fermo sulle piaghe del mondo senza mai cadere (mai!) nel grottesco o nel didascalico, lasciamo pure stare tutto. Ma quanto sono bravi i suoi attori non professionisti? Quanto sono bravi i due guappi, quanto è bravo Simò che saluta Totò perché passa con gli scissionisti, e quant'è bravo Totò? Ce li aveva Rossellini dei ragazzi bravi così?
* E se il cinema italiano stesse entrando, così, di botto, in un'età dell'oro? Già un paio di film veramente buoni, quest'anno, e non è che gli americani ne abbiano fatti molti di più. Un taglio spietato che sta diventando la nostra specifica, un realismo ad oltranza mentre tutt'intorno continuano a rimasticare le stesse favolette. Io di mio avrei preferito nascere e morire in una di quelle svizzere ordinate che al massimo inventano l'orologio a cucù, ma se mi tocca un Nuovo Rinascimento pieno di ammazzamenti e opere d'arte, cercherò di farmelo piacere. Anche perché me lo sento dentro, in fondo. Non siamo milionari che cercano di sensibilizzare il pubblico medioborghese ai drammi del Terzo Mondo: noi siamo il Terzo Mondo che arriva, la punta dell'iceberg della munnezza che credevate si potesse smaltire premendo un bottone. Siamo sporchi e cattivi, ma non ci toglierete di mezzo così facilmente, po po po po po, po. Noi siamo dentro la Macchina, siamo il nano deforme che comincia a pedalare quando voi premete il bottone, e se non sappiamo leggere e scrivere in compenso appena nati già portiamo gli autocarri. Non ci potete capire. Solo i cinesi possono capirci. I cinesi ci dedicheranno dei musei, dopo averci mangiato fritti tutti quanti.
* Dico “noi”, ma senza sottotitoli era dura, quella lingua masticata in secoli di avvistamenti e ambasciate. Poi all'improvviso succede qualcosa: comincio a capire tutto. Miracolo? no. La scena si è spostata su una gang senegalese, y a d'gosses qui arrivent. I senegalesi li capisco meglio dei casertani.
* Cari amici che siete sicuri che sarà un capolavoro, come il libro, ma che di due ore di lucida disperazione questa settimana fareste volentieri a meno: provateci. Fate finta che sia un inno alla speranza, in fondo lo è. È un film sulla camorra, ma è anche un film sulla fine della camorra, che perde colpi, perde pezzi, perde tutto; che non riesce a pagare la pensione ai carcerati perché i boss devono giocare ai gangster, “fare punti, bum bum bum!”; la camorra che uccide i suoi figli perché si fa prima ad ammazzare che a insegnare il rispetto; che perde le maestranze perché persino i cinesi pagano meglio, che crollerà alla fine in un turbine di polvere grigia e bianca senza lasciare niente, neanche un ritornello neomelodico, niente: solo un cratere, che potrebbe venire buono per certi liquami radioattivi, oppure per costruire un mondo migliore. Migliore di com'è questo, non ha manco da esser difficile.
- Un ineluttabile romanzo di morte ambientato su un altro pianeta, il nostro (Giovane Cinefilo) - Al posto del cuore c’è giusto un livido nero. (UnoDiPassaggio).
Io la scena di sesso tra Moretti e la Ferrari ero riuscito a evitarla; poi però mi hanno portato al cinema. Così, capite, alla fine me li sono trovati davanti. Mentre facevo i miei sforzi per non distogliere lo sguardo cercavo comunque di pensare ad altro, e mi è venuto in mente un vecchio discorso sul motivo per cui gli unici dischi che oggi vendono un po' sono quelli per quindicenni o per rincoglioniti. O Tokyo Hotel o Elton John, insomma, il resto è quasi fuori dal mercato. E il motivo, naturalmente, è che se hai più di 15 anni o meno di 45 anni, non c'è nessun motivo per cui tu debba comprare dei dischi in un negozio: c'è Internet.
La cosa funziona probabilmente anche per il sesso al cinema. Fino a metà Novanta era abbastanza normale andare al cinema e vedere persone normodotate che facevano sesso. Di solito erano giovani, meglio se nella ventina, per il semplice motivo che il sesso bello da vedere è quello lì. Il resto, per carità, può anche piacervi, ma era nicchia, e per trovarlo bisognava andare negli scantinati dei videonoleggi.
In seguito il sesso è quasi scomparso, tanto che quando un regista decide di mostrarne un po', fa notizia. (Se ci riflettete è strano, no? Che nell'era digitale un po' di sesso su pellicola faccia notizia). Nel frattempo gli americani sono entrati in una specie di era vittoriana in cui il sesso si può fare solo vestiti. In Italia invece è ancora consentito spogliarsi, ma davvero è come se mancasse una generazione. D'altro canto vale lo stesso discorso della musica: se vuoi vedere una scena di sesso tra giovani, l'ultimo posto dove vai è al cinema. Nell'era di youporn per cercare sesso spinto al cinema bisogna essere rincoglion... un po' avanti con gli anni. E siccome al cinema ci si va per specchiarsi, il risultato eccolo qua: la scena di sesso tra Moretti e la Ferrari, che in due sfiorano quasi i 100 anni d'età. Faccio un appello ai lettori cinefili: avete mai visto in un film un sesso così vecchio? I film col vecchione sedotto dalla fanciulla non valgono: quelli sono appunto costruiti sul contrasto d'età (e comunque non mi viene in mente nessuna scena scabrosa). Qui invece si sono due persone normali che fanno un sesso abbastanza standard, salvo che sono vecchi. O meglio: in qualsiasi altro Paese sarebbero vecchi. In Italia no, in Italia sono nella media. Sono i soliti borghesi quaranta-cinquantenni coi problemi esistenziali, la casa al mare e parecchio tempo da perdere. La sensazione è che davvero facciano più sesso loro che noi.
D'altro canto, devono proprio mostrarcelo? Non fraintendetemi, non è pruderie - o forse sì? A un certo punto mi sono sorpreso a pensare "Ma non avete mica intenzione di farlo vedere all'estero, vero?" Il fatto è che di tutto il sesso del mondo, quello di cui siamo meno curiosi è sempre quello dei nostri genitori. E il fatto che lo vedano gli altri, che addirittura lo vedano i francesi, o i tedeschi, o i marziani nel Tremila, "ecco, vedete, gli italiani facevano sesso così, fuori dalla finestra fertile, e infatti si sono estinti" - brrr.
Sabato a scuola non si trovava un videoregistratore, neanche a pagarlo. Tutti prenotati da mesi. Nei corridoi echeggiavano voci stentoree, gridi disperati. “Achtung Juden!” “H'raus!” “Tod und Verzweiflung!” E' un'altra Giornata della memoria.
Servirà a qualcosa? Questi ragazzi ricorderanno? O anche questi ricordi non sono destinati a perdersi come lacrime nella pioggia martellante di Scusa se ti chiamo amore e/o Alien vs Predator 2?
Dopo anni di martellamento a furia di Schindler's List e Il Pianista e La Caduta, credo di sì, credo che qualcosa resterà. In fondo sono piccoli, s'immedesimano in tutto.
Così a volte penso a me stesso più vecchio, mentre faccio una fila nella nebbia. A un certo punto un giovane seduto a un banchetto mi chiede COGNOME E NOME. “Randolla Matteo”. “Randolla... un suo parente non faceva il maestro alle medie di *****, per caso?” “Veramente ero io”. “Era lei? Il Prof Randolla?” Si alza di slancio, rivelando due metri di eleganza un po' marziale. “Professore, sono io! Galavotti Enea, si ricorda? La terza effe del duemiladieci!” Queste cose io le odio, perché i nomi e i volti sono il mio punto debole, così corrugherò un attimo la fronte e poi la distenderò facendo finta di ricordare, e nel frattempo continuerò a frugare nei resti della mia memoria, alla ricerca dei medesimi occhi verdi, di un naso analogamente schiacciato, e di quel nome, Enea, Enea, Enea. “Ah, bene, Enea, vedo che ti sei sistemato!” “Se n'è accorto, eh?” E si tocca le spalle, indicando un distintivo o una mostrina di cui in realtà io ignoro il significato. “E se tutto questo va a buon fine ci dovrebbe anche essere una promozione”. “Beh, in bocca al lupo”. “Professore, devo dirle, in questi anni ho pensato molto a lei”. “Ah, sì, beh...” “Vede, ne ho discusso anche con i miei coetanei, e siamo arrivati alla medesima conclusione: gli anni delle medie sono stati i più formativi”. “Ah, però. Chi se l'aspettava”. (Io, no. Io pensavo di gestire un parcheggio tra le elementari e il liceo). “Sì, perché in quegli anni hai la mente e il cuore... come dire... teneri. Si plasmano su quello che trovano, capisce. E io ho avuto una grande fortuna a incontrare lei”. “Ah, davvero?” “Ho ancora vivide nella memoria le immagini che ci proiettava, tutti quei film... a volte penso che tutto quello di buono che ho fatto nella vita lo devo a quei film”. “Tutto questo è molto commovente, Enea, ma fa un po' freddo, la fila è lunghissima e sento che dal fondo qualcuno ci sta maledicendo”. “Ma non si preoccupi. Senta (mi prende sottobraccio, la sua uniforme di ufficiale si strofina sul mio pigiama liso). Noi adesso qui dobbiamo dividervi in gruppi di sei e poi mettervi in fila. Lei cerchi di stare in fondo alla fila. Sempre in fondo”. “Ma perc...” “Poi vi portano nel piazzale della palestra, e sparano al torso del primo della fila. La pallottola trapassa e ne ammazza altri quattro, ma a volte l'ultimo si salva, capisce? Se riesce a fare il morto fino a sera può scappare”. “Ma farà freddo!” “I cadaveri scaldano”. “Ma Enea, posso farti una domanda seria?” “Dica pure, prof”. “Perché tutto questo orrore, perché?” “Cosa vuole che le dica, stiamo esaurendo le munizioni, dobbiamo fare economia. O preferirebbe che vi strangolassimo? Converrà che questo è un metodo più pietoso”. “Ma...” “E lo abbiamo preso da un film, sa? Quello in bianco e nero lungo lungo, ha presente? Che gran film! Credo proprio che ce lo abbia fatto vedere lei”. “Sì, però...” “Aveva ragione, sa? Anche dai film si può imparare. E noi abbiamo imparato tutto. Ora, se non le spiace, devo esaurire questa coda. In bocca al lupo, professore”. “In bocca al lupo, Enea, e grazie”. “Ma grazie a lei. E si ricordi. Stia in fondo alla fila. Sempre in fondo”.
5 diagnosi su House (una potrebbe anche essere corretta)
Se siete della razza che scarica i telefilm (pardon, le serie) da internet, misurandovi reciprocamente i centimetri sulla barretta di bit-torrent, alla fine House non è che il solito prodotto di nicchia che vi identifica e vi gratifica: e beati voi.
Se invece siete ancora nella fase catodica, come me, probabilmente condividete l’incredulità, l’imbarazzo, il fastidio di aver dovuto premere il pulsante 5 del telecomando in prima serata. È una cosa che non facevo più da anni - che forse non avevo mai fatto. Oddio, beh, qualche pezzo di Grande Fratello quando c’era Franco, ma… insomma, io pensavo di non avere più nulla a che fare con quel Canale, con quel target, con quel mondo. A Italia1 ci si attacca in un disperato tentativo di restar giovani, Rete4 da sempre blandisce col piacere proibito di sentirsi intelligente vedendo gli idioti al lavoro. Canale 5 è una cosa diversa, una cosa seria. È la morte che si mette in marcia. Quando il programma che ti piace di più va in onda in prima serata su C5, sei definitivamente uscito dalla nicchia. Sei un adulto medio. Sei brutto. Tra un po’ sarai anche vecchio, e andrai a dalla De Filippi a piangere e scatarrare nei fazzoletti.
Non puoi nemmeno invocare l’errore umano: House non è finito su C5 per sbaglio. Se l’è sudato tutto, il percorso verso la prima serata generalista. Se l’hanno messo lì, è perché funziona: ci sono milioni di italiani che lo guardano. Alla faccia della nicchia. Giovani, adulti, casalinghe che stirano mentre il dottore drogato trapana cervelli per mettere a fuoco un’ipotesi. Come ci si sente, ad avere gli stessi gusti di milioni di italiani? Fa un po’ senso, vero?
Non è un incidente di percorso. A un certo punto la Mediaset si è gettata anima e cuore sul dottore drogato. La copertina di TV sorrisi e canzoni, che non è mica Rolling Stone; le telepromozioni imbarazzanti (dopo aver diagnosticato una rarissima forma di cancro, il doppiatore si mette a decantare con lo stesso tono le virtù della skoda fabia). Il punto di massima speculazione l’ha toccato Mentana, che una sera per battere Vespa ha messo su una replica di House. Col dibattito. Ma il dibattito veniva dopo: in sostanza era una replica di House, e contro la Franzoni ha fatto il botto. A pensarci, è l’uovo di colombo: bisognava pensarci prima. La De Filippi non ha abbastanza casi umani da opporre alla Clerici? Proietta in studio una puntata di House! La fiction in costume fa schifo alla miseria? Titolo: La Contessina di Villapenosa stasera presenta il Doctor House! Il reality sprofonda nella noia? Costringi gli inquilini a guardare House, e piano piano zoomi sul loro televisore. E se il pubblico gradisce, perché no?
Già, ma si può sapere perché il pubblico gradisce? La reazione del pubblico generalista italiano a House contraddice tutte le conclusioni scientifiche e sperimentali degli ultimi due decenni, tra cui il primo, fondamentale postulato di Berlusconi (i programmi vanno pensati per “un bambino di 11 anni neanche tanto intelligente”). È una cosa che non può assolutamente passare liscia, così ho preso la mia lavagna e ho messo giù alcune ipotesi di lavoro.
Prima ipotesi: House è un programma stupido. Perlomeno, molto meno intelligente di come si presenta. Dietro la gratificante superficie intellettuale e specialistica, le trame sono abbastanza lineari: c’è un malato e un dottore che lo salva (quasi sempre). Qualche anno fa fece molto rumore un libro che diceva che i telefilm fanno diventare intelligenti perché mettono al lavoro tutta una serie di abilità del tuo cervello. Alcune cose erano interessanti, ma mi colpì molto il fatto che citasse un dialogo di ER in medichese spinto: la pressione è a ottanta, quindici milligrammi di betaprozitene, stiamo perdendo la cistifellea, ecc. ecc. Qui evidentemente c’è un equivoco: nessuno impara la medicina guardando ER, altrimenti i nostri padri sarebbero tutti diventati bovari provetti a furia di Bonanza. Di fronte a uno sfoggio di vocabolario tecnico, lo spettatore ha lo stesso atteggiamento di Linus Van Pelt quando legge i fratelli Karamazov: “Come fai a pronunciare tutti quei difficili nomi in russo?” “Mi limito a guardarli”. A parte qualche studente di medicina, nessuno è veramente in grado di seguire i percorsi diagnostici di House: noialtri ignoranti ci limitiamo a guardare quel che succede, e constatiamo che il dottore drogato sbaglia molto ma alla fine ce la fa quasi sempre, e nel frattempo produce una serie di facce spassosissime. Siccome quell’attore, prima di House, faceva il papà di Stuart Little o il cattivo della Carica dei 101, l’ipotesi non è da buttar via: ci crediamo tutti esperti di medicina, ma siamo ancora e sempre 11enni poco intelligenti, che con la scusa delle diagnosi ci esaltiamo con le smorfie.
