Così è Dylan Farrow (se vi pare)
02-04-2021, 11:33fb2020, pedofilie, Woody AllenPermalinkE insomma anche l'altro giorno qualcuno ha segnalato a Gramellini una notizia relativa all'ennesimo episodio di Cancel culture (stavolta era Oxford contro Mozart), Gramellini non ha ritenuto troppo necessario verificarla, ci ha scritto il suo compitino e dieci minuti dopo averlo pubblicato sapevamo già che non era vero niente, Oxford non vuole cancellare Mozart. Così è più o meno nel 90% dei casi in cui qualcuno vi parla di Cancel culture (o di dittatura del politically correct, che è la stessa cosa scritta più in lungo per sembrare più minacciosa, oltre che probabilmente li pagano a battuta).
Al punto che viene il sospetto: ma questa cosa esiste, al di fuori della parodia che ne fanno i sedicenti oppositori? È un fenomeno di una qualche rilevanza, qualcosa degno di essere studiato? Una possibile risposta era già disponibile da qualche ora: la CBS ha tirato fuori dagli archivi un'intervista a Woody Allen rilasciata l'estate scorsa, che è diventata abbastanza interessante soltanto dopo che la HBO ha trasmesso una miniserie di quattro episodi sul caso Allen-Farrow. La miniserie non si fa scrupolo nell'abbracciare la versione di Mia e Dylan Farrow, secondo le quali Woody Allen avrebbe abusato di quest'ultima quando aveva sette anni. Questo, se ci fermiamo a riflettere, è abbastanza clamoroso, e indicativo di un clima culturale realmente diverso dal nostro: per quanto tentiamo di mantenerci aggiornati, non credo che nessun canale in Italia trasmetterebbe per quattro domeniche in prima serata una ricostruzione di un abuso su un minore che non è mai stato appurato da nessun'indagine, né formalizzato in nessuna sentenza. Questa versione è particolarmente scabrosa e infamante per Woody Allen, che negli ultimi anni è stato oggettivamente danneggiato dalla polvere risollevata intorno a un caso archiviato vent'anni fa: ha perso un contratto con Amazon, la Hachette si è rifiutata di distribuire la sua biografia negli USA (in seguito a uno sciopero dei dipendenti!), molti attori rifiutano di lavorare per lui. E tuttavia Allen ha avuto lo spazio mediatico che gli serviva per ribadire la sua verità. Dunque questa Cancel culture esiste o no?
Probabilmente sì – e abbiamo anche qualche argomento per trovarla inquietante – a patto di accettare che non si tratta di una "dittatura": piuttosto di una guerra culturale. Il che spiega anche alcuni tratti dittatoriali: la guerra è uno stato emergenziale, molte cose non tollerabili in tempo di pace sono considerate inevitabili. Nessun tribunale in tempo di pace trovò Allen colpevole di molestie sulla figlia (addirittura ce ne fu uno che gli consentì di adottare due bambini), ma negli USA adesso c'è la guerra e ci sono obiettivi di fronte ai quali la rispettabilità di un anziano cineasta scompare – in particolare, c'è da salvare un saliente cruciale: il principio di credibilità della donna-vittima.
In guerra non si va per il sottile e non ci si preoccupa di portare i bambini in prima linea, se sono utili. Il fulcro della miniserie HBO è il video girato da Mia Farrow in cui la piccola Dylan ripete alla madre le accuse nei confronti del padre. Il video – che secondo Mia Farrow era destinato a uno psicologo – non era mai stato mostrato in tv: eppure già nel 1992, tempo di pace, era stato offerto a un network che non l'aveva considerato divulgabile. Ma oggi siamo in guerra, e in guerra tutto è concesso: così gli spettatori USA hanno potuto vedere un video che non aggiunge nulla alle accuse già dette e ribadite, salvo il fattore emotivo di vederle pronunciate da una bambina di sette anni.
Il caso Allen-Farrow esisteva prima di questa battaglia (e temo che esisterà anche dopo: in fondo c'è ancora chi discute del capitano Dreyfus). Fa parte del paesaggio, ormai, e se fosse un paesaggio vero sarebbe un canyon strettissimo, dove all'imboccatura c'è spazio per almeno due versioni dei fatti ma se vuoi uscirne dovrai abbandonarne per forza una. Non c'è spazio per Pirandello qui, per un minimo di relativismo esistenziale ed è un peccato: nella cultura americana ci sono tante cose che è giusto invidiare, ma un Pirandello no e certe volte la mancanza si sente (forse con D.F. Wallace ci stavamo arrivando). Non c'è nessun cognato Laudisi sul palco ad additarci l'impossibilità di conoscere gli altri: c'è un abuso genitoriale, ci sono soltanto due possibili colpevoli e uno dei due la sta facendo franca, il che al pubblico USA deve risultare insopportabile. Dylan Farrow potrebbe essere stata abusata da Woody Allen, e per molti è conveniente che sia così. Perché altrimenti non resta che un'opzione, ovvero che sia stata abusata dalla madre, che l'ha convinta della sua verità e l'ha costretta a interpretarla da quando aveva sette anni a... potremmo dire che non ha mai smesso, ma è più complicato di così. Da molto tempo non si tratta soltanto di salvare la reputazione di Mia Farrow. Ormai c'è un esercito dietro, o perlomeno un battaglione che di qui doveva passare per forza e non può ritirarsi. Dylan Farrow non può cedere, anzi: è previsto che ribadisca per sempre che è stata vittima del padre; le sarà richiesto ancora per diversi anni di tornare sull'episodio. Ormai è vittima anche nel senso sacrificale del termine. Anche se non fosse un Enrico IV ormai prigioniero della sua finzione, anche se tutto fosse andato esattamente come lo raccontava la bambina alla mamma, a questo punto alla bambina dovrebbe essere consentito voltar pagina: a lei no, finché il padre non confessa: e siccome il padre non ne ha la minima intenzione, Dylan dovrà continuare ad accusarlo. Qualsiasi psicoterapeuta, in tempo di pace, farebbe presente che qui si sta sbagliando tutto: e in effetti se si trattasse di un semplice caso di abuso, questo sarebbe il peggior modo di gestirlo. Ma non è mai stato un semplice caso di abuso e ormai è proprio diventato tutt'altro.
"La cancel culture [scrivevo] si propaga attraverso prove di forza. Si individua un obiettivo e si martella finché l'obiettivo diventa indifendibile. Non ha così tanta importanza cosa abbia realmente detto o fatto l'obiettivo, quanti abusi abbia realmente commesso un Kevin Spacey o l'oggettiva incidenza di Cristoforo Colombo nella diffusione dello schiavismo. Si individua un punto debole del nemico e si batte sullo stesso punto finché non cede". Credo che lo si veda bene ad esempio in questo pezzo di Indiewire, dove la questione se Allen sia colpevole è definitivamente messa da parte. Quel che secondo l'autore dovrebbe interessare davvero ai lettori è: come mai la sua carriera non è ancora finita? Dopo tutto quello che gli hanno puntato contro, com'è possibile che stia continuando a lavorare? (Si sente, nel pezzo, l'angoscia dei graduati verso un nemico che secondo tutti i piani avrebbe dovuto ripiegare e invece è ancora lì, sui suoi pezzi: neanche contro questo rottame riusciamo a spuntarla?) In effetti con Spacey è praticamente bastato che un tizio si ricordasse di un episodio a una festa e puf, Spacey è stato letteralmente cancellato da un film già girato, e assassinato nella serie in cui faceva il presidente. L'errore probabilmente è stato pensare che Allen fosse attaccabile come uno Spacey o qualsiasi altra celebrità hollywoodiana – è il solito errore, alla fine: confondere gli USA con il mondo. Allen è senz'altro americano per nazionalità e cultura, ma dal punto di vista produttivo e culturale è ormai completamente alieno: in quarant'anni di carriera si è pazientemente costruito una nicchia autosufficiente che tutto sommato sembra reggere anche agli ultimi bombardamenti. Prima o poi dovrà cedere, se non al nemico, all'età: e a quel punto qualcuno potrà puntare una bandiera, annunciare che la missione è compiuta e passare oltre. Vien quasi da augurarselo: son tanto faticose le guerre.
[Il pezzo finisce così e non ho nemmeno fatto in tempo ad accennare al tema più interessante, ovvero lo slittamento tra pedofilia e pederastia – il modo in cui viene usata, per rafforzare le accuse contro Allen, la sua nota e vantata frequentazione di ragazze molto giovani, benché nell'età del consenso. Lo choc culturale per cui la relazione verticale descritta in Manhattan (un quarantenne con una 17enne), che in quegli anni sembrava socialmente accettabile, oggi viene equiparata senza mezzi termini a uno stupro e considerata un forte indizio a favore di un altro abuso commesso nei confronti di una bambina di 7 anni – in sostanza negli anni '70 una 17enne era praticamente adulta, oggi invece non ci sarebbe differenza tra uscire con lei e con un'alunna della seconda elementare. Magari un altra volta se ho tempo e faccio un altro mestiere].
Cos'è una croce?
14-09-2020, 08:0021tw, Cristo, fb2020, repliche, santiPermalinkVelazquez |
E dovunque da loro troverai l’albero della vita, e la resurrezione della carne dall’albero: questo, credo, perché il loro maestro fu inchiodato alla croce ed era di professione carpentiere. Così, se per caso egli fosse stato buttato giù da un dirupo, o spinto in un burrone, o strangolato con un capestro, o fosse stato ciabattino oppure scalpellino o fabbro, al di sopra dei cieli vi sarebbe un... dirupo di vita? O un burrone di resurrezione? O una corda di immortalità, o una pietra beata, o un ferro d’amore, o un cuoio santo? Ma quale vecchia intenta a canticchiare una fiaba per ninnare un bambino non si vergognerebbe di sussurrare cose del genere?Il salto bimillenario tra Celso e Böll è dovuto - oltre alla mia ignoranza - dal fatto che in mezzo c'è stato un periodo in cui in Europa davvero, scherzare sul crocefisso non era molto consigliabile - meno di quanto lo sia oggi satirizzare su Maometto e la sua barba. Lo stesso Celso non ha avuto molta fortuna: la sua opera ha circolato liberamente finché i cristiani non hanno preso il possesso delle biblioteche, poi è rapidamente scomparsa. I frammenti che ci sono rimasti li ha salvati il suo miglior nemico, Origene, che per confutarlo scrisse un intero trattato, in cui non poteva evitare di citarlo. Se solo la Chiesa avesse avuto più apologeti alla Origene, e meno censori e raschiatori di codici antichi... ma raschiare è un risparmio, confutare è faticoso, insomma, è andata così.
Un politico italiano in un'apparizione pubblica, ai tempi della prima sentenza. |
Che il crocefisso, l'effigie di un cadavere esposta alla venerazione, sia qualcosa di scandaloso non è dunque una scoperta di Luttazzi. Lo era ai tempi di Paolo di Tarso, (1 Corinzi 22-24) lo era tre anni fa quando una signora italo-finlandese rivolse alla Corte europea dei diritti dell'uomo di Strasburgo più o meno il seguente quesito: mio figlio in Italia è costretto a studiare in una stanza dove è appeso il similacro di un uomo torturato e sanguinante, è legale questa cosa? La Corte in un primo momento disse no, sollevando un polverone che si era già abbondantemente posato quando nel marzo 2011 cambiò idea (il che è sempre sbagliato, parlo per me: il crocefisso appeso non mi dà fastidio, me ne danno di più i giudici che cambiano idea). Nel frattempo in molte aule e luoghi pubblici il simulacro continua a essere esposto con i chiodi e le ferite e tutto quanto. A causa di un bizzarro fenomeno di assuefazione culturale, la maggior parte degli italiani (e dei cattolici in generale, forse) non ci fa caso. Ovvero: facciamo tutti caso a un crocefisso, quando c'è, e magari litighiamo sul suo significato politico-storico-religioso-identitario, ma non lo guardiamo mai veramente per quel che è. Il fatto che descriva, con orripilante realismo, l'aspetto di un uomo torturato a morte, non colpisce quasi mai la nostra attenzione. Bisogna che arrivi Daniele Luttazzi con una battuta (o Paolo Poli, o Lenny Bruce, o chi volete).
Ma li inchiodavano davvero? In Giudea sì: il reperto a destra (I sec. dC) è stato ritrovato in Israele (a sinistra una ricostruzione). |
"Prega il tuo Dio, Alessameno!" |
Schizogene e la sposa inventata
21-07-2020, 21:5721tw, fascismo, fb2020, giornalistiPermalinkMa pensa se davvero si è comprato la foto in un mercatino, e poi la mostrava ai colleghi appesa accanto a quella delle altre mogli. |
– Di Montanelli forse ho avuto torto a fidarmi. Dettaglio imbarazzante: 19 anni fa, appena tornato da Genova, le pale degli elicotteri ancora nelle orecchie, mentre cerco di scrivere qualcosa di leggibile per le dieci persone che mi leggono e si stanno preoccupando, scopro che IM è appena morto e gli dedico il resoconto che sto scrivendo. Non sono mai stato tanto lontano dalle sue idee, che in quel momento non mi interessano minimamente. Della sposa bambina avevo già sentito parlare e mi sembrava un dettaglio lontanissimo nel tempo, impossibile da accostare all'anziano giornalista che faceva parte del mio paesaggio mediatico sin da quando ero bambino. L'unica cosa che mi muove in quel momento è l'immagine mentale del reporter con la macchina da scrivere sulle ginocchia, il mito del reporter che scrive mentre osserva e scrive solo quello che osserva. Precisamente il monumento che gli hanno fatto. E che al di là di ogni considerazione sugli abusi coloniali, probabilmente non si merita.
– Per me Montanelli era questo: un tizio con opinioni terribili ma un certo rispetto per la verità. Questa cosa m'interessava salvare: ho un approccio storico, m'interessano le testimonianze, non i moralismi. Se avesse avuto scrupoli morali, avrebbe cercato di occultare l'episodio: meno male che non li aveva, meno male che non hai mai pensato di chiedere scusa (come se chiedere scusa servisse a qualcosa) (sul serio, se avesse chiesto scusa 50 anni dopo la statua non gliel'imbrattereste lo stesso?) Finché non ho letto questo pezzo che mi ha messo in crisi. In effetti un tizio che ha raccontato di aver incontrato Adolf Hitler perché si era attardato a pisciare in un cespuglio potrebbe anche essersi inventato una sposa bambina. Perché? Per i motivi per cui i mitomani mitomaneggiano, e che cambiano col tempo: nel 1950 per vantarsi con gli amici, nel 1976 per trollare le femministe, nel 2000 perché ormai era troppo tardi per cambiare versione – come Enrico IV. Tutto plausibile, salvo i cortigiani che continuano a recitare a soggetto dopo vent'anni che il re è morto. E così continuiamo a discutere di una ragazza che magari nemmeno esiste, magari è una foto che IM si è comprato a un mercatino di Asmara. Oppure è esistita ed è la protagonista di un abuso coloniale, ma insomma, sarebbe utile saperlo. O no? Perché ho anche sentito dire questo, in questi giorni. Che alla fine non è necessario che Montanelli abbia abusato di una ragazzina: basta che se ne sia vantato. Non è che non abbia senso: alla fine anche una bugia può servirci a capire la psicologia di chi la racconta e di chi se la fa raccontare. Ma anche quella di chi ci casca, e a volte vuole cascarci.
– Di Montanelli ho sentito dire di tutto. Mi ha colpito la difficoltà di molti a contestualizzare non già le vicende di un graduato italiano nel 1936, ma i discorsi di un giornalista italiano nel 2000. Perché non chiedeva scusa? Perché le scuse non servono mai, e comunque riteneva di non aver fatto nulla di male. Perché ha cambiato l'età, che nel 1969 era 12 anni e nel 2000 diventa 14? Perché nel 2000 (anno 5 post Marcinelle) la pedofilia era diventata uno stigma sociale; sarebbe utile tenere conto che prima non lo era; a proposito, uno storico dovrebbe trovare interessante il fatto che racconti l'infibulazione, un dettaglio che nel 1969 avrebbe considerato ributtante o forse nemmeno conosceva. In ogni caso difficilmente nel 1976 o nel 2000 avrebbe potuto conoscere l'età precisa della ragazza africana dal momento che... non so, avete mai giocato con le figurine? Io da bambino avevo l'album Panini Espana 1982; non lo completai, ma scoprii nell'occasione che dei calciatori africani non veniva riportata la data di nascita. Non si sapeva. Nel 1982. Parliamo dei giocatori delle nazionali, non di abitanti della jungla. Può anche darsi che cinquant'anni prima Montanelli avesse accesso al certificato di nascita della sposa, ma è lecito dubitarne. Il vero discrimine in molte culture rurali (Italia compresa) è il menarca: prima si è bambini, dopo si è adulti, fine della questione. Montanelli insiste sul concetto, anche se ne parla col linguaggio di un giornalista del dopoguerra: non si abbassa a dire "mestruazioni", si limita a scrivere cose come "in Africa a quell'età si è adulte" e si aspetta che lo capiamo.
– Invece Montanelli noi non lo capiamo più. Non capiamo più quello del 2000, figurarsi quello che affittava ragazzine o sosteneva di averlo fatto. Tra i tanti che si affannano a giudicarlo ho trovato notevoli coloro che invece di adoperare il loro personale metro morale del 2020, cercano di fabbricarsene uno vintage: ovvero desiderano dimostrare quanto Montanelli fosse considerabile un maniaco sessuale anche per i costumi e i codici dell'Italia fascista. Col risultato indiretto di rivalutare i costumi e i codici di siffatta Italia. Ho letto cose come: quello che Montanelli faceva in Africa, in Italia sarebbe stato reato! Già, e questo era il motivo per cui certe cose venivano promesse ai volontari in Africa: Faccetta nera, l'avete mai sentita? Scrivono: ma il madamato era esecrato anche dal generale, dal tale politico. Sì ma forse a questo punto vi sfugge il quadro: il tale generale e il tale politico erano contrari al madamato in quanto razzisti che intendevano stabilire un regime di segregazione. È un dato acquisito dagli storici che la propaganda di regime abbia attirato i volontari con un'esca sessuale, e dopo i primi matrimoni abbia virato direzione.
– Abbiamo bisogno di mostri, così come abbiamo bisogno di eroi. La statua in effetti si potrebbe togliere (o museificare), ma poi toccherebbe individuare qualche altro feticcio e scoperchiare cose più noiose (il Risorgimento?) L'esigenza di fare di Montanelli un mostro sottopone alcuni antifascisti a una tale torsione che finiscono per riabilitare il contesto; per dimostrare che Montanelli era un mostro anche per le leggi fasciste e per i costumi fascisti, e per i fascisti che passavano e osservavano. E così dopo un lungo giro si ritorna all'archetipo degli italiani brava gente. Per quel che interessa, io non credo in una Storia di eroi, né di mostri. L'eventuale Montanelli-mela-marcia interessa molto meno del sistema che ha permesso, ispirato e tollerato le sue eventuali mostruosità.
– Se però accettiamo che Montanelli invece di un mostro sia un mitomane, c'è da riscrivere un pezzetto di Storia d'Italia magari non cospicuo ma trasversale. Alcuni dettagli di quello che sappiamo cambiano significato. Com'è noto, Montanelli dopo l'otto settembre fu arrestato dai tedeschi e tradotto in una prigione a Gallarate – dove fucilarono quasi tutti i suoi vicini di cella – e poi a San Vittore, dove tra i prigionieri conobbe un giovanissimo Mike Bongiorno e il cosiddetto generale Della Rovere – in realtà un truffatore infiltrato dai nazisti. Anche a San Vittore dopo un po' cominciarono le esecuzioni. A Fossoli finì fucilato anche il sedicente generale, su cui qualche anno dopo Montanelli scriverà un soggetto cinematografico per Rossellini (il ruolo sembrava tagliato addosso a Vittorio De Sica) e poi in un romanzo. Il generale Della Rovere è un prototipo dell'antieroe della commedia all'italiana, un imbroglione senza scrupoli che viene introdotto in una prigione per fare la spia, ma proprio grazie al suo istrionismo riesce a riscattarsi e dopo un'improvvisa alzata d'orgoglio muore da eroe come capiterà a Sordi e Gassman nella Grande Guerra. A questo punto però concedetemi il dubbio notturno: se il generale Della Rovere fosse un alter ego di Indro Montanelli? Se fosse lui l'imbroglione che teneva alto il morale dei prigionieri? Se nel romanzo Montanelli avesse esorcizzato il suo rimorso per essersi salvato la vita tradendo i compagni di prigionia, inventandosi un gemello buono che faceva tutto il contrario e moriva da eroe?
– La cancel culture (che per ora da noi è una più modesta imbratta-di-vernice-culture) si propaga attraverso prove di forza. Si individua un obiettivo e si martella finché l'obiettivo diventa indifendibile. Non ha così tanta importanza cosa abbia realmente detto o fatto l'obiettivo, quanti abusi abbia realmente commesso un Kevin Spacey o l'oggettiva incidenza del ruolo di Cristoforo Colombo nella diffusione dello schiavismo. Si individua un punto debole del nemico e si batte sullo stesso punto finché non cede. Non è che prima di Twitter si lottasse diversamente. A chi si sente sotto assedio consiglierei di dare un'occhiata ai punti deboli del nemico; di confondere le acque, magari mandando un'ambasciata a stabilire qualche punto fermo, qualche convenzione tra belligeranti (ad esempio: fino a prova contraria si è innocenti). Ai giornalisti italiani non consiglio niente perché nulla più hanno da difendere – giusto un'altra serata a raccontarsi quanto erano bravi, quanto erano furbi, nell'attico di un quartiere abbandonato. Che Montanelli li abbia presi per il culo tutta la vita: che si sia fatto trattare da maestro mentre li stordiva di frottole, è una circostanza che troverei appropriata – una volta dimostrata.
Lo sai che si dice dei cattolici
23-01-2020, 00:21cantare, cinema, coccodrilli, cristianesimo, fb2020, traduzioniPermalinkmormoni, islamici e sikh.
Ci son Testimoni e battisti,
ma io... io non sono così.
Son tra i cristiani cattolici,
ci sono da sempre, e lo sai
che c'è di bello a esser cattolici?
Vai bene così come sei.
Non serve essere alto e prestante,
o un nobile o un genio, perché
cattolico sei dall'istante
in cui tuo padre è venuto per te.
Infatti...
Ogni sperma è sacro,
ogni sperma è santo.
Se sprechi lo sperma
Dio si altera alquanto.
Lascia gli infedeli
tristi a sgocciolare:
ogni goccia persa
Dio la sta a contare.
Ogni sperma è santo,
ogni sperma è sacro.
Se sprechi lo sperma,
Dio sa che è un massacro.
Indù, ebrei, taoisti
spruzzano qua e là,
ma Dio salva soltanto
chi si conterrà.
Ogni sperma è santo,
Dio ce l'ha donato.
Ogni sperma è una risorsa
per il vicinato.
Ogni sperma è santo,
ogni sperma è buono.
Ogni sperma è utile,
ogni sperma è un dono.
Lascia che i pagani
innaffin monti e mare:
ogni goccia persa
Dio la fa pagare
Ogni sperma è sacro,
ogni sperma è santo.
Se getti lo sperma,
Dio si arrabbia,
tanto.
Every Sperm Is Sacred, musica di André Jacquemin e David Howman, testo di Michael Palin e Terry Jones (1942-2020).
(Ho sempre pensato che sarebbe stato giusto averne una traduzione cantabile in italiano, non importa quanto inferiore all'originale).
Le canzoni dei Beatles (#234-225)
20-09-2019, 22:00beatles, fb2020, musicaPermalinkLe 250 migliori canzoni dei Beatles (#254-235).
(La playlist #234-225 su Spotify).
234. That'll Be the Day
You say you're gonna leave, you know it's a lie / 'Cause that'll be the day when I die. Secondo la leggenda (avvalorata dal film Nowhere Boy), That'll Be The Day sarebbe stata registrata il 15 luglio 1958, pochi giorni dopo la morte di Julia, la madre di Lennon, in un incidente stradale. I 15 scellini necessari per stampare il disco di lacca sarebbero stati l'ultimo regalo di Julia al figlio. Come facciamo a sapere che è una leggenda? Colin Hanton, il batterista, ricorda una giornata gelida, tanto che era entrato nella piccola sala di registrazione con una sciarpa e l'aveva usata per attutire il rullante quando il proprietario della sala si era lamentato per il rumore.
Hanton potrebbe anche ricordarsi male, così come voi magari non ricordate bene quando avete inciso questo o quel nastro con la vostra band di trent'anni fa (che però non è diventata la più famosa al mondo). Il vero motivo per dubitare dell'aneddoto è che combacia quasi perfettamente col testo della canzone: mi hai dato tutti i tuoi abbracci e i baci e anche i soldi. Il giorno che mi lascerai sarà il giorno in cui piangerò, sarà il giorno in cui muoio. Cose che succedono al cinema, più che nella realtà.
That'll Be the Day è uno dei due pezzi incisi dai Quarrymen presso il piccolissimo studio del signor Phillips, il retrobottega del suo negozio di dischi e giradischi. Gli acetati avevano il grosso difetto di deteriorarsi dopo pochi ascolti: i professionisti li usavano per incidere demo da sottoporre ad altri artisti, i dilettanti per creare un bel ricordo da conservare, più che riascoltare. I cinque Quarrymen si mettono d'accordo per conservarlo una settimana a testa: John lo tiene la prima settimana, poi lo passa a Paul che dopo una settimana lo passa a George che dopo una settimana lo passa a Colin che dopo una settimana lo passa a John "Duff" Lowe, che lo infila da qualche parte e se lo dimentica vent'anni... per poi cederlo al milionario Paul McCartney in cambio di una cifra che non è mai stata resa nota. Ora lo possiamo ascoltare tutti gratis su Internet. In mezzo a un baccano abbastanza ordinario, la voce di John è già inconfondibile.
233. Bésame Mucho (Velázquez; incisa nel 1962 durante il provino della Decca)
Cha-cha-boom! Se ora fate partire la Bésame dei Beatles su Spotify, e subito dopo cominciate a cercare tutte le Bésame Mucho su Spotify, finirà la canzone prima che riusciate a visualizzarle tutte, volete provare? Sennò fidatevi. La leggenda più diffusa su Bésame Mucho è che l'autrice, quando la compose (a 24 anni) non era ancora stata baciata, né mucho né poquito: nada de nada, povera Consuelo Velázquez. Paul mentre canta non suggerisce la stessa inesperienza, anzi si atteggia a crooner consumato e in effetti un dettaglio comune di molte cover di quel provino (alcune abbastanza improbabili) è che presuppongono nell'interprete un carisma da latin lover. The Sheik, Bésame, la stessa Ain't She Sweet che era pur repertorio di Sinatra. E siccome a scegliere i pezzi fu Brian Epstein, viene spontaneo domandarsi: l'ha fatto apposta? Sul serio stava cercando di lanciare quattro teddy boy di Liverpool calcando sul loro sex appeal? O semplicemente si fidava del suo gusto, e il suo gusto lo portava in una direzione un po' più camp di quella che poi i Beatles avrebbero preso?
Bésame i Beatles avevano iniziato a suonarla ad Amburgo, in una fase in cui erano juke-box viventi e l'eclettismo, durante concerti che duravano due o tre ore, più che una scelta estetica era una necessità. Il brano arriva alla Decca perfettamente rodato, e se ci sembra assurdo è appunto perché i Beatles lo lasciarono a quel bivio; ma se alla Decca fossero piaciuti, chissà.
232. In Spite of All the Danger (McCartney-Harrison; registrato su acetato dai Quarrymen nel 1958; ora in Anthology 1).
Malgrado tutto il pericolo, malgrado tutto quello che potrebbe succedere, farò qualsiasi cosa per te. In Spite of All the Danger è incisa sull'altro lato del disco 78giri in acetato prodotto nello studio del signor Phillips in un giorno imprecisato del 1958. Se vi sembra assurdo che questa istantanea sfuocata di 60 anni fa sia di gran lunga il pezzo più ascoltato su Spotify tra tutti quelli che abbiamo passato in rivista fin qui, considerate che è inciso sul disco più raro e quotato mai esistito. Ed è in assoluto la prima canzone originale dei Beatles... che non si chiamavano ancora così: diciamo che è la prima canzone originale di Paul McCartney, anche se una scritta a pennarello sulla label dell'acetato reca la dicitura "McCartney-Harrison", in quanto quest'ultimo era l'autore dell'assolo di chitarra. Lo stesso Paul poi sta smaccatamente ricalcando un pezzo di Elvis Presley che ha ascoltato a un campo scout, Tryin' to Get to You: la melodia è praticamente identica, anche il testo è simile. Nel 1958 Paul non ha ben chiaro il concetto di proprietà intellettuale: crede che le canzoni siano di tutti, e se decide di cambiare le parole probabilmente è perché non si ricorda il testo di Elvis né è riuscito a procurarsi il disco o lo spartito. Non ha nessuna velleità autoriale, per ora: non sta cercando neanche di sembrare originale. Ci riesce lo stesso.
Quel che rende In Spite una canzone diversa, non già beatlesiana ma nemmeno così presleyana, è l'intreccio vocale. Lasciando perdere il batterista, che suona troppo lontano dal microfono, i Quarrymen consistono di tre voci e tre chitarre che suonano gli accordi praticamente all'unisono, salvo il momento del non esaltante assolo. Magari il "muro di chitarre" era l'unico sistema per farsi ascoltare alle feste senza amplificatori, ma nello studio del signor Phillips di tanto baccano non c'è bisogno, è ridondante. Per contro, le tre voci sono già alla ricerca di armonizzazioni sofisticate (il che non significa che le trovino).
L'altro motivo per cui In Spite negli ultimi anni è diventata così popolare potrebbe essere la versione filologicamente correttissima contenuta nel film Nowhere Boy, un esempio clamoroso di potere del cinema, anche mediocre. Nowhere Boy non è un capolavoro, e il modo in cui utilizza In Spite per farci piangere non ha nulla di originale: è un banale montaggio di immagini di Julia Lennon, di John che balla con lei, che si ricorda di lei, che canta questa canzone evidentemente a lei. Funziona benissimo anche se non è vero niente: la canzone è di Paul, non ha nulla di strappalacrime in sé, John la canta con partecipazione ma non fa ancora spettacolo dei suoi sentimenti.
231. You Know What To Do (Harrison; outtake del 1964; ora in Anthology 1).
So if you want me just like I need you... You Know What to Do è la canzone che per poco non ha stroncato la carriera compositiva di George Harrison. Forse. Quel che è sicuro è che George era già stato accettato come terzo compositore dei Beatles nel loro secondo LP, che ospitava Don't Bother Me, incisa nel settembre del 1963. Per ascoltare una sua nuova creazione (I Need You) i fan avrebbero dovuto aspettare il febbraio del 1965: nel frattempo altri due album erano usciti senza brani firmati da George. Cosa lo aveva bloccato?
Secondo George Martin, Harrison si era scoraggiato quando "nessuno di noi aveva apprezzato una cosa che aveva scritto". Ora, l'unica "cosa" di Harrison che conosciamo tra il 1963 e l'inizio del 1965, è appunto You Know What to Do, registrata in fretta un giorno prima di partire per un tour, con Paul al basso e forse John al cembalo (Ringo era malato); non sembra onestamente questo orrore di canzone. Se la strofa è abbastanza banale, nel bridge incontriamo forse il primo accenno di descending bass line, un trucchetto che Paul saprà sfruttare meglio in Michelle, intorno al quale John costruirà Cry Baby Cry e lo stesso George farà risplendere in While My Guitar. Insomma, bastava insistere: e invece George si bloccò. Non doveva essere sempre facile lavorare con la ditta Lennon/McCartney. Questi ultimi a dire il vero stavano entrando in una breve fase di stallo creativo che li avrebbe portati, pochi mesi dopo, a consegnare alle stampe il loro disco più involuto: Beatles For Sale, con una sola hit, qualche esperimento e diverse cover poco interessanti. You Know What To Do non avrebbe abbassato la media più di tanto, ma George si era bloccato. Just call my name if you're lonely...
230. That Means A Lot (Lennon-McCartney; outtake del 1965-66, ora in Anthology 2).
C'è un cartoon divertente in giro per internet (oddio forse è divertente soltanto per i beatlemaniaci), comunque in questo cartoon ci sono Paul e John intorno a un microfono che fanno un duello di composizione mentre in cabina siedono George, Ringo e George Martin. Sulla stessa base Paul canta That Means A Lot e John Ticket To Ride: alla fine tutti votano per John, e Paul si mette a piangere. Ok. In effetti la progressione di That Means A Lot assomiglia un po' a quella di Ticket To Ride, soprattutto nelle prime versioni. Ma non c'è mai stata una gara del genere: quando Paul propose That Means A Lot, il brano di John era già stato completato. That Means A Lot, scrive Ian MacDonald, è un raro esempio di Lennon e McCartney che brancolano nel buio: cercano un motivo, si accorgono che è troppo simile a qualcosa che hanno appena registrato, provano a modificarlo, ma non funziona niente, proprio come succede ai comuni mortali. That Means A Lot non solo somiglia troppo a Ticket, ma ne tradisce tutti gli aspetti rivoluzionari: è un passo indietro dopo un grande salto, un incidente. Ascoltarla è farsi un'idea su cosa sarebbero diventati i Beatles se invece di spingere continuamente sull'acceleratore avessero deciso di calmarsi un po' e presidiare i territori già esplorati. Probabilmente non era un'opzione praticabile: l'unico modo per restare in piedi era continuare a correre.
229. Junk (McCartney, Esher Demo, 1968; completato poi nel primo disco di Paul McCartney, McCartney; la prima versione si trova in Anthology 3).
Cianfrusaglie. Ci sono brani dei Beatles che parlano di sé stessi; Junk parla dei tesori che lasciamo marcire in solaio o in cortile e a risentirla su Anthology sembra esattamente questo: ciò che rimane di un tesoro abbandonato. Il brano è già praticamente completo durante la prima session informale del 1968, quella in casa Harrison in cui i Quattro portano tutto quello che hanno composto prima e durante l'esperienza indiana, si rendono conto di avere già materiale per più di un LP e decidono che 'pubblicheranno tutto', ovvero che il prossimo album sarà doppio. Ma non è vero che pubblicheranno tutto, per esempio accantoneranno Junk come cianfrusaglia, e non è semplice capire il perché.
Junk contiene anche la prima riflessione di Paul sul consumismo, se non sugli eccessi della sua esperienza di giovane rockstar affetta da shopping compulsivo. In pochi minuti avrebbe aggiunto al Disco Bianco una dimensione in più, tra tante che ne ha già. Certo, non è che sia stata buttata via: se mi va di ascoltarlo posso sempre andarmi a cercare McCartney, il disco in cui Paul la incise due anni dopo. Ma è uno di quei dischi che anche se li apprezzi preferisci lasciarti indietro - quel tipo di dischi che dopo un po' i ragazzi trovano in soffitta, appunto. E forse è perfetto così, quell'amarognolo che senti in fondo è esattamente quello che Paul voleva farti sentire. Maledetto Paul.
228. Step Inside Love (Lennon-McCartney; incisa da Cilla Black nel 1968; suonata per scherzo durante la lavorazione a The Beatles il 16/9/1968, ora in Anthology 3).