Seconda ipotesi: Turismo ospedaliero. Ci pensavo ieri sera. House ha dei colori meravigliosi. Quell’ospedale è bellissimo. Molto spesso è autunno, e cosa c’è di più bello di un autunno nel New Jersey? È tutto meravigliosamente pulito e ordinato, un mondo a mille miglia dagli ospedali italiani. Forse House per noi italiani è pura evasione in un mondo di ospedali colore arcobaleno. Una volta non si poteva andare in Africa, e allora si andava al cinema a guardare il film coi leoni. Adesso Sharm el Sheik te lo regalano, ma una degenza in un ospedale del genere è ancora un’esperienza da mille e una notte. Va da sé che lo stato della sanità USA non è esattamente quella dipinta nel telefilm, per cui a questo punto mi viene in mente una…
…Terza ipotesi:la rimozione della politica. House la sostituisce con la natura. Per lui è naturale lavorare in un ospedale al top, dove possono entrare pazienti di qualsiasi ceto sociale: le differenze sociali sono occultate con molta eleganza. Che tu sia zingaro o miliardario, ti curano notte e giorno e non ti fanno mai vedere la parcella. L’unico tipo di politica presente in House è il dibattito tra razionalismo (di House) e sentimentalismo vagamente religioso (di tutti gli altri deficienti): un dibattito vinto in partenza da House, anche se ogni tanto i saggi sceneggiatori danno un colpo al cerchio ed ribadiscono che House è uno stronzo, che anche i sentimenti sono importanti, che le convinzioni religiose ogni tanto vanno rispettate, ecc., ecc. Tutti possono tranquillamente restare aggrappati al proprio punto di vista. Per intenderci, il super-razionalista che capisce tutto da solo può piacere a Capezzone, ma la puntata in cui la Cuddy salva il feto è perfetta per far spuntare una lacrimuccia a Bagnasco. Quindi House ci mette tutti contenti: gli unici un po’ frustrati sono i giornalisti italiani, che abituati come sono a distinguere tra doccia di sinistra e vasca da bagno di destra, di fronte a un prodotto così elaboratamente paraculo vanno in confusione. Accadono così equivoci assurdi, per cui se House cita di sfuggita il film di Michael Moore, al Corriere della Sera si convincono che House sia democratico anti-Bush, eccetera eccetera. A riprova del fatto che anche se guardiamo House, manteniamo le facoltà intellettive di un 11enne: Eh? Che ha detto? Ha citato Maicolmuùr? Ma allora è di sinistra! Sì, vabbè.
Quarta ipotesi: Il cantico del Professionista. Se House non ha nulla di politico, qual è il suo messaggio? Il messaggio che traspare da ogni singolo fotogramma è che bisogna avere fede nei professionisti, perché anche se sono drogati e antipatici, sanno il loro mestiere. Forse ci siamo. Gli italiani, e in particolare i teleutenti di Canale5, non sono di sinistra o di destra. Sono idraulici, avvocati, camionisti, artigiani. Gli italiani sono un popolo di professionisti, e House parla a tutti loro. E gli dice: siete grandi, siete eroi, fate bene a maltrattare i sottoposti e a snobbare i clienti, è da queste cose che si riconosce la grandezza. Attenzione, perché questo non c’entra con la Professionalità: in effetti House è tutto fuorché professionale. Mobbizza i colleghi, si droga sul luogo di lavoro, perverte il codice deontologico ogni qualvolta lo ritenga necessario, ecc. ecc. Fa quel che gli pare, perché è un fottuto genio. Ora, si dà il caso che in Italia la maggior parte dei professionisti si credano appunto fottuti geni, in grado di violare le leggi della professione, dello Stato, e a volte anche della scienza. Perché i camionisti pasteggiano a China Martini? Perché l’alcolismo non è un loro problema, loro sono più bravi! Pensate al vostro commercialista mentre irride le regole dell'algebra, pensate al dentista mentre vi martella un dente si fa beffe del dentista precedente: a sentirlo, sono tutte mezze calze tranne lui. Lui è il Professionista. Ecco, è anche il tipo che guarda House e si esalta. Ora che ci pensate, probabilmente il dottore drogato vi riuscirà meno simpatico.
Quinta ipotesi: non si può escludere a priori che House piaccia a tanti italiani perché è un prodotto scritto, interpretato e diretto molto bene. E tuttavia rimane il dubbio: se agli italiani piace House, perché tutti gli altri giorni della settimana gli date fotoromanzi tipo Rivombrosa o Rino Gaetano contro i discografici nazisti?(*) Se non è per compiacere il pubblico, perché?
A questo punto mi tocca spugnare la lavagnetta e ricominciare: perché la tv italiana è più stupida dei suoi spettatori? Stavolta però non mi viene nessuna teoria credibile. L’unica che mi viene in mente è che dietro ci sia un preciso intento diseducativo. Ma no, dai, nemmeno nei peggiori telefilm.
1. Insegnate bene ai vostri figli: Ogni volta che qualcuno tira fuori le Termopili, è per fotterti. Per dire, una volta ci provò persino Bertinotti. 300 intrepidi spartani si fecero massacrare per salvare un popolo che se la spassava alle Olimpiadi: voi lo fareste? E mentre tirate su un muro di cadaveri persiani, non vi sentireste un po' presi per il culo, a fare il cane da guardia alla democrazia e alla libertà degli altri?
2. Fasìsta! Già sparare giudizi, come si fa in questi maledetti blog, è un po’ antipatico. Usare poi etichette come “fascista” è veramente tremendo. Puzza di anni ’70 – e gli anni ’70 ormai puzzano parecchio. Detto questo, Frank Miller è un fascista. Ma non è questo il motivo per cui non andrò a vedere il film sulle Termopili. E perché sarebbe un fascista, sentiamo.
Non c’è un “perché”. Anche se facciamo finta di non credere in nulla, abbiamo tutti un sistema di credenze e di valori, che emerge in quello che scriviamo. Spesso non è esattamente il sistema di credenze e di valori che vorremmo avere. Io, per dire, preferirei essere meno pessimista quando scrivo, ma non ci riesco. Anche Miller forse preferirebbe essere meno fascista. Specie ai tempi del Cavaliere Oscuro aveva sviluppato tutta una serie di anticorpi e controcanti che rendevano la sua opera straordinariamente dialettica e complessa: ma alla fine di tutta questa complessità, comunque, sopravviveva un personaggio marziale e mascellone che si appartava negli inferi a crescere una nuova razza di uomini superiori. Le sue ultime parole erano: “Robin, sta composto!”, e Robin gli rispondeva “Sissignore”. Miller è un fascista perché, in fin dei conti, quel che gli importa è essere Uomini, con la schiena dritta, i valori saldi e i riflessi pronti. Dietro questa grande idea di mascolinità ti aspetti sempre che ci sia qualcosa di più, ma alla fine non c'è. Non è mica il solo, figurarsi. Prima di lui ci fu la letteratura hard-boiled, con i suoi eroi mascelloni di poche parole e rocciosi ideali. Ma nessuno si sogna (oggi) di dare del fascista al detective Marlowe, che senso avrebbe? Anche gli eroi di Miller, finché si muovono nel mondo depravato di Gotham o Hell's Kitchen o Sin City, sono semplicemente uomini tutti d’un pezzo, senza complicazioni ideologiche. Se Miller si limitasse a disegnare i suoi ribelli, muscolosi e derelitti, quelli che di solito perdono tutto per colpa di una donna e poi risuscitano più forti di prima (gratta l’80% delle sue storie e ci trovi il mito biblico di Sansone)… Il problema è che Miller non tratteggia solo ribelli: è ugualmente tentato dalla figura del Re. Lo ha ombreggiato nel Batman Oscuro, c’è tornato sopra con Leonida. Ecco, quando disegna i suoi re, Miller non può evitare di suonare certe corde. Forse la canzone suona più sinistra qui in Italia, dove ai mascelloni siamo più vaccinati. In ogni caso è terribilmente significativo che, in un momento di assoluta libertà creativa, abbia scelto per un’epopea a fumetti proprio quei fascistoni degli spartani, una casta chiusa di guerrieri famosi per le pratiche eugenetiche (e dovevano averne bisogno, perché a furia di sposarsi tra consanguinei i parti mostruosi dovevano essere frequenti).
3. Gente che non sopporto. A questo punto c’è sempre qualcuno che risponde “Dai, ma è solo un fumetto / un film / una canzone, che palle con le tue sovrainterpretazioni, goditelo e basta". Io questa gente non la sopporto. Solo un fumetto? Siete cresciuti con Zio Paperone, il simpatico capitalista in palandrana, e vi domandate perché vi viene istintivo votare Berlusconi? Solo un film? La cinematografia è l’arma più forte, l’ha detto un tale più furbo di voi. Ma sul serio voi siete in grado di “godervi” 300 senza riflettere neanche un momento sul messaggio politico, neanche se è evidente e grosso come una montagna? Come fate? Avete il Giudizio Estetico tutto in un emisfero del cervello, il Giudizio Etico nell’altro, e una manopolina tipo Balance, per cui riuscite a oscillare a comando? Io ho due cose da dirvi. Prima cosa: non vi credo. Non credo all’autonomia del giudizio estetico. Se 300 vi piace, probabilmente siete sensibili anche al messaggio politico. È solo che vi vergognate ad ammetterlo. Ma io non mi vergogno a giudicare voi. Seconda cosa: a me 300 (il fumetto) è piaciuto, proprio perché sono sensibile ai messaggi politici di Frank Miller. Anch’io penso talvolta che il mondo girerebbe meglio se i giovani tenessero la schiena diritta. E per inciso, studio la letteratura del fascismo. Mi interessa, mi intriga. Ma soprattutto, credo che sia indispensabile studiarla: capire come funziona, le rare volte che ha funzionato. Ed è anche (almeno credo) un modo per immunizzarsi: i sultani assumevano veleno dopo i pasti, per diventare invulnerabili. Io non sono del tutto sicuro di essere invulnerabile ai messaggi fascisti, ma col tempo ci arriverò. Anche grazie a Frank Miller, che è stato una fantastica scuola di fascismo illustrato. 3. Il senso del ridicolo Con tutto questo, non credo che andrò a vedere il film. Già Sin City mi lasciò l’amaro in bocca. Eppure era fedele al fumetto, addirittura ricalcato dalle tavole. Già, è proprio questo il punto. È triste vedere storie che sulla carta sembravano robuste e (relativamente) verosimili, trasformarsi sullo schermo in pagliacciate. Come quella scena di Kill Bill dove Uma Thurman uccide 88 ninja assassini: sembrava già il Wolverine di Miller, eppure era una pacchianata. Il fumetto rende astratte e credibili le più pantagrueliche carneficine. Ma se lo trasformi in pellicola, diventa ridicola, e di riflesso anche il fumetto. Non credo che riprenderò più in mano gli albi di Sin City: grazie regista Rodriguez, adesso mi fanno senso. Perché devo rovinarmi anche 300, trasformando un buon fumetto in un torneo di culturisti? E poi diciamolo, è roba da ragazzini. 4. “I nostri ragazzi!”
I ragazzini, appunto. Non è che io creda veramente che la visione di 300 possa trasformarli in piccoli fasci lacedemoni. Non credo che li spingerà a sostenere un’eventuale guerra americana all’Iran – tutti i film del mondo possono poco, finché gli americani continuano a dare sul campo di battaglia un’immagine così poco vincente. E tuttavia qualcosa mi disturba. Un po’ di fascismo, nell’intrattenimento dei ragazzini, c’è sempre stato. C’è stato John Rambo, e prima di lui John Wayne. Presi a piccole dosi, questi grandi uomini ci aiutavano a immunizzarci dal mito del Grand’Uomo. Da qualche anno in qua – direi dal Gladiatore in poi – la dose mi sembra sempre più massiccia. Si punta tutto su paroloni come Onore o Gloria, ripescati in extremis dai vocabolari; Mel Gibson sdogana persino i Conquistadores; ed è tutto così sfacciato e palese che ti aspetti da un momento all’altro l’ironia. Ma non c’è nessuna ironia. Gibson è terribilmente serio; e anche Miller lo è. Il film, da quel che ho capito, la butta un po’ sul fantasy, ma senza arretrare di un centimetro dal messaggio milleriano. Mi sembra che stia nascendo un cinema per ragazzini propedeutico alla Guerra di Civiltà. Che dalle sale possano uscire buoni soldati, ripeto, è difficilmente credibile. Ma per le esercitazioni ci sono pur sempre playstation e xbox. E comunque, anche Rambo sparava parecchio; ma il Gladiatore di Scott, il Cristo di Gibson o il Leonida di Miller vanno più in là. Stanno recuperando, a colpi di ralenty ed effetti digitali, l'antiquata nozione di Martirio. La stanno trasformando in qualcosa di moderno, qualcosa di occidentale, qualcosa di cool (che alla fine può piacere anche agli eredi dei persiani, che questi dvd se li comprano volentieri).
Queste son cose che mi angosciano, molto più di sapere se alla fine ha vinto Serse o gli intrepidi difensori dell’occidente. Che importanza ha chi ha prevalso alla fine, se entrambe le fazioni erano unite dall'esaltazione fanatica del martirio? Se per vincere dobbiamo assomigliare a Bin Laden, secondo me Bin Laden ha vinto.
(Mi sembra di ricordare che vinsero i greci, giusto per il gusto di scannarsi tra loro qualche decennio dopo. Ma è roba passata, appunto: mi preoccupano di più i sequel).
Più o meno fino ai 12 anni, un maschietto non trova nella femmina nulla di realmente interessante. È una creatura insensata che gioca morbosamente con le bambole e si fissa la punta delle scarpine. Non ci si capisce nulla. Forse non c’è nulla da capire.
Quel che accade dopo i 12 anni è materia per gli endocrinologi. L’ormone insorge, avvampa, intorbida la consapevolezza. Non si tratta tanto di cercar di capire quanto di cercar di toccare. Ci si illude nel frattempo d’esser bestie razionali, di progredire anche nella conoscenza, e forse è così, ma forse anche no. Nel bene o male si comunica, ci si scrivono le mail, si fanno passeggiate assieme, si ha la sensazione di capirsi. Fino a un certo punto è anche bello, eh. E poi finisce.
Quando? Mah diciamo che a un certo punto dei trenta, finisce. L’ormone ha scollinato; la donna, pur continuando ad essere appetibile, smette d’un tratto d’esser comprensibile (lo è mai stata?). Un giorno come un altro ti trovi davanti a una vetrina, o al cinema, e ti trovi davanti… una creatura insensata che gioca morbosamente con gli accessori e si fissa la punta delle scarpine. Et voilà, il cerchio della non-conoscenza è chiuso.