You look tired, love; let me turn off the lights... Secondo una voce giornalistica probabilmente inverificabile, le due canzoni più eseguite della storia della musica sono Yesterday e (subito dopo) Garota de Ipanema. Questo cosa significa? Anche niente, ma immaginate per un attimo che i Beatles si fossero dedicati a scrivere pezzi di bossanova. Davvero, perché no? Nel '68 spaziavano dell'heavy metal allo ska, perché non ci hanno nemmeno provato? Perché la bossanova è più difficile, ovvio. Ma fino a un certo punto: in fondo se c'è qualcosa che hanno in comune con Gilberto è proprio la passione per gli accordi strani che all'inizio suonano dissonanti e poi ti ci affezioni. Invece una colore che alla loro tavolozza sembrava mancare è quel timbro rilassato, languido, senza il quale non si dà bossanova – proprio quel timbro che stava cercando Paul quella sera di settembre, mentre registrava I Will. Si capisce che Paul una bossanova avrebbe voluto cantarla, in un disco dei Beatles. Ci aveva già provato prestissimo, con la cover di Till There Was You ('64), ma comporne una era un altro paio di maniche. Step Inside Love era una mezza bossanova che aveva scritto per lo show televisivo di Cilla Black, ex compagna di Cavern scoperta, come i Beatles, da Brian Epstein. Spogliata da tutta la fanfara orchestrale, sussurrata in un microfono, accompagnata da quegli accordi sempre un po' imprevedibili, è la più esplicita preghiera che Paul poteva rivolgere ai compagni: ragazzi, dai, proviamoci. Potremmo farcela, potremmo sbarcare sulla spiaggia di Ipanema anche stasera. I compagni non lo prendono sul serio. Quella sera sono solo due (manca George) ma di buon umore, forse troppo. Ringo è alle maracas, John si diverte con legnetti e altre percussioni. Lo stesso Paul non insiste più di tanto, e alla fine si dissocia dal risultato attribuendolo a un tale "Joe Prairies" (una storpiatura di Pereira?) e ai suoi "Prairie Wallflowers". Niente Ipanema nel Disco Bianco, abbiamo scherzato. Peccato però.
Step Inside Love fu un discreto successo, anche perché si sentiva in tv una volta alla settimana e c'era tutto il tempo per affezionarcisi; per metà stagione Cilla dovette accontentarsi di cantarne la prima strofa, perché era l'unica che Paul aveva scritto; quando finalmente riuscì a incontrarlo e convincerlo a completarla, Paul notò che Cilla sembrava stanca, forse provata da quel ruolo di soubrette, e lo scrisse: "You look tired, love". Insomma Paul scriveva le prime cose che gli venivano in mente e fa un po' effetto pensare che sono proprio le parole che Cilla si è fatta incidere sulla tomba.
227. Los Paranoias (Lennon-McCartney; improvvisazione estemporanea durante la lavorazione a The Beatles, 16/9/1968, ora in Anthology 3).
Sing à la latina! Inventare buffi pseudonimi d'artisti era uno scherzo ricorrente tra i Beatles in sede di registrazione (in fondo anche Sgt Pepper è nato così). Quando Paul abbozza i "Prairie Wallflowers", John ribatte con "Los Paranoias", un termine che a detta di Paul faceva parte dello slang portuale di Liverpool. Paul ridacchia e ci inventa lì per lì un riff: "Come on enjoy us / Los Paranoias". John in falsetto protesta: "I can't make it", e intanto qualcuno, lui o Ringo, fa un gran casino tribale coi legnetti. Ogni tentativo di impostare una bossanova va a farsi benedire. Però è sempre un piacere sentire che si divertivano. Ci sono alcuni brani dei Beatles (You Know My Name, Hey Bulldog) che sembrano avere principalmente questa funzione: ricordare agli ascoltatori che i Beatles non hanno sempre litigato, anzi. Certe sere potevano andare avanti tutta la notte a suonare cretinate coi registratori accesi, così, per ridere. Tutto questo può spezzarti il cuore come quei filmini super8 in cui ti ritrovi più giovane a giocare con amici che non ci sono più o che non sono più tuoi amici. Come on, enjoy us! (I can't make it).
226. Teddy Boy (McCartney; outtake del 1969 ora in Anthology 3; McCartney la incise nel suo primo disco omonimo).
Ma poi ci sono canzoni che sono coltellate alle spalle, e Teddy Boy è la peggiore. Ci sono canzoni inutili e canzoni dannose, ma Teddy Boy è in un cassetto tutto suo, quello delle canzoni catastrofiche. Se non è quella che ha spaccato i Beatles, è per il semplice motivo che le crepe erano già abbastanza profonde e non sarebbero sopravvissuti comunque. Per come la imbastisce al microfono durante le difficili sessioni del gennaio '69, è la storia di un "teddy boy" che sotto la patina da duro è dolce e mammone come un orsacchiotto, appunto: e se avete più o meno presente la situazione psicologica di John in quel periodo, ve lo immaginate già stringere i pugni. Ma nella terza strofa la mamma di Teddy incontra un "another man", Paul canta proprio così e lo canta di fianco a John, e pretende che John gli dia pure una mano coi cori.
L'anno successivo John avrebbe iniziato un faticoso percorso di terapia allo scopo di superare il trauma dell'abbandono materno. Proprio come la mamma di Teddy, quella di John aveva incontrato un altro uomo, e John a cinque anni era andato a vivere da zia Mimi. Julia non aveva smesso di vedere il figlio; gli aveva insegnato a suonare Fats Domino al banjo, e poi era morta in un incidente stradale. John a quel punto si era già evoluto nel teddy boy del quartiere, ma "Teddy don't worry, now mummy's here taking good care of you", canta Paul, e magari c'è Yoko nei paraggi e John si innervosisce anche solo se la fissi per più di un secondo.
Che Yoko fosse una figura materna lo aveva ammesso John già nel '68, quando tra i versi di Julia si era lasciato sfuggire un "Ocean's Child", figlia dell'oceano, che è il significato degli ideogrammi che compongono il nome Yoko. Che questa nuova madre, dietro a una naturale possessività, nascondesse ambizioni manageriali era un'osservazione che Paul evidentemente non riusciva più a tenere per sé. Sceglie dunque di affidarla a una melodia che è poco più di una filastrocca irrisolta, sbilenca, che induce l'ascoltatore a domandarsi per un paio di minuti: ma ci è o ci fa? Si è accorto che sta mettendo a nudo il lato più fragile e rimosso del suo amico e socio in affari, o è l'inconscio che sta giocando un brutto scherzo anche a lui? Si tratta di un maldestrissimo tentativo di trasformare la musica in terapia (quel che poi John farà nel suo primo disco da solo), o di un'orribile gaffe? E se te lo domandi tu che hai avuto una vita famigliare standard, figurati un tizio devastato da dipendenze e nevrosi come John in quel momento. Tanto più notevole il fatto che invece di mandare Paul a quel paese, John si limiti a sabotarlo intervenendo nel ritornello nei panni di un maestro di ballo "Take your partners, dosi-do, hold them tight and don't let go". Un modo abbastanza garbato di dire: Paul, questa fa schifo.
Perché oltre a poter essere interpretato come un atto ostile nei confronti del partner, Teddy fa proprio schifo come pezzo e getta una luce sulle difficoltà impreviste che McCartney si troverà davanti, come compositore, dopo il divorzio. Nel biennio '69-'70 Paul comincia a sbandare: proprio nel momento in cui vorrebbe imporre un suo controllo creativo soffre il fatto che nessuno sta più controllando lui; alterna trovate geniali (Let It Be) ad altre che mal si conciliano con il gusto dei compagni (Obladì) se non lo sfidano apertamente (Maxwell's Silver Hammer). Era un momento psicologicamente molto teso, e ognuno reagisce alla tensione a modo suo. George e John approfittarono della situazione per scrivere alcune delle loro cose migliori, Paul si intestardì su Maxwell e Teddy Boy.
225. 12 Bar Blues Original (Lennon-McCartney-Harrison-Starkey, incisa nel 1965 durante la lavorazione di Rubber Soul, poi inclusa in Anthology 2).
Quando chiesero a Lennon se esisteva del materiale beatle non registrato, lui rispose che ricordava soltanto "qualche schifoso 12 bar". Il 12 bar blues, blues in 12 misure, è l'abc delle rock'n'roll band. Non devi neanche metterti d'accordo prima: qualcuno conta fino a quattro e alè, si comincia. Non c'è nulla da inventare, nulla da dimostrare, magari si stanno soltanto scaldando, o rilassando. Quando due anni più tardi capiterà loro di accennare il tema di una colonna sonora, finiranno di nuovo per montarla sull'ossatura di un blues (Flying), come se il 12 bar fosse il destino di qualsiasi tentativo di comporre in quattro, dal vivo, con gli strumenti in mano. Nel frattempo il blues stava tornando di moda proprio all'Inghilterra, una specie di radicalizzazione del rock praticata da gruppi come i Fleetwood Mac prima maniera. Ma il blues a cui tornerà soprattutto Lennon, dal Disco Bianco in poi, non è più la struttura fissa e rassicurante: è la musica del dolore (Yer Blues) o dell'ossessione (I Want You).
Per i Beatles del 1965 invece il blues è come il pane o l'acqua, qualcosa che di necessario, di scontato, che comunque fin qui non si è mai pensato di servire come pietanza centrale. Per questo è intrigante l'ipotesi che 12 Bar, invece di essere un semplice riscaldamento, fosse stata concepita all'inizio come la title-track di Rubber Soul, un vero e proprio manifesto: eccoci, siamo i Beatles, facciamo soul di gomma ("plastic soul" era la definizione con cui qualche critico americano aveva liquidato i Rolling Stones). Forse a un certo punto voleva essere una rivendicazione orgogliosa: davvero credete che non sappiamo suonare il blues? Sentite qua. Magari poi si portarono a casa l'acetato, lo riascoltarono con comodo, e si resero conto che... era davvero un blues di gomma. La versione di Anthology mette assieme i momenti meglio riusciti di un'esecuzione più lunga, che sfora i sei minuti. Anche così rimane comunque una jam qualsiasi, non così "schifosa", ma più divertente da suonare che da riascoltare.
I Beatles esistono in natura?
04-07-2019, 10:44beatles, fb2020, musica, TheVisionPermalinkTra qualche settimana uscirà anche in Italia Yesterday, il nuovo film di Danny Boyle, e io lo andrò a vedere. Ci andrò malgrado abbia già letto critiche non entusiaste; malgrado dal trailer abbia capito quasi tutta la storia (un musicista mediocre, ritrovandosi in una dimensione parallela dove i Beatles non sono mai esistiti, fa quello che avremmo fatto tutti al suo posto: incide le canzoni dei Beatles e ottiene ovviamente un successo mondiale). Ci andrò e mi domanderò se l’autore del soggetto per caso un giorno non ha davvero visto Non ci resta che piangere, almeno lo spezzone su youtube in cui un Massimo Troisi catapultato nel quasi-Cinquecento prova a farsi bello canticchiando Yesterday. Perché con le buone idee funziona come con le melodie: se due si assomigliano, è più facile immaginare che una derivi dall’altra. Copiare è più semplice di inventare, e questo lo dimostrano gli stessi Beatles, dai quali tutti hanno un po’ copiato qualcosa. Il che però significa anche che un mondo senza Beatles dovrebbe essersi evoluto musicalmente in modo completamente diverso dal nostro, e quindi forse in un mondo del genere Hey Jude e Yellow Submarine suonerebbero strane e magari sgradevoli. O no?
Gli autori del film sembrano pensare di no: le canzoni dei Beatles diventano immediatamente successi. Come se le melodie esistessero davvero in sé, fuori dal tempo e dallo spazio in cui sono state composte, in una specie di iperuranio da cui ogni tanto qualche genio come Lennon e McCartney riuscirebbe a tirarle fuori. Il compositore sarebbe uno scopritore, dotato di qualche geniale senso in più che gli consentirebbe di percepirle e condividerle con noi poveri mortali. La melodia di Yesterday è irresistibile. Se anche non l’avessimo mai ascoltata prima, la troveremmo migliore di qualsiasi cosa ci propone il mercato musicale oggi: Ed Sheran morrebbe d’invidia (Ed Sheran nel film di Boyle interpreta sé stesso che muore d’invidia). Persino nel medioevo di Troisi e Benigni sarebbe piaciuta al primo ascolto – ma allora perché nessuno nel medioevo l’ha trovata? forse mancava il genio adatto. Migliaia di anni al buio, e poi all’improvviso, in un sobborgo di una città portuale inglese, all’improvviso un genio: Paul McCartney. Si sveglia un mattino, si prepara la colazione, si accorge che sta canticchiando un motivetto. Scrambled eggs, oh my baby how I love your legs. Per poi domandarsi all’improvviso: ma questa canzone, di chi è? L’ho davvero scritta io?
Per assecondare questa ipotesi, dobbiamo anche accettare che nella stessa località portuale sia nato, nello stesso periodo, un genio non inferiore a Paul McCartney: John Lennon, lo scopritore di Help, In My Life, Strawberry Fields, Across the Universe e decine di altre melodie geniali. E a questo punto sembra ingiusto tacere di come all’ombra dei due sia cresciuto George Harrison, magari meno dotato dei primi due ma pur sempre in grado di comporre Something e Here Comes the Sun: e che ai tre in un secondo momento si era aggregato Richard Starkey, un batterista che all’inizio lasciava perplessi i critici e che a distanza di mezzo secolo è considerato uno dei principali innovatori della ritmica pop – il paesaggio musicale in cui viviamo è ancora popolato di rullate improvvisate da lui. Certo, si potrebbe obiettare che i Beatles non erano gli unici innovatori sulla piazza: nello stesso periodo c’erano, per esempio, i Rolling Stones. Anche gli Stones però cominciarono a comporre soltanto quando videro, coi loro occhi, Lennon e McCartney completare in pochi minuti il ritornello di I Wanna Be Your Man. Almeno, stando a quel che raccontano i biografi senza l’esempio cruciale dei Beatles non avremmo avuto nemmeno le centinaia di composizioni firmate da Mick Jagger e Keith Richards.
Se davvero la musica esistesse in natura, disponibile soltanto alla sensibilità di rari individui, quel che successe a Liverpool nei primi anni Sessanta sarebbe insomma una coincidenza di proporzioni cosmiche: nello stesso ristrettissimo intervallo di spazio e tempo, quattro individui geniali si sarebbero incontrati e sarebbero riusciti a collaborare, ahinoi, per meno di dieci anni, prima che la combinazione supergeniale diventasse instabile ed esplodesse – non prima di avere ispirato centinaia di emuli, nessuno dei quali altrettanto geniale. Che storia incredibile, meravigliosa e tragica. È appunto la storia che amiamo raccontarci quando ascoltiamo i Beatles ed è quella che mi commuoverà mentre guarderò Yesterday. Ma è una storia, appunto. Ormai talmente consolidata nel nostro immaginario collettivo che forse vale la pena di sfoderare la parola pesante: è un mito. I rocker ragazzini che dopo anni di gavetta si impongono all’attenzione del mondo con la pura forza del loro genio musicale. Non sanno leggere uno spartito, ma in testa hanno più melodie di Mozart. (La stessa storia di Mozart in seguito è stata riscritta per assomigliare un po’ di più al moderno mito delle rockstar). Il mito conosce anche la parabola discendente: la difficoltà a gestire il successo, le divergenze artistiche e caratteriali, la droga, i contrasti economici, e una donna venuta da lontano a mettere zizzania tra i ragazzi. La storia dei Beatles sembra il canovaccio da cui saranno poi sviluppate tutte le biografie delle rockstar. Anche in questo senso, sono stati i primi a scoprire qualcosa che forse esisteva già.
L’idea che le innovazioni siano fenomeni rari, e che dipendano dalla nascita di individui geniali, è tipicamente romantica... (continua su TheVision, sotto questa foto di John&Yoko)
L’idea che le innovazioni siano fenomeni rari, e che dipendano dalla nascita di individui geniali, è tipicamente romantica. Nel tardo Ottocento gli antropologi che la condividevano venivano chiamati diffusionisti, e si contrapponevano in una certa misura agli evoluzionisti. Per questi ultimi le innovazioni sono semplicemente le risposte con cui una determinata cultura reagisce alle sfide dell’ambiente – per fare un esempio: se in due continenti diversi due popoli diversi in un paesaggio simile (foresta) si trovano a dover cacciare per sopravvivere, prima o poi entrambi svilupperanno la tecnologia dell’arco: perché ne hanno bisogno. Per i diffusionisti no: se una civiltà non partorisce un individuo geniale in grado di mettere assieme arco e frecce, dovrà aspettare che qualche altra civiltà sbarchi nei pressi e diffonda la tecnologia dell’arco. Può sembrare un’idea ingenua, ma aveva il grosso vantaggio di giustificare il colonialismo, e la maniera peculiare in cui gli europei avevano diffuso nel mondo un certo modo di usare la polvere da sparo. Ancora un secolo fa il diffusionismo godeva di ottima salute, anzi qualcuno cominciava ad elaborarne versioni ancora più radicali, come l’iperdiffusionismo di Grafton Elliot Smith. Per Smith (egittologo australiano) esisteva soltanto una civiltà innovatrice, e manco a dirlo era quella europea che si era sviluppata nel bacino del Mediterraneo a partire dagli antichi Egizi. Tutte le più antiche innovazioni, per Smith, erano da ricondurre agli Egizi, al punto che per spiegare l’uso di imbarcazioni nell’America precolombiana bisognava ipotizzare contatti antichissimi tra civiltà sulle due sponde dell’Atlantico.
Prima di ridere dell’ennesima fiaba a uso dell’uomo bianco, bisogna riconoscere che il nostro mito dei Beatles non funziona in modo molto diverso. Ipotizziamo che le melodie siano considerabili come innovazioni: un evoluzionista direbbe che sono la risposta di una determinata società a una determinata serie di sollecitazioni. Da questo punto di vista non è così eccezionale che nel nord dell’Inghilterra, all’inizio degli anni Sessanta, i giovani cercassero di sviluppare forme originali di adattamento al rock e al pop d’importazione americana: Liverpool era appunto il porto in cui arrivavano i prodotti d’importazione, compresi i dischi delle Shirelles e degli Isley Brothers che i Beatles coverizzarono nel loro primo disco. Insomma, per un evoluzionista il problema non si pone: se non ci fossero stati i Beatles ci sarebbe stato qualcun altro, magari cresciuto nello stesso quartiere. Per il diffusionista invece quello che succede nel 1963 a Liverpool a opera di tre-quattro individui geniali è una frattura nella Storia: niente sarà più come prima.
È per esempio l’ipotesi di Simon Reynolds, acclamato da Rolling Stone come “il critico musicale più illustre del pianeta”. “Sono nato nel 1963”, scrive in Retromania, “quello che, per ragioni varie e non solo narcisistiche, considero il Primo Anno del Rock. Quando iniziai a interessarmi seriamente al pop, da adolescente negli anni Settanta del post-punk, mandai giù subito una cospicua dose di modernismo: la convinzione che l’arte abbia una sorta di destino rivoluzionario, una teleologia che si manifesta tramite artisti geniali e capolavori che sono monumenti al futuro. Tutte cose che esistevano già nel rock, grazie ai Beatles, alla psichedelia e al progressive…” L’omissione di qualsiasi artista non bianco non è un atto di razzismo, o almeno non lo è consapevolmente. Reynolds non può inserire nel suo mito del rock-come-Forma-Consapevolmente-Innovativa Chuck Berry, Stevie Wonder o gli artisti della Motown, non perché siano così inferiori ai Beatles, ma perché hanno qualcosa che ai Beatles sembra mancare: le radici. Se davvero vuoi raccontare a te stesso che il rock comincia nel tuo anno di nascita, devi ignorare gli afroamericani che prima e dopo il 1963 continuavano a innovare incessantemente, senza però creare fratture così vistose – e ho il sospetto che Boyle tenti di esorcizzare l’aspetto razziale del mito dei Beatles offrendo in dono tutte le melodie del quartetto a un musicista non bianco.
La sua disarmante dichiarazione di modernismo rock, Reynolds la pubblica al termine di un libro che denuncia l’esatto contrario, ovvero l’inarrestabile tendenza della cultura pop a guardare al passato: la retromania, appunto. Lo stesso Reynolds tuttavia ammette di non avere avuto sempre le idee chiare sull’argomento. In un primo momento era convinto che la retromania fosse cominciata col post-punk. A fargli cambiare idea a un certo punto fu una retrospettiva sulla moda inglese, che aveva scoperto il fascino del vintage almeno fino al 1965 – l’anno in cui anche i Beatles cominciano a inserire suoni rétro nei loro dischi: il quartetto di violini di “Yesterday”, il simil-clavicembalo di “In My Life”, l’irruzione improvvisa del valzer nell’inciso di “We Can Work It Out”. Ma a questo punto perché non dare un’occhiata al primo disco dei Beatles, in quel fatale 1963? Please Please Me è tutto fuorché l’urlo primigenio di una civiltà modernista nell’atto di nascere dal nulla. Per essere il prodotto di 24 ore di lavoro di quattro ragazzini è anzi un oggetto sorprendentemente stratificato. Contiene persino una canzone di Burt Bacharach. Più in generale sembra il tentativo di creare una sintesi di tutta una serie di musiche che i quattro avevano già sentito in giro, e di cui avevano sperimentato l’efficacia al Cavern Club e ad Amburgo: non soltanto il rock’n’roll (che comunque nel 1963 doveva suonare già rétro, legato ai ricordi d’adolescenza di Lennon e McCartney), ma anche il pop delle radio AM (Bacharach, appunto), il doo-wop, le armonie vocali che negli Usa avevano fatto la fortuna di Beach Boys e Four Seasons. Persino nel 1963, insomma, i Beatles stavano lavorando su materiale già messo in circolo da altri. Il che non significa che Lennon e McCartney non fossero dei geni, ma non nel senso romantico e diffusionista del termine. Erano ragazzi svegli con le orecchie bene aperte in un paesaggio musicale in costante evoluzione. Erano tra i primi babyboomers a impugnare gli strumenti in un milieu sociale – l’Inghilterra del dopoguerra – che non aveva ancora assorbito tutti i riferimenti culturali e che quindi poteva davvero scambiarli per quattro geni venuti dal nulla.
I Beatles, inoltre, ebbero l’incontestabile fortuna di incontrare sul percorso alcuni rappresentanti della generazione precedente che si fidarono di loro: il loro manager, Brian Epstein, e soprattutto il produttore George Martin, che permise loro di sperimentare suoni e soluzioni con una libertà che forse nessun artista prima di loro aveva avuto. Tutto questo ha reso l’esperienza dei Beatles unica, ma non così unica. Molte loro canzoni, anche tra le più famose, non sarebbero così famose se non le avessero incise loro. Mentre viceversa ci sono canzoni altrettanto valide ma meno conosciute: semplicemente perché invece di averle scritte Lennon o McCartney le ha firmate qualche compositore professionista. Per dirla con Bob Dylan (un altro mitico eroe del 1963, che in realtà in quell’anno stava già saccheggiando musica del passato), ci sono milioni di canzoni come “Michelle” e “Yesterday” negli scaffali di Tin Pan Alley. McCartney e Lennon sono stati due grandi musicisti e compositori, ma senza di loro “Yesterday” l’avrebbe scritta qualcun altro. Lo intuiva lo stesso McCartney, che proprio in quanto compositore sapeva di muoversi in un terreno molto più infido di quanto ci immaginiamo. Non un iperuranio di canzoni perfette da recuperare e portare a terra, ma una jungla di reminiscenze, di melodie assorbite a livello inconscio e modificate costantemente.
Nel 1968, dopo aver composto “Hey Jude”, invece di chiudere lo spartito in cassaforte e precipitarsi in sala d’incisione, McCartney fa ascoltare la sua canzone a “chiunque fosse abbastanza educato da non rifiutare”. Se davvero le canzoni fossero invenzioni, dall’inventore sarebbe logico aspettarsi un maggiore riserbo: specie in un contesto competitivo come la scena pop-rock inglese degli anni Sessanta. C’era il concreto rischio che qualche collega orecchiasse la canzone e corresse a inciderla prima di lui, ma evidentemente McCartney temeva di correre un rischio peggiore: che qualcuno non lo avvertisse che la melodia non era davvero originale, che qualcun altro l’aveva scritta per prima. La stessa preoccupazione lo aveva ossessionato nel 1964, dopo che si era svegliato canticchiando “Scrambled Eggs”. Sarebbe passato un anno prima che si decidesse a inciderla: un anno trascorso a chiedere a tutti i colleghi che conosceva se per caso non avessero già sentito la stessa melodia. È un affanno non troppo diverso da quello del ricercatore che dopo aver fatto una scoperta, invece di gridare un Eureka! liberatorio si mette a esplorare la stampa scientifica con l’incubo di scoprire che qualcun altro ha già messo per iscritto gli stessi risultati.
Tra qualche settimana uscirà anche in Italia Yesterday, il nuovo film di Danny Boyle, e io lo andrò a vedere. Ci andrò anche se non condivido affatto l’ideologia diffusionista espressa nel trailer, anzi la trovo sottilmente razzista in quanto propone l’idea che esista una civiltà superiore alle altre (e no, il fatto che il personaggio che si impossessa di tutte le canzoni dei Beatles non sia un bianco non migliora la cosa, anzi). Ci andrò perché al mito dei Beatles sono affezionato, il che non significa che creda ancora nell’incontro di quattro geni assoluti della musica nella Liverpool di fine anni Cinquanta. Anzi, più invecchio e più mi piace trovare nei loro dischi un sacco di difetti, intuire dietro una qualsiasi canzone la tensione tra John e Paul, il senso di tragedia che comincia a sentirsi già in Revolver, culmina in Abbey Road e riecheggia in Let It Be. Ci andrò anche se non credo che Danny Boyle riuscirà nel prodigio di rifarmi ascoltare le stesse canzoni come se non le avessi mai sentite in vita mia. Però vale la pena provare. Resto convinto che se i Beatles non fossero esistiti, qualcun altro avrebbe preso il loro posto nel nostro cuore, con canzoni diverse e non necessariamente peggiori. In qualche universo parallelo magari è andata così, ma nel nostro universo i Beatles ci sono stati: ci è andata bene.
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Metti sull'Uno c'è un maestro che urla
18-01-2019, 18:2121tw, 5Stelle, Beppe Grillo, cinema, fb2020, santi, scuola, tvPermalinkIl primo successo del 2019 per la Rai è Alessio Boni che urla ai ragazzini. Certo, La Compagnia del Cigno è molto altro: c’è musica in abbondanza, classica e moderna, e poi ogni ragazzo ha il suo arco narrativo, l’ingresso nell’età adulta eccetera – sì sì però se lunedì sera mettete sull’Uno all’improvviso, in tre casi su tre si materializzerà Alessio Boni che a stento controlla l’impulso di rompervi la bacchetta in testa.
La Compagnia ha battuto il Titanic restaurato, ha battuto la Coppa Italia; il maestro che urla è il primo grande spettacolo italiano del 2019. Quasi un italiano su dieci ha assistito alle sfuriate del maestro Boni senza cambiare canale. Anzi dev’essersi in qualche modo affezionato, e non so se questa è una buona notizia per il mondo della scuola. In gran parte si tratta degli stessi italiani che non esiterebbero a denunciare un maestro del genere se invece che in tv sbraitasse in quel modo davanti ai propri figli, in un’aula scolastica – andiamo, persino io lo avrei mandato a quel paese a un certo punto: e faccio il suo mestiere. Che ci è successo?
Che fine ha fatto il modello di insegnante che andava di moda quando studiavo, quello super-empatico che non castigava mai nessuno, anzi riusciva a entrare in sintonia con tutti senza alzare la voce? Il Robin Williams dell’Attimo fuggente: molti di noi insegnanti vorrebbero ancora assomigliargli, anche se alla fine ci scappa la pazienza e gli studenti piangono e poi i genitori protestano. Genitori che, diciamolo, non hanno sempre tutti i torti, forse dovremmo essere ancora più pazienti – sì, però gli stessi genitori quando tornano a casa si bevono due ore di fiction con Alessio Boni che urla e strepita, c’è qualcosa di paradossale in tutto questo.
D’altro canto è pur sempre televisione. Quello specchio piuttosto distorto che non mostra quasi mai il mondo intorno a noi; il più delle volte ci mette davanti il mondo dentro di noi. Nessuno vorrebbe un maestro severo per i suoi figli, ma tutti segretamente lo vorremmo per i figli degli altri, e forse una fiction assolve questa funzione (“Guarda questo professore asfaltare sette adolescenti!”)
Come ogni modello che funziona i critici si sono subito affrettati a farci notare il prestito evidente nei confronti di un prodotto d’importazione. Lo ha prontamente ammesso anche lo sceneggiatore Ivan Cotroneo: il maestro interpretato da Alessio Boni deve molto a quello impersonato da J. K. Simmons in Whiplash, il primo film di Damien Chazelle. È il ruolo che finalmente ha fruttato un Oscar a Simmons, il classico caratterista che tutti abbiamo la sensazione di conoscere come un familiare, tante volte lo abbiamo visto in tv. E però in Whiplash il maestro urlatore è il cattivo del film, non l’eroe che aiuta a sbloccare le potenzialità del protagonista. A parte la sua ossessione per la musica (ossessione omicida) non conosciamo quasi nulla di lui. Non c’è tempo per spiegare cosa lo ha trasformato nella belva che è; non ci sono flashback che ci facciano scoprire i suoi dolori, i suoi lutti, non ci sono siparietti ricattatori che ci facciano piangere insieme a lui. Non è insomma come il maestro di Boni, che tra una scenata e l’altra lascia intravedere un animo sensibile, empatico, in grado di entrare in sintonia con il delicato mondo interiore dei ragazzi; se anche il personaggio di Simmons sembrava trapelare qualcosa del genere, era soltanto per rivelarsi fino alla fine un subdolo manipolatore.
Whiplash fu criticato, anche in Italia, per la visione del mondo che tradiva: una giungla dove conta soltanto la lotta per la sopravvivenza, l’autoaffermazione e il successo. Il film si presta in realtà a un’interpretazione più problematica: il protagonista è più vittima che eroe. Il maestro della Compagnia del Cigno, all’apparenza più sfaccettato, alla fine è soltanto il classico burbero dal cuore d’oro. Ma Whiplash è un grande film anche perché mette in guardia da quel modello di maestro carismatico, denunciandone la tossicità.
Sia Whiplash che La Compagnia, poi, traggono spunto da un discorso così universalmente condiviso ormai che rischiamo di non vederlo intorno a noi, come l’aria che respiriamo. In un certo senso è l’aria che respiriamo. È il talent-show. Whiplash è strutturato come una caricatura di talent-show: un maestro severo, un allievo che deve seguirlo ma anche sconfiggerlo. La Compagnia è un succedaneo di talent-show – quasi un placebo per i telespettatori in crisi d’astinenza, tra la fine di X Factor e l’inizio di Sanremo. Lo stesso Sanremo assomiglia anch’esso sempre più a un talent-show, al punto di essersi dotato di un maestro talentuoso, magari non sbraitante ma più severo di quanto ci saremmo aspettati: Claudio Baglioni.
Il 2019 è l’ultimo anno degli anni Dieci. Forse non è più troppo presto per un bilancio: è stato il decennio dei Talent. È vero, esistevano anche prima (più negli USA che in Italia). Ma fino a X Factor non eravamo abituati a chiamarli così, e soprattutto non li consideravamo molto di più che una forma di intrattenimento, una sottospecie dei Reality. Poi è successo qualcosa, fuori e dentro la tv. Non è ancora chiaro cosa – forse ha a che vedere con la caduta delle élite di cui in questi giorni stanno parlando sui giornali di carta. Insomma altri punti di riferimento sembrano essere crollati: i politici hanno smesso di essere attendibili (non che lo fossero dieci anni fa), medici e insegnanti hanno perso ogni autorevolezza. L’unico punto fermo, l’ultimo baluardo della meritocrazia, è il Talent.
A questo punto naturalmente occorre obiettare che una meritocrazia del genere non può funzionare: tanto per cominciare gli strumenti sono farraginosi (Rousseau non funziona), ma anche se fossero efficienti, ci sarebbe il problema che il popolo è un pessimo giudice, non ha le competenze ecc. ecc.. Tutto probabilmente vero. Ma non è così strano che la società dello spettacolo si affidi al codice del Talent. Scuole e università non è chiaro se funzionino o no; perlomeno le ultime classi dirigenti che hanno formato lasciavano molto a desiderare. I Talent non è detto che creino più competenza, ma sicuramente fanno spettacolo, e quella è una cosa che sappiamo apprezzare.
Nei Talent scorre ancora, neanche tanto sotterranea, quella vena di sadismo e crudeltà che abbiamo bandito dalle scuole (e che forse inconsciamente rimpiangiamo). Solo nei Talent è ancora concesso umiliare l’incapace, e mettere apertamente l’uno contro l’altro gli apprendisti. Che parlino di cucina o di musica, il motivo per cui li guardiamo è il motivo per cui ci lasciamo ipnotizzare dalle sfuriate di Alessio Boni: i maestri sadici sono sexy. Vederli tormentare le loro vittime è uno spettacolo per cui paghiamo abbonamenti e biglietti al cinema. Forse ci piacciono proprio perché non assomigliano affatto ai nostri ex professori, empatici e condiscendenti, sempre pronti ad applaudire ogni nostro minimo sforzo. Se non siamo diventati quegli uomini e donne di successo che loro vedevano in noi, magari è colpa loro: troppo buoni, troppo permissivi. Se ci avessero preso a ceffoni, invece, chissà… vabbe’, è troppo tardi per recriminare. Ma si fa ancora in tempo ad accendere la tv. Sull’Uno c’è un prof che strepita, su Sky quattro cuochi infieriscono su dilettanti allo sbaraglio, l’Attimo fuggente almeno stasera non c’è (anche perché a modo suo va in scena in tutte le scuole d’Italia, da lunedì a sabato, da settembre a giugno: e dopo un po’ viene a noia, non ditelo a me).
L'annosa questione del razzismo di Tolkien
30-12-2018, 01:1521tw, anglistica, fb2020, miti, razzismi, TheVisionPermalinkMake Middlearth Great Again |
Mappa non autorizzata, anzi proibita, anzi l'ho ritrovata in un sito russo, spero non sia contagiosa. |
Nel frattempo la Terra di Mezzo è diventata un universo cinematico, e i volti dei suoi protagonisti sono stati fissati nella coscienza di almeno una generazione dalle scelte di casting di Peter Jackson, filologicamente inappuntabili, ma proprio per questo un po' troppo nordiche per i gusti di uno spettatore globalizzato, assuefatto a prodotti hollywoodiani dove le percentuali di comprimari bianchi, neri e asiatici sono calcolate al millimetro. Jackson non ha neanche voluto evitare di attribuire agli Orchi e agli Orchetti una carnagione scura, ed era destino che prima o poi qualcuno decidesse che la cosa lo offendeva. L'ultimo in ordine di apparizione è Andy Duncan, scrittore fantasy che in un'intervista a Wired ha ammesso di non poter passare sopra alla concezione tolkeniana per cui "alcune razze sono semplicemente peggiori di altre, e che alcuni popoli sono semplicemente peggiori di altri". L'affermazione in sé non ha nulla di clamoroso, ma il Times l'ha ripresa e nel giro di poche ore aveva fatto il giro del mondo, o almeno quella porzione non piccola di mondo che va dal Times al Secolo d'Italia (continua su TheVision)
Ma se lo tagliano, sanguina? Apriamo il dibattito. |
La polemica in sé non è affatto nuova, e in Italia in particolare non dovrebbe sorprenderci: in fondo siamo stati i primi a sospettare, già negli anni Settanta, che Tolkien fosse un fascista o peggio. Il Signore degli Anelli, che nell’area anglosassone era esploso nel 1968, anno della prima edizione “tascabile” – si fa per dire, non stava nemmeno nelle tasche degli eskimo di allora – ed era stato adottato gioiosamente dalle star della controcultura, in Italia ha avuto una storia tutta particolare. Fu pubblicato nel 1970 da Rusconi, un editore di rotocalchi a base di gossip sui Savoia e Padre Pio, con una famigerata prefazione di Elémire Zolla che non si contentava di anticipare la trama (oggi diremmo “spoilerare”), ma lo innalzava come stendardo di una letteratura anti-moderna, puramente ispirata al folklore e alla tradizione.
Tolkien a ben vedere era tutt’altro che rispettoso delle tradizioni a cui attingeva, e che spesso deliberatamente pervertiva, ma Zolla non voleva o non poteva accorgersene, e ormai il dado era tratto: liquidato dagli ambienti progressisti come autore d’evasione, negli anni Settanta Tolkien fu adottato da una sparuta ma combattiva minoranza di sedicenti intellettuali di destra a cui non sembrava vero poter disporre di un generoso serbatoio di leggende, neanche troppo difficili da leggere. Tolkien in realtà piaceva a tutti, ma i lettori di sinistra ci misero un po’ di tempo a riorganizzarsi. A fine anni Novanta la riduzione cinematografica rimescolò le acque: il Signore degli Anelli entrò a tutti gli effetti anche in Italia nel calderone della cultura pop, proprio mentre i Wu Ming tentavano di recuperarlo a sinistra, insistendo sull’aspetto multiculturale di quel melting pot che è la Compagnia dell’Anello, e sul fatto che i veri eroi del romanzo non siano i tradizionali cavalieri feudali, ma gli hobbit, antieroi provinciali. Tolkien in generale è un autore molto più raffinato e sfuggente di quanto sembri a prima vista. L’affetto che nutre per i miti che rielabora è molto più smaliziato di quanto appaia; le sue fiabe non hanno un lieto fine, Bene e Male restano intimamente connessi.