- Gli uomini e le donne sono uguali (ma sono diversi)
Non si tratta di superiorità, signore e signorine. Si tratta di alterità, pane per i denti delle professioniste dei gender studies. Del resto non sarà vero anche per voi? Per un certo periodo di tempo ci siamo trovati comprensibili, ma adesso è finita. Si può andare ancora d’accordo? Magari sì, ma sarà una contrattazione quotidiana: se tu mi accompagni a vedere Spider Man, io verrò a vedere Marie Antoinette. Tu fingerai di credere agli assunti intellettuali del mio ex bambolotto di plastica preferito (dai grandi poteri derivano grandi responsabilità) e io fingerò di credere agli assunti intellettuali della tua Barbie alla Corte del Re Sole; e non farò molta fatica, visto che più o meno è la stessa musica: dai grandi poteri derivano grandi responsabilità. Sembra proprio che i nostri coetanei americani non sappiano dirci altro. Ehi, sveglia ragazzi, non siete sempre per forza così potenti: ogni tanto perdete anche le guerre. Sì, anche voi.
- Come dei simbolici Big Jim
Però su qualcosa avete ragione: in occidente abbiamo un problema coi nostri bambolotti. Piuttosto di separarci da loro, li intellettualizziamo. Per cui ok, Marie Antoinette è la versione intellettuale di Barbie e le 12 principesse danzanti: contiene tutta una serie di metafore politiche ed esistenziali che ci farà discutere per una settimana. Anzi, mi sbilancio. Questo film ci sopravviverà, e di parecchio.
Un giorno Marie Antoinette sarà materia di studio per un popolo di un colore e di una lingua diverso dal nostro. Un signore punterà il righello sull’acconciatura di Kirsten Dunst e dirà: vedete, all’inizio del Ventunesimo secolo gli Occidentali si sentivano così. Una casta chiusa, incipriata e segregata dalla massa degli oppressi. Vecchi ruderi, puttanieri o beghine; oppure giovani signori patiti di caccia e di biliardo, ma tutti assolutamente consapevoli della propria inutilità. Da qualche parte nella campagna d’occidente, masse di selvaggi incatenati coltivavano i pomodori e realizzavano i prodotti di haute couture che Marie e le sue amichette erano condannate a consumare in grande quantità. Per far girare l’economia. L’Altro, il Lavoratore, l’Operaio, è sempre più invisibile. Sofia Coppola non riesce nemmeno a inquadrarlo in piena luce. Solo il chiasso, un chiasso spaventoso, che sale lentamente, più forte di qualsiasi playlist, un muro d’odio che ci attende da qualche parte lungo questa strada. Lo sappiamo.
E siccome lo sappiamo, e non possiamo farci nulla, che si fa?
1-2-3: shopping!
- Quel bisogno di scarpe che non vuole sentire ragioni
Il limite dell’intellettualizzazione del bambolotto è appunto questa: puoi coprirlo di sfighe e autocoscienze finché vuoi, ma il messaggio di Spider Man resta sempre “wow, che figo arrampicarsi su per i grattacieli”. Allo stesso modo, puoi scalfire Marie con mille chiavi di lettura intellettualissime e concettualissime, ma l’unica che fa scattar la serratura è: “wow, che figo essere principessa! Quante scarpe, quanti dolci, quanti cortigiani chiacchieroni!” C’è anche Ken versione stallone svedese.
Eppure, sotto sotto, Marie sarebbe una ragazza alla buona (anche Peter Parker vorrebbe soltanto essere un nerd del dipartimento di chimica, come no). In un attimo di stanchezza rilancia la moda dell’Arcadia (il Twee del Settecento). Le dame di corte si travestono da pastorelle, mungono le vacche e leggono Rousseau. Ma è solo un attimo. Può Peter Parker ignorare il suo destino di salvatore del mondo? Può Marie realmente resistere a quel bisogno di scarpe che non vuole sentire ragioni? Ok, la mezz’ora di approfondimento è finita. Si riparte col bambolotto.
- She’s got the worst taste in music
E fosse solo un bambolotto, il problema dei trentenni. Il guaio è che col tempo i giocattoli si accumulano. Il più pernicioso è l’Ipod: ci ha trasformati tutti in dj solipsisti da strapazzo, non necessariamente bravi. Sofia Coppola, per esempio, sotto i colonnati di Versailles è libera di ascoltare gli Strokes, ma è una cosa sua e unicamente sua: perché vuole impormela? O devo, anche qui, pescare una metafora? Posso anche provarci, ma non rischio di intellettualizzare eccessivamente una selezione random? “Gli anacronismi sono voluti”, ci mancherebbe altro. Ma oltre a fare i pugni con ogni buon gusto, funzionano? Vent’anni fa a Milos Forman bastava giocare un po’ coi parrucchini di Amadeus per farlo sembrare una rockstar neoromantica; invece Marie Antoinette cosa sarebbe? Una punk, perché balla Siouxsie? A questo punto facciamo come al tempo delle mele: ognuno venga al cinema con le cuffiette sue. Libero di trovare ogni sorta di accostamento. Saranno tutti originali e ci assomiglieranno.
- “La morte di una persona è una tragedia”
Il bambino chiede “come va a finire?”, la bambina: “che numero portava la principessa?”
Se vent’anni dopo la bambina porta il bambino al cinema a vedere un film storico, quest’ultimo non riconosce la Storia. Ogni spunto narrativo sembra trasformato in tappezzeria. Tutto è superficie, atmosfera. La Du Barry (magistralmente interpretata da Asia Argento, l’orgoglio del cinema italiano all’estero) ridotta a mignottona figurante: ma come? era la principale protagonista del mobbing di corte, l’altoparlante che mise in giro tante frottole che la rivoluzione avrebbe amplificato.
E ancora il bimbo si domanda: perché chiudere il film proprio là dove la storia di Marie comincia a farsi interessante? Quella notte a Versailles, per esempio, il linciaggio fu sfiorato davvero di poco. E poi? La gente esce dal cinema con la sensazione che Marie sia già sul primo gradino del patibolo. Per niente: stava andando a regnare da sovrana costituzionale alle Tuilleries, nel bel mezzo di Parigi, dove senza dubbio si sarebbe annoiata di meno. Gli ultimi mesi di vita della regina sono un incubo, però Marie li vive da donna adulta. Non è una Claretta Petacci che segue l’uomo della sua vita fino in fondo; è una degna rappresentante dell’ancien régime che tradirà il suo giuramento ai francesi, venderà il suo popolo allo straniero (suo fratello) e tenterà la fuga travestita. Certo, se oggi ci commuove Saddam Hussein, figurarsi una madre di famiglia. A dimostrazione del vecchio proverbio: uccidere una persona è una tragedia (specie se la persona in questione è una principessa, un despota, insomma un Vip); affamare un popolo è solo statistica.
- Dopo di me, il diluvioMettiamola così: io non ho visto Marie Antoinette. Non ne ero capace. Probabilmente è un bel film. Il futuro è delle donne, che leggono di più, hanno più gusto per gli accostamenti e meno inclinazione per i giocattoli pericolosi, armi e motori. Tra due secoli qualche ricercatrice scoverà la cache del mio blog e non ci troverà niente di interessante. Le schiferà il template.
Nel frattempo io continuo ad aver bisogno di donne: amiche, fidanzate, mamme, non potrei vivere senza queste presenze che non capisco. Passo la mia vita in una tappezzeria incomprensibile, ignorando tutto quello che sarebbe importante sapere, chi lo sa? Forse Marie Antoinette sono io. Perciò m'inchino a tutte voi, abbiate pietà. Non sono cattivo. Sono solo cresciuto in un mondo un po' così.
(Che io sappia, in Italia Scoop, l'ultimo film di Woody Allen, non è ancora uscito. Io l'ho visto, e in questo pezzo riesco a parlarne senza spiegarvi esattamente come va a finire. Credo).
Siete un pubblico speciale, e vi amo.
Allen è un grande cineasta che sta invecchiando. Non stiamo neanche a discutere. Ha fatto molti film: alcuni belli, altri sopravalutati. In ogni caso ha finito di farli più o meno dieci anni fa. Da dieci anni non ha probabilmente nulla da dire: sta solo invecchiando.
Il punto è che sta invecchiando bene: che un suo film, magari bruttino, magari con poco o nulla da dire, regge comunque il confronto con quello che passa in cinema, e in tv. I suoi dilemmi morali possono suonare banali, ma almeno sono dilemmi, almeno sono morali. Allen può essere noioso, ma non è che in giro ci sia roba molto più eccitante; può essere vecchio, ma non è che i giovani si stiano dando molto da fare. Senza parlare dei vecchi come lui. Anzi parliamone. Prendiamo un Altman: ci sarà un motivo per cui Altman passa in estate, praticamente inosservato, e Allen si conserva per l’autunno, quando la gente torna al cinema? Prendiamo un qualsiasi autore dell’età di Allen: ha ancora cose da dire? Riesce a dirle meglio di lui?
È inutile cercare di difendere i suoi ultimi film. Inutile anche arrampicarsi sulla suo presunto risorgimento londinese - come se Allen riuscisse davvero a descrivere le città e le campagne in cui ambienta le sue operette. La questione è molto meno artistica e molto più umana: c’è chi colleziona modellini, chi scrive un libro, chi tiene un blog. Quest’uomo sta cercando semplicemente di mettere un film all’anno tra sé e la morte, perché è quello che ha sempre fatto, perché è quello che sa fare meglio. A lungo andare, è chiaro, il pubblico pagante diventa sempre più una variabile indipendente e irrilevante. La buona notizia (per noi? Per lui?) è che quel giorno è ancora lontano. L’appuntamento annuale col film di Allen è ancora piacevole – in mancanza di meglio, certo. Si vive in mancanza di meglio.
Io la vedo così: nei grandi film della sua maturità (Io e Annie, su tutti), Allen ha tratteggiato, con ironia, l’autoritratto di uno sfigato immaturo. Non importa che questo ritratto fosse abbastanza impietoso e a tratti persino tragico: non importa perché la generazione di Allen ci ha riso sopra, trasformandolo in una macchietta indulgente, e prendendolo ad esempio per procrastinare a mai la propria maturità. Bei film, pessimo risultato.
Oggi però succede l’inverso. Se coi suoi migliori film è stato una pessima guida per una generazione di immaturi boccaloni, coi suoi peggiori film ci sta dando ottime lezioni su un problema che ci interessa tutti: come invecchiare decentemente. Qui non si tratta, insomma, di avvertire che Scoop è il suo miglior film dai tempi di. Potrebbe anche essere. E chi se ne frega. Qui si tratta solo di apprezzare il modo in cui Allen sta invecchiando in Scoop. Fotografarsi è sempre difficile, e fotografarsi da vecchi lo è ancora di più. Bene, nessuno che io ricordi ci è riuscito con la stessa grazia di Allen in Scoop.
Per prima cosa, è uno sfigato. Un ciarlatano mediocre. Ha qualche illuminazione, ma non riesce a servirsene. Niente famiglia, niente figli, nulla gli sopravvivrà. Entra nella storia controvoglia, ne esce per manifesta incapacità, nel più ridicolo e prevedibile dei modi. Ma per un’ora, lui e Scarlett si sono improvvisati padre e figlia, divertendosi un mondo. E divertirsi è tutto. Stare coi giovani. Cercare di salvarli. L’importante è non riuscirci.
Quindici anni fa Allen era ancora un signore di mezza età che cercava di riscattare il suo matrimonio salvando la Keaton da un diabolico assassino, nel Misterioso Omicidio a Manhattan. E non importa quante strizzate d’occhio, citazioni e understatement ci fossero in quella scena finale: in fin dei conti, Diana era pur sempre la donna salvata che diceva al suo eroe: ti amo. (Gratta gratta, le trame di Allen sono reazionarie, chi lo ha detto? Io, credo). Una scena così, in Scoop, avrebbe potuto esserci. Ma non c’è. Allen non è il vecchietto idiota che cerca di correre la maratona a sessant’anni. Per salvare un amore, una famiglia, una splendida ragazza, occorre cuore ma anche fiato, e non ne ha più: quel che è bello è che se ne rende conto. Scarlett dovrà farcela da sola.
E Allen? Vedi la scena finale: Allen continuerà a recitare la stessa scena per l’eternità. I soliti mediocri giochi di prestigio, il solito monologo sconnesso in cui garantisce di amare l’ennesimo pubblico sconosciuto ed estraneo, di amarlo sul serio: le cose cretine che si dicono a fine serata, quando si avrebbe voglia di andare via ma ancora non si può, e pur non amando veramente nessuno non si vuole essere scortesi. Allen non è mai stato scortese. Farà ancora molti film bruttini, facendo il possibile per non annoiare, per non strafare, per dare scena a belle donne (e begli uomini, direi). E noi li andremo a vedere, perché Fellini è morto, Kubrick è morto, e Spielberg non può farne più di due a stagione. E i giovani si facciano avanti, non è certo Allen a impedirglielo.
Qualcuno sicuramente avrà già provato a paragonarli. Entrambi stacanovisti (un libro all'anno – un film all'anno), stuccano il pubblico tornando ossessivamente sugli stessi temi.
Entrambi, visti in prospettiva, sgomentano. Dunque è possibile passare un'esistenza intera a descrivere lo stesso problema senza risolverlo mai. Sì, è possibile, anzi è questo il lavoro quotidiano dello scrittore o del cineasta. Per le soluzioni, rivolgersi all'autorità trascendente. Allen è noioso e inconcludente, Moravia è noioso e inconcludente, la vita è noiosa e inconcludente.
Consigli ai giovani scrittori? cambiare mestiere. Anche ammesso di arrivare, dopo un lungo apprendistato, a una completa padronanza dei propri strumenti, il rischio è trovarsi davanti a un impiego più noioso del brokeraggio finanziario. Una pagina al giorno. Un film all'anno. Sempre i soliti problemi. Al limite, c'è il tennis.
L'Europa è sopra le righe
Allen è un regista americano che fa film per il mercato europeo. E (se ho ben capito come va a finire Hollywood Ending) è il primo a meravigliarsene. Non che lui non conosca e non ami il cinema europeo. Ma i suoi interpreti?
Gli attori americani sono felici di lavorare con Allen (sottocosto), perché le probabilità di conseguire una nomination all'Oscar sono curiosamente alte. Capita spesso, però, di vederli recitare sopra le righe. Ansia di strafare? O fraintendimento culturale? È come se l'americano, sapendo di lavorare a un prodotto d'esportazione, si sentisse obbligato a fare qualcosa di diverso. Mossettine, ammiccamenti… "Ho bevuto troppo", dice la Johansson al futuro cognato. Sembra effettivamente a un passo dal delirium tremens. In realtà noi europei preferiamo una recitazione più sobria, al limite legnosa, proprio come ce la passa Hollywood – ma questo è il punto: forse a Hollywood non lo sanno. Hanno una loro idea di Europa, smorfie e mossettine. Teatrale, in una parola. L'Europa è il continente dove si va a teatro.
Contemporaneo
Se non si evolve mai (e da un pezzo ha smesso di arrischiare esperimenti), almeno Allen invecchia. Con molta onestà, va detto.
Negli anni Novanta il suo protagonista preferito era il vegliardo svitato (su tutti, Deconstructing Harry). Un Dormiglione sempre più anziano e disperato. Dopo qualche tentativo disperato di rianimarlo, facendogli indossare panni di gangster o detective, da qualche anno a questa parte il vecchietto ha definitivamente ceduto lo spazio a una nuova generazione – alla quale non ha nulla da insegnare, come è stato messo in chiaro in Anything Else. Si tratta semplicemente di un passaggio di consegne: i nuovi arrivati vivranno, stanno già vivendo, i problemi che tormentavano il vecchietto (esiste il Bene e il Male, perché mi piace la ragazza del mio amico, eccetera). Ma naturalmente li vivranno a modo loro.
Per esempio: in Match Point non c'è un minimo accenno alla psicoanalisi. Niente. Negli anni Novanta i lettini erano ancora onnipresenti nelle sceneggiature alleniane. Stavano sullo sfondo, immarcescibili elementi di una natura eterna, come il ponte di Brooklyn e Central Park. I suoi personaggi andavano a consultarsi dall'analista come gli eroi omerici visitavano l'Ade: periodicamente, per informarsi sui propri problemi. Tanto che il lettino era qualche volta intercambiabile con lo studio di una maga (Brodway Danny Rose, Celebrity) e il risultato non cambiava. Ma adesso basta, l'analisi non c'è più. Usanza di una generazione andata. Il divano di Match Point si apre e contiene un letto: il trampolino di lancio dell'arrampicatore sociale. Per confidarsi basta una panchina in un parco e un amico tennista. Allen è un vecchio onesto, che continua a descrivere gli stessi problemi, ma almeno non ci annoia con le liturgie del passato. Vecchio, ma nostro contemporaneo. E dici poco.
La fine del perdente
In Crimini e Misfatti un uomo di successo deve far fuori l'amante chiacchierona. Qual è la differenza con Match Point? Che nel frattempo Allen si è chiamato fuori.
Nei suoi film l'istanza morale è sempre affidata al buffone, al clown, al perdente (non dico una novità). È una tradizione che viene da lontano. Ma nel corso degli anni l'immagine del clown si precisa sempre di più. Spesso è un artista (di scarso successo), e un fallimento con le donne.
In quel periodo Allen continuava ad accostare criminali 'naturali', che non si pongono problemi di coscienza (oppure smettono di porseli, come in Crimini e Misfatti, perché nessuna giustizia interviene a punirli) a simpatici perdenti che continuano a credere nel bene e nel male, ma che alla fine sono troppo deboli sia per l'uno che per l'altro. Quel che è peggio, è che non sono nemmeno grandi artisti, perché l'artista autentico per Allen è proprio il criminale naturale: il gangster di Pallottole su Broadway o il chitarrista di Accordi e Disaccordi (anche l'Harry-a-pezzi in fondo appartiene a questa famiglia di carogne istintive). Insomma, sul crepuscolo della sua produzione, Allen sembra aver concluso che il vero intoppo è lui. E si è cancellato. Ora la storia fila molto più liscia: non c'è più nessun intellettualoide a filosofeggiare di bene e di male e a consigliare libri e film.
La storia fila talmente liscia che fa paura: la cultura non serve più a stimolare le coscienze (che non esistono). È puro entertainment, lusso e pacchianeria, senza soluzioni di continuità. La "Super-Traviata", la biblioteca di libri antichi, la Tate Modern (solo quadri brutti, sarà voluto?), i Diari della Motocicletta, Lloyd Webber. Non c'è niente che dia da pensare. Fa tutto parte della vita e "la vita è meravigliosa", dice la moglie di Chris, "voglio goderne ogni momento". Mi ha fatto venire in mente quel che diceva Diane Keaton nel Dormiglione: Il mondo è pieno di cose meravigliose. Perché deve esserci qualcosa che vien fuori a guastare tutto? C'è il globo, c'è il teleschermo e c'è l'orgasmatic!. Siamo già nel 2173. E ci annoiamo parecchio (da questa parte dello schermo, almeno). Cavalli, tiro al piattello, libri pregiati, Lloyd Webber, brutti quadri… Perché deve esserci qualcosa che vien fuori a guastare tutto?
L'arrampicatore
Perché Chris Wilton legge Dostoevskij? Solo per allenarsi inconsciamente ad ammazzare una vecchietta? Ma Wilton non è Raskolnikov. Non si fa nessuna illusione sulla moralità del proprio agire. Il suo vero romanzo è il Rosso e il Nero. Wilton si fa broker finanziario come Julien Sorel si fa prete – e ha lo stesso problema: le donne. Desidera quelle sbagliate. E siccome non riesce a zittirle (specie oggi con tutta questa telefonia), deve ucciderle.
Come Julien, Chris non è un ipocrita. È un arrampicatore autentico: chi ne ha conosciuti saprà cosa s'intende qui. Non fingono di provare interesse per l'opera o per Dostoevskij: ci credono davvero. Provano un rispetto sincero per ogni gradino che salgono e per ogni cosa che trovano lungo la salita. Per un'ora buona è impossibile capire se Wilton finga o sia sincero – se legga Dostoevskij perché gli piace o perché gli servirà a fare buona impressione sul padre della ragazza (per motivi analoghi Sorel leggeva Plutarco e ne discuteva coi suoi superiori). Sono vere entrambe le cose. Chris realizza il suo destino senza possedere una vera e propria coscienza, finché non commette l'irreparabile con la donna sbagliata. Da lì in poi avrà una coscienza. Cattiva (che è meglio di niente?)
Nel campo da tennis del bene e del male
Se l'Allen-attore non appesantisce più i dialoghi coi suoi dubbi e i suoi riferimenti, l'Allen-regista si attiene più che mai al suo tema preferito: il Dilemma Morale. Devo dire che questo è uno degli aspetti che capisco di meno.
È che non abbiamo la stessa idea di Male. Per me il Male è qualcosa di corpuscolare, tenace, corrosivo: dovessi evocarlo, penserei alla polvere, o alla ruggine. Non è qualcosa che si sceglie, è un tarlo che s'insinua. Per Allen, invece, il Male è l'alternativa secca al Bene, e viceversa. Forse non c'era immagine migliore del gioco del tennis per descriverlo. Ogni giocata di una partita da tennis può andare a segno per te o contro di te. Non esistono terze possibilità, zone grigie. Lungo il film assistiamo a una serie di episodi in cui Chris può decidere se agire Bene o Male. In quei momenti l'esitazione è fatale, l'istinto è subdolo, e il pronunciamento è decisivo: da ogni bivio imbucato non si può tornare indietro.
(7-6) (7-6)
Dunque il film consiste in due set. Nel primo (un po' lento) è in gioco l'anima di Chris. È un uomo di umili natali e di talento, gentile e sincero, combattuto tra due donne che ama? O è una schifosa canaglia, disposta a mentire al mondo e a uccidere se necessario? Impossibile capirlo. In realtà è entrambe le cose, fino all'ultimo punto.
Quando la moglie gli comunica che la vacanza in Grecia è saltata, Chris chiama Nola, poi mette giù. Di bugie ne ha già dette tante, ma questa è la decisiva. Da quel momento Chris non sarà più sincero con nessuno. Gioco, Partita.
Il secondo set (molto più divertente, secondo me) riguarda il destino di Chris. Andrà in galera o la farà franca? La trovata del film è mostrarci subito il punto decisivo (l'anello che non cade nel Tamigi), senza spiegarci da che parte è caduta davvero la pallina: è un punto per Chris, o per la Giustizia? Andate a vedere il film. Ma se conoscete Allen, l'esito è scontato.
La banalità del male (non in quel senso)
Secondo Allen la differenza tra il Bene e il Male è nitida: unico intoppo, il Bene non sarà premiato e il Male non sarà punito. Dio, che evidentemente ha creato il campo da tennis, ha dato buca la premiazione. Tutto avviene dunque per caso nel migliore dei mondi qualsiasi.
Ma cos'è, in pratica, il Male, per lui? Gira che ti gira, molto spesso si riduce al prurito di far sesso con la donna di qualcun altro (e in seguito alla necessità di farla fuori). Che sia Dostoevskij o Stendhal, comunque è Ottocento puro: adulteri e omicidi, omicidi e adulteri.
Questo è un altro aspetto che fatico a mandar giù. Ho la sensazione che esistano in commercio forme di Male non solo più corpuscolari, ma anche più interessanti e seducenti. Cito a casaccio: la corruzione, l'inquinamento, la dipendenza (i personaggi di Match Point dicono Droga con la "D", come se fosse una voce enciclopedica), la speculazione… Sono cose alla portata di sceneggiatori anche molto meno dotati.
Ieri per esempio ho visto In good company (ancora un po' e la Johansson mi darà la nausea, coraggio). Come film non mi è sembrato un granché: un'occasione mancatissima. Ma c'è comunque un'idea di Male molto più convincente e realistica del solito adulterio: l'incompetenza mascherata da marketing, la prevaricazione mascherata da sinergia, la svalutazione dell'etica del lavoro, la globalizzazione che si boicotta da sola… tutte idee che sono moneta comune, anche presso il pubblico tipico di un film di Allen, ma che Allen non ha mai messo in un film. Insomma, è probabile che esercitando la sua 'naturale' professione di broker, Chris si destreggi tra crimini e devastazioni molto più subdole di un semplice adulterio. Ma per il regista l'unico modo di raffigurare il Male è fargli ammazzare una vecchia e un'amante incinta con un fucile a canne mozze. Roba da Agatha Christie, in fin dei conti. E se Allen fosse, dopotutto, un autore reazionario?
Niente post, soltanto spot: questo è il film che dovreste andare a vedere nel weekend (seguirà dibattito).
Se siete un po' nostalgici del '77 a Bologna senza mai esserci stati; se invece c'eravate e manco per sogno ci tornereste; se amate la radio (e i blog), se avete un programma (o un blog); se anche odiate la radio (e i blog); se lavorate tanto (e guadagnate poco); se lavorate poco (e guadagnate uguale); se siete studenti e non apprezzate i carabinieri; se siete i carabinieri e non apprezzate gli studenti; se siete figli d'operai e non apprezzate un bel niente; non so com'è che sia andata, ma Chiesa e i Wu Ming hanno fatto un film che può piacere a tutti. A me sembra proprio a tutti. Questo è il generalismo che mi piace.
(Al limite, se il vostro amico nicchia, ditegli che ci sono le donne nude e il kung fu).
In che cinema lo fanno? Qui.
se dico “Caifa” la prima cosa che mi viene in mente non è il tale versetto di Luca o Giovanni, quanto un basso barbuto che si pencola su un tubo Innocenti, come un corvaccio sul trespolo: Bob Bingham in Jesus Christ Superstar (1973). E l’immortale ritornello
for the sake of the nation, this Jesus must die (must die, must die, this Jesus must die).
Che è preso pari da Giovanni 11,50. Ora sarei curioso di sapere: tra le mille accuse rivolte agli autori di JCS in quegli anni, ci fu anche quella di antisemitismo? Perché non c’è dubbio che Caifa e Anna facciano una pessima figura. Sono fastidiosi sin sul piano acustico: Caifa è un basso cavernoso, il villain di tutti i melodrammi; Anna sfoggia un falsetto stridulo. Sono brutti, neri, astuti e perfidi. Si prendono gioco del buon Giuda come la volpe e il gatto di Pinocchio. Possibile che nessun rabbino si sia sentito offeso?
Every time I look at you
È che ogni epoca ha i suoi pudori, le sue minoranze sensibili. Negli anni Settanta ci si scandalizzava più facilmente per un apostolo nero, che guarda caso di tutti gli apostoli è proprio quello che lo tradì. Ma non è solo questo. In JCS Caifa e Anna sono troppo melodrammatici per essere veri. Eppure, dopo tante versioni dei Vangeli, uno si chiede se l’opzione melodrammatica non sia la più riuscita. Visto Zeffirelli, visto Pasolini, visto Scorsese: com’è che il primo Caifa che mi viene in mente è sempre il corvaccio? E voi? Qual è il vostro Vangelo cinematografico preferito? Io non ho il minimo dubbio: il più apocrifo di tutti.
Non il più grottesco, però. Lo dico perché è una facile tentazione, oggi, rivedere JCS come un grande spettacolo kitsch: è un po’ il destino di tutti i musical. JCS non è immune dal kitsch: basti pensare alla scenetta di Erode, o al balletto finale, con Giuda in un costumino bianco preannunciante Saturday Night Fever (che è proprio il destino di Maria Maddalena, al secolo Yvonne Elliman). Ma è un kitsch strumentale: in generale JCS chiede di essere preso sul serio. Non è nato musical. Niente a che vedere con il Picture horror show. JCS è il capolavoro di un genere effimero che si prendeva pericolosamente sul serio: l’Opera Rock.
In quel periodo la musica leggera correva con leggerezza dei rischi pazzeschi. I primi anni Settanta, per me, sono una specie di tarda adolescenza del rock. Non a caso i grandi dischi di quel periodo ti piacciono soprattutto tra i 16 e i 22, età di grandi speranze: poi cali le arie e ti metti ad ascoltare canzoni di tre accordi. Lloyd Webber mescolava progressive rock, pop smaccato, jazz, classica, melodramma: con tutto questo, alcuni riff sono di una semplicità micidiale (“Remember Ceaser, you’ll be demoted, you’ll be deported, cricify him!”). Anche l’ambizione del librettista, Tim Rice, è smodata: fare un Gesù che parli con le stesse parole del Vangelo, ma sia anche un personaggio moderno e tormentato, una metafora della società dello spettacolo, e canti qualche canzone da top ten. Scommessa riuscita? Se amate il film, sì. Se vi ricordate a memoria quasi tutte le canzoni, sì. Per me, sì.
1. Always hoped that I'd be an apostle
Il rischio di un “Vangelo hippie”, in linea con la moda del tempo, era altissimo. In effetti JCS è anche questo. Ma basta vedere come dipinge gli apostoli: una manica di fricchettoni imbesuiti che non si rende conto di quello che succede (“Too much heaven in their minds!”). Pronti a rinnegare il santone appena le cose si mettono male, e a elaborare il lutto nel modo più infantile: (“Non potremmo ricominciare tutto da capo, per favore?”) L’unico un po’ interessante è Simone lo Zelota, che invano cerca di persuadere Gesù a passare alla lotta armata. Giuda è decisamente una spanna su tutti.
2. Poor old Judas
L’apostolo nero non è solo uno dei protagonisti: è anche il coro. Il suo punto di vista è molto spesso quello dello spettatore. Sin dall’orazione iniziale, quando Giuda si rivolge a Gesù dall’alto di un monte, lo spettatore tenderà a immedesimarsi in lui. In effetti è il classico Progressista di buon senso che sta dentro ognuno di noi, convinto di avere ragione bastante per sé e per tutti gli altri.