E allo stesso tempo Tolkien resta un uomo del suo tempo, e al suo tempo non risultava così offensivo immaginare schiere di nemici avanzare da un Sud arido, a cavallo di elefanti. Possiamo decidere che questa cosa non sia più accettabile, e che l’opera di Tolkien sia destinata a seguire sugli scaffali più alti quella di Kipling o di altri autori dell’era coloniale che solo gli addetti ai lavori sono ancora in grado di leggere senza avvertire un inevitabile fastidio, lo choc culturale che proviamo di fronte all’implicito razzismo che permeava la cultura europea fino a pochi decenni fa.
Ma probabilmente non andrà a finire così: Tolkien sembra ancora avere molto da dirci (più di Kipling, tutto sommato). Un’opera che può essere ancora letta da destra, da sinistra, come una saga di eroi o come materiale di propaganda, non dà l’impressione di poter tramontare ancora per almeno una generazione. Se ne riparlerà tra quattro o cinque anni, quando qualcuno magari si accorgerà che Tolkien odia i ragni proprio mentre l’aracnofobia diventa uno stigma sociale, e qualche lettore appena arrivato strabuzzerà gli occhi: ma come, Tolkien aracnofobo? Peccato, e dire che mi piaceva così tanto.
I pazzi e il Pendolo
05-09-2018, 16:2121tw, Eco, fb2020, italianistica, TheVisionPermalinkSolo per voi, figli della dottrina e della sapienza, abbiamo scritto quest'opera...Si chiamava Il pendolo di Foucault, e trent'anni esatti fa era l'argomento più caldo dell'estate (bisogna dire che era un'estate dolce e pigra, Gimme Five di Jovanotti duellava con Nick Kamen in cima alle classifiche, Craxi aveva finalmente acconsentito a un governo De Mita che sarebbe durato un altro anno, gli Europei di calcio erano già finiti da un mese e le olimpiadi di Seoul sarebbero iniziate soltanto in settembre). In quell'agosto sostanzialmente tranquillo, sulla stampa italiana cominciarono ad apparire recensioni non autorizzate del secondo romanzo di Umberto Eco, che sarebbe uscito soltanto in autunno. Tutto questo malgrado le proteste dell'autore e del suo editore, Bompiani, che poi sarebbero stati accusati di avere occultamente orchestrato la fuga di notizie per vendere ancora più copie. Non che ne avessero la minima necessità: il primo romanzo di Eco, Il nome della rosa, era appena uscito dalle classifiche italiane di vendita dopo otto anni. Tradotto in più di 40 lingue, si stima che abbia venduto più di trenta milioni di copie: nel dicembre di quello stesso 1988 il film di Jean-Jacques Annaud con Sean Connery sarebbe stato visto su Rai1 da 17 milioni di telespettatori, il pubblico di una partita della nazionale.
[seguono centinaia di pagine sui templari].
Nel 1988 insomma Umberto Eco dava l'impressione di poter piazzare milioni di copie persino di un trattato di cabala babilonese. A qualcuno il Pendolo sembrò esattamente questo: un gioco esageratamente intellettualistico. A chi si aspettava un altro godibile giallo medievale, stavolta Eco infliggeva un labirinto narrativo articolato non solo nello spazio (Gerusalemme, Parigi, Milano, le Langhe) ma nel tempo (dal processo dei Templari agli intrighi massonici dell'Ottocento, dalla Resistenza al '68 alla Milano-da-bere contemporanea), affidato a due voci narranti – addirittura scritto in due font diversi.
Eppure il Pendolo, a rileggerlo trent'anni dopo, non sembra così complicato. C'è da dire che nel frattempo il best-seller postmoderno, il genere che Eco stava collaudando, è diventato un prodotto editoriale codificato: il citazionismo spinto e l'uso sistematico dei flashback non sorprendono più. Ma il sospetto è che già nel 1988 Eco li stesse usando soprattutto per mettere alla prova il lettore (come aveva dichiarato nelle Postille al Nome della rosa): gran parte delle difficoltà si concentrano nei primi capitoli. Proprio il più faticoso, il delirio iniziale di Casaubon al Conservatoire des Arts et Métiers, fu scelto per essere pubblicato in anteprima dall'Espresso. Più che a promuoversi, Eco sembrava deciso a sacrificare parte del pubblico che aveva conquistato. Poteva permetterselo (continua su TheVision).
Il Pendolo scalò immediatamente le classifiche, divivendo i critici (memorabile la stroncatura di Salman Rushdie) e spaventando molti lettori.
Se Il nome della rosa inghiottiva il lettore in un universo compatto, un medioevo ricostruito in laboratorio, Il Pendolo disorientava, accostando pagine autobiografiche ai divertissement eruditi alla Diario minimo. Era un testo scoppiettante, che attirava e respingeva, e verso il finale non resisteva alla tentazione di ammazzare qualche protagonista in scena come certi feuilleton ottocenteschi tanto amati dall’autore. La trama ruotava intorno a un gruppo di intellettuali che, per interesse anche economico, cominciano a frequentare il mondo dell’occultismo, fino a venire risucchiati in un apparente complotto universale che – come nel Nome – si rivela poi solo un grande equivoco. Nel Pendolo, Eco usciva dal suo confortevole Medioevo per cimentarsi con la contemporaneità, arrivando a prestare alcuni ricordi d’infanzia a uno dei protagonisti, Jacopo Belbo. Spesso i protagonisti dei thriller sono versioni idealizzate dei loro autori, uomini tutti d’un pezzo. Nel Pendolo tutto il contrario: Belbo è un Eco che non ce l’ha fatta, che non è riuscito a diventare uno scrittore e non se ne dà pace. Una cultura enciclopedica non lo riscatta dalla mediocrità, anzi sembra fornirgli strumenti più affilati per torturarsi. Troppo giovane per la Resistenza, troppo maturo per la Contestazione, Belbo mentre confida i suoi sogni di riscatto eroico al suo personal computer, continua a compromettersi col sistema; tra le sue mansioni di collaboratore editoriale c’è quella di selezionare i gonzi, gli autori di manoscritti da attirare nella truffaldina ragnatela escogitata dal diabolico editore Garamond. Personaggi ancora più mediocri di lui, poeti da strapazzo ed eruditi della domenica, impiegati e funzionari con un sogno di gloria nel cassetto: chi avrebbe mai pensato che sarebbero legione, movimento, forza di governo? Eco nel 1988 ci stava pensando.
Il pensiero complottista, ci spiegava, farà seguaci non soltanto tra i poveri di spirito, ma anche tra gli intellettuali come Belbo, sedotti anche per un solo istante da un Piano che spieghi ogni mistero e giustifichi ogni fallimento. È una lezione sulla quale forse non abbiamo ancora riflettuto abbastanza, oggi, mentre insistiamo a interpretare il trionfo dei movimenti complottisti e xenofobi come un problema di analfabetismo funzionale (eppure il partito più votato dai laureati è il M5S). L’avversario che ci additava trent’anni fa non era l’ignoranza, ma erano la frustrazione, l’insoddisfazione, l’incapacità di rassegnarsi alla mediocrità. Lo avrebbe ribadito sette anni più tardi in quella famosa lezione alla Columbia che oggi si ritrova in libreria sotto il titolo Il fascismo eterno: “L’ Ur-Fascismo scaturisce dalla frustrazione individuale o sociale. Il che spiega perché una delle caratteristiche tipiche dei fascismi storici sia stato l’appello alle classi medie frustrate, a disagio per qualche crisi economica o umiliazione politica, spaventate dalla pressione dei gruppi sociali subalterni. Nel nostro tempo in cui i vecchi proletari stanno diventando piccola borghesia (e i Lumpen si autoescludono dalla scena politica), il Fascismo troverà in questa nuova maggioranza il suo uditorio”.
Sfogliando manoscritti alla ricerca di gonzi da spennare, Belbo aveva scoperto alcuni temi ricorrenti: l’occultismo, i misteri del passato, i soliti Templari (“Quando uno tira in ballo i Templari è quasi sempre un matto”). Nel 1988 forse era presto per capire che Il Pendolo metteva a fuoco con precisione chirurgica la transizione tra anni Settanta e Ottanta, il momento in cui in certe piccole librerie di Milano i saggi sui templari avevano rimpiazzato quelli sul marxismo. L’irrazionalismo di uno Zolla o di un Cioran poteva apparire ancora un fenomeno di nicchia, una nuvola pittoresca e inoffensiva che veniva a stemperare gli incubi ideologici degli anni di piombo. L’impegno con cui Eco si dedicava a smontarlo e sbeffeggiarlo poteva sembrare eccessivo; un voler tirare alle zanzare col cannone. Nel 1988 c’erano cose che ci preoccupavano di più, anche se oggi è difficile ricordare cosa.
Quando nel 2003 le librerie furono infestate da un thriller fanta-storico, Il Codice Da Vinci di Dan Brown, qualcuno si ricordò che l’idea di un Gesù fondatore della stirpe dei Merovingi non era poi così nuova. Ne aveva parlato per esempio Eco; ma la circostanza è un po’ più bizzarra. La trama del Codice era stata anticipata in una pagina del Pendolo in cui i tre protagonisti si divertivano a interpretare le frasi emesse da un computer in sequenza casuale. Lo stesso Eco avrebbe più volte definito Dan Brown come un suo personaggio; e in effetti, il suo stile un po’ meccanico ricorda quello di un computer che si sforza di imitare gli scrittori in carne e ossa. Al di là delle coincidenze abbastanza facili da spiegare (sia Eco che Brown attingevano la loro mitologia da testi precedenti), quel che sorprende è che sia Il Pendolo a funzionare come una parodia del Codice, benché sia uscito quindici anni prima. Una parodia che non solo mette in luce l’ingenuità del complottismo alla Dan Brown, ma ne preannuncia persino il successo. Attenzione, voleva dirci il Pendolo: questa roba sembra ridicola, inoffensiva, ma funziona.
Torniamo a oggi. Quando è crollato il ponte Morandi, nel giro di poche ore su internet sono fiorite le prime ipotesi complottiste sulla “demolizione programmata”. È la prassi, dall’undici settembre in poi; dietro non c’è nessuna mente diabolica, né un’epidemia di analfabetismo di ritorno: solo l’umana esigenza di inserire ogni tragedia in un Piano che la giustifichi e ne dia la colpa a qualcun altro. È un fenomeno interessante, inquietante e ancora abbastanza oscuro: dovremmo analizzarlo meglio, forse avremmo dovuto cominciare a studiarlo per tempo: ma in fondo chi se lo sarebbe aspettato che queste buffonate sarebbero diventate così importanti? Ai posteri cercheremo di spiegarla così. E se siamo fortunati, magari i posteri non avranno letto quello strano romanzo in cui Umberto Eco ci metteva in guardia, ormai trent’anni fa.
E anche questo coccodrillo
10-07-2018, 09:1921tw, cinema, coccodrilli, fb2020, OttantaPermalinkNon credo che fosse una scelta autoriale; probabilmente erano i pezzi in classifica nel momento in cui avevano girato il film. Ancora più probabilmente se ne fregavano, i Vanzina, come doveva essersene fregato il padre e tutti i registi della generazione precedente. Mi vengono in mente un paio di capolavori in bianco e nero che sono anche caroselli frastornanti di canzoni da classifica – Il sorpasso, Io la conoscevo bene, ma era un periodo diverso, forse le canzoni avevano tempi di decadimento più lunghi. Invece un gap di sei mesi, negli anni Ottanta, sembrava un secolo. Dopo sei mesi Moonlight Shadow era preistoria, Sunshine Reggae a Natale causava dolore fisico. Troppo presto per provarne nostalgia, in compenso ti suggerivano una tristezza sconfinata. Lo spleen delle vacanze finite, delle feste di compleanno quando gli amici se ne vanno e la mamma non sparecchierà da sola. Una sensazione che gli stessi Vanzina non temevano di evocare alla fine dei loro film migliori ("E anche questo Natale se lo semo levato da le palle"). Il cinema stava perdendo la presa sull'attualità e ovviamente il colpevole era l'elettrodomestico a colori che tenevamo in casa. Quando il Drive In di Ricci divenne egemone, i Vanzina tentarono di ripeterlo al cinema. Ma i tormentoni di Ezio Greggio erano ancora più effimeri del pop da classifica, sei mesi dopo non è che non facessero semplicemente più ridere: sapevano di morte.
Chi è cresciuto negli anni Ottanta non è che avesse accesso a molte opzioni: poteva amarli o poteva odiarli. Non c'erano terze vie, sono state tracciate dopo. A chi sceglieva la seconda, a chi necessitava quotidianamente di oggetti esemplari su cui esercitare il proprio disprezzo, i Vanzina offrivano un bersaglio così comodo, così evidente che avrebbe dovuto insospettirci, ma eravamo scemi. I Vanzina a modo loro erano nostri compagni di strada; disprezzavano le maschere che mettevano in scena tanto quanto le odiavamo noi, ma eravamo troppo piccoli per capire, troppo orgogliosi. A loro non potevamo perdonare nulla. Consideravamo la sola esistenza di Christian De Sica una bestemmia, un'offesa al nobile regista di film neorealisti che dovevamo ancora guardare; ci avremmo messo trent'anni a capire che per la maggior parte della sua carriera Vittorio De Sica aveva interpretato cialtroni squallidi quanto quelli che erano toccati al figlio. Magari nel frattempo ci stavamo facendo una cultura sul segmento aureo della commedia all'italiana (quella che arrivava su Rete4 in seconda serata), in confronto al quale le farse vanziniane ci sembravano una degenerazione intollerabile; senza accorgerci che i Vanzina erano gli unici eredi di quelle formule che tentavano di svecchiare procedendo per tentativi, senza lasciare nulla di intentato e senza menarsela mai. Ecco, se la fossero menata un po' di più forse oggi sarebbe più facile salutare un grande artista e scopritore di talenti. Invece i Vanzina erano una macchina: lavoravano tanto, incassavano tanto e non avevano pietà di nessuno. Senz'altro non di sé stessi.
Nel film italiano più celebrato dell'ultimo decennio, un film che rielabora echi felliniani, scoliani e morettiani in un gran pastone per turisti, a un certo punto una tizia ci informa che "l’unica scena jazz interessante è quella etiope". Quel pezzettino lì non è Fellini, non è Scola e non è Moretti: potrebbe essere uno scarto di lavorazione dei Vanzina, qualcosa che all'ultimo momento De Sica non avrebbe detto perché gli sarebbe venuta in mente una frase più divertente.
L'epico, persino un po' brechtiano, Fantozzi
03-07-2018, 23:4421tw, cinema, coccodrilli, fb2020, tvPermalinkPer Mattia Feltri era soprattutto un atto di denuncia contro l’ipocrisia dei dirigenti che si atteggiano a rivoluzionari, come il dottor Ricciardelli che la sera di Italia-Inghilterra convoca i suoi dipendenti e li costringe alla visione del capolavoro muto e in bianco e nero; il vecchio Feltri li avrebbe definiti radical chic, il giovane ci risparmia almeno la definizione. Aldo Grasso invece non riuscì nell'occasione a controllare l’impulso di scrivere “superiorità antropologica della sinistra”, contro cui Fantozzi si ribellerebbe; la sua sarebbe la “resistenza che l’impiegato oppone a chi vuole colonizzare il suo tempo libero”.
Dall’amaca Michele Serra tentava l’impossibile compromesso tra gli orfani di Villaggio e gli estimatori di Ėjzenštejn: “Lo stesso spettatore poteva benissimo amare la Potëmkin e Fantozzi, il cinema d’essai e il cinema popolare. Ma in sale diverse, in momenti diversi e con animo diverso”. È un veltronismo che Villaggio non avrebbe condiviso: anche l’ultima volta che ebbe occasione di parlarne – invitato dalla Cineteca di Bologna nel 2003 in occasione del restauro della Corazzata – ribadì la sentenza fantozziana: altro che capolavoro, era una “cagata” che avrebbe potuto interessare solo “vecchi e insonni”.
E però la necessità di salvare capra e cavoli, Fantozzi e Corazzata, è troppo forte e produce torsioni interessanti, come quella di WuMing1 che dopo la commossa rievocazione di un’epica proiezione della Potemkin in piazza Maggiore propone di leggere l’episodio come una “vertiginosa mise en abime” dei cinque atti del film: “il cineforum è la corazzata; Fantozzi è il marinaio Vakulenčuk che per primo grida la verità su quel che sta accadendo; gli spettatori sono i marinai insorti; l’odioso Riccardelli è gli ufficiali spodestati; la sala occupata è Odessa; la polizia che «s’incazza davvero» ha il ruolo dei cosacchi che reprimono”.
Villaggio novello Ėjzenštejn, e proprio perché si permette di sfottere Ėjzenštejn (...nel momento in cui la borghesia finto-rivoluzionaria se ne impossessa e lo trasforma in un feticcio). A corroborare una lettura tanto epica, WuMing1 riconosce nella saga di Fantozzi un unico personaggio positivo: il marxista Folagra, che dal sottoscala in cui è confinato non rinuncia a spargere il seme della rivolta - un po’ come i WuMing, fedeli al loro personaggio di rivoluzionario in servizio permanente. Folagra però nel film sembra una macchietta, appena in grado di farfugliare quattro slogan autonomisti; la fiaccola rivoluzionaria che passa a Fantozzi si smorza subito nel Grande Acquario dei Dipendenti. Del resto non è che ai personaggi di WuMing la rivoluzione di solito riesca: sin dai tempi di Q non hanno fatto che raccontare storie di rivoluzionari magari più strutturati di Fantozzi, ma ugualmente destinati alla sconfitta. Paolo Villaggio in questo senso è un marxista più ortodosso (o più novecentesco): quando scriveva e sceneggiava Fantozzi, sembrava avere in mente una concezione meno vicina alla New Italian Epic che all’epica brechtiana: come Madre Coraggio, Fantozzi non acquisisce mai una vera consapevolezza della propria condizione di sfruttato. Non è lui che doveva svegliarsi, ma lo spettatore.
Non è esattamente andata così. Il secondo tragico Fantozzi è un film del 1976, un’epoca pre-tv-color in cui i cineforum impegnati erano ancora una realtà non solo nelle grandi città – e in effetti lo sketch era nato in tv come una satira di quell’ambiente, che Villaggio conosceva bene; solo in un secondo momento era stato riadattato all’universo fantozziano. Il successo dei primi Fantozzi di Salce e Villaggio fu notevole, ma la vera penetrazione nell’inconscio collettivo avviene nel decennio successivo, quando la Mediaset ne acquisì i diritti e cominciò a riprogrammarli intensivamente – al punto da risorgere anche il personaggio cinematografico, in una serie di sequel sempre più deprimenti.
È solo in quel momento che “è una cagata pazzesca” diventa un modo di dire della lingua italiana (70.700 risultati su google); una specie di versione adulta e sboccata dell’andersoniano “il re è nudo” (anche “92 minuti di applausi” era già un meme prima delle GIF: nell’era pre-facebookiana di internet la citazione fantozziana era un buon surrogato del tasto “Mi Piace”). Nel frattempo però il paesaggio che Villaggio irrideva – quel mondo scalcagnato di cineforum fumosi coi seggiolini di legno – era completamente scomparso; e Ėjzenštejn dimenticato, anche dal palinsesto notturno di Rai3. La tv commerciale stava crescendo una nuova generazione di cinefili, forse non meno fanatici del dottor Ricciardelli, ma dai gusti completamente diversi: completamente digiuni dei maestri russi e degli espressionisti tedeschi, ma in grado di riconoscere un film di Bombolo o Lino Banfi dal singolo fotogramma.
Chi cresceva in quegli anni poteva condividere la sensazione di ritrovarsi bloccato nella scena dell’assedio fantozziano, e costretto come Ricciardelli a vedere a ripetizione “Giovannona Coscialunga, L’esorciccio e La polizia s’incazza”. Tra questi titoli ormai imprescindibili della storia del cinema italiano, non mancavano i film di Fantozzi. La rassegna integrale, sempre più lunga e ridondante (e triste, nel suo lungo percorso verso il trash), veniva riprogrammata una volta a semestre. I megadirettori delle emittenti ci convocavano per sentirci ridere – ridere stava diventando obbligatorio, come una volta partecipare al dibattito. Invece dell’“occhio della madre”, era obbligatorio menzionare il "radical-chic" e la “superiorità-antropologica-della-sinistra”; al posto del “montaggio analogico”, c’era lo sberleffo obbligatorio verso un modello di cinema e di società che non avevamo nemmeno fatto in tempo a conoscere. È andata così e non è certo responsabilità di Paolo Villaggio; comunque è finita. Vero?
Cosa deve fare un razzista per farsi prendere sul serio in Italia?
24-11-2017, 18:1821tw, delitti e cronaca, fb2020, razzismi, TheVisionPermalinkE i giornali italiani hanno scritto che è morto un satanista.
Insomma cosa deve fare un razzista per farsi accreditare come tale in Italia? Incidersi una svastica in fronte? No, neanche così. Manson non era il diavolo: Manson era un razzista si legge su TheVision.
Qualche giorno fa è morto, dopo una vita in galera, Charles Manson, un personaggio di cui avrete probabilmente sentito parlare. Se la sua storia non vi ha mai particolarmente appassionato, se avete soltanto dato una veloce scorsa ai titoli dei quotidiani italiani, probabilmente sapete che era un serial killer satanista che tra l’altro pugnalò, in modo particolarmente efferato, la giovane attrice incinta Sharon Tate. Eppure Charles Manson non era esattamente un serial killer, non era un satanista e non ha pugnalato Sharon Tate. Siamo davanti all’ennesima fake news, penserete. Si e no. Diciamo che siete davanti a una libera interpretazione della stampa italiana.
Charles Manson è davvero nato nel 1934 a Cincinnati, Ohio, in un contesto disagiato – sua madre, sedicenne, fu subito abbandonata dal padre di Charles. È davvero entrato in riformatorio a 13 anni, per evaderne molto presto su un'auto rubata; e non era che l'inizio. Buona parte degli anni Sessanta Manson li osservò da dietro le sbarre, mentre scontava pene per furto e sfruttamento della prostituzione. Questo se da un lato gli impedì di godersi l’esplosione del flower power californiano, gli diede qualche elemento per captare meglio di tanti osservatori le tensioni più distruttive che covavano in quegli anni – in particolare la questione razziale. Verso il 1968 Manson aveva davvero messo insieme la “family”, una setta abbastanza scalcagnata, ma non esattamente satanica; in quel periodo Manson più che a Satana faceva riferimento a una sua personalissima interpretazione degli insegnamenti di Gesù Cristo, filtrati attraverso i testi delle canzoni dei Beatles. A un certo punto sostenne di essere lui stesso il Cristo: è un tratto classico di tanti predicatori che perdono la brocca, ma ha poco a che vedere col satanismo. I suoi adepti uccisero davvero Sharon Tate e altre sei persone tra il 9 e il 10 agosto del 1969, e lo fecero seguendo le sue indicazioni. Quindi insomma la storia c’è, e per quanto sia stata raccontata migliaia di volte rimane pazzesca. Non solo, ma nel 2017 la storia di Manson sembra più attuale che in passato: oggi che il razzismo è un’emergenza non solo dall’altra parte dell’Atlantico, è particolarmente interessante ricordare che Charles Manson predicava ai suoi discepoli la necessità di un’imminente guerra razziale: molto presto i neri avrebbero cominciato ad attaccare i bianchi, e dal caos che ne sarebbe derivato la “family” di Manson avrebbe governato il mondo.
Di questo scenario delirante, i più autorevoli quotidiani italiani non fanno cenno. Insistono molto di più su un presunto satanismo di Charles Manson, che in prigione si era fatto una cultura rudimentale su tante cose, dalla magia nera alle filosofie orientali: definirlo satanista o “satanico” è altrettanto impreciso che definirlo buddista. La BBC, per esempio, di Satana non parla: ricorda invece che Manson aveva convinto le sue discepole di essere il Cristo. Per Rainews invece Manson è un killer“satanico”; per la Repubblica i suoi adepti “credono in Scientology e in Satana(*)”; mentre Corriere e La Stampa, non riuscendo a trovare una sola dichiarazione satanista di Manson, arrivano a un compromesso: “Sosteneva di essere la reincarnazione non solo di Gesù, ma di Gesù e Satana insieme”. Manson in effetti parlava tantissimo, e da qualche parte potrebbe anche aver detto questa cosa. Sembra però che a Satana i giornalisti italiani tengano in modo particolare – “Da Satana ha preso molto,” ribadisce La Stampa, mentre Repubblica li chiama “delitti satanici”. Così come spesso accade nelle narrazioni del giornalismo italiano, le principali testate tengono molto a ricordare i dettagli più scabrosi del delitto Tate, rievocando l’aggressione con uno stile quasi cinematografico: “Il primo a morire fu Steve Parent, un ragazzo di 18 anni che era andato a trovare il custode e che passava nella via. Linda restò fuori a fare da palo. Watson spaccò un vetro per entrare in casa e la banda radunò Sharon Tate e i suoi amici in salotto. Sharon fu legata per il collo a Sebring, mentre Waston legava le mani di Frykowski. La Atkins disse all’attrice “Puttana, stai per morire”, Sebring cercò di difenderla e fu ucciso da Watson, che gli sparò e lo accoltellò più volte, usando anche un forchettone” (La Stampa).
E ancora, Il Corriere: “Armati di coltelli, revolver e corda di nylon tagliarono i fili del telefono per impedire che venisse dato l’allarme. Il primo a morire fu un amico del guardiano della villa, che stava uscendo in macchina, Stephen Earl Parent. Poi toccò a Jay Sebring, che implorò inutilmente di risparmiare la vita a Sharon Tate. Fu finito a coltellate, così come le altre tre vittime. L’ultima fu proprio Sharon, incinta all’ottavo mese”.
Di questi siparietti nel pezzo della BBC non c’è traccia. In compenso è segnalato il movente di cui nei giornali italiani non si parla: “Race war”. Del resto chi ha bisogno di un movente quando ha Satana? Satana spiega senza sforzo qualsiasi follia: i membri della Family scrivevano “Helter Skelter” e “Pigs” sulle pareti col sangue delle vittime? Sarà un qualche rituale satanista. Ma “Pigs” era anche l’appellativo con cui erano chiamati i poliziotti dai manifestanti (un po’ l’equivalente di “ACAB” sui muri di oggi). Manson intendeva probabilmente depistare le indagini sulla comunità afroamericana, scatenando una rappresaglia che avrebbe portato alla guerra razziale. Perché prima di essere satanista, scientologo, buddista e fanatico dei Beatles, Charles Manson era profondamente razzista. Pensava che i neri e i bianchi non avrebbero mai potuto vivere insieme, e aveva in orrore soprattutto le unioni interrazziali. Un mese prima il delitto Tate aveva dato l’esempio sparando a uno spacciatore afroamericano (che era sopravvissuto); venti giorni dopo, quando aveva fatto uccidere un suo seguace che gli doveva dei soldi, aveva lui stesso usato il sangue per scrivere sul muro “political piggy” e disegnare un simbolo delle Pantere Nere, l’organizzazione rivoluzionaria afroamericana.
Insomma se c’era una logica nella sua follia era una logica razzista, non satanista. La stessa logica che rende Charles Manson, a mezzo secolo dal funerale degli hippy, una figura ancora attuale. Ed è anche quello che i giornali italiani non dicono: un po’ perché devono concentrarsi sulle coltellate, il sangue, i dialoghi pulp, un po’ perché Satana vende di più.
A questo punto, forse senza un motivo, viene in mente Gianluca Casseri, uno scrittore fantasy fiorentino che qualche anno fa si mise a sparare ai neri che vedeva in giro per Firenze. Quando lo presero ne aveva già uccisi due. Qualcuno scrisse che era depresso. Può darsi: però aveva anche opinioni politiche molto definite, di cui non faceva mistero. Dopo aver negato, la sezione fiorentina di Casapound dovette ammettere che Casseri li frequentava. Insomma era uno scrittore un po’ di destra, un po’ depresso, a cui era capitato di mettersi a sparare a degli africani in giro per Firenze, tutto qui (se capitasse il contrario, un africano che va in giro per Firenze a sparare agli scrittori bianchi, non avremmo molte remore a definirlo terrorista).
Con Charles Manson mi sembra che sia successo qualcosa di simile. È appena morto il capo di un’organizzazione razzista, che faceva discorsi razzisti e profetizzava di una guerra tra le razze al termine della quale lui avrebbe regnato su una razza inferiore; per questo motivo chiedeva ai suoi sottoposti di commettere omicidi a matrice razziale, scegliendo vittime bianche e ricche e facendo in modo che la colpa ricadesse sui neri. Per i giornali italiani più che un razzista questo è un satanista. Ma allora cosa deve fare un razzista per farsi riconoscere come tale dai giornalisti italiani? Incidersi una svastica in fronte? No, niente da fare, neanche quella basta.
Integrazione di lunedì 30 novembre ore 12:40
*Con riferimento all’articolo “Manson non era il diavolo: Manson era un razzista” pubblicato il 24/11/17, a seguito della richiesta di precisazione di “Chiesa di Scientology di Milano Continentale”, che riferisce essere falsa la notizia che Charles Manson fosse legato a Scientology e basasse la propria filosofia sulla stessa, precisiamo che l’articolo ha inteso dare conto del fatto che secondo la stampa sia nazionale che internazionale egli è stato un conoscitore e uno studioso delle teorie di Scientology e non che ne fosse membro. Circostanza, quest’ultima, esclusa dalla “Chiesa di Scientology” [La redazione di TheVision].
I 1001 pianeti di Valérian
23-10-2017, 23:5621tw, cinema, Cosa vedere a Cuneo (e provincia) quando sei vivo, fb2020, Francia, fumetti, futurismiPermalinkDa qualche parte al centro di questa città quadrimensionale, vivono i superstiti di un antico e nobile popolo che abbiamo sterminato un giorno senza volere - cose che càpitano quando si esplora la galassia. Non vivono in armonia con la natura: la natura non c'è più. Hanno la loro tecnologia, sviluppata un po' in autonomia un po' rubacchiando quello che passava ai piani superiori. Non è incomprensibile, ma ha le sue stranezze - comunicano col Minitel, hanno le tastiere con la A al posto della Q. Un giorno spiccheranno il volo, verso un nuovo pianeta dove vivere in pace e stagionare altri ottocento formaggi diversi. E ci mancheranno. Sì, proprio i francesi. Lo so, sembra impossibile.
Ma tingerle i capelli proprio non si poteva? Anche in CGI... |
L'idea - molto europea - che la convivenza sia un caos, però un caos che tutto sommato funziona. |
Si potesse fare a meno di lui, ne sarei contento. Ci fosse in circolazione qualche altro visionario regista francese in grado di attingere a quell'immaginario autoctono che negli anni Sessanta dava i punti agli americani - ma non c'è. Quel momento in cui il pianeta Francia e il suo satellite Belgio erano gli astri più fiammanti del firmamento, e Mézières e Moebius plasmavano il nostro immaginario, con situazioni più problematiche di quelle che arrivavano da oltre oceano, ma immagini altrettanto suggestive - alzi la mano chi ha trovato l'astronave di Valérian un po' troppo simile al Millenium Falcon, beh, è ovviamente il contrario. Besson non sarà il miglior difensore del patrimonio culturale che rappresenta, ma al momento è l'unico, e quindi viva Luc Besson e i suoi pupazzoni digitali (che comunque reggono il confronto di Avatar). Per quanto sia difficile volergli bene, una volta su dieci ne vale la pena. A volte gli riescono cose impossibili, ad esempio rendere simpatica Cara Delevigne. Mentre Dane DeHaan ha esattamente la faccia da schiaffi che serve a un avventuriero dello spazio. Valerian e la città dei mille pianeti resiste indomito al Monviso di Cuneo, almeno fino a stasera 24 ottobre alle ore 21.
I replicanti sognano Blade Runner analogici?
15-10-2017, 15:1621tw, cinema, Cosa vedere a Cuneo (e provincia) quando sei vivo, fb2020, futurismi, OttantaPermalinkIl passato non esiste. I tuoi ricordi sono solo un innesto. Non è sempre stato così, ma un giorno c'è stato un black out e tutti i ricordi che avevi - le foto da bambino, i tuoi film preferiti - puf, è sparito, come lacrime nella pioggia. Non ci credi. Vuoi che facciamo un test?
Ho appena citato un film famoso. Ti ricordi quale?
Bene.
Ti ricordi quando l'hai visto per la prima volta?
Vedi?
Il primo a rompere l'omertà è stato Zerocalcare. Nei giorni successivi, qualcun altro ha trovato il coraggio di ammetterlo: uno dei problemi di Blade Runner 2049 è che è il seguito di un film che siamo tutti convinti di conoscere, ma non ci ricordiamo di aver visto. C'è senz'altro una spiegazione razionale al fenomeno. Quando uscì al cinema eravamo troppo giovani - e comunque floppò. Era stato messo insieme da Ridley Scott con tanta ambizione e pochi soldi. La storia faceva acqua, alcuni dialoghi non avevano senso, l'atmosfera era azzeccatissima ed ebbe un effetto dirompente sul nostro immaginario - uno stacco netto dai futuri postatomici degli anni precedenti - per cui negli anni Novanta anche se non guardavi Blade Runner te lo ritrovavi replicato in tutto il cyberpunk, persino nei fumetti della Bonelli: dappertutto pioggia, inquinamento, grattacieli, androidi tristi. Nel frattempo uscirono varie riedizioni, una director's cut che non piacque al director, cui seguì la director's cut della director's cut - a quel punto forse noi vedemmo per la prima volta Blade Runner, ma eravamo già in quell'età in cui ci vergognavamo a dire di non averlo già visto, e così programmammo noi stessi per dire: "l'altra sera ho rivisto Blade Runner". E si sa come va con l'autoprogrammazione, no? Convinci più te stesso che gli altri. Ormai era il 2000 e la gente si era messa a scrivere su forum e blog, e ogni tre righe citava "Ho visto cose che voi mortali". Tutti sembravano conoscerlo a memoria, Blade Runner. Ma più che la storia tutti citavano quel monologo senza senso improvvisato dal grande Rutger Hauer che sembra arrivato all'ultimo momento da qualche altro set di fantascienza ("navi da combattimento in fiamme al largo dei bastioni di Orione"?), e poi l'atmosfera, eh, l'atmosfera. La pioggia, le pubblicità luminose, il sushi. Ok. È un innesto.
Non è successo. Non hai mai visto veramente Blade Runner. E forse è meglio così. Ora sei libero di guardarti un ambizioso film di fantascienza di Denis Villeneuve, e di amarlo od odiarlo per quello che è. Un ambizioso film di fantascienza di Denis Villeneuve. Meglio di quello di Scott? E che ne so?
(Spoiler: in una delle scene più apparentemente gratuite, il grande demiurgo (che è Jared Leto, ma anche un po' Villeneuve) gioca a resuscitare il passato. È un gioco che ultimamente abbiamo già visto in tutti i film di fantascienza ad alto budget, quindi l'effetto sorpresa ormai è andato. Salvo che stavolta il demiurgo resuscita il passato, lo trova insoddisfacente e lo uccide. Ed ecco che una scena che sembrava poco interessante diventa il senso del film).
C'è stato un blackout, davvero. Tutto quello che ci ricordiamo è andato perso, perché anche se non siamo replicanti (e chi dice che non lo siamo?) la nostra memoria funziona come quella dei computer - la nostra memoria è quella dei computer: o è condivisa, o scompare. Nel 2049 di Villeneuve, il Blade Runner originale non esiste più. Solo qualche frammento audio. Per quanto tu possa cercare di riprodurre fedelmente qualche dettaglio, commetterai sempre un errore fondamentale: sbaglierai il tono di voce, o il colore degli occhi. Tanto vale buttare via anche i frammenti e ricominciare da zero. Restano i sogni - brandelli di ricordi incontrollabili - ma anche di quelli come ti puoi fidare? Lascia perdere. Il passato non esiste, guarda avanti. Una volta forse il mondo era molto migliore, ma è stato tanti anni fa e non ti riguarda.