My mind is clearer now. At last all too well I can see where we all soon will be.
Gesù lo ha deluso, all’inizio parlava e faceva ottime cose, ma adesso, eh, adesso esagera. Si è fatto la concubina. Ha preso modi da Messia, come una rockstar in delirio di onnipotenza (un problema molto sentito all’epoca). Si fa frizionare con oli profumati: ma chi paga? non era più coerente dare quei soldi ai poveri? E poi bisogna stare attenti, la Palestina è in regime di occupazione militare, basta un niente per farsi massacrare tutti. Tutte obiezioni ragionevolissime. Di obiezione in obiezione, Giuda finisce per trovarsi tra le braccia degli altrettanto ragionevolissimi Anna e Caifa. Da bravo progressista, non ha ancora tradito Gesù che già comincia a dissociarsi:
Now if I help you, it matters that you see These sordid kinds of things are coming hard to me
Sulle prime fa il difficile: “I don’t want your blood money!” Ma Caifa sa toccare le corde giuste: "non hai pensato a quante belle cose puoi fare con quel denaro? Beneficenza, aiuti ai bisognosi!" Così Giuda si fa ingannare con le sue stesse parole. Tradisce il maestro e si danna per l’eternità.
3. Who is this broken man?
Quando si leverà di mezzo, lo spettatore comincerà istintivamente a prendere le parti di Ponzio Pilato. Giuda e Pilato: due uomini che s’interrogano su Gesù, e non ci capiscono niente. Peraltro, entrambi giungono alla medesima conclusione: Gesù vuole morire per diventare la definitiva rockstar: questo è il tipo di vita eterna a cui aspira. Esasperato da Caifa e dalla folla, che minaccia di denunciarlo all’imperatore, alla fine l’imbelle Pilato prorompe nella condanna finale:
Don't let me stop your great self-destruction. Die if you want to, you misguided martyr. I wash my hands of your demolition. Die if you want to you innocent puppet!
E qui entra il tema di Superstar: Gesù ce l’ha fatta, tra lui e la gloria c’è solo una breve sosta su una croce. (La crocefissione dura pochi minuti, abbastanza trascurabili. Invece in Gibson, mi pare di capire, la Passione è soprattutto la sofferenza fisica del Cristo. Anche in JCS c’è il tempo per contare le 39 frustate in presa diretta: ma gli autori sono più interessati al processo, al palleggiamento del condannato tra Caifa, Pilato ed Erode).
4. Just watch me die!
Giuda e Pilato non sanno che lo stesso Gesù ha paura di morire, ma non può sottrarsi alla volontà di un Padre esigente. Per il resto, il Messia soffre dei problemi di una qualsiasi rockstar: sulle prime i bagni di folla piacciono, ma a un certo punto il pubblico si fa troppo esigente (“Hey J.C., J.C, won’t you die for me?”). Peggio di una calca di cacciatori di autografi c’è solo una massa di lebbrosi che pretendono di essere toccati. “Siete in troppi! Lasciatemi solo!” Quando Gesù cadrà in disgrazia, la folla continuerà a seguirlo con la stessa curiosità malata. “Dicci cosa hai provato!” Nel film si portano il pugno al mento, come un microfono. La Passione è uno spettacolo. Tutti devono vedere, tutti devono assistere: primo di tutti il Padre, sommo voyeur, in tribuna vip. “E va bene, guardami morire”, urla Gesù nell’orto di Getsemani: e in pochi secondi sullo schermo passano decine di scene di crocifissione, immaginate dai pittori di tutti i tempi: una soluzione economica e molto efficace (la prima volta che l’ho vista: ora ho paura a ricontrollare. È difficile parlare dei film a cui si vuole bene).
5. Every time I looked at you I don’t understand
Si dice che JCS sia una Passione senza Resurrezione – basterebbe questo per farne un’opera eretica. Ma in effetti una specie di Resurrezione c’è, anche se curiosamente è sistemata prima della crocifissione. E – sorpresa – di fronte a Gesù resuscita anche Giuda, in un tripudio di ballerine. Se il sacrificio di Gesù è immortale, immortale è anche la curiosità dell’uomo che non riesce a capirlo. Questo il senso della scena: dopodiché, i versi di Superstar sono i più demenziali di tutta l’opera (a parte il distico geniale
If you'd come today you could have reached a whole nation. Israel in 4 BC had no mass communication).
Questa è la scena di JCS che mi piace di meno: la più sfacciata, la più volutamente irriverente. Come le gambe nude nei film in bianco e nero: al tempo valevano il prezzo del biglietto, ora rischi di non farci caso. Meglio così, perché un’altra battuta della canzone (“Dicci come stanno i tuoi colleghi at the top: Davvero Maometto poteva spostare la montagna, o è stato il suo PR?”) oggi sarebbe a rischio fatwa. Proprio come il film di Gibson. My poor Jerusalem.
A me invece Iñárritu piace, solo comincio a essere in pena per il suo soggettista. È difficile trovare sempre dei buoni soggetti, si sa.
E siccome attualmente ho solo 5 contratti in ballo e dalle tre alle quattro del mattino non so cosa fare, stavo pensando di provare a scrivere le trame per i prossimi sei-sette film di Iñárritu, poi gliele vendo a 15$ l’una e per una dozzina d’anni non ci pensa più. Che mi pare un buon affare per entrambi. E allora:
Mondo cane (Mundo perro, Messico–USA)
Jack è un professore universitario in pensione, astigmatico, che ha perso la famiglia durante un’invasione di cavallette e soffre di una rara forma di qualcosa. Alejandro è un veterinario dello Yucatan sconvolto dalla scomparsa del suo cane a causa di un ictus, che si converte all’Islam ma cambia idea quando si accorge che le sfighe continuano. Chen è l’unico disoccupato cinese del mondo e passava di lì per caso. La vita di questi tre personaggi viene sconvolta da un tamponamento a catena sullo svincolo di Pasadena. I colori freddi e sgranati sottolineano il disagio di vivere in una società qualsiasi. Premio speciale della giuria a un altro film.
5 litri (5 litros, Messico–USA)
“Cinque litri. È tutto il sangue che circola nel nostro corpo. Cinque litri. Tre bottiglie scarse di acqua naturale, o dieci birre medie all’Irish, venerdì. Cinque litri, in circolo, dentro di me. Cosa succede quando non ci sono più?”
È quello che sta per scoprire Gutierrez, ordinario di chimica organica a San Diego, dopo il mortale incidente che ha coinvolto lui, l’attrice hard Jimena e l’allibratore Juan Pablo de la Conception. Gutierrez morirà dissanguato, ma grazie ai suoi organi Jimena sopravvivrà, anche se dovrà cambiare genere di film. Nei flash-back scopriamo che Juan Pablo stava comunque morendo di una rara forma di scorbuto, e come fanno a volte i cani, attraversava la strada a tradimento per cercare una morte più veloce, oltre che per far incrociare i destini dei primi due pirla che passano, così Iñárritu ci fa un film. Straordinaria l’interpretazione di aggiungete un nome a caso
Cani e padroni di cani (Perros y Patrónes, Messico–USA–Italia)
Samanta possiede un rottweiller, Bobi, che ha storpiato per sempre il volto della figlia della sua migliore amica, Sabrina. Sabrina intrattiene una scabrosa passione col marito di Samanta, Maicol, e col mastino napoletano di lui, Totò. Le vite di Sabrina, Samanta, Totò, Maicol, Bobi e la figlia storpia vengono sconvolte in un incidente stradale. All’inizio del film solo Samanta è ancora in vita, ma sicuri che sia davvero lei? E allora perché ha i ricordi di Sabrina? Perché non sopporta più la vista di un rottweiler che sbrana i figli dei vicini? Ma soprattutto: perché ha la coda di Bobi? E di chi è incinta? Finale aperto. Leone d’oro a un tale che passava di lì, lo ha afferrato e… hop! è scappato via senza spiegare niente a nessuno.
44 gatti (44 cats, Messico–USA–Italia)
“Non puoi mettere 44 gatti in fila per sei. Questa è una cosa che ho capito fin da bambino. Ne resteranno sempre due che non sanno con chi marciare. Sei per sette quarantadue, più due quarantaquattro. Quante volte da bambino mi sono chiesto perché, perché doveva succedere proprio a quei due. E se non ero anch’io, a mio modo, un gatto senza fila in cui marciare. Ma anche tutto questo è destinato a svanire, come lacrime nella pioggia”.
Filiberto è un giovane di 56 anni che vive coi genitori in un mondo tutto suo, fatto di zecchino d’oro, puntate di Sandokan, e tutto quello che ha reso gli anni Settanta degni di essere ricordati nei secoli a venire. Ma quando per la prima volta dopo 25 anni osa uscire di casa, la sua vita viene sconvolta per sempre da un incidente stradale che intreccia il suo destino a quello di Jean Alesi e Giobbe Covatta. Perché proprio loro? Non c’è un perché. Le cose succedono, punto. Come Iñárritu ben sa, e adesso lo sapete anche voi. Medaglia d’argento alle Olimpiadi invernali del 2009.
007: Vita da cani (007: it’s a doggy life, Messico–USA–Uk–Italia)
“007: i numeri di un terno al lotto che non uscirà mai, o della pagella di George Bush nel primo trimestre delle elementari (il 7 era in condotta), o dell’agente di sua Maestà la Regina con licenza di uccidere”.
James Bond, il suo perfido nemico di turno e un pancabbestia di piazza Verdi a Bologna vengono coinvolti in un terribile incidente sull’autostrada che va da Manchester a Borgo Panigale. Nei flashback scopriamo che il perfido nemico di turno controlla tutti i pancabbestia del mondo grazie a un dispositivo montato nel collare dei cani. Anche la figlia di James Bond e Ursula Andress fa naturalmente la pancabbestia in via del Guasto, perché nessuno le ha mai detto uno di quei “No” che aiutano a crescere. Quando scopre che il padre giace in fin di vita all’Ospedale Maggiore, decide di donarle il sangue, che è di un gruppo sanguigno rarissimo. Così James Bond sopravvive, ma comincia a farsi crescere i capelli e a rollarsi le canne anche davanti a sua maestà la regina. La bond-girl di turno che vuol fare sesso con lui si prende le piattole e fugge inferocita. Quando verso il finale il cattivo decide di passare alla fase B del piano, James Bond non interviene, ma resta in montagnola a ruttare tavernello e grattarsi i coglioni. A Cannes poi le cose sono andate così: stavano per premiare un altro film e gli hanno chiesto: “Ci reggi un attimo la palma d’oro, per favore?” Lui ha frainteso, ha ringraziato i genitori e la fidanzata e se n’è andato. I giurati si sono guardati negli occhi e hanno fatto finta di niente.
I Malavoglia (Los Malavoglias, Messico–USA–Aci Trezza)
Dopo Luchino Visconti, Iñárritu si cimenta in una nuova densissima versione del capolavoro di Giovanni Verga. “Ho voluto fare un film diverso, più solare, positivo… questo film è un canto alla vita”. La vita di Padron ‘Ntoni, Bastianazzo e ‘Ntoni viene sconvolta per sempre da un incidente nautico in cui perdono la nave, carica di lupini, e Bastianazzo muore. Nel tentativo di recuperare la nave e pagare i debiti, Padron ‘Ntoni combina il matrimonio tra la nipote Filomena e Brasi Cipolla: ma il matrimonio va a monte quando il fratello di ‘Ntoni cade nella battaglia di Lissa; la madre muore di colera, ‘Ntoni lascia l’isola e l’usuraio, Zio Crocefisso, sfratta Padron ‘Ntoni dalla casa sul Nespolo. ‘Ntoni ritorna ad Aci Trezza più povero di prima e si dà al contrabbando, ma una sera accoltella il brigadiere con cui trescava la sorella, esponendo la famiglia allo scandalo del paese, come se ce ne fosse bisogno. Padron ‘Ntoni muore di crepacuore in un ospizio, lontano da casa; ‘Ntoni torna in carcere, Lia comincia a prostituirsi. Sapete quando rimontando qualcosa vi avanzano delle viti? Beh, quell’anno avanzava un Golden Globe e glielo hanno dato.
101 cani venuti dal Brasile (Ein Hundert und Ein Hunde von Brazil, Messico–Usa–Brasile–Germania)
Il dottor Mengele è ancora vivo! ma un incidente sconvolge la sua vita, oltre a quella di un figlio illegittimo di Falcao e di Crudelia Demon. Per tutto questo tempo non ha fatto che accudire il pastore dalmata di Eva Braun, (come gli aveva chiesto direttamente il Führer poco prima di spararsi), clonandolo in un centinaio di copie perché non si sa mai.
Nell’incidente Mengele perde la vita, ma gran parte del suo cervello è ancora utilizzabile e allora decidono di trapiantarlo nel figlio illegittimo di Falcao, che comincia a fare strani sogni in cui Zbigniew Boniek viene operato senza anestesia da un medico della mutua di Baden-Baden.
Un giorno i cani, che non mangiano da tre settimane, vengono a trovarlo tutti e cento (più un barboncino che non sa niente, lui, eseguiva solo gli ordini). Falcao jr capisce che la missione della sua vita è salvare le loro preziose pelli dalle grinfie di Crudelia, ma per difendersi ha bisogno di spazio vitale. Decide di invadere coi suoi cani la Polonia, purtroppo però il Brasile non confina questo Paese, e i cani, spazientiti, lo divorano vivo. Crudelia Demon non si fa vedere perché sta morendo di… di… orecchioni. Premio Nobel per l’economia, tanto ormai.
L’ultimo dog-ma (The Last Dog–ma, Messico–Usa–Danimarca–Parioli)
La vita di Iñárritu, Muccino e Lars Von Trier viene sconvolta da un incidente stradale al termine del quale è già tanto se riescono ad assemblare un regista solo coi pezzi di tutti e tre. Questo regista decide di girare un film all’interno di un’auto-betoniera, con l’ausilio di una sola handycam che rotola per tutto il perimetro della betoniera mentre il camion percorre l’autostrada Parioli–Copenhagen. Gli attori sono nudi e mentre recitano all’interno della betoniera (chiusa ermeticamente) devono cercare di tenersi in equilibrio e fare gli effetti speciali con la bocca. Ma quel che importa è la trama del film, e cioè: il giorno prima di sposarsi, il trentenne Giorgio incontra la giovane Cristina, che vuole fare la velina e per questo motivo ha appena massacrato tutta la sua famiglia e dato la colpa agli albanesi. Ha risparmiato solo il cane e ha fatto male, perché il cane, sconvolto, appena vede Giorgio gli salta addosso, rendendolo idrofobo per i successivi quindici anni. Per salvare l’amore della sua vita Cristina si prostituisce, va a lavorare in America, rinuncia al corso di danza, mette in commercio anche diversi suoi organi, ma è tutto vano. Alla fine Giorgio torna da sua moglie che gli pulisce la bava alla bocca e lo perdona, anche se nel finale si capisce che flirta con gli albanesi… ma a questo punto la betoniera urta un’apecar producendo venti chilometri di tamponamento a catena nel traforo del Gottardo. Oscar alla carriera, ma poi si è scoperto che non era un oscar vero, era di cioccolato. Però fondente.