Villeneuve ha una padronanza dei mezzi che ti fa dubitare della sua umanità... (continua su +eventi!) Il suo futuro è ammuffito e arrugginito come dovrebbe essere. Anche gli ologrammi smaglianti a volte vanno in crash. Il casting è perfetto - se Ryan Gosling era nato per interpretare un replicante, strappa l'applauso il modo in cui Leto, Ana de Armas o Dave Bautista vengono adoperati sempre al meglio delle loro capacità (quando l'ex wrestler Bautista inforca quegli occhialini, ti sembra il più umano di tutti).
A Villeneuve non interessa se il tal personaggio è replicante o no - siamo tutti replicanti a modo nostro. Ci crediamo speciali perché abbiamo dei ricordi che lui sa fabbricare in serie. Villeneuve non si preoccupa troppo di mantenere l'atmosfera del primo film ed è forse questo il motivo per cui in alcune sequenza, con naturalezza, ci riesce. A Villeneuve interessava fare un film di fantascienza cupo, nebbioso, imbastito su un'idea di futuro coerente, e c'è riuscito. A Villeneuve interessava un certo ritmo lento, e la cosa infastidisce soltanto nell'ultimo terzo, quando lo sforzo di reintrodurre sul set Harrison Ford allunga i tempi a dismisura. Si poteva fare diversamente? Secondo me no. A questo punto sono portato a fidarmi di Villeneuve come di un'intelligenza artificiale: se il film è troppo lungo, si vede che non c'era modo di accorciarlo senza ottenere un prodotto inferiore. Sta floppando? È un Blade Runner, che ti aspettavi? Gente che fa la fila per vedere un futuro prossimo dove mangeremo millepiedi e flirteremo coi sistemi operativi? (Eppure dopo una settimana l'ho visto in una sala ancora piena, ero il primo sorpreso a vedere che la gente non uscisse a metà).
Anche ammesso che Villeneuve sia un umano, ormai è certo che non è americano. Il suo Blade Runner è la storia di una creatura che non si crede speciale; che lentamente cede alla tentazione auto-indotta di credersi speciale; ma non lo è: ed è qui che Villeneuve fallisce clamorosamente il suo test di americanità. Il che non significa che non possa ancora rendersi utile, e provare riconoscenza per chi lo creato e ha creato i suoi ricordi. Saranno anche innesti, ma restano le cose più belle che abbiamo. Forse non abbiamo mai visto Blade Runner, ma è lo stesso dentro di noi. Oggi più che vent'anni fa. Blade Runner 2049 è al Cityplex di Alba (15:30, 18:30, 21:30), al Cinelandia di Borgo San Dalmazzo) (14:45, 17:10, 20:30, 21:30), al Vittoria multisala di Bra (17:30, 21:00), al Fiamma di Cuneo) (14:50, 18:05, 21:15), al Multilanghe di Dogliani (17:40, 20:45), ai Portici di Fossano (15:30, 18:30, 21:30), al Baretti di Mondovì, (21:00), al Cinemà di Savigliano (16:00, 18:45, 21:30).
Nel giardino delle attrici castratrici
06-10-2017, 08:4821tw, cinema, Cosa vedere a Cuneo (e provincia) quando sei vivo, essere donna oggi, fb2020PermalinkAl di là del bosco c'è la guerra. È lontana e in ogni dove, brontola tutti i giorni come un temporale che non riesce a sfogarsi. Un giorno ci troverà e sarà finita - in fondo siamo soltanto un collegio di signorine, o quel che resta di. Un giorno la guerra busserà ai nostri cancelli. O forse arretrerà sgomenta?
Niente All Star stavolta |
Dopo aver rinunciato e esprimersi in una grande produzione, la Coppola ha ripiegato sul remake di uno sfortunato film di Don Siegel in cui Clint Eastwood durante la Guerra di Secessione si nascondeva in un convitto di signorine - in Italia provarono a smerciarlo come un prodotto sexy, La notte brava del soldato Jonathan, ma era un film molto inquietante per l'epoca, in cui Eastwood metteva in discussione il suo machismo: un film che metteva in scena incesti e castrazioni, e che al botteghino andò male (pochi mesi dopo Siegel e Eastwood si inventarono l'ispettore Callaghan, riconquistando machismo e botteghino). Al posto di Clint c'è Colin Farrell; nel cast femminile la Coppola ha convocato Nicole Kidman, Kirsten Dunst, Elle Fanning e altre ragazze più giovani e assai promettenti. Tutte bianche, il che difficilmente le sarebbe stato perdonato nel 2017, ma lei lo ha fatto lo stesso (non se ne è resa conto o se ne infischia proprio? Continua su +eventi!)
Nel film di Siegel uno dei personaggi più importanti era una schiava, ma la Coppola una schiava afroamericana non sapeva come gestirla, così ne ha fatto a meno. Mentre critici e femministe la facevano a pezzi, riscoprendo stereotipi razziali in Lost In Translation, lei difendeva la sua scelta spiegando che aveva eliminato la schiava proprio perché aderiva a uno stereotipo razziale; in effetti era la classica schiava subdola e impicciona e - al contrario delle collegiali bianche - non parlava un buon inglese. D'altro canto perché una schiava non avrebbe dovuto essere subdola e impicciona, e perché mai avrebbe dovuto parlare un buon inglese? Così per evitare di essere accusata di razzismo, la Coppola ha diretto il primo film ambientato nel Sud secessionista in cui non viene mai, assolutamente mai, inquadrato un personaggio afroamericano. Come t'insegnano al collegio: delle cose scabrose non si parla, non esistono. Le donne di Siegel avevano scheletri negli armadi, quelle della Coppola ci tengono gli abiti da sera (e sono tutti perfetti). Le donne di Siegel tramavano per conquistarsi l'unico uomo, manipolandosi a vicenda; quelle della Coppola al massimo si rubano gli orecchini. Il punto è sempre lo stesso: non è che la Coppola rifiuti l'approfondimento psicologico, è proprio che non le interessa. Le piace mettere in scena signore di tante età e farle splendere a turno. Hanno tutte qualcosa di magico che solo un grande fotografo sa catturare, anche se di solito lavora per Vogue più che a Hollywood. C'è un momento per la Kidman, un momento per la Dunst, e se in un attimo di debolezza finisci per preferire la Fanning, è scontato che un po' ti meriti le disgrazie che ne deriveranno. Ma se cerchi il dramma ti sei proprio sbagliato, e dopo tanti anni è imperdonabile: dovresti saperlo che lei gira così. E vince pure dei premi, quindi insomma hai solo sbagliato sala. Di fianco fanno Valerian, fanno It, Blade Runner, ce n'è per tutti i gusti. La Coppola può essere irritante, ma ha un suo stile, un suo prodotto e un suo pubblico. Eppure.
Eppure a me dispiace che non riesca a uscire dalla sua comfort zone festivaliera, perché una regista con una visione così personale, una cura per il dettaglio inconfondibile e un'arroganza da autrice, mi sembra un po' sprecata per i servizi di moda. Se un giorno qualcuno riuscisse a convincerla, per esempio, a fare un horror, secondo me ne salterebbe fuori un capolavoro. I suoi film sono una specie di bolla sempre sul punto di scoppiare, immersi in una sensazione di sciagura imminente che non ti accorgi nemmeno di sentire, che dai scontata come quel costante rumore di fondo. A differenza di Bling Ring e Marie Antoniette, stavolta la Catastrofe non entra in scena. Forse non entrerà proprio nessuno. Forse la guerra è finita da secoli e quei rumori sono basi registrate. Forse quel bosco è in una bolla di vetro in fondo al mare. L'inganno è ancora per una settimana al Fiamma di Cuneo alle 21:15.
Tom Cruise spaccia (ma non aspira)
25-09-2017, 21:1121tw, cinema, Cosa vedere a Cuneo (e provincia) quando sei vivo, drogarsi, fb2020PermalinkUna volta ero un pilota. In una vita precedente. |
"L'avevamo già visto in Collateral".
Beh, ma quello era un killer, questo... questo è un simpatico cialtrone!
"Edge of Tomorrow".
No, no, questo è più manigoldo, questo...
"La mummia".
Questo fa sul serio, capite? Questo spaccia la droga!
"La droga? Tom Cruise?"
Non ve l'aspettavate, eh? "Tom Cruise" e "droga" nella stessa frase sono un colpo basso, non dite di no.
"Si drogava già in Minority Report".
Sì, no, ma stavolta non è che si droghi. La spaccia soltanto.
"Cosa vuol dire che la spaccia soltanto?"
Beh è colombiana di Medellin, dai, cosa pretendi, che la sniffi sul grande schermo? È pur sempre Tom Cruise.
È il caso di dire: che botta. |
Se anche non andrete a vedere Barry Seal, c'è una scena che vi ricorderete perché compare in tutti i trailer, anche nelle pubblicità. C'è Tom Cruise che fa un atterraggio di fortuna in un sobborgo; c'è Tom Cruise che smonta dall'aeroplano tutto infarinato di cocaina con una valigia ricolma di dollari. È davvero il nocciolo di tutto il film: c'è l'aeroplano, ci sono i soldi, c'è la coca, c'è Tom Cruise che in un qualche modo ci salta fuori sempre (quasi). È anche l'unica scena che suggerisce che qualche granello di cocaina potrebbe essere stato inavvertitamente inspirato dal narcotrafficante interpretato da Tom Cruise. L'unica. E allora, signori, magari di narcotraffico non siamo così esperti, ma ormai di film ne abbiamo visti tanti. Anche prima dell'attuale inflazione di Escobar al cinema, c'era stato Blow, lo Scarface di De Palma, c'era stato Goodfellas con quella scena in cui Liotta se la prende con l'amante perché quando confeziona le dosi lascia polvere dappertutto. È cocaina, è bianca e granulosa, se soffi fa una nuvola, è quasi impossibile viverci in mezzo e non tirarne mai. Neanche un po'. Capita solo nelle fiabe - quelle che probabilmente i vecchi narcos raccontano ai bambini - il nonno era un capocartello, ma era pulito come appena nato - nelle fiabe e nei film con Tom Cruise.
Ci ho messo un po' a capire cosa non mi stesse convincendo in Barry Seal. Negli USA - dove deve ancora uscire - magari farà un po' di rumore perché... (continua su +eventi!) perché sostiene papale papale che la cocaina di Medellin entrasse in America grazie a una ditta basata in Arkansas che conosceva le rotte della DEA e della FBI dal momento che faceva lavoretti sporchi per la CIA e la CIA le aveva passato i tracciati. Che mentre Reagan dichiarava la Guerra alle Droghe, qualcuno forse nello stesso edificio considerasse l'invasione di colombiana purissima il prezzo da pagare per reprimere i sandinisti in Nicaragua. I sandinisti sono rimasti al potere, la cocaina è diventata un consumo di massa, la CIA si è allontanata fischiettando, e in tutto questo Barry Seal cosa rappresenta? Una pedina che si credeva furba ma che alla fine ha lavorato per tutti e non è riuscito a portarsi dietro nulla. Un tipo di personaggio che non è poi così nuovo per Tom Cruise - e allora perché stavolta manca qualcosa alla classica parabola del bravo-ragazzo-che-scopre-il-malaffare? Perché Barry Seal non raggiunge non dico i livelli di Wolf of Wall Street, ma a un certo punto fatica a mantenere il passo non certo da fuoriclasse di War Dogs?
Potrei tagliare corto e dire: Scorsese. Scorsese questi film li sa fare, gli altri no. Ma credo di averlo già scritto quattro o cinque volte, temo sia l'ora di approfondire. C'è che Scorsese è un tossico. Oddio spero non mi denunci. Magari ha smesso da anni, ma dentro di sé c'è un meccanismo che continua a girare. Gira a vuoto, ma gira. Tom Cruise ha altre stravaganze, ma quel meccanismo non ce l'ha. O non vuole mostrarlo, il che per un attore è imperdonabile. Magari gli piaceva il soggetto - un fattorino dei cieli che frega la Cia per conto dei colombiani e poi viceversa - magari voleva il suo Wolf of Wall Street personale. Però non voleva abbassarsi a tirare coca per tutto il film, ed è qui che casca l'asino. Il suo personaggio resta un'amabile faccia da schiaffi che passa la vita a mettersi nei guai senza un perché. Per un biplano ultraveloce? Una cadillac da regalare alla moglie? una villa con piscina a Mena, Arkansas? Non sembra davvero valerne la pena. La canonica scena "aiuto non so più dove mettere i soldi", che in Wolf varcava le soglie del grottesco, qui finisce per sottolineare l'assurdità della situazione: quanti ripostigli deve trovare Barry per le sue mazzette prima di capire che non potrà mai spenderle? La droga serve anche a questo: a bruciare i surplus in una nuvola gaia di euforia, a creare in individui non apparentemente cattivi quell'abisso da cui poi nascono le idee più disperate e geniali. Ma Barry non si droga. L'unico buon motivo per cui insiste a schivare l'artiglieria sandinista e gli elicotteri della DEA è che si diverte un casino. E naturalmente ha moglie e figli da mantenere - eh già, la famiglia, quanti crimini in tuo nome. Ma sul serio non c'è altro, nemmeno una scappatella con una hostess, niente. Cruise voleva fare il narcotrafficante ma anche il buon padre di famiglia.
Alla fine Barry Seal resta una pagina di storia interessante (anche se un po' fabbricata a posteriori: del resto quando c'è di mezzo la CIA l'unica verità è nel tritadocumenti). Non è però il film promesso, quello in cui finalmente Cruise si toglie la maschera da bravo ragazzo e ci mostra le turpitudini di cui è capace. Tutto il contrario: la maschera è più stretta del solito, non passa neanche un granello di polvere. Barry Seal è al Cinelandia di Borgo San Dalmazzo alle 20:00 e 22:40; al Vittoria di Bra alle 21:00; al Fiamma di Cuneo alle 21:10; al Multilanghe di Dogliani alle 21:30; ai Portici di Fossano alle 18:30 e alle 21:15; al Cinema Italia di Saluzzo alle 22:15.
La sublime arte del lobbying
19-09-2017, 14:1721tw, cinema, Cosa vedere a Cuneo (e provincia) quando sei vivo, fb2020PermalinkSai perché i buoni perdono sempre (no, non al cinema, nella realtà)? Perché non sono abbastanza cinici. Non solo hanno quelle cose fastidiose che si chiamano "sentimenti", ma non sanno nemmeno sfruttarli: li nascondono, ricacciano le lacrime e cercano di sembrare razionali. Si aspettano che qualcuno gliene riconosca un merito. Sono sempre un passo indietro, sempre affannati nel tentativo di svelare l'ennesima trappola dei malvagi, invece di mettersi a elaborare trappole in cui qualche malvagio per una volta possa cadere. Per dirlo con una parola: sai perché i buoni perdono sempre nella realtà? Perché sono buoni. Ma se fossero i più cinici del mazzo, se vendessero i sentimenti propri e altrui a un tanto al chilo, se giocassero d'anticipo, che spettacolo sarebbe. Purtroppo nella realtà non può succedere. Al cinema, però...
Sai perché l'Europacorps di Luc Besson non sbaglia quasi un colpo al botteghino? Perché parte sempre da modelli collaudati - perlopiù americani - e li carica all'inverosimile, come neanche gli autoctoni osano. La loro America è sostanzialmente un sogno - un sogno nutrito di film americani, storie americane, serie americane. Ma se un giorno, invece di scopiazzare gli action per pensionati o i cinecomics o le commediole a base di animali parlanti, volessero cimentarsi con cose più cervellotiche, come quelle serie politiche ambientate a Washington dove tutti i politici e i lobbisti parlano a cento all'ora, che il pubblico raffinato si scarica coi sottotitoli e poi passa il tempo a leggere i sottotitoli? Se invece di fare il verso a Star Wars per una volta tentassero di fare il verso ad Aaron Sorkin o a House of Cards: cosa succederebbe? Che razza di film super-cerebrale, straparlato, implausibile ma irresistibile ci salterebbe fuori? Un film come Miss Sloane, diretto imprevedibilmente da John Madden (Shakespeare in Love, i Marigold Hotel) scritto da un esordiente e imbottito di intrighi e scene madri, ambientato in quell'America dirigenziale che si vede sempre nelle serie tv, quei palazzi tutti ascensori enormi e uffici a vetro. Una storia che parla del lobbysmo americano come se fosse l'epica Greca, un mondo che forse da qualche parte è esistito ma ormai è solo una metafora, un'iperbole, una scena trasparente dove mettere a galleggiare personaggi tragici. Un film che dopo cinque minuti ha già infilato un'interrogazione al Congresso e un dialogo tra due personaggi sulla via del gabinetto in cui si citano, tra le altre cose, Socrate, la Nutella e l'olio di palma. I debiti sorkiniani si saldano anche in sede casting, dove rivediamo almeno due volti di Newsroom, la dolce Alison Pill e li grande Sam Waterson: quest'ultimo in particolare piazzato in modo strategico, una specie di garanzia di genuinità di un prodotto (che tanto genuino magari non è, ma come si fa a non cedere davanti alla faccia del buon vecchio Waterson? Continua su +eventi!)
Ma Miss Sloane è soprattutto il film in cui Jessica Chastain può finalmente recitare a ruota libera, nel ruolo paradossale di lobbysta stronza che decide di passare dalla parte dei buoni - senza smettere di essere stronza, semplicemente trovando un fine nobile a i suoi stronzissimi mezzi. In fondo il suo ruolo non è molto diverso da quello già interpretato in Zero Dark Thirty - una donna super-determinata che fa di una singola missione lo scopo della vita - ma quello era un film realistico, o meglio le tentava tutte per presentarsi come tale. Miss Sloane è ambientato nella magica America sognata a un oceano di distanza, malgrado molti ingredienti della trama siano presi da scandali realmente avvenuti e documentati. L'eroina del film della Bigelow, in confronto a Miss Sloane, è statica come un'icona: qui la Chastain parla e straparla, teoricamente è dura come un diamante ma poi s'infrange come un cristallo, ogni tanto si fa un pianto o una crisi di rabbia ma poi si scopre che tutti gli apparenti fallimenti erano previsti. Miss Sloane è un surrogato europeo di Sorkin che coi tempi che corrono non possiamo permetterci di snobbare. Ovviamente non scorre bene come l'originale, ma è comunque uno spasso. Purtroppo il pubblico non ha gradito: Sloane è costato 13 milioni di dollari e fin qui ne ha raccolti solo nove. Nel frattempo Luc Besson sta per fare uscire il suo nuovo cinecomic fantascientifico. Sarà un baraccone pazzesco e sì, forse ho più voglia di vederlo che il prossimo Star Wars. Miss Sloane è all'Aurora di Savigliano alle 21.
Ballare al volante, ballare al cinema
13-09-2017, 16:4021tw, cinema, Cosa vedere a Cuneo (e provincia) quando sei vivo, fb2020, musicaPermalinkC'è gente che balla là in strada. Lo fanno di nascosto, non li riconosci - se non dalle cuffiette, e da come tamburellano sul volante al semaforo. Non lo fanno per esprimersi o per esporsi o per piacere a sé stessi: lo fanno e basta, sono nati così, non smetteranno finché gli batte un cuore. Non sono più allegri di te, tutt'altro: c'è chi ha un fischio nella testa, o un dolore che non passa, o un grido che gli urla in testa, una canzone da dimenticare suonandoci sopra migliaia di altre canzoni. C'è gente che balla al volante, e non sono gli autisti peggiori.
Già ai tempi di Hot Fuzz era abbastanza chiaro quanto Edgar Wright fosse affezionato a quei luoghi comuni del cinema d'azione che apparentemente stava parodiando. Come quello di Tarantino il suo è un cinema al cubo, che vive di riferimenti di riferimenti, e della gioia di saperli rimettere in scena. Baby Driver è una variazione d'autore su un tema rigoroso: man mano che la storia va avanti i margini d'azione si restringono, certi snodi della trama sono quasi tappe obbligate e Wright non fa nulla per occultarcele, anzi è come se le sottolineasse (continua su +eventi!)
La svolta probabilmente è una strana scena in un parcheggio, dove un personaggio che non rivedremo più fa un lungo e discorso sulla carne di maiale, che non ha altro senso che farti pensare a certe vecchie messe in scena di Guy Ritchie - forse è una parodia, forse un omaggio (c'è differenza?) È il momento in cui Jamie Foxx, fino a quel momento quasi un cameo, prende in mano il film e apparentemente lo deraglia. Da lì in poi qualcosa si inceppa, ma non è forse quello che succede in tutti i film sulle rapine? C'è un piano perfetto e a un certo punto qualcosa che va storto. Anche Baby, che nella prima mezz'ora sembrava infallibile, di lì a poco non riuscirà più a far partire una macchina. Ci sarà ancora molta azione, e le canzoni continueranno a ritmarla, ma la freschezza iniziale è andata persa e non poteva che finire così. Baby Driver non è un film sulla perdita dell'innocenza - il personaggio di Ansel Elgort rimane immacolato anche quando si macchia di sangue - ma su un altro sintomo della crescita: la fine del senso di onnipotenza. Il musical si interrompe, le macchine non seguono più il groove, tutto crolla e chi ha deciso di seguirti, o in un momento di debolezza, di coprirti, forse ha commesso il suo più grande errore.
Baby Driver ha una trama molto semplice, portata avanti da personaggi la cui biografia si potrebbe scrivere su un tovagliolo. Questo lo aggiungo per chi nei giorni scorsi si è lamentato, per esempio, della scarsa profondità dei personaggi di Dunkirk - allora, forse è meglio rammentare che al cinema le storie durano in media due ore, nelle quali l'approfondimento dei personaggi non è sempre la priorità. Se davvero è quel che vi interessa, forse è meglio se restate a casa e vi leggete un libro - oppure vi sparate una stagione di una serie in venti puntate dove di sicuro ci sarà tanto spazio per approfondire i personaggi, sviscerarli, ribaltarli e ricomporli a piacere - viene il sospetto che chi trova il cinema superficiale, oggi, si stia aspettando qualcosa che al cinema più di tanto non si può trovare. E che da parte sua lo stesso cinema di intrattenimento stia prendendo un'altra direzione - che poi è una banale strategia di sopravvivenza: visto che non si può rivaleggiare con la serialità, si tende all'estremo opposto: alla rapidità, alla stilizzazione. Baby Driver e Dunkirk sono due film diversissimi, ma accomunati dalla volontà esibita di essere oggetti cinematografici. In entrambi i casi la colonna sonora è fondamentale. Nel caso di Baby Driver, Wright mette a frutto la vecchia lezione di Tarantino: se c'è una cosa che piace agli spettatori in sala, è scoprire o riscoprire qualche vecchia canzone. Perché è vero che c'è gente che balla ai semafori: ma anche in sala, quando si spengono le luci. Baby Driver è al Cinelandia di Borgo San Dalmazzo (20:10, 22:40); ai Portici di Fossano (21:15); al Cinemà di Savigliano (20:20, 22:30).
Giù al tappeto negli anni Ottanta
09-09-2017, 03:04Bob Dylan, cinema, concerti, fb2020, musica, OttantaPermalinkIl film andò male ai botteghini, secondo gli esperti anche a causa dei baffi di Gregory Peck. "I tuoi baffi ci sono costati milioni", gli avrebbe detto un produttore. |
Mi è venuta in mente questa cosa mentre ridavo un'occhiata a uno dei documenti più penosi che un dylanita possa reperire su Youtube - qualcuno avrà già indovinato. Mettiamola così: qual è l'evento più glorioso nella storia del rock degli anni Ottanta, quello che segna uno spartiacque che è ancora visibile da qui, oggi? Senza dubbio il Live Aid, proprio nel bel mezzo del decennio: estate 1985. È la fine ufficiale del cinismo punk e post-punk; l'apparizione abbastanza improvvisa di una nuova sensibilità più filantropica che politica. I nuovi eroi da palcoscenico non vogliono soltanto vendere dischi ed essere adorati dal pubblico pagante: vogliono essere buoni. Salvare il mondo. Proprio lo sporco mondo che fino a qualche anno fa andava bruciato, improvvisamente nel 1985 diventa cosa sacra e degna di essere salvata. Bob Geldof è il profeta, Bono il Messia, Freddy Mercury il ladrone pentito eccetera eccetera. Ma chi è che fino all'ultimo momento cercò di rovinare la festa? Senza cattiveria, ma con l'intuitiva ostinazione di chi sembra essere nato per mettere a disagio la gente alle cerimonie? Un aiutino: in fondo alla scaletta, nel set di Philadelphia, c'era il grande Bob Dylan.
Anche se forse non se ne rendeva conto. Non era il solo: il ive Aid esplose in maniera abbastanza imprevista. Fino a pochi giorni prima ne parlavano soltanto gli addetti ai lavori e il giorno dopo sui quotidiani era diventato lo show del secolo. Dylan arrivò sul set senza una band, con una vaghissima idea di cosa fosse stato organizzato e perché, in uno dei periodi più confusi della sua carriera; ma invece di fare la cosa più semplice (portarsi una chitarra, un'armonica, suonare la fottuta Blowing in the Wind e buonanotte - magari con Peter, Paul e Mary che si erano riuniti per l'occasione) decise di accollarsi Keith Richards e Ron Wood, in un momento in cui i Rolling Stones sembravano separati in casa: Mick Jagger aveva appena duettato con Tina Turner sullo stesso palco. L'approccio è quello di tre amici che dopo l'ammazzacaffè si fanno prestare le chitarre e strimpellano la prima cosa che gli viene in mente. Il problema è che i tre amici sono Bob-Coscienza-della-Sua-Generazione e i due chitarristi della band più famosa del mondo: a presentarli c'è Jack Nicholson e a guardarli strimpellare il mondo intero. Insomma forse presero la cosa un po' sottogamba. A causa del peso dei loro nomi erano stati inseriti in scaletta verso la fine: non solo il pubblico era esausto, ma dietro le quinte c'era già chi brindava e festeggiava (oppure il coro di USA For Africa che stava facendo le prove: ognuno la racconta diversa e ritiene che gli ubriachi fossero gli altri). Wood e Richards sono abituati a capirsi al volo, ma dovrebbero prima capire cosa vuol fare Dylan, che sta in mezzo, non riesce a sentirsi in spia e rompe addirittura una corda - al che Wood gli presta la sua chitarra e in attesa del rimpiazzo resta sul palco a gesticolare come un ragazzino. Dietro c'è un gran baccano. Blowing in the Wind stavolta è veramente fottuta, chitarre scordate, uno strazio.
Gregory Peck, negli anni di KO Loaded, faceva Lincoln nella serie TV "Il buio e il grigio" (e com'è ovvio ricordava terribilmente il capitano Achab). |
Dicevo che in quel film Gregory Peck fa il pistolero che non ne può più - attraversa il deserto perché dall'altra parte c'è una donna che amava, addirittura un figlio che non ha mai visto. Tutto quello che vorrebbe è sistemarsi in qualche fattoria. Ma i ragazzini, i ragazzini non lo lasciano in pace. Lo sfidano, si fanno ammazzare, e a quel punto naturalmente salta fuori qualche altro ragazzino che deve vendicare l'amico, il fratello, il cognato: non finisce mai.
La breve apparizione di Dylan al Live Aid si potrebbe anche liquidare così: credeva di essere a una festicciola, si fidava di amici in realtà confusi quasi quanto lui, nessuno gli aveva spiegato che era la vedette finale di un Grande Evento Storico. Insomma un equivoco spiacevole. E però la scaletta suggerisce che non fosse del tutto inconsapevole. Come al solito la cambiò fino all'ultimo momento. Ron Wood racconta che mentre saliva sul palcoscenico lo mandò nel panico proponendo all'improvviso di intonare All I Really Want to Do: una filastrocca che forse i due Stones si erano dimenticati, ma che per Dylan vent'anni prima aveva rappresentato il primo dei tanti disimpegni: quello dal movimento politico. Al Live Aid alla fine Dylan non cantò "voglio solo essere vostro amico", ma la storia di Hollis Brown, il contadino del Midwest che stermina la famiglia e si suicida per la fame. Una scelta non banale e apparentemente appropriata a una sera in cui si raccoglievano fondi per l'Etiopia, senonché al termine Dylan buttò lì che magari un paio di milioni dell'incasso si sarebbero potuti stornare "per pagare l'ipoteca su alcune fattorie che i contadini di qui devono alle banche". Tirava aria di crisi anche nel Midwest rurale: il pubblico della mondovisione magari non ci aveva fatto caso, Dylan sì. Qualche mese dopo Neil Young organizzò addirittura un Farm Aid, che molti considerano direttamente ispirato dalle parole di Dylan: quest'ultimo in quell'occasione si preparò per bene con gli Heartbreakers e fece uno show di ottimo livello. Invece, nella sera in cui si teneva a battesimo il Rock Buono, Dylan arrivò ubriaco come una vecchia rockstar (con una scorta di vecchie rockstar altrettanto ubriache); non urlò "America First!" ma ci andò vicino, e prima di massacrare Blowin' in the Wind inflisse ai due Stones e al pubblico un altro brano del passato remoto, When the Ship Comes In - vi ricordate in quale altra occasione, a dispetto di ogni ragionevolezza, aveva cercato di rovinare una festa con la stessa canzone? La marcia di Washington, esatto. E ora non c'era più Joan Baez a metterci una pezza, ma Ron Wood a fare air guitar. Magari è solo una coincidenza. Ma dopo Washington l'aveva cantata dal vivo soltanto altre due volte; non la tentava da vent'anni e dopo il Live Aid l'avrebbe accantonata per sempre. È un pezzo antipatizzante, che dice che la Salvezza arriva all'improvviso e non fa prigionieri: non è un pranzo di gala né un concertone benefico. Chi ne è degno sarà salvato, gli altri affogheranno. Amen.
E così Gregory Peck attraversava il deserto e arrivava in questa città di compensato - sai quelle cittadine western montate negli studios - e ovviamente la sua vecchia fiamma non voleva parlargli, e il figlio non sapeva chi fosse: e qualcuno aveva un conto in sospeso, o voleva soltanto farsi un nome. Ma forse sarebbe meglio che cominciassi a parlare di Knocked Out Loaded, il disco che Dylan pubblicò un anno dopo il Live Aid, ma che aveva già iniziato a registrare un anno prima, sempre un po' qua e un po' là senza un'idea chiara. Ai tempi pensavo che "knocked out loaded" significasse "carico di knocked out", come un pugile pronto a mandare al tappeto l'avversario: insomma un bel titolo combattivo, ecco un disco che se non state attenti vi prende a pugni! Invece significa l'esatto contrario: allude a un KO ricevuto, si può tradurre "suonato", "al tappeto". Forse non avevo mai fatto caso che verso la fine Dylan canta proprio "I was knocked out and loaded in the naked night". È che forse non ci ero mai arrivato, verso la fine. E dire che è un disco abbastanza breve. È il suo miglior pregio. Stiamo del resto parlando di un disco costruito attorno agli scarti di Empire Burlesque, le canzoni che non era riuscito a terminare in tempo per la scadenza del 1985, integrate con altri esperimenti per lo più infruttuosi del 1986. Siamo insomma al raschio del barile: qualcosa di buono ancora vien su, ma che fatica.
E infatti Gregory Peck, quando alla fine riesce a parlare alla sua ex, cala la maschera e le dice che ha finito con le pistole e i duelli e tutto quanto, e che vuole soltanto sistemarsi. Lei ovviamente è un po' scettica; magari non è la prima volta che lo sente dire: poi nemmeno nei vecchi western in bianco e nero funzionava così, che se dopo dieci anni il pistolero fa un fischio, l'ex ragazza madre è già pronta a perdonargli tutto. Lui se ne rende perfettamente conto, e chiede un anno di tempo. Se tra un anno tornassi, e avessi rigato dritto tutto il tempo, tu me la daresti una possibilità? Capisco che non puoi darmela adesso, e nemmeno promettermela, ma prometti almeno che ci penserai? Messa in questi termini è una proposta che si può dignitosamente accettare - specie se te la propone un pur baffuto Gregory Peck...
Un altro relativo pregio di KO Loaded è la disarmante sincerità. Infidels e Empire erano due dischi carichi di ambizioni, in parte giustificate in parte no. C'erano tentativi di suonare professionale, di suonare sofisticato, di suonare moderno. KO suona soltanto... suonato. È il disco di un tizio che di mestiere vende dischi e fa concerti, e prima di cominciare la stagione dei concerti deve fare uscire un disco: che sia ispirato o no. Voi andate tutti i giorni al lavoro ispirati? Dylan nel 1985/86 quasi mai. Il che non significa che non ci andasse: se uno mette in fila tutte le collaborazioni e le incisioni del periodo scopre che non stava fermo un attimo. Gli USA For Africa, il Live Aid, il Farm Aid, gli Artists United Against Apartheid fondati da "Little" Steven Van Zandt e prodotti da Arthur Baker (Dylan per la verità canta soltanto due versi, ma è stato carino da parte sua partecipare. C'era Miles Davis, i Run DMC, e nel disco c'era anche il primo vero pezzo blues degli U2, Silver and Gold, ma cantato da Bono con due amici d'eccezione tirati a lucido: Keith Richards e Ron Wood!) E poi sessioni con Dave Stewart degli Eurythmics, sessioni con gli Heartbreakers, con Al Kooper e T-Bone Burnett, sessioni con chiunque. A Cameron Crowe che lo intervistava per il libretto di Biograph aveva rivelato, con un certo sprezzo del pericolo, che stava accarezzando l'idea di pubblicare un disco di cover. È un'idea che lo aveva già portato al disastro nel 1970, ma forse chissà, col tempo aveva imparato a concentrarsi anche nel compito di interprete da studio, no?
No (continua sul Post).
A Dunkerque il cinema resiste
06-09-2017, 12:50cinema, Cosa vedere a Cuneo (e provincia) quando sei vivo, fb2020, guerra, memoria del 900PermalinkBon voyage. |
Nell'ultimo momento c'è chi si tappa le orecchie e chi prende la mira. |
Ogni sconfitta può sembrare una vittoria, se la inquadri nel modo giusto. Il desiderio condiviso, e comprensibile, di salutare in Dunkirk il film dell'anno, è il rovescio di una constatazione amara: non è che ci siano tutti questi capolavori in giro per le sale ultimamente... (continua su +eventi!) Sia Hollywood che il cinema d'autore europeo sembrano navigare a vista, mentre le corazzate della serialità televisiva dilagano nel bacino dei giovani spettatori (quelli che se non si fanno una sensibilità cinematografica adesso, tra cinque anni in sala non verranno più: o al massimo per vedere la maxipuntata di un prodotto seriale come un cinecomic). Dunkirk è, tra le altre cose, un disperato manifesto di vitalità del cinema: non tanto per il feticismo della pellicola 70mm, ma per la sintassi così orgogliosamente antitelevisiva. In questo ricorda un film apparentemente diversissimo, Gravity: si tratta di due film brevi, senza tempi morti, che chiedono allo spettatore una specie di apnea: fai un bel respiro e ci risentiamo tra un'ora e mezza. Nolan ci promette lacrime, sudore e sangue (in realtà pochissimo), ma ci dice che la tv non è invincibile, che il cinema resisterà, perché c'è qualcosa che soltanto il cinema può fare.
Sangue e nafta |
Aspettando il re, trovando una mamma
30-08-2017, 02:1821tw, cinema, Cosa vedere a Cuneo (e provincia) quando sei vivo, fb2020PermalinkUn giorno potresti ritrovarti a vivere in una baracca dall'altra parte del mondo.
Un giorno potresti ritrovarti dietro il volante di un'enorme automobile, in una bella casa, con una bella moglie.
Un giorno potresti chiederti: ma come ci sono arrivato?
Certi film - li riconoscevi dalla locandina - servivano soprattutto a viaggiare. Per il pubblico si trattava di un'alternativa low budget a viaggi veri che non si poteva permettere: film-safari con zebre e rinoceronti e selvaggi. Certi film funzionavano così. Aspettando il re sembra voler perpetuare la tradizione, individuando in Tom Hanks l'Homo Occidentalis per eccellenza, in perenne crisi esistenziale ed economica, e calandolo in una delle mete turistiche tuttora più difficili per gli occidentali: l'Arabia Saudita (ricostruita in Egitto). La prima scena dice tutto: unico non-musulmano su un aereo di linea, mentre gli altri pregano il loro Dio Hanks sogna di vivere nel video di Once in a Lifetime, Talking Heads. Lo seguiremo in un albergo, nel fatiscente cantiere di un nuovo polo tecnologico che è ovviamente un luogo di smarrimento metafisico oltre che una metafora delle vacue velleità delle dinastie dei petrodollari. Insieme a lui cercheremo di capire come si può passare anche solo qualche giorno in un Paese in cui in teoria è vietato bere alcool; grazie a lui daremo una sbirciatina alle festicciole delle ambasciate europee e addirittura riusciremo per qualche istante a intrufolarci alla Mecca, città proibita agli infedeli. Non ci capiremo un granché, proprio come succede ai turisti veri, ma alla fine ci sentiremo comunque arricchiti. Non troveremo Dio ma magari l'amore (caccia via), proprio come in quei vecchi film con gli esploratori biondi e le dive un po' esotiche. Quest'ultima cosa magari non era prevista nell'omonimo libro di Dave Eggers, ma evidentemente lo sceneggiatore e regista Tom Tykwer ne sentiva l'esigenza.
Vogliamo anche ricordare come avevano conciato Tom Hanks in Cloud Atlas. |
La storia del manager in trasferta, oberato dai sensi di colpa per aver collaborato alla delocalizzazione e allo smantellamento del Made in USA, sembrava già un po' datata quando uscì il libro - cinque anni fa: ora, con la disoccupazione statunitense in costante calo, suona sinistramente affine a certe tirate elettorali di Trump. All'angoscia vagamente beckettiana evocata da Eggers, Tykwer sovrappone la sensibilità paranoide che ha mutuato dalle sorelle Wachowski; in un paesaggio che è già surreale di suo, tra deserti e grattacieli, non serve molto per suggerire che il venditore di ologrammi Hanks sia vittima di un gigantesco scherzo, un meta-ologramma. Ma chi si aspetta un finale sconvolgente e rivelatore si prepara a una delusione: a un certo punto è come se sulla sceneggiatura fosse caduto un po' di zucchero, se non un'intera zuccheriera. Tykwer sembra sinceramente preoccupato non soltanto per il suo protagonista stanco e disperato, ma per tutti i cinquantenni che lo hanno seguito per più di un'ora, condividendone ansie e disagi a dire la verità più americani che universali (il college della figlia, status irrinunciabile!)
Alla fine non si tratta più di portare in viaggio gli spettatori, ma di confortarli: quella cisti non è necessariamente un tumore, quell'affanno è più panico che infarto; gli affari possono andare male, non è la fine del mondo: e anche i matrimoni, ma se guardi bene da qualche parte c'è già qualcuno disposto a medicarti e consolarti. È un film che in sostanza smette di guardarsi intorno e comincia a cercare la mamma: ma almeno la trova incarnata nelle forme antihollywoodiane di Sarita Choudhury. Vent'anni fa era la Tara di Kamasutra: oggi ne ha cinquanta, è una bellissima signora e non è affatto difficile capire perché l'uomo-Tom Hanks si senta attratto da lei. Quello che alla fine della visione rimane non spiegato è cosa possa aver trovato lei in un americano spaurito e senza direzione. Nei film di una volta sarebbe stata una domanda inutile: l'uomo bianco era affascinante in quanto bianco. Aspettando il re è al cinema Monviso di Cuneo da giovedì 31 agosto a martedì 5 settembre alle 21.
Charlize Theron pesta Berlino
22-08-2017, 00:3721tw, cinema, Cosa vedere a Cuneo (e provincia) quando sei vivo, fb2020, nostalgia, OttantaPermalinkChe cast però. |
Speriamo sia make up. |
L'ufficio stampa ci aveva preventivamente spiegato che la Theron, mentre si allenava a incassare sul set, "vomitava praticamente tutti i giorni", che a un certo punto ha perso un dente. Atomica Bionda è un progetto suo: è stata la sua società di produzione a scegliere la graphic novel, a farla riscrivere su misura (la protagonista del fumetto non era nemmeno bionda), a convincere il secondo regista di John Wick ad abbandonare John Wick 2 per girare un film non così diverso. Atomica Bionda è un film voluto, interpretato e scolpito a mani nude sulla carne viva da Charlize Theron, e la cosa non avrebbe dovuto stupirmi così tanto - se solo riuscissi a liberarmi dalla mia prediletta immagine mentale della Theron, che è ancora quella della bambolona riccioluta che sta con Keanu Reeves all'inizio dell'Avvocato del diavolo; se almeno riuscissi a ricordare che la stessa bambolona, in quello stesso film, si trasformava in qualcosa di totalmente diverso, un corpo già slavato e dolente - allora potrei rendermi conto che Atomica Bionda non è semplicemente il film dell'ennesimo divo/a che passata la soglia dei 40 anni (50 per i maschi) si mette a cercare nei ruoli action una seconda giovinezza: che è anche il punto di arrivo coerente di un'attrice che ha sempre lavorato sul proprio corpo, riempiendolo e svuotandolo, rompendolo e riparandolo (continua su +eventi!)
Queste cose nei miei anni Ottanta non si vedevano! (maledizione). |
Ignoranti e felici, il film
14-08-2017, 03:0521tw, blog, cinema, Cosa vedere a Cuneo (e provincia) quando sei vivo, fb2020, film italiani bruttini, internetPermalinkRiuscireste a vivere due mesi senza connessioni internet? Sì, ma sarebbe un po' scomodo. Se non aveste mai usato internet, riuscireste a diventarne dipendenti nel giro di una settimana? È abbastanza improbabile. Ve li immaginate Giallini e Gassman professori di liceo, uno tecnopatico e l'altro entusiasta digitale, che si scambiano i ruoli? Uhm, in realtà no. Ecco, beh, non ci sono riusciti neanche gli sceneggiatori di Beata ignoranza: non esattamente gli ultimi arrivati, eppure.
In questi giorni sulla mia bacheca Facebook non fanno che parlare di Sarahah. Da quel che ho capito si tratta di un social network che ti consente di ricevere e mandare messaggi anonimi agli altri utenti. Lo ripeto perché secondo me è fortissimo: in questi giorni stanno tutti provando un nuovo servizio on line che - straordinaria novità! - ti fa sentire l'ebrezza di ricevere e mandare messaggi anonimi. Sono quelle cose che mi fanno sentire decrepito, perché mi ricordo ancora bene quando tutta internet era così, un posto di anonimi che si mandavano messaggi (l'anno scorso Facebook mi ha sospeso perché il mio secondo nome non gli risultava) (in effetti il mio secondo nome, tra Leonardo e il mio cognome, era Blogspot, e finché non l'ho cancellato non mi ha riaperto l'account, che evidentemente deve combaciare con quello che risulta all'anagrafe, il che è abbastanza inquietante: avrei potuto sbattere la porta e andarmene, ma la verità è che senza il mio account Facebook ormai farei persino fatica a lavorare) (sì, a lavorare a scuola).
La vignetta più riprodotta del New Yorker è del 1993. Dice: "Su internet, nessuno sa che sei un cane". |
È un film veramente strano. Sembra essere stato masticato, risputato e rimesso nel vassoio da un cameriere impassibile - che purtroppo è Massimiliano Bruno, da cui sembra ovvio aspettarsi di più. Per dire: tutto comincia con una scena in cui Gassman e Giallini litigano in classe - davanti ai loro studenti! che riprendono tutto col cellulare! Dovrebbe essere lo snodo fondamentale, la crisi da cui scaturisce tutta la storia, epperò in quel momento i due attori principali non sono credibili. Si prendono a male parole, ma c'è qualcosa che stona ed è strano, è chiaro che nessuno dei due è Lawrence Olivier, ma qui sono davvero al di sotto dei loro standard professionali. Più tardi scopriremo che l'effetto era voluto: non stanno litigando davvero, bensì stanno rimettendo in scena un loro litigio precedente; cioè stanno recitando nel ruolo di due attori. Ma non sono bravi attori - cioè, no, Giallini e Gassman sono ottimi attori, ma i loro personaggi no, sono due ex filodrammatici, insomma se uno ha la pazienza di aspettare 80 minuti scopre che all'inizio stavano recitando bene il ruolo di chi recita male. Il problema è che al cinema è anche una questione di imprinting: se tu all'inizio vedi dei cani, ci resti male, e la tua voglia di dare una chance al film ne risente.
Da quel litigio parte la scommessa: Gassman deve rinunciare a smartphone e adsl, Giallini deve cominciare a usarli. Ora non importa tanto che lo sforzo degli autori di rendere una sfida del genere credibile porti viceversa il film nel Reame del Più Contorto Inverosimile (la figlia di uno dei due, non è chiaro di quale, fa la regista! e decide di fare un documentario sulla sfida! Appassionante, no?) Il guaio è che appunto il film sembra scritto da qualcuno che si è disintossicato da internet una decina di anni fa e da allora lo guarda un po' da lontano, con sospetto, come i vegani trascinati in un ristorante di pesce. C'è un preside tutto orgoglioso perché il suo liceo è diventato "smart" grazie all'adozione del registro elettronico! Che roba, eh? Peccato che il registro elettronico sia obbligatorio in tutte le scuole pubbliche da un paio d'anni. Ma più in generale: quali sono le cose che facciamo quotidianamente, oggi, grazie a internet? Le prime che mi vengono in mente: usiamo le mappe stradali. Recensiamo qualsiasi cosa. Manteniamo i contatti con gente che avremmo perso di vista da un pezzo. Incontriamo gente che non avremmo mai potuto conoscere, con la quale condividiamo interessi. Possiamo lavorare a Ferragosto, anche se siamo al mare, come sto facendo io. E i giovani, mi dicono, guardano molto più porno (continua su +eventi...)
Giallini non consulta mappe, porno men che meno, non compra né vende né scrive recensioni (si prende solo venti secondi per stroncare Tripadvisor in toto), non riallaccia nessun contatto, non si pone neanche il problema di come usare internet nel suo ambito professionale. Però si mette a giocare con un suo allievo ripetente a uno sparatutto per playstation. Da professore a gamer in punto in bianco... e va bene, le commedie esagerano. Che altro fa? Corteggia una sua collega... con un nick anonimo. Nel 2017. Non so. È come usare la macchina per attraversare la strada. Se non avessi mai usato facebook, qual è la prima cosa che farei? Storicamente, un sacco di gente cercava gli ex compagni del liceo, e poi è restata perché ha trovato vecchi amici e se ne fa di nuovi. Non sarebbe stato più credibile che Giallini si mettesse a cercare vecchie fiamme, o scoprisse anime gemelle a migliaia di chilometri di distanza? Devi usare facebook per scrivere i bigliettini? Qualcuno lo usa ancora così?
Secondo me no, ma forse non ha nemmeno così senso discuterne. Credo che i primi ad aver capito che la premessa non funzionava sono stati gli stessi autori, che probabilmente hanno riprovato a riscriverlo, a ritagliarlo, a rimontarlo, e poi forse c'era una scadenza in ballo e semplicemente hanno lasciato che Giallini e Gassman gigionassero a piacere, in barba a qualsiasi vaga pretesa di verosimiglianza (si odiano da una vita, non si vedono da 25 anni e al primo problema uno ospita l'altro in casa). Il risultato è un film molto più borisiano di Boris - o magari dello stesso genere del film nel film di Boris, Natale con la Casta: ci sono sequenze quasi surreali, a volte anche molto sofisticate, che portano avanti una trama risibile; situazioni drammatiche ai limiti della tragedia e oltre buttate lì come se fossero gag da cartone animato (a un certo punto esplode una casa); siparietti scolastici che in qualsiasi scuola vera provocherebbero ispezioni e licenziamenti (nella scuola di Beata ignoranza è prassi comune schiaffeggiare gli studenti); c'è persino lo spettro di una defunta moglie amante e madre interpretata proprio da Carolina Crescentini, icona di Boris. Ci sono, soprattutto, un paio di caratteristi che si fanno le canne dall'inizio alla fine del film, il che non è affatto inverosimile, anzi, ma assume un senso preciso nel momento in cui ci rendiamo conto che in realtà sono i due personaggi più lucidi: come se il film fosse visto secondo il loro punto di vista e probabilmente è andata davvero così. Probabilmente c'era un'idea interessante che stava evolvendosi in un film inutile, una scadenza importante che cominciava a mettere ansia, qualcuno che aveva parecchia maria in casa e ha iniziato a distribuirne, e così insomma alla fine ne è uscito un film un po' così. Però simpatico. Gli attori sono molto simpatici. Non si capisce nemmeno chi vince la scommessa, cioè si capisce che la scommessa non era così importante, l'importante è voler bene a chi ami anche se non fa sempre figli con te. Inoltre farsi le canne è meglio che andare su facebook, e vabbe', non è il messaggio più reazionario del mondo in fin dei conti. Dai dai dai.
Beata ignoranza si può vedere gratis a Bra il 17 agosto in via Sobrero, alle 21:30, in occasione della Rassegna itinerante di cinema d'autore. Altrimenti il 25 agosto a Limone Piemonte (ore 21:15). Oppure su Youtube a partire da €3,99.
Uno psicanalista a Roma (un altro)
08-08-2017, 18:0521tw, cinema, Cosa vedere a Cuneo (e provincia) quando sei vivo, ebraismo, fb2020PermalinkLasciati andare (Woody Allen, 2016)
Elia Venezia (Toni Servillo) è uno psicanalista che ha bisogno di perdere chili. Claudia (Verónica Echegui) è una personal trainer che ha bisogno di mettere ordine nella propria vita, ma che non può evitare di sconvolgere quelle di chi incontra. Se fosse un film, non potrebbero che incrociarsi. Ah, ma è davvero un film! E di Woody Allen! Di nuovo a Roma, stavolta nella magica cornice del Ghetto! Una commedia che è una sarabanda di trovate, dove si riflette ma si ride anche a crepapelle, e finalmente si rivede in forma il Maestro! Magari, in realtà no.
Lasciati andare (Francesco Amato, 2016)
Francesco Amato ha diretto tre film in dieci anni. Il primo (Ma che ci faccio qui!) era la storia fresca, sorprendente, di un ragazzo che scappa da Roma per fare il giro del mondo ma si ferma alla prima spiaggia; il secondo (Cosimo e Nicole) è la storia fresca, sorprendente, di due ragazzi che si incontrano al G8 di Genova e di quel che combinano in seguito. Lasciati andare è il suo terzo film ed è una delle commedie italiane migliori dell'anno. Però non è fresca, né sorprendente.
Francesco Bruni è lo sceneggiatore storico di Calopresti e soprattutto di Paolo Virzì, passato alla regia con Scialla, Noi 4 e Tutto quello che vuoi. Nel 2016 ha scritto, con Francesco Amato e Davide Lantieri, Lasciati andare. È esagerato affermare che da una squadra di autori del genere potevamo aspettarci di più di una commedia che, in effetti, gira che è un piacere ed è divertente il giusto, ma sembra approfittare di qualsiasi luogo comune cinematografico e narrativo che incontri sulla strada? Non bastava trasformare Servillo in un sosia di Freud che consiglia best-seller e ipnotizza i pazienti; bisognava anche affiancargli la pur brava Verónica Echegui nel ruolo della classica Manic Pixie Dream Girl, quel personaggio femminile che esiste soltanto nelle sceneggiature e ha il preciso scopo di dare una scossa al personaggio maschile? E se la scelta di ambientare la storia nel Ghetto era almeno qualcosa di originale, valeva proprio la pena caratterizzare il protagonista come uno spilorcio? Ma in generale: oltre allo psicanalista freudiano-quindi-ebreo-quindi-avaro, abbiamo una personal trainer solare e un po' pazza, e infatti spagnola; un capoverdiano che vende il fumo, un brutto ceffo dal coltello facile e l'accento balcanico, un lombardo carrierista e antipatico (Giacomo di Aldo Giovanni e Giacomo) e... un centravanti un po' scugnizzo e criptogay - questo a ben vedere è un luogo comune invertito, ormai banale quanto il luogo comune normale. L'unica scelta un po' originale è il rapinatore balbuziente di Luca Marinelli, che compare soltanto nel terzo atto e non a caso si porta a casa il film. E tuttavia.
Tuttavia alla fine Lasciati andare è un film divertente; Servillo è in forma (e non è meno macchietta che in altri prodotti più blasonati), la Echegui è davvero in parte, la storia è un po' prevedibile ma funziona. Forse il vero test per una commedia del genere sarebbe quello di Woody Allen: ovvero immaginare che cosa direbbero i critici di un film come Lasciati Andare se lo avesse girato lui. Secondo me sarebbero entusiasti. È vero, psicanalista e pazienti sembrerebbero quelli delle vignette, ma non è sempre stato così con Allen? È vero, più che spiazzare gli spettatori la storia sembra andare incontro alle loro attese, ma non è il tratto tipico di tanti film dell'ultimo Allen? La principale differenza è che Lasciati Andare si sarebbe visto in molte più sale e avrebbe incassato assai di più. Lo si può rivedere comunque a Cherasco venerdì 11 agosto, al cortile di Palazzo Gotti di Salerano (ore 21:30); l'ingresso è gratuito e il regista sarà ospite! Altrimenti venerdì 18 e venerdì 25 agosto alle 21:00 al cinema Sangiacomo di Roburent.
Spiderman è tornato alla Casa
01-08-2017, 14:0221tw, cinema, Cosa vedere a Cuneo (e provincia) quando sei vivo, fb2020, fumetti, mitiPermalinkSpider-Man: Homecoming (Jon Watts, 2017)
C'era una volta un supereroe così smagliante, così perfetto, che volle sfidare Atena: vediamo chi tesse la storia più avvincente. Invano Atena cercò di ricordargli i precedenti: guarda che chi sfida gli Dei casca malissimo. Eh ma io non casco mai! disse il supereroe, è impossibile! E fu proprio così. Quando vide la sua storia, Atena strabuzzò i suoi larghi occhi: era la migliore mai tessuta, persino le Parche in tanti eoni non avevano mai concepito roba del genere. E tuttavia chi sfida gli Dei va punito: pertanto Atena condannò il supereroe a rivivere quella storia per sempre. Ogni cinque, massimo ogni dieci anni, un narratore o una major cinematografica lo avrebbero fatto ricominciare da zero: di nuovo si sarebbe trovato in quel laboratorio di chimica e sarebbe stato morsicato da un ragno radioattivo, e suo zio sarebbe morto assassinato eccetera eccetera, nei secoli dei secoli dei secoli. Hai scritto la storia migliore? Non te ne libererai mai.
Non è Octopus e non è Venom; non è nessuno dei trentadue goblin. Non è J. J. Jameson (che ci manca tantissimo, torna JJJ). Il peggior nemico dell'Uomo Ragno, da sempre, è sé stesso. No, non il suo clone (ma è indicativo che nessun altro supereroe abbia avuto tanti problemi coi cloni). Proprio sé stesso. Il suo essere, banalmente, il miglior supereroe possibile. Quello che salta tra i grattacieli e schizza ragnatele: non ce n'è uno più spettacolare di lui, né sulla carta né sullo schermo. Se ci fosse lo sapremmo, perché è da mezzo secolo che ci provano. Spidey piace perché è un insetto? Hanno provato con qualsiasi altro insetto. O forse piace perché è un ragazzino? Hanno provato con tanti altri ragazzini. Sarà l'ironia? Abbiamo avuto ondate di supereroi ironici, ma niente da fare. Abbiamo avuto anche un milione di variazioni sul tema: dozzine di Donne Ragno e Uomini Ragno potenziati. Ultimamente va forte uno Spiderman nero - per dire, la gente che si lamenta che Zia May nel film è troppo giovane, li legge i fumetti? Lo sa che nei fumetti esistono Zie May giovani, Spidermen neri, Peter Parker in pensione? Per dire che le hanno provate veramente tutte. Niente.
Non riescono a cambiare nemmeno il costume. Steve Ditko lo inventò nel 1963, e in capo a un anno si era già stancato di disegnarci le ragnatele. Hanno provato a semplificarlo, a renderlo più d'impatto: niente da fare. Alcuni costumi di Spiderman sono diventati dei personaggi a sé, ma Spidey resta rosso e blu. Ormai quando prova a cambiare costume lo sai già, che è solo una finta per far impazzire i lettori.
The Amazing Spider Man, #1 Annual |
Il peggior nemico di Peter Parker non è Elektro e non è senz'altro l'Avvoltoio, quel poveraccio. Il peggior nemico di Spiderman è il suo successo. Il suo creatore pensava a un supereroe con superproblemi, ma come fai a essere credibile se qualsiasi tua versione va a ruba, il tuo merchandising è una solida certezza, e al cinema vorrebbero farti un film all'anno? Come fai a sembrare fresco come un teenager, dopo cinquant'anni di produzione industriale? Come fai a ripresentarti dopo 15 anni e cinque film e dire, ehi, azzeriamo tutto per la terza volta, sono di nuovo un semplice liceale che scopre di restare attaccato ai muri?
Ma soprattutto: come fa la Marvel a non sbagliare un colpo? A riprendere un eroe oggettivamente un po’ consumato – gli ultimi due episodi Sony non erano andati benissimo – e a ridargli vita come se fosse un concetto appena inventato? Come fa a inserirlo in una saga cinematografica già pesante e sfaccettata come quella degli Avengers, riuscendo però a suggerire forte e chiaro il messaggio che Spiderman sarà sempre un’altra cosa, una cosa un po’ a parte (una dinamica non troppo diversa da quella dello Spidey originale coi Fantastici Quattro)? Ammettiamolo, è un po’ irritante il modo in cui la Marvel sembra sempre arrivare al risultato – e senza darci nemmeno la consolazione di gridare al colpo di genio, perché non c’è niente di geniale in Homecoming: c’è solo il lavoro di squadra di un pool di sceneggiatori che sa fare il suo mestiere e non disprezza il suo pubblico. Uno degli aspetti più appariscenti dell’operazione – il ringiovanimento di Zia May – sembra alla fine più un trucco per attirare un po’ di polemica fine a sé stessa: Marisa Tomei è ovviamente perfetta, ma è dosata con il contagocce. Una trovata brillante è quella di riassumere la puntata precedente (il siparietto di Spidey in Civil War) con la sintassi di Youtube. Nota l’abissale differenza con Suicide Squad e la sua mezz’ora di preambolo in formato trailer: mentre la Warner tratta gli adolescenti come bimbominchia a cui somministrare riassuntini, Homecoming si pone il problema di capire come si raccontano, oggi, i liceali: con quali mezzi, con quali risultati. Perché ogni generazione ha le sue differenze, anche se a una certa distanza non sembrano un po’ granché, se lavori per loro queste differenze sono importanti. La Marvel lo sa, ma non si dimentica nemmeno tutti i quaranta-cinquantenni che continuano imperterriti a entrare al cinema a vedersi i suoi film. Quelli che forse non avevano più voglia di vedere per l’ennesima volta lo zio Ben morire, ma a tante altre cose non saprebbero rinunciare.
E la Marvel gliele dà. C’è una breve scena – quella dell’ascensore – che dà le vertigini per la quantità di riferimenti che contiene in pochi secondi. Quando vediamo l’inesperto Spiderman tentare il salvataggio della sua bella che precipita, non possiamo non pensare a Gwen Stacy. Quando un attimo dopo si trovano tête-à-tête – lui ovviamente in posizione invertita – qualcuno sussurra “baciala” e non possiamo non pensare a Tobey Maguire e Kirsten Dunst. Non sono inutili strizzate d’occhio: la scena è spettacolare e funziona, probabilmente, anche per chi tutti questi precedenti non li conosce; ma chi ha già qualche dimestichezza con Spidey si sentirà più in ansia quando Liz cade; e sta già dicendo “baciala” prima che si senta forte e chiaro. Se Spidey è condannato a rivivere la stessa storia ogni tot anni, noi possiamo ogni volta trovarci a nostro agio e scoprire qualcosa di più, qualcosa di meglio. È questa semplice, banale cosa che alla Marvel hanno capito. Forse perché a cucinare gli stessi personaggi da cinquant’anni ci sono abituati. Homecoming non è un capolavoro – nemmeno ci prova: si ferma di fronte a certi punti fermi quasi con riverenza: costruisce una scena notevole come quella del traghetto che sembra fatta apposta per farti pensare: non sono ancora lo Spiderman di Raimi che salvava quel treno sul binario sospeso e poi veniva salvato dai passeggeri; ma sto crescendo, dammi il tempo di fare i miei disastri e vedrai.
Anche se la trovata migliore del film resta il riscatto dell’Avvoltoio. Michael Keaton trasforma uno dei personaggi più patetici dell’universo Marvel – la tipica invenzione che Stan Lee poteva buttar giù in cinque minuti al gabinetto – un antieroe spaventosamente simpatico, che ha quasi il compito di mettersi tra noi genitori e Spidey: non provateci neanche, dice Keaton, i giorni in cui vi potevate immedesimarvi in un Tobey Maguire sono finiti. Oggi voi somigliate a me. Vi sentite presi a pugni dal sistema e fareste qualsiasi crimine per garantire ai vostri figli un futuro migliore. Keaton non ruba il film al suo eroe – la Marvel è troppo sgamata per commettere un errore del genere – ma è il primo villain della Casa che avremmo voglia di rivedere in un sequel. E se le cose vanno così non dovremo nemmeno aspettare molto. Nel frattempo Spiderman: Homecoming è ancora al Cinelandia di Borgo San Dalmazzo (20:30, 22:00), al Fiamma di Cuneo (21:10) e al Multilanghe di Dogliani (21:30).
Il destino è già scritto (ma è comunque un casino)
18-07-2017, 12:3321tw, cinema, Cosa vedere a Cuneo (e provincia) quando sei vivo, fb2020Permalink2:22 - Il destino è già scritto (2:22, Paul Currie, 2017).
Quanti aeroplani atterrano e decollano da New York in un giorno? Quanti incidenti avvengono negli incroci di Manhattan? Quanta gente si è sparata alla stazione Grand Central, se non dal vero almeno nei film? Quante stelle esplodono ogni giorno nella galassia? E se dietro tutti questi avvenimenti ci fosse uno schema? Non sarebbe comunque uno schema troppo complicato?
Dylan Boyd (Michiel Huisman) è un controllore di volo al JFK, con la mania dei pattern. Dietro a ogni avvenimento quotidiano ha sempre la sensazione di intravedere un pattern. Non uno schema, non un disegno; la versione doppiata dice proprio così: pattern. Si vede che era intraducibile, boh. Boyd li vede dappertutto. Infatti a un certo punto un suo collega gli ricorda: ehi, lo sai come chiamano quelli che vedono i pattern?
Grand Central ha già qualcosa di metafisico. |
Al che Boyd sbuffa, cambia argomento, ma l'interrogativo rimane: come si chiamano? Googlando poi a casa ho scoperto che si tratta di Apofenia; che è un'ossessione assai affine alla Pareidolia (questa la conoscevo), e che è tipica di chi è portato a notare le coincidenze ma non a considerarle davvero coincidenze, bensì parte di uno schema, un disegno, insomma un pattern. E dunque, così come ogni buon thriller sin dai tempi di Hitchcock è incentrato su una psicosi; se per dire Babadook era un film sulla depressione post-partum (e in generale sulla sindrome dell'impostore di molte madri), Get Out sull'invidia etnica... 2:22 è un film sull'apofenia. La stessa sindrome che a mezza estate mi fa andare per cinema a cercare qualche film un po' irregolare, qualcosa che mi dia un certo tipo di brivido ma che mi faccia anche pensare, alla Predestination: film che assomiglino a puntate lunghe di Ai confini della realtà: ma ho la sensazione che si stiano facendo sempre più rari. È un peccato, perché io in questo periodo dell'anno ho proprio bisogno di vedere cose del genere. Non so perché, sarà un pattern...
Lei si chiama Teresa Palmer e spero di rivederla in film più interessanti. |
2:22 è al Cinelandia di Borgo San Dalmazzo (20:30, 22:40), al Fiamma di Cuneo (21:10) e all'Italia di Saluzzo (20:00): sconsigliato a chi ha paura di volare.
La mummia contro Tom Cruise
05-07-2017, 03:5421tw, cinema, Cosa vedere a Cuneo (e provincia) quando sei vivo, fb2020, invecchiare, mitiPermalink"Tom Cruise, la MUMMIA" (ma solo io ci sento l'ironia?) |
"Salute a te, divino Mapother Quarto".
"Chiamami pure Tom, come butta?"
"Senti, io rappresento l'Universal, sai, quelli che hanno i diritti dei mostri classici".
"Volevate fare un film su di me?"
"...non proprio, no, volevamo fare un film in cui tu affronti un mostro classico".
"Perché, io non sono un mostro classico?"
"N-non ancora".
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Alex Kurtzman ha detto di aver scelto Sofia Boutella per gli occhi; che non importa quanti effetti e computergrafica ci sarebbe stata intorno: il pubblico l'avrebbe guardata negli occhi. È una cosa molto bella da dire ed è persino un po' vera. La Boutella è una mummia struggente; per quanto crudele, riesce in un qualche modo a farti empatizzare - in pratica, riesce a soggiogarti. Tinta di blu, avvolta in cartapecora, truccata da cadavere, sembra comunque più umana di Thomas Cruise Mapother IV, Tom Cruise per i mortali.
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"Hai ucciso tuo padre!"
"Sì però lo amavo. Volevo che mi ammirasse".
"Hai ucciso sua moglie... e il bambino!"
"Erano tempi diversi".
(Come fate a riconoscere un vero mostro? A uccidere i bambini sono tutti buoni, ma il vero mostro si giustifica col relativismo culturale).
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No, adesso, sinceramente: secondo voi come andrà a finire con Tom Cruise? Perché un giorno o l'altro dovrà finire. Come la civiltà. Spero un po' prima. Cioè non ho niente contro Tom Cruise, davvero, grande attore e personaggio - però a un certo punto bisognerà porsi il problema: può invecchiare? Ne è in grado? E noi possiamo accettarlo? Internet dice che ha 55 anni (non mi fido. Se c'è qualcuno che potrebbe davvero mandare in giro un esercito di zombie a levargli gli anni su tutti i siti internet del mondo, costui è Tom Cruise). In questo film interpreta un tizio che potrebbe averne al massimo 35. Al massimo. E mi chiedo: è mai successo? che un attore interpretasse un tizio di 20 anni più giovane? Sì, ovviamente. In un altro film di Tom Cruise. Ma a parte lui? C'è Brad Pitt. Anche Brad Pitt, in Allied, sembrava un po' troppo tirato (che era poi il suo modo di sembrare la cosa più umana di Allied). Però ormai Pitt il massimo che fa è sparare ai nazisti - una cosa che è già un po' old-fashioned di suo; Cruise continua a fare lo stuntman di sé stesso e in questo film, per esempio, ha voluto una scena in cui recita in assenza di gravità. Galleggia in un aereo che precipita. Non è una scena incredibile, se non sai che l'hanno girata veramente in quel modo. Ormai col digitale si può fare di tutto e così non è che ti si cada la mascella, mentre Tom e la Bella in Pericolo rotolano dentro la fusoliera. C'era senz'altro un modo meno pericoloso di girarla, ma a Tom piaceva così. È il suo modo di dirci Sono Immortale?
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Se la civiltà non finisce (e spero proprio di no, non vedo alternative interessanti) a un certo punto gli storici del cinema si troveranno davanti, ci pensate? trecento, quattrocento anni di immaginario sedimentato(continua su +eventi!). Chissà se degneranno di qualche interesse Guerre Stellari, chissà in quanti riterranno interessante scavare sul fondo per cercare tutti i resti del Marvel Cinematic Universe. La Mummia ha più chance. Lo so che sembra intollerabile e ingiusto, ma parliamo di un concetto che al cinema ha già 80 anni; parliamo di Boris Karloff. Di saghe sulla Mummia la Universal ne ha prodotte già tre o quattro e non c'è motivo per cui non debba continuare finché al pubblico continueranno a interessare i cadaveri male imbalsamati nelle tombe egizie, cioè... per sempre. Anche i cross-over non sono questa novità. La Mummia contro Dr Jeckyll? Al cinema queste cose si son sempre fatte. Gli Zombie della Mummia contro Gli Uomini in Nero del Dr Jeckyll? Perché no. Gli Zombie della Mummia contro Tom Cruise? Interessante, diranno i cinefili del futuro. Quando uscì, la Mummia era una specie di archetipo dell'inconscio collettivo, mentre Tom Cruise era ancora considerato un attore in carne e ossa. Secondo alcuni era davvero in carne e ossa; abbiamo persino i video in cui fa gli stunt più pericolosi; ma c'è da dire che nello stesso periodo cominciava ad andare in voga il ringiovanimento digitale dei divi di Hollywood, e quindi è difficile capire quanto ci fosse ancora del vero Tom Cruise in quello che poi è diventato a tutti gli effetti un franchise a sé (nel 2317 al cinema c'è Tom Cruise contro Gozzilla) (Gozzilla è animato da un algoritmo sofisticato che riproduce i passi dell'automa gigante del mitico film del 2287 il quale a sua volta era animato da un software che imitava le mosse dei vecchi pupazzi in stop-motion) (Tom Cruise invece è davvero lui in carne e ossa, anche se nessuno ci crede: da decenni sono tutti convinti che si tratti di un clone-bot e nessuno fa caso ai casi di vergini morsicate sul collo nei dintorni del set).
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Non dico che valga il biglietto, ma a un certo punto Tom Cruise e Russell Crowe si menano. Per dire quanto ci credeva l'Universal nel progetto.
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La Mummia somiglia un po' alla Lega degli Uomini Straordinari: prendiamo i vecchi mostri gotici dell'Ottocento e li rimontiamo con le logiche della continuity dei fumetti contemporanei. Purtroppo di Alan Moore ce n'è uno solo (e neanche tutto). Moore è un folle, un visionario, ma è anche uno sceneggiatore di buon senso, ad esempio: ok, mettiamoci pure la continuity contemporanea: ma se sono mostri dell'Ottocento devono restare nell'Ottocento. Il loro fascino sta lì. Il fantastico ha bisogno di un Altrove, di un orizzonte diverso dal nostro per svilupparsi, e l'Ottocento è un Altrove perfetto. Ma Kurtzman la sa lunga. Ti piazza un dottor Jeckyll contemporaneo. Ma se togli l'Ottocento al dottor Jeckyll ti rimane un bipolare qualsiasi - non proprio la persona che dovrebbe dirigere l'Agenzia contro il Male Universale. In effetti basta che il primo arrivato gli levi la siringona di mano e patatrac, tutto a carte e quarantotto.
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A proposito di Guerre Stellari: la lavorazione del prequel sul giovane Han Solo ha riaperto il dibattito: ma esiste un giovane erede di Harrison Ford? Uno che potrebbe mangiarsi la scena sia in un'astronave-cargo, sia in un tempio maledetto, un figlio di buona donna col grilletto facile e la battuta pronta? Io! (sussurra la Creatura nella cripta). Io sono l'Erede di Harrison Ford! Datemi un frustino, mortali, e tremate!