Mmm, è già il secondo tamponamento a catena… comincio a ripetermi.
Questo pezzo va in onda arruffato e sconclusionato per uno sciopero del buon senso.
Non drammatizziamo, è solo una questione di… di...
Lost in translation.
Se mi sia piaciuto o no, francamente non lo so, e poi in fondo cosa importa. Volevo solo annotare qui la fine di un grande tema narrativo, che nel bene e nel male teneva duro sin dai tempi di Re Artù, l’adulterio.
In sostanza, per molti secoli i racconti per adulti consistevano in questo: un marito vecchio e scemo (Artù, re Marco), una sposina sveglia e fresca (Ginevra, Isotta), un baldo giovine probabilmente spiantato (Lancillotto, Tristano). Dal punto di vista psicanalitico, è chiaro che Lancillotto vuole competere col padre e giacere con la madre; da un punto di vista sociale, immaginatevi la vita di corte in uno di quei brutti castelli intorno l’anno Mille: i signorotti quarantenni, già brutti arnesi e reduci di guerra, sposano ragazzine quindicenni, non sempre, non necessariamente santarelline. Il minimo che possa fare la castellana nelle lunghe sere invernali è spassarsela coi paggi. I paggi, poi, non sono altro che i figli cadetti di amici del padre, destinati a un futuro di cavalleria di ventura: giovani, belli e inutili, irresistibili. Nei migliori romanzi cavallereschi s’intuisce che è la castellana a prendere l’iniziativa. Volendo potremmo cercare nell’adulterio narrativo qualche embrione di emancipazione femminile. Volendo. (Dopotutto questi romanzi li scrivono gli uomini, ma perché li leggano le donne).
Il modello del matrimonio “verticale” (lui quarantenne – lei quindicenne), combinato e d’interesse, formalmente va in crisi nell’Ottocento, secolo romantico. Nell’Ottocento le nozze combinate diventano ‘out’: si fa strada l’idea che marito e moglie debbano amarsi, addirittura prima di salire all’altare: che debbano essersi innamorati l’uno dell’altro. Questo nella fiction: la realtà continuava a essere piena di borghesi quarantenni pieni di soldi pronti a impalmare quindicenni spiantate con un quarto di nobiltà. Rispetto alle loro antenate medievali, queste povere ragazze non hanno neanche più la possibilità di conoscere dei paggi interessanti. Nelle lunghe serate d’inverno non resta che leggere romanzi d’amore. Non sorprende che il secolo romantico sia pieno zeppo di adulteri: Emma Bovary, Anna Karenina, Effi Briest… e in Italia? In Italia i romanzi sono più castigati, ma basta assistere a un qualsiasi melodramma che, come ha detto qualcuno, è quello spettacolo dove il tenore vuole andare a letto col soprano ma il basso non vuole (o era il baritono?)
Il modello del “matrimonio d’amore” dura molto meno del precedente, in Italia diciamo fino agli anni ’50: la generazione dei babyboomers non ci crede già più, ma anche i loro genitori, sposati da un pezzo, nel 1974 votano per il divorzio con buona pace della Chiesa e di Fanfani. In fondo, il matrimonio d’amore era ancora più oppressivo del matrimonio d’interesse, perché obbligava due persone a essere innamorate tutta la vita: il che, oggettivamente, è un po’ difficile. Tra ’60 e ’70 si ha la sensazione che il matrimonio, come ogni altra istituzione, stia per cedere definitivamente: nei film e nelle pièces teatrali del periodo l’adulterio è solo l’avanguardia della rivoluzione. Invece ci si continuerà a sposare, se non per amore per inerzia: e a tradirsi allegramente… sempre meno allegramente. Comunque l’adulterio continua a essere un argomento d’attualità nelle fiction fino a tutti gli anni ’80. E siccome sono gli anni della cultura di massa, conviene far notare quanto s’insistesse, nei film di serie B di quel periodo, sul concetto di “corna”, e quanto frequente fosse l’appellativo “cornuto”: oggi non lo è più.
Alla fine del secolo secondo me c’è una frattura, anche se non saprei dire dove. Per rintracciarla mi torna utile ragionare sui famosi film italiani ‘bruttini’.
Uno a caso: Denti, di Salvatores. Il protagonista ha lasciato sua moglie “per passione”, col conseguente e già logoro strascico di alimenti da pagare e di figli palleggiati tra i due ex coniugi. Una situazione così, che nel 1970 era ancora fantascienza, nel 2001, ci sembra già un cliché più abusato di quello di Ginevra e Lancillotto. Ora il protagonista ha una nuova compagna, più giovane… e di conseguenza ne è gelosissimo. I rapporti d’amore sono sempre più simile ai rapporti di potere o di proprietà. Uomini e donne si attaccano e si staccano nel tentativo di salire qualche piolo della scala sociale. L’adulterio non è più infrazione alla regola, è la regola: dalla liberazione sessuale alla competizione sessuale. E siamo nel 2000. E poi?
Negli anni successivi alcuni film italiani riscuotono un successo quasi sorprendente capovolgendo i termini: l’adulterio, proprio in quanto regola non scritta, ma ineluttabile, viene svuotato di senso, banalizzato, superato. Simbolo di questa banalizzazione è l’interpretazione di Raoul Bova nell’ultimo film di Ozpetek: ma anche gli adulteri di Muccino sono di una banalità che rasenta lo squallido: si combinano in cinque minuti (una volta era molto più difficile) e lasciano un amarissimo sapore in bocca al protagonista, che non chiede di meglio di tornare al nido familiare. Trent’anni fa l’adulterio poteva essere un’eroica trasgressione all’istituzione matrimonio: oggi un semplice matrimonio borghese, ordinario, diventa l’eroica trasgressione all’istituzione adulterio. Sì: noi riempiamo i cinema per guardare film che ci dicono quant’è faticoso ed eroico metter su famiglia: proprio mentre, paradossalmente, le statistiche sulle violenze domestiche c’informano che la famiglia è il posto meno sicuro in assoluto. Ma del resto che sfida sarebbe, se non ci corresse del sangue?
E Lost in translation cosa c’entra? Quasi niente. Di sicuro, non ha niente a che vedere con i film italiani bruttini. Ma a suo modo è un film che dovrebbe raccontarci un adulterio e non lo fa.
E perché non lo fa? Perché sarebbe banale. Mi sembra di sentire gli sceneggiatori: “li facciamo andare a letto?” “No, troppo banale”. Banale come andare in un tempio buddista ed emozionarsi. O come essere bionde e anoressiche attrici di film d’azione. Roba da coatti. Le persone che hanno stile non tradiscono più i consorti: al massimo un abbraccio fraterno, una carezza paterna, e poi via, ognuno torna al nido che gli compete.
Gli unici che sembrano avere ancora un po’ di voglia di sesso extraconiugale sono i vecchi professori universitari: ne La Macchia umana Hopkins (già vedovo, però) si fa di viagra per soddisfare Nicole Kidman, nelle Invasioni barbariche un gruppo di docenti universitari si ritrova in uno chalet a ricordare le belle ammucchiate del tempo che fu. Patetici, e sanno di esserlo. I loro figli, i “Barbari”, emergono per contrasto: sono belli e pragmatici, fanno carriera, hanno già programmato matrimonio e figli, sanno che non si lasceranno mai e… non vogliono sentire la parola “amore”. (“I miei genitori non facevano che usarla: ti amo, ti amo, ti amo… non t’amo più”).
Poi grazie al cielo, c’è ancora qualche imprevisto.
4. Dice (3 agosto): può funzionare come un Bignami "schematico e spiccio" della Storia d’Italia. Secondo me no: se non hai già seguito le lezioni, è un Bignami inutile. Perché ti mostra tutto, sì, ma non ti spiega niente.
Esercizio: fingiamo di avere un bambino, oggi, subito (domani poi lo consegniamo a Maroni che ci dà 1500 Euros), fingiamo che lui, essendo nato in questo preciso istante, non abbia mai sentito parlare della generazione del sessantotto. Posizioniamolo sul divano e guardiamo insieme lui La Meglio Gioventù.
“Papà, ma perché Matteo è così strano?”
“Papà, ma perché Nicola e la sua ragazza occupano un’università?”
“Papà, perché gli studenti picchiano i poliziotti?” (Invece il perché i poliziotti picchino gli studenti è chiaro: per difendersi).
“Papà, perché la ragazza bionda è così nervosa? Perché scappa di casa e si tinge i capelli? Cosa va a fare? Perché le danno la caccia?”
“Papà, ma perché volevano ammazzare il tipo con la barba, che è tanto buono e non ha mai fatto niente a nessuno?”
“Papà, perché in Sicilia ammazzano i magistrati e poi fanno il funerale in diretta con gli applausi e le lacrime?”
Allora uno cerca di spiegarsi il perché non l’abbiano visto in tanti. Secondo me chi ha un bambino davvero curioso ha cambiato subito canale. Ci dev'essere una vhs di Dragon Ball qui in giro, aspetta.
5. Invece chi conosce già tutta la Storia se la gode, la Meglio Gioventù. Perché sa già esattamente tutto quello che succederà, in maniera quasi matematica. Siccome si passa per gli Anni Settanta, sai che qualcuno si darà al Terrorismo, e dopo un’oretta e mezzo ha già capito chi: la tizia più scontrosa. All’inizio c’è un operaio fiat siculo trapiantato a Torino. Indovinate cosa gli succede all’inizio degli Anni Ottanta? E un magistrato d’assalto: vuoi che non si trovi in Sicilia in un dato momento? Il solo un po’ imprevedibile è Matteo. Per il resto, la meglio gioventù piace perché ha ritmi di favola: ci piace farci raccontare le cose che sappiamo già, di volta in volta con qualche particolare in più o in meno. Ci piace ripeterci, ancora una volta, che prima ci fu l’alluvione di Firenze, poi Valle Giulia, poi gli anni di piombo, poi l’Italia vinse il mundial, poi… ci piace perché sappiamo già tutto. Mi chiedo all’estero cosa ci possano capire (forse all’estero può piacere per l’esatto contrario: non ci capiscono niente. Succede).
6. “Sì, vabbè, ma la morale?”
La morale è che bisogna sempre insistere coi propri figli, perché se smettono di fare i compiti e suonare il piano finiscono male (finiscono in prigione) ma d’altro canto se s’insiste troppo i figli si ribellano e poi si buttano giù dal balcone, insomma, è difficile prenderci.
7. Ma c’è un personaggio che invece ci prende, sempre: Lo Cascio. Davvero un bel personaggio. Sorride alla vita, ha sempre una possibilità davanti, sa prendere sempre la strada giusta al momento giusto, davanti a lui le acque si ritirano, i manicomi si svuotano (“maresciallo, se ne occupi lei”, e il maresciallo se ne occupa), i muti parlano e gli elettroscioccati si rilassano. Poi è un padre modello. Dopo due puntate e mezza diventa insopportabile, e cominciamo a chiederci cosa faremmo se lo conoscessimo davvero, uno così, se avessimo la ventura di trovarcelo in famiglia, fratello o compagno. Magari ci butteremmo dal balcone, oppure andremmo a fare la lotta armata, qualsiasi cosa pur di dargli un dispiacere. Ma lui è più forte di qualsiasi cosa: si tiene nostra figlia e si mette pure con la nostra ragazza. È lui, è lui, il vampiro degli affetti. L’ultima speranza è che sua figlia esca matta e gli infili il fioretto nello sterno.
8. L’idea che gli stessi attori possano passare dai venti ai cinquantacinque anni con appena un po’ di trucco e qualche capello grigio (non tanti per carità), se ci pensate, ha dell’incredibile, e i posteri ci faranno degli studi sociologici (se non si limiteranno a riderci dietro). Alla fine della storia Lo Cascio dovrebbe avere più o meno l’età di mio padre. Guardo mio padre. Guardo Lo Cascio. Qualcosa non torna. C’è tutta una generazione che proprio non si rassegna all’idea di invecchiare. Lo sa, ma fa finta di niente. O non se ne rende proprio conto?
9. Sul titolo. È sbagliato. “La meglio gioventù” è una canzone del ’15-18, non c’entra niente con i sessantottini. La meglio gioventù della canzone, quella “che va sottotèra” era la generazione della Grande Guerra. E volete mettere? Le agitazioni sindacali, il suffragio universale maschile, la guerra in Libia coi primi aeroplani, il Futurismo, e poi gli interventisti che si fanno mettere in galera e vanno al fronte volontari, e poi partecipare in presa diretta al più grande massacro organizzato della Storia; imparare a parlare italiano in trincea, perché il tuo dialetto non te lo capisce nessuno: e tornare a casa, tornare all’ordine, farsi il biennio rosso o l'impresa di Fiume, prendere la tessera dei Fasci di combattimento o di Ardito del popolo: e poi la marcia su Roma, il delitto Matteotti, gli attentati a Mussolini, la repressione, i fuoriusciti... Quella sì che è stata una generazione. Quella sì che ne ha vissute, di cose, e ne avrebbe da raccontare. “Nessuno vuole più raccontare la Storia di quegli anni, perché?” Ci provò Comencini, vent’anni fa, con una mossa strampalata e geniale: spostare il Libro Cuore negli anni Dieci, mandare Enrico e Garrone al fronte. Mi pare che non se ne ricordi nessuno.
E adesso i babyboomers si sono presi pure il titolo. Del resto si sa: hanno fatto tutto loro, hanno detto tutto loro, prima di loro c’era il deserto e dopo di loro il diluvio. Il fioretto, il fioretto!
10. Sapete che ho questa fissazione per i mestieri dei personaggi, no? E allora: che mestiere fa il padre?
S’intuisce che è un maneggione. All’inizio sostiene di poter parlare a tu per tu con Natalino Sapegno. Ma poi scopriamo che ha iniziato vendendo arance al mercato. Insomma, qualcosa non quadra. Lui e quella veteroinsegnante di sua moglie negli Anni Sessanta a Roma mandano tre-quattro figli all’Università. Un’eredità nascosta, come nei peggio romanzi?
Oppure è soltanto la fatica di dover occultare i rapporti di classe? È una famiglia di benestanti borghesi, che vanno all’Università perché se lo possono permettere, vanno a Capo Horn perché se lo possono permettere, si ribellano perché se lo possono permettere, metton su casa e famiglia abbastanza presto perché se lo possono permettere: poi vanno in crisi, ma si possono permettere anche quella (mentre l’operaio sempre allegro deve stare). E la lotta di classe le risolviamo così, accomodando in una villa in Toscana il banchiere d’Italia con l’ex cassaintegrato. Davvero è andata così? Davvero passate ancora le serate a sbronzarvi con gli operai con cui dividevate gli alloggi?
E questo forse è un altro motivo per cui non l’hanno guardato tutti volentieri, in tv. Metti i miei genitori: mio padre aveva appena messo su l’officina ed era ipotecato fino al naso. Mia madre aveva deciso di smettere di lavorare e tornare alle magistrali per diplomarsi. Non erano “la meglio gioventù”, loro. Non se lo potevano permettere.