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La Mummia somiglia ovviamente ai cinefumetti, che invece ambientano il fantastico in un setting contemporaneo (tranne alcune eccezioni suggestive, come Wonder Woman). Questo spesso causa corti circuiti interessanti: ad esempio è sempre più difficile commettere disastri nei cinefumetti. Prendi un grattacielo: hai presente quanti grattacieli finti cascavano nei vecchi film di mostri? Ordinaria amministrazione. Il pubblico andava in sollucchero, non è che si mettessero a pensare a tutte le vittime - tanto si sa che è un grattacielo di cartone. Ma il grattacielo del cinefumetto contemporaneo sembra un grattacielo vero. Non è solo una questione di effetti speciali; è che i cinefumetti spingono sul realismo, vogliono stupirti portando uomini incredibili nel nostro mondo - ma nel mostro mondo se casca un grattacielo ci sono migliaia di vittime, è una cosa orribile. La Mummia ha rinunciato alla confortevole ambientazione ottocentesca per ottenere gli stessi effetti di un cinecomic, ma il risultato è che abbiamo un primo atto in cui l'Iraq odierno viene descritto come un allegro far west dove se i pistoleri locali esagerano nell'assediarti puoi sempre chiedere un intervento aereo. Poi arriviamo a Londra, dove per fortuna c'è un po' di bruma e, i grattacieli e... non ce ne frega niente. Sul serio. C'è una tempesta di sabbia davvero ben congegnata e assolutamente scenografica, ma non ti viene nemmeno per un attimo il pensiero per i poveri londinesi soffocati. È una Londra completamente finta, minacciata da un Male che non riesci a prendere sul serio nemmeno per un istante. La Mummia somiglia anche a un altro sfortunato blackbuster estivo di qualche anno fa, War World Z: in entrambi i film si registra il tentativo di ripulire un po' gli zombie, di renderli meno spaventosi, più pop, meno vietati ai minori. Forse quelli della Mummia sono un filo più paurosi di quelli di WWZ, ma la vera differenza sta nell'angoscia. Per quanto ripulito dal sangue e dalle cervella, WWZ restava un film apocalittico, eccessivamente cupo per le famiglie in cerca di aria condizionata (il finale fu modificato proprio per questo motivo). Nella Mummia tutta questa angoscia manca completamente. Il dark universe comincia ben poco dark.
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La Mummia somiglia un po' a Suicide Squad, un film che brucia le tappe, che ha fretta di buttare sul fuoco più storie possibile, magari già intrecciate. Per cui ok, qui abbiamo la Mummia, gli zombie, il dottor Jeckyll e... non posso dire che altro. Non era meglio andare per gradi; dedicare alle origini di ogni mostro un film? Eh, ma ci avevano già provato (Dracula Untold) e non è andata bene. E così beccatevi la macedonia, pubblico estivo. Qualcosa di buono c'è, ma anche molti scarti che non ti saresti mangiato mai, toh, se lo fa la Warner perché la Universal non dovrebbe permetterselo?
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La Mummia è al Cinelandia di Borgo San Dalmazzo, alle 20:20 e 22:40.
Il circo itinerante del tuono rotolante
02-07-2017, 02:5721tw, Bob Dylan, concerti, fb2020, musicaPermalinkWonder Woman nel Paese dei Mansplainers
26-06-2017, 12:0621tw, cinema, Cosa vedere a Cuneo (e provincia) quando sei vivo, essere donna oggi, fb2020, fumetti, mitiPermalinkOltre il grande mare, figlia mia, vivono i Maschi. Un giorno li incontrerai. Da cosa li riconoscerai? Dalla barba, se va ancora di moda; da come si sbracano sui sedili dei mezzi pubblici - ma molto più probabilmente da come ti interromperanno mentre parli. Ti giuro. Non è una leggenda: magari stai raccontando la tua ultima battaglia, e loro, senza aspettare che tu finisca la frase, cominciano a spiegarti che le cose sono molto più complesse di quel che credevi; che non è tutto bianco o nero; pensa, esiste anche il grigio!; che certe volte un male è un bene, un armistizio serve a prolungare la guerra e un'arma chimica può servire a fare la pace. Figlia mia, il giorno che li incontrerai, tu magari ascoltali.
Poi menali tutti - neri, bianchi, grigi - non importa. Dagliene tante, figlia mia. Anche se non sai il perché: loro senz'altro lo sanno. Magari - se sopravvivono - te lo spiegheranno.
Il 2017 è un anno storico per l'uguaglianza di generi ed etnie al cinema. Dopo tanti cinecomics, finalmente ne abbiamo avuto uno al femminile, Wonder Woman - e in breve la Marvel ci darà il suo primo film concentrato su un supereroe nero, Black Panther! Non è incredibile, però, che ci sia voluto tanto? Mentre tutto intorno il nostro immaginario si faceva sempre più multicolore e multigenere; mentre i cast dei film d'azione riservavano sempre più posti alle minoranze, e sempre più spesso il ruolo della protagonista a una donna, non è curioso che i cinecomics siano arrivati a un risultato del genere così lentamente?
È incredibile come facesse ridere già dal poster (quelle orecchie, dio), |
Non è incredibile e non è nemmeno così vero, visto che 13 anni prima di Panther e Wonder Woman, Halle Berry era già Catwoman in un film che nessuno ricorda volentieri; soprattutto a casa Warner. E può darsi che quel flop, neanche il primo (Elektra, Supergirl) sia in un qualche modo responsabile del ritardo con cui la principessa amazzone arriva sul grande schermo: buona ultima dopo personaggi molto meno iconici e meno popolari (Ant-Man...), in un momento di iper-inflazione del genere a cui sempre più gli studios reagiscono proponendo personaggi collaterali e bizzarri: il supereroe che dice le parolacce, i supercattivi tuttitatuati, i procioni parlanti. Ecco il primo cinecomic al femminile arriva nell'anno del secondo film su un procione parlante. Furries 2 - Femministe 1, palla al centro.
La cosa sarebbe molto meno rilevante di quel che sembra, visto che grazie al cielo al cinema non ci sono soltanto supereroi, e nemmeno quel segmento molto chiassoso, cialtrone e culturalmente rilevante che sono i film d'azione. Prendi una qualsiasi saga young adult, da Hunger Games in poi; prendi Jennifer Lawrence, prendi Charlize Theron in Mad Max 4. Prendi Scarlett Johansson, a cui la Marvel non ha voluto dedicare un film solista, forse perché sarebbe costato troppo, e nel frattempo è diventata protagonista di una saga giapponese e di una francese. Prendi Angelina Jolie e Milla Jovovich che nel 2004 (13 anni fa!) mentre Gal Gadot diventava Miss Israele ed entrava nell'esercito, erano già protagoniste di saghe sparatutto. Persino in Fast and Furious le donne sono sempre più rilevanti: persino nei Transformers. Eppure c'è davvero chi ha aspettato il 2017, e l'arrivo di Wonder Woman, per festeggiare un traguardo nelle pari opportunità. Non è solo la storia a rendere omaggio alla bella semplicità dei tempi andati (c'è un'eroina buona ma ingenua che deve sconfiggere un cattivo astuto): anche il dibattito critico sembra arrivare da un tempo lontano in cui poteva sembrare incredibile che una donna prendesse al lazo i nemici anziché rammendar loro i calzini.
A questo punto però devo rammentare che sono un maschio eterosessuale, e forse la mia posizione non mi permette di capire che enorme salto in avanti sia, un film su Wonder Woman, per tutte le ragazze e bambine del mondo: soprattutto nei mercati emergenti, dove forse la Jolie e la Jovovich non sono arrivate così presto e così bene. Forse tutto quello che ho scritto fin qui è un lungo e ponderato mansplaining. Forse.
Ma anche in quel caso che altro posso fare, a parte recitare fino in fondo la mia parte di noioso maschio che spiega l'ovvio? Per me parlare di femminismo per questo film è fare un torto sia al femminismo sia al film. Quest'ultimo è divertente: probabilmente il migliore prodotto fin qui dall'universo cinematico Warner - dopo due mostri senza capo né coda né senso come BvS e Suicide Squad. È una storia dedicata all'origine di un singolo eroe, e per quanto la formula sia inflazionata è comunque più fresca dei polpettoni a più personaggi che la Warner ci doveva assolutamente propinare.
C'è una periodizzazione un po' più originale del solito (la Prima Guerra Mondiale, in tutto il suo orrore che a un secolo di distanza sembra ancora fantascienza apocalittica); c'è un prologo mitologico un po' kitsch ma che si riscatta con una delle cose più assurde e divertenti che ho mai visto sul grande schermo: Robin Wright che guida un assalto di amazzoni a cavallo contro delle truppe di sbarco tedesche.
La profezia si sta realizzando. |
L'amore illegale
19-06-2017, 10:1421tw, cinema, Cosa vedere a Cuneo (e provincia) quando sei vivo, famiglie, fb2020, razzismiPermalinkHai 18 anni, e quando sei rimasta incinta, il tuo ragazzo ha solo detto: Ok. È un uomo di poche parole, un muratore, ma "ok" è una parola bellissima. Poi è andato a comprare il terreno per costruirti una casa. Per sposarti ti ha portato fuori dallo Stato perché, dice, la burocrazia è più semplice. Nella camera dove a volte dormite assieme ha appeso il certificato di matrimonio; è una cosa carina.
Una notte, mentre dormite, qualcuno vi entra in casa con le torce. C'è anche lo sceriffo. Vi ammanettano. Tuo marito indica il certificato - ecco perché l'ha appeso, allora - lo sceriffo scuote la testa e dice che quel pezzo di carta non vale niente, e che voi due dormendo assieme state commettendo un reato. Perché tu sei nera, lui è bianco, e questo è lo Stato della Virginia. Siccome dormite assieme, vi condannano a cinque anni di prigione (se vi avessero colto durante un atto sessuale, il reato e la pena sarebbero stati più gravi); vi rilasciano a condizione che non torniate più in Virginia per 25 anni. È il 1958 e il matrimonio interrazziale diventerà legale in tutti gli Stati Uniti soltanto tra nove anni. Grazie a voi. Mildred e Richard Loving.
La storia della coppia che ha cambiato la Costituzione degli Stati Uniti si meritava un film che non fosse un semplice temino edificante di educazione civica. Jeff Nichols, che fin qua aveva girato solo thriller angosciosi, psicologici o apocalittici, gioca la carta dell'iperrealismo, girando in 35 mm. e curando alla perfezione ogni dettaglio, dagli oggetti di scena alla pronuncia degli attori, affidandosi soprattutto a questi ultimi. Ruth Negga e Joel Edgerton danno vita a due protagonisti straordinariamente credibili, malgrado gli esigui margini di manovra: i Loving parlavano poco, e non amavano esibire i loro sentimenti. In particolare Edgerton riesce a nascondere sotto un ceffo da galera un personaggio mite e glorioso, uno che in due ore di film (e di prepotenze subite) avrebbe tutto il diritto di commettere una o due cazzate, e invece continua a ingoiare rospi fino a una vittoria che è così tanto più grande di lui che quasi non gli interessa (continua su +eventi!) Nel suo vocabolario di cento parole c'è spazio per frasi potentissime: quando lo arrestano, lo rilasciano e gli impediscono di pagare la cauzione per la moglie incinta: "Questo non può essere giusto". Quando l'avvocato gli spiega che lo Stato di Virginia ha intenzione di difendersi presso la Corte Suprema: "Come possono difendersi da quello che mi hanno fatto?" E quando sempre l'avvocato gli chiede se ha qualcosa da dire alla Corte Suprema: "Dica che amo mia moglie".
I tentativi di imbruttire Ruth Negga si sono rivelati abbastanza vani. |
Loving si rivede solo martedì 20 giugno, al Cinema Italia di Saluzzo (ore 17:00 e 21:15).
D'amore e d'ombra
12-06-2017, 23:3521tw, cinema, Cosa vedere a Cuneo (e provincia) quando sei vivo, ebraismo, fb2020, Israele-PalestinaPermalinkQuand'ero piccolo, da grande volevo diventare un libro. Non uno scrittore, un libro: perché le persone le si può uccidere come formiche. Anche uno scrittore, non è difficile ucciderlo. Mentre un libro, quand'anche lo si distrugga con metodo, è probabile che un esemplare comunque si salvi e preservi la sua vita di scaffale, una vita eterna, muta, su un ripiano dimenticato in qualche sperduta biblioteca a Reykjavik, Valladolid, Vancouver...
Nel cinquantenario della guerra dei Sei Giorni, nelle sale italiane si celebra una specie di mini-festival israeliano, tutto al femminile: oltre a Un appuntamento per la sposa di Rama Burshtein (presentato a Venezia lo scorso settembre) è saltato fuori A Tale of Love and Darkness, girato e recitato in ebraico da Natalie Portman che era a Cannes due anni fa (e poi naturalmente c'è Gal Gadot, riservista dell'esercito israeliano, che fa Wonder Woman, e pare che sia molto brava). Dei tre film Love and Darkness è il più ambizioso: trasformare in cinema la monumentale autobiografia di Amos Oz richiedeva una dose di incoscienza che Natalie Portman fortunatamente ha conservato per dieci anni di lavorazione.
Come dimostrazione di serietà e perizia dietro la macchina da presa, A Tale of Love è sorprendente, forse anche troppo manierato: luci, ricostruzioni di esterni, montaggio, non puoi dirle niente. La Portman sa persino dirigere i bambini! (non solo il protagonista: c'è una ragazzina che sta in scena cinque minuti e riesce a comunicare con gli sguardi più di molti attori professionisti). Come trasposizione cinematografica, il film deve fare scelte inevitabili e in certi casi interessanti (ad esempio lo sfondo politico della storia è riassunto dalle chiacchiere dei passanti o dei passeggeri di un autobus, tra cui già onnipresenti nel 1948 i fanatici del complotto). Soprattutto la Portman sembra essere riuscita a cogliere un nucleo cinematografico in un libro disperatamente libresco, così concentrato sulla magia e sulla dannazione delle parole, sul fascino dei libri e sul desiderio degli uomini di partorirli e trasformarsi in loro. Di solito tutta questa letterarietà a Hollywood si risolve mettendo in scena tanti libri, possibilmente polverosi. La Portman non si sottrae, ma ti piazza ogni tanto qualche correlativo oggettivo di precisione spaventosa: l'utopia sionista di "far fiorire il deserto" trasformata in un orticello di cortile che non attecchisce, o il momento in cui il padre annuncia commosso al figlio: ora che è nato lo Stato di Israele nessuno farà più il prepotente con lui a scuola! e in capo a cinque minuti, ovviamente, il piccolo Amos deve cedere la merenda ai bulli (però israeliani).
Purtroppo il film ha un problema di ritmo (continua su +eventi!). In novanta minuti succedono parecchie cose, eppure sembra che non succeda quasi niente. Il disincanto che Amos Oz può permettersi, dopo aver partecipato alla guerra e alla stagione dei kibbutz, nelle mani volonterose ma affannate della Portman si trasforma in un pessimismo fin troppo cupo. Proprio quando ti aspetti che gli eventi precipitino (dalla dichiarazione d'indipendenza in poi) e la Storia irrompa sulla scena, la Portman decide di liquidare i combattimenti in un paio di scene e boati fuori campo, e concentrarsi sulla vicenda della madre: ovvero sul ruolo interpretato da lei stessa, ancora una volta nei panni di una depressa cronica.
Il problema è che i depressi sono i malati meno cinegenici al mondo. Piangono, prendono pillole, si scusano, prendono altre pillole, un po' d'euforia poi il crollo, altre pillole, chi non c'è passato difficilmente riesce a provare empatia. La voce narrante interverrà a collegare il crollo di Fania con l'inevitabile disillusione storica legata alla nascita di Israele: ogni sogno realizzato è un sogno deludente, voleva spiegarci Oz, e Israele non è più un sogno. Forse lo avremmo capito anche senza la didascalia, ma che fatica arrivarci. Alla fine anche questo film è un buon correlato oggettivo: un sogno cullato per lunghi anni, realizzato con grande fatica e serietà, che alla fine della visione lascia ammirati ma un po' freddi, stanchi: e i soldi del budget (perlopiù americani) non sono ancora stati recuperati. Come in altri film importanti prodotti in Israele (Kippur, Va' e vedrai), i palestinesi sono quasi del tutto assenti: compaiono soltanto in un paio di scene. Come se anche la Portman, per rispettarli e riconoscere i loro diritti, avesse bisogno di tenerli a una prudente distanza: quella distanza che a Gerusalemme forse non c'è mai stata. Sognare è vivere (un titolo italiano più sbagliato del solito, per un film che racconta la fatica di sopravvivere ai sogni) fino a mercoledì è all'Impero di Bra (20:20, 22:30) e ai Portici di Fossano (21:15).
C'è un giudice a Sana'a
07-06-2017, 02:52cinema, Cosa vedere a Cuneo (e provincia) quando sei vivo, essere donna oggi, fb2020, IslamPermalinkUna bambina di dieci anni entra in un taxi. Chiede al conducente di portarla da un giudice. Quale giudice? La bambina non ne ha idea. Il giudice. Ce ne sarà almeno uno a Sana'a, Yemen. La bambina non può dirlo al tassista, ma sta andando a chiedere il divorzio.
La sposa bambina è il primo film di Khadija al-Salami, regista yemenita nata nel 1966 e data in sposa dalla sua famiglia nel 1977; ripetutamente violentata dal marito, riuscì a separarsene e alla fine vinse una borsa di studio negli USA. Trent'anni dopo, in Yemen ci sono ancora spose bambine: tra queste Nojoom Ali è diventata suo malgrado famosa in tutto il mondo per essere riuscita a divorziare a dieci anni. I Am Nojoom, Age 10 and Divorced è la storia agghiacciante del suo matrimonio, descritto da Nojoom stessa e dalla giornalista francese Delphine Minoui nel libro omonimo. La regista si trova insomma di fronte a una storia vera, tragica, necessaria, che è anche molto simile alla storia della sua vita: è un'occasione unica e non la spreca.
La sposa bambina è un film talvolta ingenuo, ma tutt'altro che banale... (continua su +eventi!) Paga senz'altro la scelta coraggiosa di girarlo completamente in Yemen - uno dei paesi più cinegenici del mondo - e di non lesinare in quanto a esterni. Sana'a è una metropoli infida e polverosa; le montagne terrazzate un mondo a parte dove ogni pietra, se spostata, può originare una disgrazia. Una gestione originale dei piani temporali scongiura il rischio (altissimo) di trasformare una storia tanto potente in una semplice didascalia: per quanto la distanza tra buoni e cattivi non possa che essere enorme e chiara sin da subito, il film riesce ugualmente a spiegarci che le cose sono più complesse di quel che sembrano, e addirittura si permette di dosare un po' di suspense. Allo stesso tempo, La sposa bambina è un film che non si vergogna di volerci indignare e commuovere con tutti i mezzi che ha - e il più potente forse è il volto così disarmante della sua protagonista, Reham Mohammed: una bambina qualsiasi che potremmo aver incrociato su qualsiasi marciapiede, anche davanti a casa nostra.
Femministe e islamofobi potrebbero restare delusi da un film sulla carta così promettente: ci sono donne che partecipano attivamente al meccanismo della violenza, e giudici apparentemente illuminati che però ci tengono a far notare che stanno semplicemente applicando i dettami della Sharia. La cosa più curiosa è il rilievo modesto dato ai personaggi positivi, un giudice tranquillissimo che non alza mai la voce nemmeno di fronte all'ingiustizia più palese, e un'avvocata esperta di diritti civili che dice dieci parole in tutto il dibattimento (gli imputati non riescono nemmeno a capire chi sia, e perché non si faccia i fatti suoi). Come se la giustizia non avesse poi bisogno di tutte queste parole o lacrime per affermarsi. Il film termina con una nota di speranza che purtroppo la cronaca si è incaricata di deludere: la guerra in Yemen ha di fatto bloccato l'approvazione di una legge che proibisca le nozze tra minorenni; coi soldi dell'autobiografia della figlia, il vero papà di Nojoom si è comprato altre spose.
La sposa bambina è all'Aurora di Savigliano mercoledì 7 e giovedì 8 giugno, sempre alle ore 21:00.
Black is the New Barbablù
22-05-2017, 18:0321tw, cinema, Cosa vedere a Cuneo (e provincia) quando sei vivo, fb2020, razzismiPermalinkIndovina chi viene a cena - in una bella villa bianca sul lato deserto del lago, tutto intorno chilometri di boschi, non un'anima a parte i cervi e i bianchi ricchi e progressisti. Rose vuole presentare Chris ai suoi genitori. Li ha almeno avvisati che Chris, oltre a essere un bravo fotografo, è... nero? No, ma non importa, anzi forse è meglio perché... è gente aperta, avrebbero votato Obama anche una terza volta, e poi chi non vorrebbe avere un bel ragazzo nero da sfoggiare al rinfresco?
Indovina chi ha azzeccato un altro thriller in una casa nei boschi: la Blumhouse, esatto. Ma stavolta ha esagerato. Con un regista esordiente e non pratico del genere (veniva dalle commedie); con la sua formula antica e austera, 10% azione e 90% suspense; con la sua produzione parsimoniosa, per non dire taccagna, ha portato in sala un film che è costato quattro milioni e mezzo di dollari e ne ha fatti duecentotrenta. Per intenderci: il King Arthur della Warner non ha ancora superato i cento - ce la farà, ma è costato centosettanta, per via dei mega-elefanti in computer-grafica che evidentemente erano necessari. La Blumhouse non usa computer-grafica (o se c'è davvero non si vede). Per emozionare lo spettatore - spaventarlo, divertirlo, consolarlo - non ha altre risorse che il montaggio, la recitazione, la storia: per farla breve: la Blumhouse fa il cinema. E funziona. Forse un cinema così classico è ormai merce talmente rara che fa notizia. Non spende tanto ma spende bene: luci e musiche ti danno l'impressione che il film giochi in serie A. Get Out cattura con cose semplici - occhi sgranati, occhi piangenti, porte chiuse e all'improvviso aperte, e qualche rumore semplicissimo e fantastico. Chi proprio vuole il sangue alla fine avrà il suo sangue, ma a Get Out per catturarti basta il suono di un cucchiaino (continua su +eventi!)
L'orrore è una lacrima. |
Get Out forse esagera a prendersela coi liberal bianchi, un avversario forse un po' troppo facile e sgonfio, proprio mentre una nuova ondata di razzismo tutt'altro che ipocrita e liberal manda un suo uomo alla Casa Bianca. Ma la storia funziona molto meglio così, e quindi tanto peggio per i liberal. Get Out non salverà l'America dal razzismo, ma intanto sta salvando il cinema: perché le cose che ha da dire, giuste o o meno giuste che siano (o persino sbagliate), le dice coi mezzi antichi e potenti del cinema. Al Cinelandia di Borgo San Dalmazzo (20:20, 22:40); al Vittoria di Bra (20:15, 22:20); all'Italia di Saluzzo (20:00, 22:15) e al Cinecittà di Savigliano (20:20, 22:30).
L'ingloriosa caduta dell'Excaliburino
16-05-2017, 13:4421tw, cinema, Cosa vedere a Cuneo (e provincia) quando sei vivo, fb2020PermalinkA Camelot qualcosa non va, la tavola rotonda è in fermento: da indiscrezioni sembra che qualche Valoroso Cavaliere sia scappato con la cassa. Il valoroso sir Ritchie non si trova, nelle sue stanze il re Artù si tormenta: è colpa sua. Non doveva dar retta a quella banda di disperati, pur riunita sotto lo stemma di un nobile blasone, la Compagnia dei Fratelli Warner. Ma loro si erano fatti avanti con suadenti lingue biforcute... una saga in sei film promettevano, sei film! Roba da Guerre Stellari, come dire di no? Finalmente la fama di Excalibur avrebbe raggiunto i quattro angoli del mondo, rivaleggiando con quella dei supereroi e dei robottoni componibili. E mentre già volava con l'immaginazione, mentre già visualizzava il suo pupazzetto barbuto spuntare da un happy meal sudcoreano, il nobile Artù forse non si accorgeva che gli stavano rubando l'anima?
"Che avete detto? Devo passare la giovinezza in un bordello? Ma non ero un maniscalco?"
"Maestà, abbia pazienza, è per attualizzare il personaggio".
"Ah perché i bordelli sono attuali?"
"Ehm".
"Cioè io ogni tanto ci vado al cinema, nei blockbuster di adesso vedo un sacco di donne guerriere, qui c'è solo qualche strega repellente e un po' di prostitute di contorno, tutta questa attualità, scusate..."
"Àstrid Bergès-Frisbey dà comunque vita a un personaggio femminile cool e non scontato, ammetterà..."
"Potrei anche ammetterlo, ma... neanche un bacetto, niente... poi a un certo punto la rapiscono, e mi potrebbe anche stare bene, la Damigella in Pericolo è proprio materia bretone, l'abbiamo inventata noi, praticamente".
"Perfetto, maestà".
"Poi però nella scena d'azione successiva serve un deus ex machina e quindi la liberano. Il malvagio re Vortigern la libera senza un plissé. Aveva chiesto in cambio Artù, e invece la libera prima che arrivi Artù. Ora io di buchi narrativi un po' me ne intendo, e questo..."
"La liberano perché gli hanno promesso che Artù sta arrivando!"
"Dunque io Vortigern me lo ricordo, e così imbecille proprio no. Ha in ostaggio una maga e un bambino e libera la maga. Ma chi ha scritto questo copione, si può sapere?"
"I nostri migliori artigiani, maestà"
"Ovvero?"
"Ehm... Joby Harold".
"Ovvero?"
"Sta lavorando alla nostra versione di Flash e di Robin Hood".
"Sta lavorando. Ma un film intero lo ha già scritto?"
"Certo, ehm, Awake..."
"Mai visto".
"Un buon successo del... del... 2007".
"E poi non ne ha più scritti?"
"Ha fatto altro, e proprio per questo gli abbiamo affiancato un altro valentissimo professionista e coproduttore, Lionel Wigram".
"Ovvero?"
"Ehm..."
"L'avrà mai scritto un film questo qui".
"The... The Man from UNKLE".
"Ma ha floppato!"
"No, non ha floppato, no... diciamo che non ha raggiunto i risultati previsti. Ma mica per colpa sua, lo script era buono".
"È stato più un problema di regia, dice?"
"Ehm...."
"Mi aiuti a ricordare, io faccio il re nella materia bretone non è che mi intendo così tanto... chi stava dietro la macchina da presa quando avete prodotto The Man from UNKLE?"
"Guy Ritchie".
"Signori, aiutate un povero monarca altomedievale a capire... volete fare una saga sulla materia bretone in sei episodi, solo per il primo quanto avete intenzione di spendere?
"175 milioni di dollari".
"È una cifra spaventosa, epperò... si tratta di rivaleggiare coi draghi dello Hobbit, immagino..."
"No, veramente niente draghi per ora".
"Come niente draghi?"
"Dopo lo Hobbit pensavamo appunto di cambiare un po', pensavamo a degli elefanti".
"Elefanti? Ma io sono re Artù".
"Elefanti enormi!" (continua su +eventi!)
"Sentite, io sono un po' fuori dal giro grosso... l'ultimo con cui ho lavorato è stato De Laurentiis, lui aveva in mente queste cose un po' fantastoriche... è andata com'è andata. Diciamo che la fantarcheologia ha fatto il suo tempo. Ma voi mi state dicendo che intendete buttare quasi duecento milioni di dollari in un film su di me scritto da due novellini, senza un personaggio femminile forte, senza attori di prima linea (la cosa più importante che ha fatto il mio interprete al cinema è Pacific Rim) senza draghi e con gli elefanti. Confesso una certa perplessità".
"Ma c'è Guy Ritchie! Ha visto cos'ha fatto Guy Ritchie con Sherlock Holmes?"
"Sentite. Ci è piaciuto immensamente lo Sherlock Holmes di sir Ritchie, ma il trucco che ha funzionato con la Londra dell'Ottocento - chiamiamolo choc anacronistico, un blockbuster d'azione in costume - non necessariamente funzionerà con Camelot. Primo perché Sir Robert Downey il Giovane non è più della partita - e anche Sir Jude il Bello soffre l'ingiuria del tempo; secondo, perché un buon trucco non funziona che una volta, al massimo due; terzo, perché Camelot è qualcosa di molto diverso, è un mondo di oscurità e misteri, e sir Ritchie e i suoi scrittorucoli questa cosa non l'hanno capita. È gente nata e cresciuta in città, non capiscono che esistano altri mondi, ficcano nel quinto secolo una Londinum metropolitana che neanche nel Milletré era grossa così, ma ammettiamo pure che ai paggi e alle pulzelle che affollano i multisala tutto questo non interessi. Siete convinti che si interesseranno comunque ai vecchi sortilegi di sir Ritchie? Quegli stacchi violenti, quei montaggi diegetici, quelle zummate improvvise, quei dialoghi esagerati da fumetto, così anni Novanta del Ventesimo Secolo..."
"È quel che piace ai giovani, maestà!"
"Non credo. Temo che sia quello che piaceva a voi quando eravate giovani. Ma i blockbuster di adesso non si fanno più così, c'è tutta un'arte che altre compagnie hanno interiorizzato, e voi no. Andate di selva narrativa in selva narrativa, cercando materiale quale che sia da sfruttare commercialmente, imponendo le vostre saghe raffazzonate alla benemeglio con la pura forza bruta del vostro nobile Stemma e del battage pubblicitario... non so se dovrei fidarmi di voi. Certo, la vostra proposta è allettante".
"Sei film in dieci anni, Maestà..."
"Ma rischio di perdere l'anima".
"Pupazzetti della tavola rotonda in tutti gli Happy Meal".
"Oh, va bene, dopotutto sono sopravvissuto anche a De Laurentiis e Valerio Massimo Manfredi, cosa ho da perdere? Portatemi il sigillo reale".
Da qualche parte ai piani alti della Warner Bros dev'esserci un gruppo di, come definirli, diversamente umani. Qualche figlio di, qualche ragazza di, qualcuno che passava di lì e aveva bamba per tutti, una squadra di iperattivi ipodotati che se hanno mai sfogliato un fumetto non riuscivano a decifrare le scritte nelle nuvolette; se mai sono entrati in un cinema, si sono addormentati dopo i trailer. Una gang di deficienti con una missione suicida: salvare il cinema da sé stesso. Lo scrivevo l'estate scorsa, di fronte a quell'empia catastrofe che fu Suicide Squad. Non è che ci credessi davvero, ero solo scandalizzato da un film. Ma ora che King Arthur è sotto di centotrenta milioni di dollari, comincio a domandarmi se per caso ci avessi azzeccato: se la WB non abbia dichiarato guerra ai blockbuster e se non sia tempo di decidere da che parte stare. Nel frattempo, chi è curioso può trovare King Arthur al Cinelandia Borgo San Dalmazzo (20:00, 22:40), al Fiamma di Cuneo (21:00) e al Cinecittà di Savigliano (21:30).
Gold, il grande spoiler
08-05-2017, 23:5321tw, cinema, Cosa vedere a Cuneo (e provincia) quando sei vivo, fb2020PermalinkPer quanti anni l'ho cercato. Ormai avevo perso le speranze, quando mi arrivò una dritta: nella suite di un grande hotel della capitale sopravviveva a sé stesso uno degli ultimi Titolisti del Cinema Italiano. Aspettava che qualcuno salisse ad ammazzarlo o scendesse a pagargli il conto. Entrambe le cose erano al di fuori della mia portata, ma provai ugualmente a salire con una bottiglia di scotch. Si sciolse subito. In fondo moriva dalla voglia di raccontare, di difendersi.
"Quando ha capito che voleva fare il Titolista?"
"Non c'è stato un momento preciso... ho sempre saputo che l'avrei fatto, lo faceva mio padre, e il padre di mio padre, il cinema italiano è così".
"Anche suo padre cambiava i titoli dei film stranieri?"
"È stato uno dei più grandi. Ha presente Non drammatizziamo... è solo questione di corna?"
"Domicile conjugale, di François Truffaut".
"Ahah, sì".
"È stato suo padre a cercare di far passare un film di Truffaut per una commedia sexy con Lando Buzzanca?"
"Ci siamo comprati un'Alfa Giulia con quel titolo".
"Lei invece è quello che ha tradotto Eternal Sunshine of the Spotless Mind con..."
"No, non sono io quello..."
"Se mi lasci ti cancello".
"...purtroppo. Che invidia. Grandissimo titolo".
"Crede che in qualche modo abbia giovato alla fruizione del film?"
"Non lo so. Ma lo ha portato in un centinaio di sale in più. Migliaia di biglietti in più. Il nostro mestiere serve a questo".
"A vendere illusioni".
"Non è l'essenza stessa del cinema?"
"Non pensa che un titolo così sia in qualche misura truffaldino? A che è servito riempire centinaia di sale in più, se la gente che entrava credeva di vedere una commedia con Jim Carrey..."
"È servito a vendere loro biglietti, ecco a cosa. E magari a uno su dieci il film sarà pure piaciuto. Come dovevano tradurlo?"
"Non so, per esempio L'eterna luce di una mente pura".
"Wow".
"Grazie".
"Forse un centinaio di biglietti in tutt'Italia riusciva a venderli anche lei. L'eterna luce di una mente pura, ma certo. Che razza di ipocriti".
"Prego?"
"Mi ha sentito benissimo. Voi, voi tutti che ci odiate, siete solo ipocriti. Per mille euro in più cambiereste il nome anche ai vostri figli".
"No, non credo".
"E per diecimila?"
"N-no, direi di no".
"E qual è il problema? Mi dica, qual è il problema se un film invece di avere un titolo noioso ne ha uno un po' più accattivante? Ha paura di trovare più gente quando entra in una sala?"
"Mi dica soltanto una cosa. Lei si ricorda un film del 2017, di Stephen Gaghan..."
"Buio assoluto".
"Con Matthew McConaughey, che fa il cercatore d'oro..."
"Ah, quello! Non male dopotutto".
"È lei che ha deciso di sottotitolare la versione italiana "La grande truffa"?"
"Sì, è successo".
"Mi può spiegare il perché?"
"Non c'è già arrivato da solo?"
"Ma..."
"Senta, il nostro non era un lavoro da dilettanti (continua su +eventi!). Non è che ci sedevamo in un angolo e tiravamo fuori bigliettini da un sacchetto. C'erano indagini di mercato precise. Le commissionavamo, le analizzavamo, e ne ricavavamo delle indicazioni preziose. Se le dicessi - e non lo confermo - ma se le dicessi che la parola "truffa" in un titolo italiano valeva da sola seimila biglietti in più..."
"Aveva almeno visto il film?"
"Crede che fosse un gioco? Crede che non li amassimo, noi, i film? Mio padre era un appassionato di nouvelle vague, lo sa?"
"Si è reso conto di aver rivelato il finale del film nel sottotitolo?"
"Beh, adesso, poi, il finale del film..."
"Se n'è reso conto o no?"
"Senta, lei non può capire certe volte la pressione. Me lo ricordo bene quel film, e le attese che aveva generato - era una storia pazzesca. Lo sa che lo doveva fare Michael Mann, a un certo punto? E poi è passato..."
"...a Spike Lee".
"Ed era un veicolo per McConaughey, che in quel momento andava fortissimo. Sembrava un colpo sicuro. Ci avevamo investito. Ma poi... a un certo punto si scopre che il regista è cambiato di nuovo, ed è questo... come ha detto che si chiama?"
"Gaghan. Ha scritto e diretto Syriana".
"Ecco, basta dirlo. Syriana. Fosse stato per me, l'avrei chiamato 40 Notti di Petrolio. Ma avrebbe floppato lo stesso. Ci facciamo dare un copia per farci un'idea, e scopriamo che ovviamente è un casino. Il tizio ci stava fottendo".
"In che senso?"
"Andava alla cieca, sapeva che sottoterra da qualche parte aveva una storia, ma non capiva dove cercarla. Ogni tanto tirava fuori qualche idea, ma non era roba del suo sacco. Qualche idea da David O. Russell, qualche pezzo fregato a Scorsese - come se Scorsese facesse materiale che si camuffa facilmente".
"Ma c'era pur sempre McConaughey".
"Altroché se c'era. Fin troppo. Spalmato in ogni fotogramma. Come a dire: pensaci tu. Una palese dichiarazione di inadeguatezza dietro la macchina da presa".
"Però il personaggio serafico di Édgar Ramírez è perfettamente complementare a quello del protagonista".
"Sì, vabbe', resta il problema di due ore di primi piani di McConaughey, che se fossero i primi anni Zero andrebbe benissimo, ma è un McConaughey con la pelata e i denti storti. Recensioni perplesse. Box office americano in picchiata. Dovevamo inventarci qualcosa, capisci?"
"Ma è una storia fantastica".
"Che ti posso dire, si vede che non bastava".
"Era un buon motivo per... per..."
"Avanti, dillo".
"Per spoilerarla?"
"Seimila biglietti in più, figliolo. Seimila biglietti".
"...di gente che si sarà sentita presa in giro e avrà pensato: non ci torno mai più al cinema".
"Lo crede davvero? Ma no, tornavano sempre. Quella era gente che al cinema ci andava, era qualcosa di più forte di loro. La fame di illusioni".