11. “Vabbè, Lo Cascio viene accoltellato da sua figlia, e poi?”
E poi, dunque. Il figlio di Matteo torna a casa da solo perché la sua ragazza ha incontrato la figlia lesbica della taglialegna norvegese. L’anno dopo va a Genova per il G8 e incontra il figlio dell’amico proletario di suo padre che gli spacca la testa con un tonfa. Da allora passa tutti i pomeriggi sul divano a guardare La Vita in Diretta.
Il banchiere con la barba l’11 settembre del 2001 era al World Trade Center per un importante dibattito sulla crisi finanziaria.
L’ex moglie di Nicola scrive un libro sulla lotta armata, rilascia interviste, a un certo punto le chiedono di scrivere anche un film sulla sua esperienza, e lei lo scrive.
Che ci vuole, dopotutto.
12. “Perché nessuno vuole più raccontare la Storia di quegli anni?”
Perché non la sapete raccontare. Sapete solo raccontarvela. Il che comunque è già qualcosa.
È splendidamente girato, Dreamers, magari un po’ fragile, forse troppo fragile, e soprattutto (come già ci avvertiva Momo da Venezia) non è un film politico: un marziano che atterrasse in un cinema senza saper nulla del ’68 francese, non riuscirebbe a capire perché la gente corre impazzita per le strade con la bandiera in mano.
(E si dà il caso che siamo in tanti, noi marziani, e sarebbe ora di portarci rispetto).
L’unico movente suggerito dal film è la rimozione di un funzionario statale (ma guarda un po’) che si era impossessato della Cinématheque e “proiettava qualsiasi cosa”, perché “amava il cinema”. Come a dire: a Parigi nei primi mesi del ’68 la società dello spettacolo è alle prove generali. Poi verranno le barricate e il riflusso, ma soprattutto arriverà l’home video, a realizzare i Sogni dei Sognatori. Poter vedere “qualsiasi cosa”, senza gerarchie di valore (abbasso le gerarchie!); isolarsi in un mondo di citazioni visive, elaborare ogni nostra mossa, ogni nostra espressione, sulla base di un fotogramma o di una battuta. Théo e sua sorella sono i nostri precursori, oggi che per comunicare usiamo i tormentoni di Nanni Moretti e Ghezzi regna sul palinsesto notturno: il vhs è l’immaginazione al potere.
Meno male che Bertolucci, dietro la macchina di presa, è molto più lucido che in conferenza stampa. Non so quanto consapevolmente – e tutto sommato non m’interessa – attira noi guardoni in un tranello: Théo e la sorella si rivelano due mostri viziati e lascivi, il mondo dei sogni è angusto quanto un salotto parigino, puzza di noia e di morte (la cucina puzza anche di bruciato). Abbiamo tutti sognato una rivoluzione così, a diciotto anni (l’idea di partire con la requisizione dei vini pregiati è un classico): finché non ci siamo svegliati in case piene di rifiuti e non c’era niente da mangiare e neanche niente che valesse la pena.
Il sasso alla finestra, allora: forse un po’ banale, come metafora, ma è la cosa che salvo del film. “Che cos’è?” “È la strada che entra nella stanza!” Ci hanno raccontato che, prima del riflusso, “il personale era politico”: ma forse era solo una faccia della medaglia. Théo arriva alla politica (o meglio, alla rivolta) perché il suo personale è angusto, insopportabile, letteralmente asfissiante: la strada lo salva dai suoi fantasmi e forse per un attimo, con la molotov in mano, smette di pensare quale film sta citando. Cosa c’è di politico? Per cosa sta combattendo, Théo? Non lo sa. Lo sappiamo noi: per cambiare aria. Sappiamo anche che quando sarà stanco troverà la sua comoda stanza ad attenderlo, la finestra riparata, un assegno sul comodino, e (con un po’ di pazienza) il fatidico videoregistratore, al posto dell’abat-jour a forma di Mao.
Riprovevole, certo, ma non si sta raccontando anche la nostra storia, qui? Non è capitato anche a noi di uscire in piazza, per mille buoni motivi, ma anche perché il nostro personale si era fatto irrespirabile? Non è stato, Genova per alcuni, l’11 settembre per tanti altri, un provvidenziale sasso alla finestra, un buon pretesto per scendere giù, gridare, picchiare, fare cose, vedere gente? Théo non dà, per tutto il film, l’impressione di essere un ragazzo troppo intelligente, ed è probabilmente destinato a evolversi in una mezzacalza intellettuale come il padre: ma quando la rivoluzione picchia alla sua finestra e lui risponde, non possiamo proprio biasimarlo: non fosse per tutte le volte che anche noi abbiamo detto “Niente sarà come prima” (e sottovoce aggiungevamo: “magari”).
(Poi mi piacerebbe cercare di capire perché la gente rideva, nelle scene di sesso; ma un'altra volta).
1) “Vai a vedere Buongiorno Notte?”
“Sì, per cui non mi raccontare il finale”.
“Maddai…”
“Ti ho detto: non mi raccontare il finale”.
“Sono state le Bierre!".
“Maledetto!”
2) Io non l'ho visto e tendo a credere che sia bello. Ma sono l'unico in Italia a trovare imbarazzanti i capricci del suo regista e del nazionalismo di quart'ordine che lo pretendeva premiato a Venezia?
(Tieni duro, Ludwig, arriviamo).
3) Premesso che mi è piaciuto;
4) Come film in costume, poi, è riuscitissimo, senza voler strafare. La scena del pranzo partigiano, le signore ingioiellate che battono le mani al ritmo di Fischia il Vento, i maglioncini, le camicette, il servizio di piatti nella prigione del popolo che in casa mia ne avevamo uno uguale; e quando parte la grafica del Tg1 viene un sussulto al cuore. Quello che per Pasolini erano le lucciole, per noi è il cielo a pecorelle della Fine delle Trasmissioni (sulle note del Guglielmo Tell): se n’è andato e non tornerà mai più.
5) Fermo restando che è una libera interpretazione, un sogno, un mix di cronaca e fantasia (una cosa che va sempre più di moda), con la sceneggiatura che compare e scompare sulla scena; dato tutto ciò per scontato (e per accettato), la cosa meno storica sono senza dubbio i dialoghi. Bellocchio ha fornito a tutti i protagonisti un italiano corretto e semplice, a distanze siderali dalla sintassi involuta e prolissa che aveva contagiato un po’ tutti negli anni ’70. Massimi esponenti di quel verbosismo pastoso erano appunto Aldo Moro e le BR, e non c’è da stupirsi che Moretti e lo statista siano stati a tu per tu per quaranta giorni senza capirsi. Ma è probabile che parlassero come fiumi in piena, di Stato Imperialista e di convergenze parallele, il tutto nell’ottica e nella misura in cui. Per contro le battute dei personaggi del film sono elementari, evangeliche.
“Sei davanti a un tribunale proletario”.
“Ma come funziona questo tribunale?”
“Funziona che alla fine ti ammazziamo”.
“Ah. Posso scrivere a mia moglie?”
I brigatisti non parlavano così. Men che meno i democristiani.
Anche il mantra “la classe operaia deve dirigere tutto”, recitato in coro davanti alla televisione, stona un poco: i terroristi erano ottusi, come no, ma era un’ottusità diversa, razionalisteggiante, logorroica. Invece Bellocchio non resiste alla tentazione di trasformarli in preti, come fa con tutti i suoi antagonisti: e lo dice anche, ché non passi inosservato (“In fondo la sua è una religione, come la mia”). Alla fine i quadretti più grotteschi sono proprio quelli che coinvolgono “Il Santo Padre”: comprese le immagini da repertorio (quel baldacchino altissimo, traballante).
6) Che in cinquanta giorni di sequestro a qualcuno possano saltare i nervi, concesso: ma che i brigatisti siano già così nervosi sei mesi prima, quando vanno ad acquistare la casa… Il modo in cui si guardano attorno: sembra che abbiano già i carabinieri alle costole. Ma se sei così impressionabile non fai il brigatista, perlomeno non nel gruppo di fuoco.
Poi alla fine succede quello che succede sempre nelle sceneggiature: la donna si commuove e all’uomo vien voglia di fare del sesso. L’eterno femminino e l’eterno mascolino, anche se nella cronaca la brigatista interpretata da Maya Sansa partecipò ad altri sequestri e ammazzamenti. Qualcuno (giovane?) inevitabilmente penserà che sotto sotto i brigatisti non erano cattivi, se ancora avevano voglia di fare l'amore; e peggio ancora, che una donna non può essere così cattiva da ammazzare un vecchio.
Invece può.
7) “Ma se tutti ci sforzassimo di fare qualcosa, il mondo cambierebbe all’improvviso…” e alla fine resta nell’aria la domanda: abbiamo davvero fatto qualcosa per salvare Moro? Non i politici (quelli hanno fatto poco, e si sa), ma noi? Uno sciopero (indetto dai sindacati), una seduta spiritica, tante parole. Non è che Moro, oltre ad avere tanti nemici nel suo stesso partito, fosse anche molto meno popolare di quanto vogliamo credere? Negli anni Novanta la “gente” scendeva spontaneamente nella piazza per chiedere allo Stato di patteggiare con l’Anonima sequestri. Vent’anni prima la “linea della fermezza” non faceva scendere in piazza nessuno.
Era anche un mondo meno emotivo, la società dello spettacolo agli albori. Io a dire il vero ricordo invece un tg1 molto concitato, con Frajese che irrompe nello studio di Vespa. Invece nel film il Tg2 edizione straordinaria è di una freddezza spaventosa (ed è autentico). In quel mezzobusto compassato c’è tutta l’ipocrisia di chi sta già raccontando una leggenda postuma. Da morto, Aldo Moro divenne lo statista più amato degli italiani. Avrebbe evitato tangentopoli, avrebbe traghettato Berlinguer nella socialdemocrazia, avrebbe portato un soffio di vita a quelle mummie che guardano sfilare il feretro alla fine, e non ce n’è una che pianga: a quei tempi le lacrime in tv erano indecenti.
Oggi siamo molto cambiati, non per forza in peggio. La società dello spettacolo forse avrebbe salvato Aldo Moro. Avremmo perso il grande statista morto e ci saremmo tenuti il politico verboso.
8) Perciò, dopo un’attenta analisi dei pro, dei contro, delle attenuanti e delle aggravanti, la Corte Suprema del Tribunale Rivoluzionario del Buon Gusto, qui autoconvocatasi, dichiara che The Great Gig In The Sky è lievemente kitsch; associarla a filmati di esecuzioni capitali, poi, è kitschissimo (in effetti ho sempre immaginato che stessero sgozzando la corista). Siamo consapevoli di quanto influisca, nel nostro giudizio, l’immagine di David Gilmour panzone che affonda Venezia tra laser e fuochi d’artificio; però non si può far finta che gli anni Ottanta non ci siano stati, e di canzoni struggenti e un po’ meno famose ce n’erano tante.
Su Shine on you sospendiamo il giudizio.
9) Lunedì prossimo si pensava alla Maledizione dell’ultima luna.
Sul caso Moro il migliore link è sempore Moro punto doc
E questa è una biografia come dico io
You'll never shut down the real Napster.
(scritto su un monitor dell'ufficio del traffico di Los Angeles)
Il prezzo del biglietto intero forse no, non lo vale, ma se vi capita di trovarvi in un cinema mentre proiettano The Italian job, state in campana: a un certo punto compare Shawn Fanning, nel ruolo di Shawn Fanning.
The Italian job è un film di ladri, con Donald Sutherland che fa il nonno ladro (era meglio Connery), ed Edward Norton fa il cattivo (ma era meglio come spacciatore). È il remake di un film di ladri di quando sapevano farli. I dialoghi probabilmente li hanno scritti in ascensore mentre salivano al superattico del produttore, e poi, scendendo fino al garage sotterraneo, hanno fatto in tempo a farli tradurre in italiano. Si perde mica tempo, a Hollywood. Comunque non volevo farvi la recensione, volevo riflettere su Shawn Fanning.
Shawn Fanning è il creatore di Napster, il programma per la condivisione degli mp3 che ci ha fatto sentire tutti un po’ rivoluzionari, mentre scaricavamo musica a ufo (forse abbiamo sborsato in connessione alla telecom più di quanto non avremmo versato alle odiate case discografiche, ma vuoi mettere il divertimento).
Nel film, il 22enne ex inventore di Napster interpreta sé stesso 18enne in un flashback, mentre… inventa Napster, direte voi. Sbagliato. Nel film, invece di inventare Napster, sgraffigna il programma a un suo compagno di college addormentato davanti al monitor. (Tra i vari significati di nap, c’è anche dormicchiare). Quattro anni dopo Fanning è famoso in tutto il mondo come mr. Napster, l’uomo che mise in ginocchio le case discografiche, mentre “il vero Napster” è un oscuro nerd che lavora in una banda di ladri internazionali.
Ora, voi ve lo immaginate Thomas Alva Edison che fa un cameo in un film sgraffignando la prima lampadina a Clark Gable? I fratelli Wright che attirano Gary Cooper in un tranello e gli fregano il prototipo dell’aeroplano? Einstein che copia E=mc(2) dal taccuino di Cary Grant? Fanning non è geniale come Edison o Einstein, ma ha dimostrato un autoironia invidiabile. Ma è solo autorionia?
Nel film il suo cameo fa parte di un gruppo di flashback che mostrano l’infanzia dei personaggi della banda: tutti sembravano geneticamente predestinati al furto. Il capo, per esempio, è talmente ladro che da bambino organizzava furti con destrezza nel corridoio della scuola elementare. E il nerd è talmente ladro che… che ha inventato Napster. Il messaggio, neanche tanto subliminale, è: Napster = furto. Furto internazionale, furto con scasso, furto punto e basta. La faccia sorniona di Fanning ribadisce il messaggio: Fanning è un ladro che ruba a un altro ladro qualcosa che trasformerà in ladri milioni di placidi consumatori. Tutto il film, del resto, ruota intorno al tema del “rubare al ladro”. Chi ruba a un ladro non è meno ladro, ma è un po' più simpatico.
Quanto al “vero Napster”, che tipo è? Oltre a essere, naturalmente lo stereotipato “genio dei computer” che sta in ogni banda di ladri cinematografici che si rispetti?
È uno sfigato. Conferma tutte le peggiori voci sui nerd. Irrompe nel film alla guida di una moto, ma al primo ostacolo inciampa ingloriosamente. Quando non ha un portatile in mano non fa che parlare di quanto odia Shawn Fanning. Vuole essere chiamato Napster, se i colleghi non lo chiamano Napster lui non risponde. Un bamboccio.
Ma, naturalmente, è un genio dei computer. “Napster, mi fai una ricostruzione tridimensionale della villa di Norton senza passare dal catasto?” “Fatto”. “Ah, già che ci sei, potresti hackare l’ufficio del traffico di Los Angeles e bloccare tutti i semafori?” “Ecco qui, basta spingere il dito indice sul tasto rosso”. Un mago.
Poi, quando cominciano a schiantarsi utilitarie e fuoristrada, lui sorride eccitato. Morale: chi ha inventato Napster (“il vero Napster”) non può essere che un ladro, un bamboccio irresponsabile. Sotto il suo balcone il sistema si schianta, e lui sghignazza. È abbastanza chiaro?
C’è da chiedersi perché Fanning, un giovanotto brillante con tutta una vita davanti, si sia prestato a questa ennesima umiliazione. Sì, perché “il ragazzo che mise in ginocchio le case discografiche” è già stato messo in ginocchio da un pezzo: Napster fu processata, poi acquistata da una casa discografica che doveva trasformarla nella piattaforma del futuro per la musica on line, e che invece la rottamò. Oggi il sito è niente più che un indirizzo morto. Stringe il cuore. Se ne parlava due anni fa:
È brutale quello che hanno fatto a Napster. Comprato e rottamato. È qualcosa che va al di là della semplice ritorsione commerciale. Napster è stato il capro espiatorio, il caso esemplare. Colpirne uno per educarli tutti. Abbiamo imparato la lezione? Ceerto! E infatti le vendite di CD sono calate, i programmi di condivisione si sono moltiplicati, i nuovi napster a pagamento si preannunciano da lontano come smagliantissimi flop.
I padroni dei dischi non potevano fermare il peer-to-peer: potevano solo avere la testa di Fanning, e l’hanno avuta. Una vittima simbolica. Niente di più, ma non è giusto. Oggi il ragazzo si è rifatto vivo, vorrebbe vendere un sistema di peer-to-peer a pagamento. Vecchia chimera che nessuno ancora è riuscito a far funzionare: ma chissà, questa potrebbe essere la volta buona. Il problema è che, rispetto a quattro anni fa, gli utenti hanno ancora meno voglia di spender soldi in canzoni, e la loro antipatia nei confronti delle case discografiche è molto cresciuta. Anche grazie al caso Napster.
Tirando le somme, la morale è la stessa del film: rubare è divertente, in certi casi perfino giusto. E chi ruba a un ladro non è meno ladro, certo. Ma è più simpatico.
Ma noi (e intendo proprio io e te), a che generazione apparteniamo?
È una storia vecchia. Direi che si tratta di una generazione di passaggio (come tutte), che fa discretamente fatica a crescere (come tutte), e che è composta più o meno da una quarantina di persone che mi conosco e mi stanno simpatiche, quasi tutte comprese tra Bologna e Reggio, con casuali propaggini in altre città della penisola.
Questa generazione avrà senz’altro le sue tradizioni e i suoi svaghi, molto interessanti da rievocare, mentre tutte le altre generazioni intorno sbadigliano. Qual era il nostro telefilm preferito? E il cartone animato? Cosa cantavamo intorno al fuoco sulla spiaggia? C’è un libro, una marca di scarpe, una droga, una lettera dell’alfabeto che ci possa identificare? Per me andrebbe bene anche Lambrusco Generation, ma tu sei astemia e fai le smorfie, come non detto.
E quando la nostra generazione va al cinema, cosa guarda? Per prima cosa guarda il prezzo del biglietto, e non è una battuta. Quest’estate la mia generazione era in vacanza in Spagna e passava più tempo a studiare i menu dei ristoranti che a mangiare. Potremmo chiamarla Nice Price Generation: ha studiato, sa cos’è buono e pretende di consumarlo, ma non sempre se lo può permettere. Cavalca con passione tutte le tendenze finto-povere, nella speranza di riuscire a passare l’inverno con la giacca dell’anno prima. Perché in effetti il sushi è buono, ma pensa che colpo se lo gnocco fritto andasse di moda.
Perciò va al cinema i giorni dispari (prezzo tagliato), cercando di non farsi fregare. Diffida naturalmente dei kolossal, e non ha apprezzato molto la svolta splatter di Scorsese. L’appartamento spagnolo meglio di no, perché la nostra generazione non c’è andata, in Erasmus. Oh, ci sarebbe piaciuto. Ma costava un po’ e non abbiamo mai avuto il coraggio di chiederlo alla generazione dei nostri genitori.
Così andiamo a vedereil film di Muccino, un regista che nei suoi film “indaga sui rapporti tra le generazioni”. E che almeno è un ragazzo sveglio: infila nei suoi film il maggior numero di personaggi possibili, così è costretto a lavorare per sottrazione, a condensare una sequenza in una scena, un dialogo in un’occhiata: e intanto il pubblico resta sveglio, anche se i critici preferiscono ritmi più lenti. Molti entrano per vedere un ritratto destabilizzante della loro generazione, e anche noi, nel buio della sala, facciamo finta di destabilizzarci un po’. Anche se le generazioni di Muccino pagano d’affitto in un mese quello che noi guadagnamo in tre.
Dunque più o meno andrà così: tra vent’anni avremo un bell’appartamento, nostro figlio ci fregherà il bancomat per comprare fumo da offrire a tutta la sua classe, nostra figlia sognerà di fare i calendari, noi continueremo ad alimentare i fuochi di paglia delle nostre velleità di ragazzini, quando volevamo scrivere un libro o fare gli attori. Ogni tanto andremo in crisi, ogni tanto faremo la pace. Andrà così?
Beh, magari.
Se tutti i problemi della mia vita dovessero consistere nel vivere in tre camere, cucina e soggiorno di un quartiere signorile, nel fare un lavoro noioso con un capo che posso permettermi di mandare affanculo, nel dover scegliere, a 45 anni, tra Laura Morante e Monica Bellucci… io ci farei la firma.
Ma temo che la mia vita non andrà così, perché sono precario, e ho sentito dire da fonte autorevole che la precarietà invecchierà con me. L’inflazione galoppa, i buoni del tesoro sono carta straccia, e mi pare che la guerra non stia aiutando le borse e i mercati. Anche se dicono che sarà una guerra breve (ma allora perché la chiamano “Infinita”?)
Per tutti questi motivi, temo che non riuscirò mai a permettermi quell’appartamento, e forse non avrò nemmeno le risorse per riuscire a mantenere un paio di figli stronzi. Credo che continuerò ad avere un lavoro difficile, e non finirò mai il mio romanzo, probabilmente non lo inizierò nemmeno. Credo che la mia compagna, anche volendo, non avrà il tempo di fare teatro, perché continuerà a lavorare più di otto ore al giorno. E se avremo amanti, saranno poveri cristi come noi, non registi di teatro, non Moniche Bellucci, e non avranno seconde case al mare in cui ospitarci. Insomma, in fin dei conti forse questi amanti non li avremo proprio, sotto un certo standard economico l’adulterio perde ogni romanticismo, diventa una povera, squallida cosa.
Di più: credo che se dopo vent’anni di società precaria esisterà ancora il bancomat, e io sarò stato così fortunato da conservare il mio, me lo terrò ben stretto, e se mio figlio lo userà per comprare un etto di fumo, prima lo romperò di botte, poi lo costringerò a rivendere quel fumo nella sua scuola per restituirmi il maltolto con gli interessi. Perché la precarietà rende tutti più nervosi e violenti, e la mia generazione non farà eccezione.
E credo che il giorno che mi capiterà un incidente, tipico deus ex machina delle moderne sceneggiature, forse dovrò indebitarmi per pagare l’operazione, forse non potrò permettermi una riabilitazione a regola d’arte. Insomma, forse alla fine resterò su una sedia a rotelle. E a quel punto tu dovrai volermi bene a tutti i costi, o assumere una badante più precaria di me, che mi spinga lungo il viale del tramonto aggirando le barriere architettoniche.
Insomma, credo che le cose non andranno così bene per noi due. Abbiamo contro tutte le statistiche del mondo, il buco dell’ozono, le micropolveri, le pensioni che paghiamo agli altri e che nessuno pagherà a noi. Meglio non pensare troppo al futuro. Meglio infilarci in un cinema, a guardare le case e le scenate di persone che anche se vanno in crisi stanno comunque meglio di noi. Così come una volta andava di moda la decadenza asburgica, destini infelici in un tripudio di stucchi e waltzer, così ora va in scena la decadenza della borghesia italiana. Ma il vero modello resta il Sudamerica: loro lo sanno da vent’anni, che gran consolazione sia per la povera gente sapere che Anche I Ricchi Piangono.
E noi piangiamo con loro, amore. È un momento difficile per incontrarsi, per volersi bene, per guardare avanti. Ma è il nostro momento. Tra un po’ scorreranno i titoli e si tratterà di uscire. Ma io non ho paura, almeno finché mi tieni la mano. E tu?
Caccia a Ottobre Rosso non è un film da esposizione, no. Non so neanche chi sia il regista... Ah, ecco: John McTiernan. Non è nemmeno il film trash con possibilità di passare alla Storia in virtù di qualche colossale difetto. Resta nel mezzo, un'americanata come tante nell'heavy rotation dei palinsesti tv, dove abbiamo avuto la possibilità di vederlo tantissime volte, assai più spesso di film più popolari. Si vede che sul piccolo schermo funziona meglio di altri, ha quel tipo di ritmo che se te lo trovi davanti alle undici e mezza di sera non cambi canale. C'è Connery che fa il vecchio energico – come in tutti i film da vent'anni a questa parte, ma uno come lui non fa venir voglia d'invecchiare più alla svelta?
Ci sono i sottomarini: soffitti e luci basse, gente in giacca che guarda sottecchi e non c'è da fidarsi. Il privé di una discoteca in fondo al mare. Ci sono personaggi potentissimi, che fanno telefonate, premono bottoni, c'è un tale somigliantissimo a Colin Powell che verso la fine del film mostra un tesserino a un soldato e poi gli dice: "Mi ascolti bene: io non sono mai stato qui". Perché Caccia è soprattutto l'ultimo, grande film di guerra fredda, sin dal titolo. All'inizio un ingegnere americano, tra l'allibito e l'ammirato, esclama: "Ma come, ci sono già arrivati?" I Cattivi, i Rossi, sono già arrivati a un nuovo tipo di sottomarino nucleare silenziosissimo. I sonar USA non lo possono captare (tranne se alle cuffie c'è un ingegnere afroamericano con una passione per Pavarotti). C'è il rischio che i falchi del Cremlino ne vogliano approfittare, attaccando il sonnolento gigante americano per primi (strike first, vergogna!). Non a caso il sottomarino si chiama Ottobre Rosso, come quel maledetto mese che ha sconvolto il mondo.
Per fortuna che c'è l'ammiraglio Ramius, un vecchio lituano che ha servito fedelmente i Soviet giocando a rimpiattino coi sonar americani per trent'anni nelle acque gelide della guerra fredda, e che ora ha deciso di disertare, d'accordo con il suo secondo (che ha la fissa di voler fare l'allevatore in Montana, un'idea piuttosto stramba per un ufficiale di marina sovietico). Non solo: siccome Ramius è al comando di Ottobre Rosso, ha intenzione di consegnarlo agli americani. Così URSS e USA saranno di nuovo alla pari e potranno continuare a giocare a nascondino nei secoli dei secoli, senza sparare un colpo. Il sogno di Gorbaciov?
Sappiamo che non è andata a finire così, eppure quando uscì il libro fece molto scalpore. Le forze armate USA e la Cia lo trovarono un po' troppo realistico, ci si chiese se per caso l'autore (Tom Clancy) non avesse accesso a fonti confidenziali. Ma allora, chissà che non fosse tutto successo davvero… Magari era solo un'abile campagna pubblicitaria, ma a quei tempi credevo a tutto quello che leggevo. Ero piccolo.
Il film, come tutti i film, comincia bene e continua come può. Nel primo tempo Connery legge la Bibbia e la Bhagavad-Gita, nel secondo è coinvolto in una sparatoria nel sottomarino, tra le testate nucleari. A un certo punto il secondo di Ramius salva il suo comandante, interponendosi tra lui e una pallottola, e muore mormorando: "Mi sarebbe piaciuto il Montana". A volte penso che il vero cinefilo è colui che è decide di guardare solo i primi tempi, che all'intervallo ha il coraggio di alzarsi e salvare il bei ricordi.
Però nel secondo tempo di Caccia a Ottobre Rosso c'è anche la scena del siluro, che è quella che volevo raccontare.
Si tratta di questo:
in seguito a circostanze complicate e non troppo verosimili, Ottobre Rosso è braccato da un altro sottomarino sovietico a pochi minuti dalle acque territoriali USA. L'inseguitore è un ufficiale giovane e stronzetto, un allievo di Ramius. Sul suo ponte di comando c'è una luce verde intensa, che sia a tutti chiaro che è il cattivo e che è terribilmente invidioso del Maestro (del resto i sottomarini sono un po' tutti uguali, gli scenografi hanno pensato bene di distinguerli con le luci).
Ottobre Rosso, invece, assomiglia a certi Sputnik degli anni Settanta, con gli equipaggi metà USA e metà CCCP. Ramius e gli ufficiali a lui fedeli hanno simulato un incidente nucleare per fare evacuare l'equipaggio, poi hanno agganciato una scialuppa pressurizzata con a bordo Alec Baldwin, un agente CIA che sa tutto di Ramius (ha perfino scritto un libro su di lui) e un comandante USA con la pistola nella cintura, che non si sa mai: "guarda", dicono i russi, "c'è un cowboy". Davanti a loro Ramius ufficializza la sua intenzione di disertare. Squilli di tromba? No, è l'allarme sonar: c'è un siluro in traiettoria.
È già molto vicino. Troppo vicino. L'uomo-sonar dice quelle tipiche cose, "trenta secondi all'impatto, venticinque…"
Ramius ordina di virare. Per scansare il siluro? No, per andargli addosso. Baldwin, che si è improvvisato timoniere, è un po' smarrito. Il comandante-cowboy, ovviamente, non è d'accordo. Ma Ramius è il più grande pilota di sottomarini dell'Unione Sovietica, così Baldwin abbozza e obbedisce al disertore.
Dopodiché, invece di star lì a sentire la solita litania ("venti secondi all'impatto!"), Ramius si mette a far salotto.
"Dice che ha scritto un libro su di me? Ma quale. Ah, quello? Sì, l'ho letto. Tutto sbagliato, sa?"
"Dieci secondi all'impatto, quattro, tre, due, uno…"
(È incredibile come non si riesca a fare a meno di socchiudere gli occhi, in questi casi. Anche se sai benissimo che il sottomarino non esploderà, con tutti gli attori più importanti dentro).
Il sottomarino, infatti, non esplode. Si sente un tunc! contro lo scafo, ed è tutto.
È una tattica di guerra, spiega il cowboy, didascalico. Quando il siluro è già in scia, invece di evitarlo, si può provare ad andargli addosso, così non gli diamo il tempo di armarsi. Da tentarsi solo in casi disperati. E richiede una certa freddezza.
Che io possa sempre capire per tempo quando sfuggire ai miei problemi, e quando invece saltargli addosso, prevenirli, stupirli, non dar loro il tempo di esplodermi in faccia. Con determinazione e con freddezza, la freddezza degli abissi del mare, delle guerre non guerreggiate, la freddezza dell'ammiraglio Ramius.