"Se è così, perché la ritrovo in bolletta e senza un mestiere?"
"È finita la gente".
"Ovvero..."
"Finita. Invecchiati o morti. I giovani guardano serie in tv, la fine era segnata. Abbiamo solo cercato di viverci finché abbiamo potuto. Non è quello che facevano tutti?"
"Cosa facevano tutti?"
"Non saprei, ero quasi sempre al cinema. Ma mi ero fatto questa idea che scavassero buche".
"Buche? E perché?"
"Per riempirle".
"Non capisco".
"Per sentirsi impegnati, professionali, indaffarati, e magari qualche volte per caso trovavate un po' d'oro e vi ripagavate la spesa. Ma il più delle volte l'oro lo gettavate voi. Non andava così con tutto, in quegli anni?"
"Si è fatto tardi, può tenere la bottiglia".
"Non buttavate un sacco di soldi dei genitori in startup che servivano sostanzialmente a percepire fondi per le startup? Non passavate anche voi il tempo a inventarvi titoli fantasiosi per i vostri progetti, per i vostri curricula?"
"È stato un piacere, addio".
"Cosa si aspettava di trovare salendo quassù, l'uomo che ha ucciso il cinema? Il cinema non muore, il cinema è tutto intorno, basta trovare qualcuno disposto a farsi..."
"Fregare".
"...raccontare una bella storia"
"Non è una bella storia se sveli il finale".
"Non mi sono mai piaciuti i finali. La vera magia del cinema è quando si spengono le luci, e la gente spegne il telefono, e al botteghino ti dicono quanti biglietti hanno venduto..."
Gold è al Cine4 di Alba alle 19:30 e 21:00; al Cinelandia di Borgo San Dalmazzo alle 20:10 e 22:40; al Vittoria di Bra alle 20:00, 22:30; al Cinecittà di Savigliano alle 20:15 e alle 22:30. Non fate troppo caso al sottotitolo italiano.
Storia di un panino deludente
25-04-2017, 09:4821tw, cinema, Cosa vedere a Cuneo (e provincia) quando sei vivo, fb2020PermalinkL'arca dell'alleanza. |
Ray Kroc non ha inventato il fast food: quello lo hanno messo a punto i geniali gemelli Dick e Mac MacDonald, nel loro ristorante di San Bernardino (CA), sfidando tutte le convenzioni degli anni Cinquanta (niente tavoli, niente cameriere, niente juke box) per concentrarsi su un solo obiettivo: servire istantaneamente hamburger e patatine. Kroc non ha inventato il franchising più efficace del mondo, anzi finché lo gestì lui direttamente non riusciva a rientrare nei costi di gestione. Kroc non ha nemmeno trovato un modo per risparmiare sulle celle frigorifere: l'idea arrivò dalla sua futura seconda moglie. Nell'impresa più epica della ristorazione moderna, Ray Kroc non ha messo il nome, non ha messo la faccia, non ha messo le idee: e allora perché è lui, e non un altro, il Fondatore? Perseveranza.
La terra promessa |
A quattro mesi dall'uscita nelle sale, il film non ha ancora coperto le spese di produzione (continua su +eventi!) Ai critici è piaciuto; i giurati dell'Academy hanno fatto finta di non vederlo; il pubblico non si è fatto vedere. Cosa non ha funzionato? Difficile dirlo. Da fuori il prodotto si presenta bene. Il primo morso è davvero stuzzicante - l'odissea di Kroc attraverso l'America, alla ricerca del solo messaggio di speranza in un futuro usa-e-getta: il piccolo ristorante di San Bernardino che non ha (incredibile!) nemmeno i tavolini, i piatti e le posate. È più tardi che ti rendi conto che The Founder non ha neanche lontanamente lo stesso sapore di The Social Network; quando nella seconda metà ti rendi conto che l'intreccio ruota sull'opportunità di inserire in menu un frappé liofilizzato. Manca molto più di un cetriolino; il formaggio è insapore; il bacon cartone abbrustolito, le patatine più gommose che croccanti. The Founder sembra il prodotto che ti servono in certi Mac, non sa di niente ma tanto tu lo manderai giù lo stesso perché il sapore del Mac ce l'hai già in testa, certe patatine sono solo un placebo. In cucina Keaton si dà da fare come al solito, ma tutto sembra dipendere da lui; le scene clou sono risolte in brevi dialoghi al telefono, le storie d'amore finiscono e iniziano nel tempo di alzarsi e sedersi dai tavoli. The Founder avrebbe potuto essere un grande film su una delle più straordinarie storie del capitalismo, ma a un certo punto è saltato il controllo qualità. È un vero peccato. All'Aurora di Savigliano, mercoledì 26 e giovedì 27 alle 21.
Lei non si lascia scomporre
26-03-2017, 18:5021tw, cinema, Cosa vedere a Cuneo (e provincia) quando sei vivo, fb2020, sessoPermalinkTua madre è innamorata, si è fatta un altro po' di botox. Tuo papà è ergastolano, ma ancora sta in tv. Tuo figlio vuol fare il papà, ha messo incinta una matta, chiede due mesi d'affitto più le spese. Al lavoro c'è un dipendente che gioca a incollare la tua faccia su delle animazioni 3d sodomite, ma d'altro canto se lavori nel campo dei videogiochi la tua quota di psicopatici ti tocca. Il tuo amante sta diventando un po' ossessivo, l'ex marito è depresso perché fa lo scrittore francese, che altro? Ah già, c'è un tizio che ogni tanto entra in casa e ti violenta. Quasi dimenticavi. Buon Natale, Michèle, e felice anno Nuovo.
Paul Verhoeven non si è mai dato troppa pena di giustificare quello che faceva. Gli piaceva un certo tipo di violenza che Hollywood, fino a un certo punto, gli ha consentito: oltrepassato quel punto è tornato in Europa, dove le regole sono più ambigue, non necessariamente più tolleranti. Dopo un lungo purgatorio è finito in Francia, ed è incredibile quanto ci si sia ambientato - non avrei mai immaginato che un film tanto verhoeveniano potesse anche essere tanto francese. È un film di ordinaria follia, ma anche di borghesi che vanno al Monoprix a scegliere il borgogna da accompagnare alla lasagna, se trovano il vicino di casa lo invitano - e hanno tutti una cantina insonorizzata dove chissà che cosacce fanno. O potrebbero averla. Non dovresti fidarti di nessuno, ma poi sono tutti così gentili che lo fai lo stesso. Anche se è tratto da "Oh...", un romanzo di Philippe Djian (da cui la quota sindacale di ironia sui romanzieri francesi) Elle non doveva essere così francese, in partenza. La produzione cercava un'attrice americana, ma non si trovava, e bastano pochi minuti di film per capire il perché. Alla fine è entrata Isabelle Huppert, a cui nel film capita qualsiasi cosa, ma forse la violenza peggiore è vederla doppiata. Quando l'anziana madre le chiede: ma se mi risposassi tu cosa faresti?, e lei le risponde: ti uccido, beh, in originale è un j'te tue, così semplice, così naturale, con la stessa intonazione con cui sceglierebbe un dessert o negherebbe un premio di produzione a un dipendente, che ti fa capire che non scherza: per lei l'idea di uccidere la madre è davvero la cosa più naturale al mondo.
Elle deve aver fatto uno strano effetto agli spettatori di Cannes. In mezzo a tanti film sul disagio del neoproletariato europeo, un film di borghesi parigini che si scopano e si uccidono con quel savoir faire che incute sempre un certo rispetto, se non ammirazione. Però non credo, come Francesco Boille, che a Verhoeven interessasse mostrare la degenerazione di una determinata classe sociale. Verhoeven non ce l'ha con la borghesia francese: è che alla prova dei fatti solo la borghesia francese è in grado di esprimere film così. Romanzo, soggetto, ambientazioni, attrice: altrove sarebbe stato impensabile. Invece Boille non ha tutti i torti sul modo in cui l'assenza di moralità di Verhoeven ci consente, per contrasto, di verificare la nostra: come ai tempi di Starship Troopers, più che un film fascista un test sul fascismo: lo prende, lo colora, lo rende più pop e più gender equal, e poi te lo sbatte in faccia: ti piace? Perché anche se ti piace rimane fascismo lo stesso, facci caso.
A Verhoeven interessa la violenza (continua su +eventi!)
Elle si presta a varie interpretazioni, ma si può godere anche come un thriller dove qualsiasi cosa può succedere in qualsiasi momento; può farci arrabbiare o sorridere, e almeno la nostra rabbia e il nostro riso avranno avuto un senso. Ma può anche lasciarci indifferenti: che è poi la posizione della protagonista, e di uno dei personaggi meno in vista, a cui tocca una delle ultime battute del film. Una persona che all'apparenza è l'esatto contrario di Michèle: che ha una moralità, una religione; e che allo stesso tempo non è l'avversaria, anzi forse aveva capito tutto dall'inizio. Elle è al Vittoria di Bra (17:00, 20:00), al Fiamma di Cuneo (15:00, 18:00, 21:00) e all'Aurora di Savigliano (18:30, 21:00).
Non sono il tuo computer di colore
20-03-2017, 23:32cinema, Cosa vedere a Cuneo (e provincia) quando sei vivo, fb2020, scienzaPermalinkWE ARE THE COMPUTERS. (COLOURED COMPUTERS). |
Bene, perché in effetti non è successo.
Ma in fondo è successo qualcosa di simile ad altre, quindi tutto sommato va bene così.
Ti ci mando io in orbita, baby. |
Dove nessun uomo è andato prima, o almeno io su quel piolo non ci ho ancora avuto il coraggio. |
Io insegno in una scuola e ogni tanto mi capitano ragazze che quando vogliono fare una domanda, esordiscono dicendo: "Non ci capisco niente". E tutte le volte: ma perché dici così? (Continua su +eventi!) Al massimo non avrai capito una cosa. E pensi che qua dentro qualcun altro abbia capito? Tu sei tra i pochi che almeno si stanno ponendo il problema, perché ti devi autodenigrare? Chi ti ha insegnato a comportarti così?
Wolverine sanguina! (finalmente)
13-03-2017, 23:29cinema, Cosa vedere a Cuneo (e provincia) quando sei vivo, fb2020, fumetti, mitiPermalinkFrank Miller, 1983. |
È sempre stato così, anche sui fumetti: gli altri eroi in costume possono anche fingere di non essere assassini, Logan questa ipocrisia non se la può permettere. Quante volte ha accostato un pugno al torace o al volto del suo nemico, quante volte abbiamo letto "SNIKT" nella vignetta successiva, senza che il disegnatore si mettesse nei guai mostrandoci i dettagli della macelleria? Ma se Wolverine è sempre stato così difficile da gestire, a chi è venuto in mente di farne un eroe in carta e pellicola? Ai lettori.
Logan non era nato per fare l'eroe. All'inizio era una comparsa in una storia di Hulk, uno di quegli antieroi esotici dai nomi buffi e dai poteri bizzarri che devono prenderle dal titolare della serie. A metà degli anni Settanta si trova inquadrato quasi suo malgrado in una banda di personaggi di secondo livello riciclati nel tentativo abbastanza disperato di salvare una testata. La testata è X-Men e nel decennio successivo diventerà anche grazie a Wolverine la più fortunata dell'universo Marvel, eppure già nei primi numeri Logan rischia il licenziamento: viene salvato da uno dei disegnatori, Byrne, per una questione di mero campanilismo (è l'unico eroe canadese). Ma all'inizio davvero non si sa come gestirlo: c'è anche qualche tentativo di utilizzarlo come una spalla comica, il tappo incazzoso che si arrabbia per primo e le prende più di tutti. Paperino. Poi piano piano il personaggio rivela delle potenzialità.
I lettori scoprono che è più vecchio degli altri; che sotto la maschera ha due basette d'altri tempi; che gli artigli non sono un gadget, ma parte del suo scheletro, per quanto questo sia anatomicamente impossibile; che le sue origini sono molto più intricate di quelle di qualsiasi altro eroe, e forse per sempre occultate da multipli lavaggi del cervello; che tutte le persone a cui vuol bene finiscono male; che guarisce da qualsiasi ferita con una velocità che varia a seconda delle esigenze di sceneggiatura, da pochi minuti a qualche giorno: quanto basta per renderlo protagonista di una serie di storie in cui prima viene massacrato da qualche nemico prepotente, poi risorge cristologicamente per vendicarsi con operazioni di chirurgia sommaria senza anestesia. Erano ancora i primi anni Ottanta e i lettori della Marvel non avevano mai letto o visto cose del genere. Wolverine, a una certa distanza è più facile capirlo, è il primo eroe americano post-Vietnam: è un reduce, è un mostro, si vergogna ma è pur sempre il migliore in quello che fa. Più vicino a Rambo che a Capitan America, Wolverine era l'eroe perfetto per far annusare un po' di sangue ai lettori preadolescenti che non potevano più riconoscersi in un Superman perfettino o uno Spiderman Bello di Nonna. Dopo di lui i fumetti si sarebbero riempiti di cloni, cyborg e ninja, tutti un po' troppo sbilanciati rispetto all'originale: con Wolverine la Marvel aveva azzeccato per puro caso il mix migliore tra umanità e ferinità.
Questo tipo di cose. |
Si chiama Dafne Keen: non è un amore? |
Il passo successivo della Fox è stato convincere Jackman a rimettersi per un'ultima volta quei maledetti artigli, ma stavolta per usarli davvero (Continua su +eventi!)
Logan è il primo film in cui Wolverine può mostrare quello in cui è il migliore: mutilare, decapitare, infilarti tre artigli nelle parti più molli del cranio e strappartelo via in scioltezza. Il fatto che sia stato annunciato come l'ultimo cinecomic di Jackman non dovrebbe lasciare molti dubbi su come andrà a finire: al suo fianco una bambina che sembra già pronta a prendere il testimone, e un memorabile Patrick Stewart: anche per lui non è solo il film d'addio a un personaggio impersonato per due decenni (il professor X), ma anche l'occasione per farci piangere più di rimpianto che di nostalgia: che grande attore, che eroe fantastico avrebbe potuto essere, se dal 2000 in poi la Fox ci avesse creduto un po' di più, se avesse messo in scena storie appena un po' più potenti. James Mangold dirige una cupa storia di riscatto e macelleria con lo stesso presagio di fine incombente: quando gli ricapita di avere un Wolverine con gli artigli in fuori? La sua idea migliore è aver stravolto completamente la storia a fumetti a cui il film in teoria si doveva ispirare. Qua è là c'è finalmente qualche idea originale che non rende Logan un capolavoro, ma probabilmente il cinecomic più interessante che vedremo quest'anno, e forse l'unico caso in cui la pellicola funziona meglio del fumetto. Se negli altri film la violenza veniva censurata, qui è talmente esibita che dopo un po' viene a noia - il che è perfettamente in linea col personaggio, un vecchio felino che non ne può più di ammazzare ma non riesce a starne fuori: e comunque è sempre il migliore. Logan è al Cityplex di Alba (19:00, 22:00, 21:00); al Cinelandia di Borgo San Dalmazzo (20:00, 22:45); all'Impero di Bra (20:00, 22:30); ai Portici di Fossano (18:30, 21:15) all'Italia di Saluzzo (21:30); al Cinecittà di Savigliano (21:30)
Il mondo finisce un'altra volta
06-03-2017, 17:0621tw, cinema, Cosa vedere a Cuneo (e provincia) quando sei vivo, fb2020, vita e mortePermalinkOgni volta che muori, il mondo finisce con te: quindi di che cosa ti preoccupi? Di chi ti lasci indietro? Li hai ignorati per tutta la vita, la morte cosa cambia? Vorresti lasciare un buon ricordo? Comprensibile, ma forse è un po' tardi. Vuoi chiedere scusa? Si vede che non sei ancora così morto, ai morti queste cose non interessano. Non si sentono in colpa, non si sentono in dovere, non si preoccupano di noi.
"Tutto bene?"
"Sì che vuoi?"
"Niente. Sei occupato?"
"Devo scrivere la recensione".
"Ottimo. Ti è piaciuto il film?"
"Devo pensarci".
"Allora non ti è piaciuto".
"Ma a te poi che ti frega?"
"Quando ti piacciono te ne accorgi subito".
"Non hai veramente niente di meglio..."
"Quando tergiversi, quando vai a vedere le recensioni, le percentuali di giudizi positivi, i premi... hai paura di fare una brutta figura".
"Io? Si vede che non mi conosci".
"È più giovane di te, vero? Il regista".
"Questo cosa c'entra".
"Mi preoccupo, sai, perché..."
"Ma perché ti devi preoccupare, non ha proprio senso".
"...succederà sempre più spesso, man mano che avrai avanti. Musicisti più giovani, registi più giovani, persino un presidente del consiglio, se non sbaglio".
"Era l'ultimo dei suoi problemi".
"Devi cominciare ad accettarla, questa cosa".
"Che sto invecchiando? La accetto".
"Bravo".
"Non che ci fossero alternative".
"Una c'era. Quanti anni ha il regista?"
"Non lo so... va per i trenta".
"Uh, un ragazzo!"
"Non è questo il problema".
"Sicuro?"
"C'è un tipo di cinema che proprio non mi prende. Colpa mia. Io nasco lettore, è la mia formazione. Se mi prendi un testo teatrale e sostituisci i monologhi con gli sguardi intensi e i primi piani, io non ci casco".
"Quindi è un limite tuo".
"Non dovrei scrivere di cinema. Non di questo tipo di cinema, almeno. Per me il primo piano più intenso non sarà mai significativo come un discorso. Se hai da dire delle cose, dille. Se guardi fisso in camera non mi stai dicendo cose. Non importa quanto sia espressivo il tuo broncetto e ben impaginata l'inquadratura, tu non mi stai dicendo cose".
A lei comunque voglio bene. |
"In movimento, però".
"Perché non sei andato a vedere Lego Batman?"
"Non mancherà l'occasione".
"Insomma non ti è piaciuto".
"Non è il mio tipo di film".
"L'età non c'entra niente?"
"Cosa dovrebbe c'entrare?"
"Dolan non ha trent'anni, che vuoi che ne sappia?"
"È un regista bravissimo e bisogna dargli atto che un'ora e mezza filano dritte come un treno, sembra sempre che stia per succedere qualcosa di orribile che poi..."
"Non come regista. Come persona. Che vuoi che ne sappia di cosa vuol dire morire?"
"Immagino che ci abbia ragionato, come tutti".
"A vent'anni? Lo sai anche tu come sono i ventenni?"
"No non lo so".
"Romantici".
"Sai che non sono d'accordo. Davanti alla morte abbiamo tutti la stessa età".
"E quindi cos'è che ti affligge?"
"Non lo so, è una sensazione, è... hai presente Natural Blues di Moby?"
"Why does my heart feel so bad?"
"Quella?"
"Ti piace?"
"La odio".
"Ecco, mi pareva" (continua su +eventi!)
"È uno di quegli esempi lampanti di Kitsch in musica... Un banale pastone dance impreziosito da un campionamento blues falso come l'ottone. E non ci sarebbe niente di male".
"Non hai niente contro la dance, adesso?"
"È un prodotto come un altro, ma questa idea che Moby la voglia fare di nicchia, la techno d'autore. Sono Moby, sono un genio, ho messo il blues nella house, so che non vedevi l'ora di sentirti profondo mentre ballavi in un club fighetto a fine anni 90".
"Coraggio, dillo".
"Cosa devo dire?"
"Che tu già a fine anni '90 eri... coraggio!"
"Troppo vecchio?"
"...per queste stronzate".
"Ma non è un problema di età. È proprio un pezzo brutto".
"Tutte le generazioni hanno i loro pezzi brutti. Poi la nostalgia, sai com'è".
(Ma alla fine voglio bene anche a loro). |
"Non è un problema di nostalgia. La nostalgia la capisco. Sono cresciuto con questa canzone scema, so che è scema ma mi ricorda il primo amore, scusate, ok, ci siamo passati tutti, espediente non nuovo ma tollerabile. È il motivo per cui a un certo punto mette i Punk Bimbominchia, come si chiamano, i Blink-numero-a-caso".
"182".
"Ma Moby lo mette in fondo, Moby se lo tiene proprio come strappamutande finale, te lo immagini proprio questo ventenne che pensa adesso vedete che vi commuovo, adesso accendo le luci in sala e vi metto il pezzo che vi strizza il cuore come una spugna, dopodiché ecco cominciare un brano che per me ha lo stesso spessore emotivo della Lambada".
"È vero che a te piaceva la Lambada".
"C'è molta, molta più poesia nelle silhouette dei ballerini sul molo, contro il tramonto".
"Quindi lo stroncherai perché ha scelto la canzone sbagliata".
"Ma non è uno sbaglio, è proprio che... che il film è precisamente così, crede di essere una bomba emotiva e invece è solo il tranello di un dj disperato che pompa i bassi per far battere il cuore alla gente. E impreziosisce il tutto incastrandoci un testo teatrale raccattato dallo scaffale, ovviamente una cosa triste triste che gira a vuoto, perché mi sento così? Perché? Stai per morire, va bene, si è capito nei primi cinque minuti. Se non sai che altro dire... se non sai dire nemmeno quello..."
"Mi preoccupi, sai".
"Non è vero".
"Non vorrei che ti trasformassi in uno di quegli attempati brontoloni che..."
"Tu non sei in grado di preoccuparti, basta con questa stronzata".
"Non voglio dire che mi deludi, ma credo che potresti fare di meglio, l'ho sempre creduto".
"Piantala - poi questa cosa di urlarsi in faccia le peggio cose, tra famigliari, non so quanto Dolan si renda conto che è proprio un luogo comune del cinema continentale, cioè gira che ti rigira è riuscito a girare un film dove gli attori francesi passano il tempo a mandarsi affanculo o a dirsi "t'es malade", non esattamente il primo che vedo, ecco".
"E non ti fanno più effetto".
"I francesi che si urlano in faccia? Son quasi peggio degli italiani. C'è pure la scena in macchina, così possono litigare senza troppi controcampi. E allora è un genio anche Muccino, rivalutiamo Muccino".
"A te proprio non la si fa".
"Senti, l'ho già detto, è bravo. Però un'ora e mezza di riunione di famiglia di francesi che si urlano cose in faccia non... non..."
"Non è la fine del mondo".
"Non per me".
"Dovevi andare a vedere Lego Movie".
"Ti sto deludendo?"
"Non ti devi preoccupare di questo".
"Sei tu che non ti devi preoccupare".
"Facciamo che non si preoccupa nessuno".
"Tutto qui?"
"Puoi mettere un pezzo se vuoi".
"Chorando se foi quem um dia so me fez chorar..."
"Sei un idiota lo sai".
È solo la fine del mondo è al cinema Lux di Busca, giovedì 9 e venerdì 10 marzo alle 21. Spoiler: il mondo non finisce.
Jackie è nella Casa
01-03-2017, 22:3921tw, Americana, cinema, Cosa vedere a Cuneo (e provincia) quando sei vivo, fb2020PermalinkSignora Kennedy lei non ha / bisogno di scusarsi per il fatto che si trovava fuori sul bagagliaio / negli attimi successivi al momento in cui suo marito era stato colpito. / tutti hanno potuto vedere quel che era successo / in queste fotografie con i propri occhi ... / perché è stata distorta la verità di esseri umani? / a che serve questa immagine eroica? / nessuno è un eroe... / perché sono deliberatamente ingannato con confuse menzogne / a proposito di ciò che vedo con occhi sani / chi sono io per essere insultato così?
Prima di ricomporsi in pubblico e adottare quella maschera cool che ci si aspettava da lui, Bob Dylan ebbe il tempo per lasciarsi sconvolgere dall'assassinio di Kennedy come qualsiasi altro americano. Scrisse quattro 'poesie' a caldo - in quel periodo definiva 'poesia' tutto quello che gli usciva di getto senza preoccupazioni metriche - la prima delle quali era dedicata alla vedova Jacqueline. Più che una poesia è una lettera, senza le affettazioni tipiche del Dylan-alla-macchina-da-scrivere-che-si-crede-un-poeta. È un messaggio di scuse, quello che oggi potrebbe scrivere un personaggio pubblico sulla bacheca di facebook di un altro personaggio pubblico. È anche una riflessione su come i media e le fotografie mettono le persone in cornice o sulla gogna. Nei giorni immediatamente successivi all'assassinio politico più famoso del XX secolo, qualcuno era riuscito a biasimare Jackie Kennedy perché invece di difendere in un qualche modo il marito si era alzata, sporgendosi sul bagagliaio. Ufficialmente lo aveva fatto per aiutare una guardia del corpo a salire sulla berlina. Nell'intervista a Theodore White, giornalista di Life, emerge un altro probabile motivo: un pezzo di testa del presidente Kennedy era schizzato sul bagagliaio; Jackie si era alzato per raccoglierlo. Lo aveva rimesso al suo posto. Era evidentemente in stato di choc. Ma era anche Jacqueline Kennedy: avrebbe tollerato che le cose non fossero al loro posto?
Jacqueline Lee Bouvier Kennedy Onassis, detta Jackie, a distanza di mezzo secolo, è ancora un personaggio delicato, che impone cautela a chi lo maneggia. Forse addirittura sta diventando più delicata col tempo - ho in mente quella vecchia serie NBC degli anni Ottanta, in cui tutto sommato passava per una signora di buona famiglia ossessionata dagli interni della Casa Bianca - nozione che il regista Larraín o lo sceneggiatore Noah Oppenheim non tentano nemmeno di smentire: si tratta piuttosto di scavarci intorno, di problematizzare la cosa, di spiegare che dietro la cura per soprammobili e passamanerie c'era una riflessione sulla regalità della figura del Presidente, che emergeva ormai dalle brume della prima guerra fredda come l'uomo più potente del mondo. A quel punto era necessario lavorare sui simboli e sulle scenografie: un re deve vivere in una reggia, e sfoggiare una regina consorte. Sennò poi succede come ieri, che ti ritrovi su tutti i giornali una tizia coi piedi sul divano in Sala Ovale, e la cosa potrebbe avere ripercussioni in politica estera.
Un certo tipo di mitologia casabiancana nasce proprio con Jackie, che fu molto criticata in vita per questo (anche dal marito). Oppenheim osa finalmente dichiarare l'evidenza: Jacqueline Kennedy era, nella coppia, la più all'altezza del ruolo. Il marito era un mezzo disastro, un miliardario pasticcione che in tre anni si fece coinvolgere nel flop della Baia dei Porci, nell'escalation del Vietnam, e con la crisi dei missili portò il mondo a un passo dal conflitto atomico. La stampa conservatrice lo trattava più o meno come i liberal ora trattano il nuovo inquilino miliardario. Nel frattempo la moglie trasformava la Casa Bianca in Camelot, che è poi la vera grande eredità del 35mo presidente degli Stati Uniti. Era tempo che Hollywood riconoscesse a Jackie quello che era di Jackie. Senonché ci si è messo in mezzo Pablo Larraín. Una scelta abbastanza bizzarra, ma curiosamente in linea coi tempi, che sono piuttosto confusi.
Ci pensavo l'altro ieri, a Oscar consegnati. Secondo me Hollywood è nel pallone (continua su +eventi!) - non per il caos alla premiazione, quello è un incidente dal quale con un po' di sforzo si può cavare un simbolo, se fossi un mitografo come il giornalista Theodor White - o la stessa Jackie - o Dylan - magari mi ci proverei. Non è neanche Trump il problema (magari lo sarà nei prossimi anni - o magari sarà una soluzione, finalmente c'è un villain all'altezza del ruolo). Secondo me Hollywood non sa più che film premiare. Se la sono tutti presa con La La Land, un film che oscilla continuamente tra il dilettantesco e l'ipercitazionista. Dicevano: 14 nomination sono troppe. Può darsi, ma a chi darle, sennò? Che altri bei film avete visto nel 2016? Siamo onesti: avrebbe dovuto vincere tutto Zootopia. La rosa dei candidati era qualcosa di deprimente. Moonlight è un film che fino a qualche anno fa molti giurati non avrebbero nemmeno visto per intero, un film all'europea, intimista, diciamo pure ombelicale. Ormai il grosso dei budget è concentrato sulle saghe, e le saghe si stanno divorando tra loro: buttano fuori la stessa zuppa sempre più abbondante, sempre più pasticciata, tanto la gente manda giù di tutto.
Non è che non ci siano idee, non è che manchino gli sforzi produttivi coraggiosi. Ma ormai si concentrano sulla tv. Jackie a un certo punto doveva essere una miniserie HBO, e questo spiega in parte lo strano respiro del film - è come se Larraín abbia potuto pescare da una rosa di scene madri, a un certo punto c'è una interminabile mega-sequenza che è un mix di tre finali di tre possibili episodi: Jackie sta parlando al giornalista ma sta anche parlando a un prete, ma sta anche seppellendo Jack, ma sta anche tenendogli in mano il cranio, stretto come un vaso perché ne coli meno sangue possibile. Nel frattempo io mi sto addormentando, ma anche domandando se non è il miglior film che ho visto del 2016; o se non è per caso il peggiore; se Larraín voglia bene a Jackie o se non abbia deciso di prendere in giro gli yanquis in un modo talmente sublime che rischiava di vincerci un Oscar (è abbastanza incredibile che Natalie Portman non l'abbia vinto).
Il film all'inizio doveva farlo Aronofsky con Rachel Weisz, poi si sono lasciati e Aronofsky ha avuto questa pazza idea di proporlo a un regista cileno che a Hollywood non aveva mai lavorato. In un certo senso aveva visto giusto: Jackie era un personaggio perfetto per Larraín. È una pubblicitaria, una mitografa, una persona che vive nel suo stesso racconto. Ma di solito Larraín questi personaggi li racconta da fuori, con un'esibita freddezza, che a Hollywood non si può che stemperare. La Jackie di Larraín è una comunicatrice navigata, ma è anche una donna sconvolta che si aggira per i corridoi della 'sua' casa bianca come Jack Nicholson in quell'albergo. Dice cose molto sottili ma anche cose pazzesche. A un certo punto si lamenta con Bob che l'assassino sia solo un comunista da due soldi: se almeno l'avessero ammazzato per i diritti civili, avrebbe avuto più senso, no? È sotto choc, ma è anche un po' mitomane. Perché il suo autista si ricorda di Lincoln e non degli altri presidenti assassinati? Perché ha abolito la schiavitù? No: perché ci fu un funerale in pompa magna. E quindi ci vogliono più cavalli! Più cannoni! Poi cambia idea. Poi la cambia di nuovo. In una miniserie forse Larraín avrebbe trovato il ritmo. Qui è tutto contratto, mescolato secondo libere associazioni, al punto che sembra un sogno e forse a un certo punto stavo sognando sul serio.
Io la rispetto Signora Kennedy / ma non ho bisogno di fotografie per fornire rispetto... / il mio rispetto nasce da motivi che sono nel mio animo / che non posso toccare / né spiegare...
Non mi sento meglio sapendo che lei è umana / Lo sapevo da sempre
Bob Dylan
Jackie è all'Impero di Bra alle 20:20 e alle 22:30; al Fiamma di Cuneo alle 21:10.
Quattro funerali e due divorzi a Manchester (sul mare)
21-02-2017, 10:5921tw, cinema, Cosa vedere a Cuneo (e provincia) quando sei vivo, dialoghi, fb2020, vita e mortePermalinkHai presente certi ceffi che vedi al bancone, nel tardo pomeriggio o se ripassi all'ora di chiusura, sempre una pinta davanti mezza vuota, hai presente quel tipo di espressione...
"Non fissarlo".
...ma è più una smorfia, di uno che la vita l'ha preso a legnate ma per qualche motivo si è dimenticato di darle il colpo finale, e forse la birra serve a questo, o a lenire il dolore, o a dormire senza sogni, chi può dirlo.
"È meglio se non lo fissi, dammi retta".
È che mi ricorda qualcuno.
"Casey Affleck in quel film?"
Oddio cosa mi hai fatto pensare.
"Con venti chili in meno, magari".
Che è il principale problema di quel film.
"Un problema? Che Casey Affleck è in forma?"
Sono contento per lui e il suo affezionato pubblico, ma interpreta un tizio che, hai presente la trama? Beve una birra all'ora almeno da dieci anni. E ancora ha una linea fantastica...
"Sarà la neve che spala dal suo abbaino".
...ed è il sogno erotico delle inquiline dei palazzi in cui lavora da tuttofare. Allora sì, dico che c'è un problema con i corpi che Hollywood presta al cinema d'autore. Non sono realistici, non mi parlano del mondo in cui abito, non ho niente contro Casey Affleck, gli auguro tutti i premi, ma sembra calato nel Massachusetts da un film di gangster, o di supereroi, è di nuovo lo stesso problema di Captain Fantastic: sono tutti troppo belli perché io me la beva. E bersela è un po' il senso di andare al cinema, no?
"La sospensione dell'incredulità".
Esatto.
"Adesso comincia a fissarti lui, vedi?"
Chissà che gli è successo, poveraccio.
"Non sono fatti nostri".
Perché invece quello che succede a Casey Affleck?
"Eh? Stai scherzando?"
No. Spiegami per quale motivo al mondo dovrei interessarmi all'elaborazione del lutto di Casey Affleck. Un lutto finto, tra l'altro. Come se non avessi già i lutti miei che mi danno da fare.
"Hai bevuto".
Questo in realtà è un altro film, ma è la foto più recente che ho trovato di Casey Affleck al bancone. |
"Senti. È un film che è piaciuto a tutti. A tutti, capisci?"
E beh certo, chi vuoi che si metta contro dei bambini morti (continua su +eventi!)
"Può sembrarti ricattatorio, ma è un fatto che film di questo tipo funzionino. Forse assolvono a una funzione catartica".
E allora dichiaro che con me non succede.
"Ma sarà un problema tuo, non di Lonergan".
Sono uscito con sette euro in meno e un magone in più. Non dico che mi ci sbronzavo con sette euro, ma poteva essere un buon inizio, no? Ma sul serio ma la gente normale non ce li ha i suoi morti da piangere, che ne deve prendere in prestito di finti al cinema? Non ci ha nessun amico o parente che ti tormenta nei ricordi? Ah ma io vi invidio a voialtri che nel tempo libero giocate all'elaborazione del lutto come se fosse un passatempo.
"Parla piano, adesso ci guardano tutti".
Che io posso capire Nanni Moretti. Perché alla fine ormai è uno che conosco. O almeno ci ha dato questa sensazione. Per cui se Nanni Moretti perdesse un figlio, o una moglie, o una mamma, o il cane, non è escluso che tra dieci anni ci faccia un film su quella volta che ha smarrito il cane, io però comunque ci vado perché, cosa vuoi che ti dica, anche quando non è in forma ormai è un conoscente, Nanni Moretti, e se sta male mi sento in dovere di starci un po' anch'io, funziona così. Non dico che abbia un senso, eh? Però funziona.
"Ma perché tiri fuori Nanni Moretti in birreria, dai..."
E poi il ragazzo è uno stronzetto insopportabile, lo vogliamo dire? |
"Va bene, adesso usciamo".
No aspetta voglio dire qualcosa a quel tizio che continua a fissarci.
"Ma sei tu che hai cominciato".
Infatti e adesso vado là e gli rompo il naso. Sembra che me lo stia chiedendo.
"Ma perché vuoi fare una cosa del genere, fammi il piacere".
Perché non posso romperlo a Lonergan, né ad Affleck, il quale peraltro me le darebbe indietro. Invece 'sto tizio è proprio appesantito il giusto, ehi scusa, tizio ci conosciamo?
"Manchester By The Sea è il film drammatico di Kenneth Lonergan in programmazione al Cinelandia di Borgo San Dalmazzo alle 21. È candidato a sei Oscar, è molto triste ed è piaciuto a praticamente tutti"
No? E allora perché mi fissi, eh? Si può sapere?
L'ultimo romantico (spaccia crack ad Atlanta)
16-02-2017, 07:55cinema, Cosa vedere a Cuneo (e provincia) quando sei vivo, fb2020, omofobie, razzismi, sessoPermalinkDa Miami ad Atlanta (Georgia) sono mille chilometri; da Atlanta a Miami sono nove ore di autostrada, e non c'è nessuno al mondo per cui le faresti stasera, o no? Forse per quel ragazzo che al liceo ti ha messo al tappeto, non lo vedi da allora. Probabilmente è ormai un'altra persona, come te. Ti sei impegnato, hai mollato la scuola e hai trovato qualcuno che credesse in te (l'hai trovato in galera, ma sputaci sopra). Hai messo i muscoli dove avevi i lividi, ora non scappi più dai bulletti di quartiere; hai una bella macchina e un paradenti a 24 karati, la gente ti saluta non ti mette fretta. Li hai messi tutti in fila, non devi più niente a nessuno.
Ma se ti chiamasse quel ragazzo tu non ripartiresti in dieci minuti? Il cuore in gola come una scolaretta?
Se solo fosse uscito qualche giorno prima, Moonlight sarebbe stato il film più romantico nelle sale italiane per San Valentino. Altro che le 50 sfumature, col loro sadomasochismo omeopatico per coppie etero che non sanno più che sesso fare. Persino il Panavision di La La Land sbiadisce di fronte a un film di soli maschi afroamericani (le donne in scena fanno solo le madri, con risultati molto discutibili): qui c'è gente che si tocca una volta ogni dieci anni e poi vive nel ricordo. L'omosessualità è l'ultima frontiera del romanticismo, lo si era capito con Adele: certe situazioni, certi sentimenti sullo schermo grande e piccolo ormai li tolleriamo soltanto se riferiti a una minoranza da tutelare. Le uniche storie d'amore che riusciamo a guardare sono quelle insolite, per esempio qui ci sono due bambini / ragazzi / uomini che ogni dieci anni devono trovare una scusa per toccarsi. All'inizio si può giocare alla lotta, è cosa nota; ma poi diventa sempre più difficile, e purtroppo il film è quasi tutto lì: Chiron guarda Kevin, Kevin guarda Chiron, parlano del più e del meno col lessico molto impacciato di chi ha finito gli studi in galera (se inghiotti un popcorn ogni volta che nella versione originale dicono "man" ti ammazzi), cercano scuse per non salutarsi e andare via, e tu sei lì davanti, un po' il terzo incomodo - che è quello che succede in tutti i film d'amore, no? Ma qui non finisce mai. Parlano, si guardano, si guardano, parlano - in Adele succedevano anche altre cose, per dire.
Il regista Barry Jenkins e il drammaturgo Tarell McCraney hanno avuto fortuna, o colto l'attimo: l'anno scorso, in pieno movimento Black lives matter, i giurati dell'Academy non sono riusciti a candidare un solo attore afroamericano. Ne è ovviamente seguita una polemica. Poi è arrivato Trump, l'America razzista - o come si dice adesso, alt-right - ha perso il voto popolare ma ha messo il suo ometto nella Casa Bianca. Aggiungi che per Hollywood non è stato un anno esaltante, e il risultato è che Moonlight, un film d'autore che in altre stagioni non sarebbe uscito dal circuito dei festival, ha fatto man bassa di nomination, e qualche statuetta facilmente la porterà a casa: anche perché i rivali principali sono La La Land, già accusato di speculare sulla musica nera e sbiancarla, e Mel Gibson coi suoi trascorsi indifendibili, ubriachezza molesta e antisemitismo. E va bene così, abbiamo visto film anche meno meritevoli, e se è stato un colpo di fortuna è bello pensare che ogni tanto baci pure gente come Barry Jenkins, che aveva fatto un solo film nove anni fa (apprezzato dai critici) e poi si era messo a fare il carpentiere (continua su +eventi!)
C'è anche Janelle Monàe, di mestiere è una cantante matta, ma qui fa una particina quasi normale. |
L'audace colpo dei soliti ricercatori
07-02-2017, 18:4321tw, cinema, Cosa vedere a Cuneo (e provincia) quando sei vivo, drogarsi, fb2020PermalinkSono tornati, hanno ancora fame. Dopo essersi spinti ben oltre i limiti della legalità, dopo averne pagato le conseguenze con gli interessi, i Ricercatori hanno finalmente trovato un Ente statale che apprezza le loro straordinarie competenze. E ha un lavoro da offrire, capite? Un lavoro.
A progetto, naturalmente.
Senza assicurazione, beh, ovvio.
In nero, già. Di chi si tratta?
Della Polizia di Stato. Cosa hanno da perdere? Tutto.
Possono almeno smettere quando vogliono?
No.
Sono passati appena due anni - sembra un'era - da quando Sidney Sibilia, al suo esordio dietro la macchina, scoprì la formula che trasformava in action comedy una frustrazione tutta italiana (la fuga dei cervelli, il precariato dei ricercatori). Smetto quando voglio ci pigliò benissimo, era qualcosa di cui non sapevamo quanto avessimo bisogno, finché non l'abbiamo provato.
Da allora la situazione è parecchio cambiata. Mentre Sibilia riposava altri si sono inseriti nel mercato, mettendo in circolazione formule ancora più spinte. Jeeg Robot e Veloce come il vento non sono nemmeno più commedie, sono action e basta: le inevitabili tracce di parodia ridotte al minimo. Smetto quando voglio 2 accetta la sfida: volete l'action? Vi daremo inseguimenti nel parco archeologico e un assalto al treno merci in side-car, con scazzottata in cima ai vagoni. E questo è ancora niente, per la terza puntata ne abbiamo in serbo di fortissime... Per fortuna Sibilia è molto più consapevole dei propri limiti di quanto non appaia: sotto l'apparenza sbruffona c'è una precisa valutazione di quello che può funzionare e quello che sarebbe bello sulla carta, ma è meglio lasciar perdere. Per esempio a un certo punto ci porta a Bangkok, ci illude facendoci sentire odore di kickboxing, ci guida tra i meandri di un mercato e proprio quando sembriamo arrivati a un ring clandestino, taglia corto e la butta in farsa. Action sì, ma con criterio, certe competenze non s'improvvisano. La scena più simbolica è davvero l'inseguimento ferroviario, movimentato e complesso ma prudentemente mantenuto ai sessanta km all'ora. Più forte di così per ora il cinema italiano non può andare: è un problema? Per un regista italiano è già molto, come fai a prendertela con Sibilia? Dopo un inverno di cinepanettoni, cinepandori, cinetorroni, i suoi ricercatori-supereroi sembrano venire da un altro pianeta. Lui stesso sembra sapere che i suoi clienti gli permetteranno qualsiasi cosa e ormai si comporta da impunito, scherza coi feticci del Terzo Reich, flirta col proibizionismo ma solo per far andare avanti la trama. Per quanto ispiri simpatia, si merita d'essere preso sul serio, perché è vero che ha già fatto tanto per l'ecosistema del cinema di genere italiano, ma con un piccolo sforzo potrebbe fare anche di più.
Per esempio: c'era proprio bisogno di ampliare il cast? (Continua su +eventi!) Certo, siamo tutti contenti di vedere Giampaolo Morelli nella banda, ma ormai a ogni comprimario spetta poco più che un siparietto (mentre per paradosso il ruolo di Edoardo Leo diventa ancora più centrale). E se allargare la squadra era l'unico modo per mantenere alto il ritmo, possibile che anche stavolta non ci fosse posto per una ricercatrice? Forse che di studiose super-specializzate e sotto-occupate l'Italia non abbonda? Ecco, un rilievo che si può fare a Smetto quando voglio 2, è che per quanto ammicchi a prodotti americani come Suicide Squad e Ritorno al futuro, non riesce del tutto a uscire dal solco di Amici miei o dei Soliti ignoti: la sua Banda di intellettuali declassati continua ad assomigliare a una cumpa di amici in libera uscita. Un gruppo di soli uomini che fanno per lo più le cose stupide che fanno gli uomini quando escono da soli: zingarate, corse in furgone, droghe di sintesi.
Non è che le donne del film siano stupide, tutt'altro: ma rappresentano una forza ostile che espone la Banda a tensioni distruttive. Greta Scarano (meravigliosa) è la poliziotta senza molti scrupoli che approfitta dei Ricercatori come un qualsiasi barone universitario; Valeria Solarino interpreta in modo sempre più arcigno il Principio della Realtà, pretendendo dal protagonista una normalità impossibile: quando lei è in scena anche il filtro del colore si deprime. E tra i pochi personaggi che non ritornano nel secondo episodio purtroppo c'è la moglie sinti dell'economista De Rienzo. Sarà un pelo nell'uovo, ma siamo nel 2017, persino quel burino di Luc Besson ha capito che i film d'azione oggi si fanno coi protagonisti femminili; e noi ancora stiamo alla moglie col pancione che si lamenta delle rate sulla lavastoviglie, pretende che il marito chimico-spacciatore-informatore faccia il buon marito e l'accompagni alle ecografie anche se è detenuto. E dire che sarebbe bastato aggiungere un'architetta geniale, o una psicologa, un'esperta di biotecnologie, ce n'erano dei rami da coprire. Speriamo nel terzo episodio: e che anche dopo nessuno abbia troppa voglia di smettere. Smetto quando voglio 2 - Masterclass è al Cityplex di Alba (19:30; 21:30); al Cinelandia di Borgo San Dalmazzo (20:00; 22:30); al Vittoria di Bra (21:00); ai Portici di Fossano (21:15); all'Italia di Saluzzo (17:00; 20:00; 22:15 e al Cinecittà di Savigliano (20:15; 22:30).
La La La ti sento eccome
02-02-2017, 02:5121tw, cinema, Cosa vedere a Cuneo (e provincia) quando sei vivo, fb2020, musica, nostalgiaPermalinkLa La Land (Damien Chazelle, 2016)
"Buongiorno in cosa posso esserle utile?"
"Buongiorno, io... io ho visto La La Land".
"Allora ha chiamato il numero giusto, questo è..."
"E non m'è piaciuto!"
"...il numero verde per gli spettatori di lingua italiana a cui non è piaciuto. Noi offriamo assistenza a tutti quelli che si domandano..."
"C'è qualcosa che non va in me?"
"Assolutamente no, signora. È una questione di gusti".
"Ma è piaciuto a tutti tranne che..."
"No, signora, stia tranquilla, non è piaciuto a tanta gente. È normale".
"Anche se ammetto che certe cose erano davvero ben fatte, eppure..."
"Siamo lieti che lo valuti positivamente e la ringraziamo per il feedback. Ha avuto anche lei la sensazione che nelle sequenze iniziali la macchina da presa facesse parte della coreografia?"
"Può darsi. Ma non mi è piaciuto lo stesso!"
"Forse non le interessano i musical".
"Non saprei".
"Ha apprezzato altri musical di recente?"
"Io, boh... una volta ho visto Cantando sotto la pioggia..."
"Beh, se ne doveva scegliere uno solo, ha scelto bene".
"...e non c'è paragone".
"Allora vede, signora, forse lei è entrata in sala con aspettative eccessive, perché quando parliamo di Cantando sotto la pioggia siamo proprio al top di gamma, capisce? Sarebbe un po' come aspettarsi 2001 Odissea nello spazio tutte le volte che si va a vedere un film di fantascienza".
"Ed è sbagliato?"
"Non c'è nulla di giusto o di sbagliato, ma forse gioverebbe tenere l'asticella un po' più bassa, rimediare meno delusioni. Al cinema come nella vita".
"Comunque adesso che ci penso è davvero da tanto che non vedo un musical".
"In Italia fanno fatica. Ha presente Sweeney Todd?"
"No".
"Dieci anni fa. Forse l'ultimo Tim Burton importante. 150 milioni al botteghino, nomination a Johnny Depp".
"E in Italia non l'hanno distribuito?"
"Certo. Ma si erano dimenticati di avvertire che era un musical".
"Sul serio?"
"Nei trailer italiani i personaggi non cantavano. Allora forse, mi dico, forse, se attiri al cinema la gente e non l'avverti prima che i personaggi canteranno tutto il tempo, poi è naturale che ci restino male e detestino i musical".
"Ma perché ce l'avremmo coi musical, noi italiani?"
"Chi lo sa. Cocciante è andato in Francia. E Tano da morire? Nessuno si ricorda più di Tano".
"Forse è il rigetto per due secoli di melodramma, dobbiamo espiare per quanto abbiamo stressato il mondo con la Butterfly e la Traviata".
"Più probabilmente è un problema di doppiaggio. Il momento in cui gli attori passano dal recitativo al cantato è molto delicato. Se proprio in quel momento sente cambiare il timbro di voce e la lingua, magari la sospensione di credulità ne soffre e non riesce ad apprezzare il film".
"Ma l'ho visto in lingua originale!"
"Forse si è affaticata leggendo i sottotitoli. La gente è convinta di poter vedere un film e intanto leggere i sottotitoli, ma è più faticoso di quanto sembra":
"Dice che è per questo che a metà del secondo tempo stavo per addormentarmi?"
"Il calo di tono è necessario, fisiologico - sarebbe insostenibile un film tutto coreografato come la prima mezz'ora. Ed è perfettamente previsto dalla storia: prima ci si innamora ed è tutto bellissimo e promettente, e poi... le complicazioni".
"Niente di nuovo insomma".
"No, decisamente no. Ma credo fosse già chiaro dai manifesti, no? È un film sulla nostalgia".
"Ecco, forse sono stanca di tutti questi film nostalgici".
"Mi permetto di dissentire. È un film sulla nostalgia, non è un film nostalgico. Usa il passato in modo funzionale, per ottenere determinati effetti. Non prova neanche per un attimo a convincerti che esisteva davvero un paradiso perduto di gente felice e di oggetti belli".
"I vinile, i vecchi cinema che chiudono, la macchina di James Dean, il jazz fino a Miles Davis..."
"Ok, c'è un personaggio che è un maniaco di queste cose. Ma alla fine tutte queste ossessioni gli si ritorcono contro - anzi, no, sin dall'inizio. Mi sembra lo stesso problema che avevano alcuni con Whiplash: aiuto, c'è un protagonista che sacrifica gli affetti alla carriera! Sì, ma non è mica un personaggio così positivo. Neanche Gosling in questo film lo è".
"Un bianco che spiega il jazz ai neri".
"Per la verità è il contrario; è l'amico nero che gli spiega cos'è veramente il jazz: una continua evoluzione. Mentre lui sembra bloccato nella fase puberale. Ha perfettamente senso che sia bianco, a proposito. L'hipsterismo contemporaneo è roba da giovani bianchi benestanti. L'idea che il jazz coincida con la sua Storia, e che abbia un'età dell'oro, dell'argento, il bebop il cool il free e la Caduta, è una menata da critico bianco. Si ricorda Denzel Washington in Mo' Better Blues..."
"Vagamente".
"...che suona la tromba in una band post-bebop e si domanda: dove sono i fratelli? Perché ci vengono a sentire solo i bianchi? Insomma signora, le può dispiacere La La Land per un migliaio di motivi, ma un tizio che ascolta i vinile, si crede James Dean e si offende perché servono tapas in un locale di samba dev'essere bianco. Ma diciamola tutta. Dev'essere Ryan Gosling".
"Anche se non balla un granché bene".
"Ma ne è sicura?"
"Un po' legnoso".
"Ma signora, aveva detto che a lei non piacciono i musical, è sicura di poter giudicare la prestazione di Ryan Gosling? Di sicuro non è Fred Astaire, ma balla in modo più che passabile e ha una voce educata e gradevole. In più è perfetto per la parte, insomma, è sicura che avrebbero mai potuto trovare di meglio?"
"A questo punto mi aspetto che difenda anche Emma Stone".
"Beh, sì, è perfetta. Cioè, no, è proprio la sua imperfezione che la rende... perfetta per la parte. È una che non sei mai sicuro se ce la farà. Quando intona, quando parte a ballare, quando è a un provino, è sempre sull'orlo del baratro. E se ne rende conto. È una scelta ottima, davvero".
"E anche lei doveva essere bianca per forza?"
"Anche su questa cosa, ci ho riflettuto".
"Addirittura". (Continua su +eventi!)
"Perché se lo sono chiesto in tanti, ma il punto è questo: se avessero scelto un'attrice brava come lei, imperfetta come lei... però nera, le stesse scene avrebbero lo stesso senso? Quando passa di provino in provino e la scartano e ne minano l'autostima: funzionerebbe ugualmente? Non cominceremmo a sospettare che la scartano perché è nera? È un film sull'autoaffermazione, non sulla discriminazione".
"Magari a me interessa di più la discriminazione".
"Ha perfettamente ragione, è un tema più interessante".
"Cioè tutti questi film sulla gente che crede nei loro sogni, anche basta".
"Comprendo il suo fastidio, è un segmento molto coperto".
"Non ci sono già abbastanza talent in tv?"
"E tuttavia, signora, nel frattempo un tizio che faceva il giudice in un talent ha vinto le elezioni americane e sta alla Casa Bianca, per cui forse La La risente molto più dello spirito del tempo di quanto crediamo".
"Sta cercando di convincermi che La La può spiegarci Trump?"
"No, ma non è neanche quella fuga in un passato rassicurante che finge di essere... magari ti piazza un finale falso, un balletto in cui tutte le cose per un momento vanno per il verso giusto, ma la morale è molto meno edificante - ed è la stessa di Whiplash: uno su mille ce la fa ma poi passa la vita a domandarsi se ne valeva la pena".
"Non l'ho visto, Whiplash".
"Vale la pena. Non è un musical. Non c'è nemmeno una storia d'amore. Ha presente quando il maître del ristorante licenzia Gosling su due piedi? Ecco, Whiplash è tutto così, dura un'ora e mezza, è divertente e un po' angoscioso".
"E non balla nessuno".
"Suonano soltanto. Ma signora, le canzoni di La La non le sono piaciute? Secondo me sono la cosa migliore".
"Non credo di apprezzare il jazz".
"Non sono poi così jazz. Dica la verità, non le sta già canticchiando? Sono maledettamente orecchiabili. Tutt'altro che banali, eppure neanche così complesse. City of Stars è un classico immediato, si fischietta al primo colpo, la puoi imparare alla quinta lezione di pianoforte, ne scrivono una ogni vent'anni di canzoni così. Cioè bravo Chazelle, ma soprattutto Justin Hurwitz. Quando hai un talento del genere puoi anche concederti il lusso di metterti in discussione, di domandarti se è giusto insistere su un sound così fuori dal tempo. Perché il film fa questo: si presenta dicendo, ehi, abbiamo un'idea di jazz che forse è quella sbagliata, però sentite intanto cosa siamo riusciti a combinarci".
"Va bene, Hurwitz probabilmente un Oscar se lo merita".
"Grazie, signora".
"Ma altri tredici, dico, scherziamo?"
"Sono solo nomination".
"Non è mica Eva contro Eva".
"No, senz'altro no. Anche se il tema è simile - i giurati hanno un debole per i film che parlano della loro professione. Forse ha preso tante nomination perché oggi c'è meno competizione, tante professionalità si stanno spostando sulle serie tv... è un'ipotesi. Senz'altro La La è una risposta alla domanda: perché andare in sala oggi, perché non guardarsi un film a casa? La La va proprio visto in sala. Deve venirti voglia di smontare le poltrone".
"Eh?"
"Come ai tempi di Blackboard Jungle, ha presente? La gente entrava per ballare i titoli - che erano Rock Around the Clock, l'unico pezzo rock che si potesse sentire in città - smontavano le poltrone e si mettevano a ballarlo. Anche la prima sequenza di La La Land funziona così, in fondo".
"È uno scherzo, vero?"
"Sia sincera. Non le è venuta voglia di smontare le poltrone durante Another Day of Sun?"
"Mi è venuta voglia di uscire".
"Ecco, allora... non so che dire... mi dispiace".
"Non si deve dispiacere, sto a posto così".
"Pensa che lo scriverà su facebook?"
"Perché me lo chiede?"
"Perché è stato osservato questo fenomeno. Quelli a cui non piace La La sentono l'irrefrenabile desiderio di dichiararlo su facebook".
"E... nell'eventualità, diciamo, che male ci sarebbe?"
"Provo con un esempio. Io non riesco a mangiare la nutella".
"È una questione di gusti".
"No. La nutella è buona. È progettata per piacere a tutti. Piace praticamente a tutti. Ma io sono allergico alle nocciole".
"Oh, mi dispiace".
"Ecco, vede che le dispiace?"
"Non dovrebbe dispiacermi? Ho pietà di lei, non apprezzare la nutella è..."
"Lo dica".
"...una menomazione".
"Ecco. Ma si immagini che io scrivessi su facebook che schifo la nutella, che ne facessi una questione di orgoglio, cioè mica come tutti i pecoroni convinti di apprezzare una crema spalmabile di cioccolato e nocciole solo grazie al marketing... solo io sono in grado di capire che in realtà quella roba fa schifo: cosa penserebbe di me?"
"Che ha una notevole autonomia di giudizio..."
"Mmm"
"Per un tredicenne, voglio dire".
"Ecco, appunto".
"Appunto cosa?"
"Signora, non c'è niente di male a non apprezzare i musical, a non aver voglia di saltare le poltrone quando cantano reaching up the heights. Ma non c'è nemmeno nulla di cui vantarsi, capisce?"
"No".
"Fa lo stesso. Adesso scusi, questo spazio è gentilissimamente offerto da Piùeventi Cuneo e quindi ora devo dare i titoli: La La Land è anche stasera al CITYPLEX CINE4 di Alba (21:00), al CINELANDIA di Borgo San Dalmazzo (20:00, 22:40), al CINELANDIA FIAMMA di Cuneo (21:10), ai PORTICI di Fossano (21:15) e al CINECITTÀ (Savigliano). Buona visione, e smontate quelle fottute poltroncine!"
"Io non ci torno".
"Non me ne frega niente di quello che fa lei signora".
Dio è morto, il Giappone è una palude, e Scorsese sta benissimo
27-01-2017, 18:3021tw, cinema, Cosa vedere a Cuneo (e provincia) quando sei vivo, cristianesimo, fb2020PermalinkSilence, (Martin Scorsese, 2016).
Verso il 1650 cominciò a girar voce che Sawano Chūan, già conosciuto come Cristóvão Ferreira, fosse morto: e prima di morire avesse ritirato la sua scandalosa apostasia, e proclamato a gran voce davanti all'inquisitore del Giappone la sua fede in Cristo, che 15 anni prima aveva rinnegato. Per questo era finalmente stato condannato al supplizio del pozzo: sospeso a testa in giù e dissanguato lentamente. La solita propaganda dei gesuiti: chi andò a controllare scoprì che Sawano-Cristóvão aveva avuto un funerale buddista, presso il tempio che aveva scelto conformemente alle leggi dello shogunato. Il suo nome giapponese si legge ancora sulla lapide. Forse in segreto continuò a credere nel dio cristiano per tutto quel tempo: ammesso che si possa credere a un Dio in segreto. C'è chi non lo ritiene possibile.
Un vero fumie: il volto di Gesù è consumato dalle centinaia di piedi che lo hanno calpestato |
Eppure Silence non è il film che il pubblico si aspetta da lui - men che meno i giurati dell'Academy, che in fondo hanno sempre diffidato di questo corpo esterno, questo seminarista fallito e riconvertito al cinema. Il film sembra concepito per confondere e tradire gli spettatori che abbiano una fede superficiale nel suo cinema. Scorsese li attende silenzioso al termine di un lungo viaggio in un Giappone antipittoresco, e dopo due ore e mezza non ha ricompense da offrire a chi lo trova: solo silenzio. Può darsi che non sia il suo migliore film. Neanche tra i suoi primi dieci film. Ma anche quando tace e prega, può tranquillamente dare lezioni di cinema e vita a chiunque sia disposto a imparare. Più che con altri suoi film, trovo inevitabile confrontarlo con quello che passano gli altri conventi: per esempio giusto un anno fa stavamo tutti applaudendo per Revenant. Anche quello un film lungo e senza compromessi, anche quello ambientato in un paesaggio naturale alieno, ostile, e ispirato a un fatto vero.
È un confronto impietoso (continua su +eventi!).
Un crocefisso abusivo, nascosto dietro la schiena di un Budda |
Sbarrando gli occhi durante la visione di Revenant riesci a vedere un regista milionario sul suo patio che si domanda cosa allestire per il pubblico bue e ai giurati degli Oscar: una storia di vendetta? Però nel finale bisogna ricordarsi che la vendetta è brutta, al massimo va subappaltata al buon selvaggio che resta buono anche quando scalpa un potenziale ladro di terra. Silence è un film che parla a ogni persona che ha cercato Dio e non l'ha trovato, o l'ha perso nel silenzio: è il regalo umile e superbo di un gesuita mancato che passa il tempo a tormentarsi: se soltanto fossi nato in tempi più semplici, con meno tentazioni in giro, meno droghe e meno macchine da presa... che gran cristiano che sarei stato.
Andrew Garfield oscilla continuamente tra l'imitazione di Cristo e la sua parodia: desideroso di seguire i suoi maestri, precipita in un sadico vangelo al contrario dove i buoni forse sono buoni per il motivo sbagliato, e i cattivi molto più ragionevoli, ma spietati proprio per questo. Cristo è un amico immaginario che ti porta davanti al baratro fra tortura e dannazione e ti lascia lì senza spiegarti niente, devi cavartela da solo. Scorsese non ha risposte, o non ce le vuole dire, e se le porterà con sé fino all'ultimo giorno.
Silence è alla Sala Polivalente di Piasco (21:10) e al Cinema Italia di Saluzzo (20:30).
Io e te, alieno, cosa abbiamo da dirci?
23-01-2017, 23:2421tw, cinema, Cosa vedere a Cuneo (e provincia) quando sei vivo, fb2020, futurismi, scienzaPermalinkTi trovi in mezzo a un prato, o a un bosco, o un deserto, quando ti imbatti negli alieni. Come fai a presentarti, diciamo, come un animale raziocinante, abbastanza degno di un tentativo di comunicarci, piuttosto che d'essere sezionato o servito a cena? Il teorema di Pitagora potrebbe aiutarci anche in questo. Un animale che sappia disegnare per terra un quadrato dell'ipotenusa uguale alla somma dei quadrati dei cateti non dovrebbe essere considerato selvaggina. Matematica e scienza saranno il nostro terreno d'incontro obbligato: "triangoli", "cateti", "ipotenusa", "uguale", "quadrati", sono concetti che dovrebbero esistere in qualsiasi parte di questo universo, ed è molto difficile che una razza senziente riesca a viaggiare nello spazio senza averli scoperti e codificati.
Questo ottimistico punto di vista è ben espresso da un racconto del 1957, Omnilingual, in cui i fanta-archeologi che trovano su Marte resti di una civiltà avanzata estintasi millenni fa brancolano nel buio dei simboli finché non trovano, appesa a una parete, una tavola degli elementi: la Stele di Rosetta. Solo il collega più anziano, esperto di Ittiti e non di particelle, osa formulare il dubbio cosmico: Come facciamo a essere sicuri che i 'loro' elementi non siano diversi dai 'nostri'? La nuova generazione gli ride in faccia: nonno, posa il tuo relativismo umanistico. Che sia Marte o Alfa Centauri, l'idrogeno avrà sempre un protone. Le cose non possono essere più complicate di così. O no?
Storia della tua vita, il racconto di Ted Chiang che ha ispirato Arrival, mette appunto in crisi questo approccio. E se la scienza degli alieni fosse diversa dalla nostra? Se il calcolo integrale per loro fosse facile come le tabelline, e le tabelline viceversa calcoli astrusi e poco familiari? In teoria dividiamo lo stesso universo. Ma se avessimo una percezione dello spazio-tempo completamente differente? Che casino sarebbe... (ma che rivincita per il relativismo umanistico).
Questo per esempio è molto ingenuo. Come fai a dare per scontato che distinguano il nero dal bianco e lo considerino un simbolo? |
E se anche per gli alieni non esistesse il "prima" e il "dopo" degli umani? In questo caso la domanda più banale ("perché siete qui?"), sarebbe anche la meno comprensibile: potrebbe esistere un "perché" in un mondo in cui potessimo vedere ogni cosa già conclusa prima che accada? In altre parole: nella realtà descritta dal principio di Fermat, e dagli altri principi variazionali, ha ancora senso parlare di libero arbitrio? Non solo gli alieni non saprebbero fornirci un perché, ma anche noi umani dovremmo domandarci se i perché hanno un senso. Tutto accade nello stesso momento, e se potessimo vedere la nostra morte - come gli alieni - non potremmo comunque impedirla. È lo stesso Chiang a proporci una metafora: vivere oltre il tempo è come avere un figlio. Nel momento in cui lo concepisci sai già che soffrirà, ma non si torna indietro. Lui non ha scelto di vivere, e nemmeno tu in fondo hai potuto scegliere che nascesse.
Questo parallelismo non così banale - il figlio come un alieno, o forse gli alieni sono i nostri padri che non possono e vogliono dirci perché ci hanno messi al mondo? - è quello che ha probabilmente conquistato lo sceneggiatore Eric Heisserer, e spinto a scrivere un copione che senza il successo di blockbuster come Interstellar o Gravity sarebbe rimasto un'idea folle, una sceneggiatura vagante nello spazio cosmico. Heisserer purtroppo ha tolto ogni riferimento a Fermat e inserito l'arrivo degli alieni in una specie di gelida parodia di Independence Day - qualcosa che in effetti Denis Villeneuve poteva aver voglia di girare (memorabile una delle prime sequenze, dove il panico mondiale viene descritto nel modo più quotidiano e canadese possibile: in facoltà gli studenti disertano le lezioni, due macchine si tamponano in un parcheggio. E col panico per questo film siamo a posto). Arrival è, come Sicario, il viaggio di una donna curiosa e competente alla scoperta di una dimensione nuova del mondo. Per il regista non è importante soltanto l'arrivo, ma anche le piccole cose che fanno il viaggio: i corridoi, i briefing, il silenzio già complice dei compagni appena conosciuti.
Purtroppo dopo il momento della scoperta, bisogna anche far succedere delle cose, e Heisserer non è stato all'altezza del compito (continua su +eventi!)
Le intenzioni erano buone - aggiungere alla storia di Chiang quel minimo sindacale di conflitto, di action, persino di esplosioni che potevano rassicurare i produttori e fornire immagini seducenti per i trailer. Così abbiamo gente che mette le bombe perché "ha visto troppi film", abbiamo un generale cinese che vuole attaccare le astronavi (è abbastanza indicativo che i militari americani necessitino per comprenderlo della consulenza della stessa linguista che sta decifrando la lingua degli alieni). Il film non mette i cinesi tra i cattivi, ma quantomeno deve assumere che siano più impulsivi e timorosi degli americani - anche perché invece di cercare di tradurre gli stranieri, si sono messi a giocarci a mahjong (idea geniale, che nel racconto non c'era e che purtroppo è buttata lì un po' in fretta).
Il risultato è un po' una delusione, anche per le attese che questo film era riuscito a suscitare nella prima parte. Ma è giusto prendersela con Heisserer e Villeneuve per aver omesso il principio di Fermat? In generale, possiamo far loro una colpa dell'aver semplificato la storia fino a farla pericolosamente assomigliare a una baracconata new age con gli alieni onniscienti che vengono a regalarci la chiave della trascendenza? È un film di Villeneuve, senz'altro inferiore a Sicario ma con la stessa capacità di fondere l'intimo e il sublime. Ma è anche un film di fantascienza hard, che con la scusa degli alieni ti parla di linguistica e spaziotempo per un'ora e mezza; è un film tratto da un racconto che solo un pazzo poteva pensare di trasformare in pellicola, e Villeneuve sta riuscendo perfino a guadagnarci; insomma è un oggetto straordinario, che dimostra l'ottimo stato della fantascienza al cinema; che fino a tre o quattro anni nessun produttore sano di mente avrebbe pensato di finanziare e invece oggi eccolo qua; e chissà cos'altro arriverà domani, visto che film di questo genere non soltanto si fanno, ma incassano pure. Villeneuve andrebbe soltanto ringraziato per il dono che ha fatto all'umanità, invece di mettersi anche lui a macinare le solite storie viste e riviste, i soliti sequel e i soliti remake. Chissà cosa farà adesso.
"Blade Runner".
"Eh?"
"Sta facendo un Blade Runner".
"Ah".
"Ma in fondo era inevitabile".
"Era inevitabile dall'inizio".
Arrival è al Cinelandia di Borgo San Dalmazzo (20:10, 22:40); al Vittoria di Bra (21); al Multilanghe di Dogliani (21:30); al Cinecittà di Savigliano (20:15, 22:30)
Brad Pitt, spia imperfetta (per fortuna)
17-01-2017, 16:5521tw, cinema, Cosa vedere a Cuneo (e provincia) quando sei vivo, fb2020PermalinkA un certo punto - non rivelo nessun punto saliente della trama - Brad Pitt e Marion Cotillard stanno scappando in automobile. Brad si ferma un attimo davanti a un negozio perché deve sistemare una questione. Marion lo aspetta a bordo, con la bambina in braccio. Lui ha promesso di far presto, invece ci sta mettendo un po', e quindi lei non sa che fare. Non può entrare con la bambina, non può restare ferma lì. Dentro il negozio in effetti stanno succedendo delle cose, ma niente che non accada tipicamente nei film: rivelazioni, sparatorie. Soltanto un pretesto. Quello che veramente importa è nell'auto: l'attesa, l'angoscia, la bambina che è insieme un ostacolo e il senso di tutto quello che sta succedendo.
A un certo punto pensavamo di aver perduto Robert Zemeckis. Il regista di Ritorno al futuro 2, di Roger Rabbit, della Morte ti fa bella, aveva deciso di concentrarsi sull'animazione, e in particolare di quella branca dell'animazione in digitale che fin qui ha dato a investitori e spettatori meno soddisfazioni: la performance capture. Polar Express e A Christmas Carol erano due esperimenti freddissimi, come certe feste organizzate più per dimostrare le proprie capacità che per mettere a proprio agio gli invitati. La performance capture non è né animazione disegnata né realtà filmata: è una sfida della tecnologia digitale a entrambe. Un giorno vincerà, e gli attori saranno sostituiti da manichini digitali assolutamente identici ai modelli. La carriera delle star degli ultimi trent'anni (una generazione già longeva di suo) si prolungherà di qualche secolo: che bisogno c'è di cambiare le facce quando il pubblico è già affezionato a quelle vecchie? Qualche attore ringiovanito digitalmente lo abbiamo già visto. La scelta della Walt Disney, che dopo la morte di Carrie Fisher ha deciso di non utilizzare più la sua versione digitale, non ci incanta: ci aspettano altri cent'anni di Tom Cruise, di Di Caprio, di Matt Damon. Persino di Brad Pitt.
Non tanto l'uso del green screen, quanto il voler farcelo notare. |
Qualche volta azzecca il prodotto giusto, qualche volta rimane impantanato in un disastro (World War Z), ma ne esce sempre abbastanza dignitosamente. Dall'incontro con Tarantino sembra che abbia sviluppato un'ossessione per la Seconda Guerra Mondiale che in realtà ha perfettamente senso: ai film di guerra servono eroi tutto d'un pezzo, non troppo dinamici, meglio se laconici e imbronciati. Senz'altro gli anni '40 sono più congeniali a Pitt di un'apocalisse zombie o dell'assedio di Troia. La spia di Allied è in un qualche modo complementare al capitano del tank di Fury: tanto quest'ultimo era rassegnato a non sopravvivere alla distruzione di cui ormai faceva parte, tanto il primo si ostina a difendere un'oasi domestica di pace che forse era una menzogna sin dall'inizio: un picnic sul prato dove nottetempo è precipitato un bombardiere. È una spia fragile, in un mondo che non tollera debolezze.
A un certo punto la Disney ha chiuso lo studio di performance capture fondato da Zemeckis, dopo averlo rilevato: e il regista si è rimesso a fare film dal vivo. Questo almeno è quello che ci fanno credere. Ma Flight e Allied sono film strani proprio perché insolitamente convenzionali. È difficile spiegare perché, malgrado abbiano tutto quello che ti aspetti da un film, non sembrino veri film, sembrino... finti. Ma tutti i film sono finti, no? Sulla carta Allied è l'ennesima rivisitazione di luoghi comuni del film di spionaggio ambientato negli anni della guerra, con le suggestioni del caso: Orson Welles, Hitchcock, Casablanca. Sullo schermo... c'è qualcosa che non torna, ma è difficile dire cosa. Ci sono sfondi straordinari che è inevitabile immaginare rifatti al computer. C'è un senso della composizione che vince sulle necessità narrative (eppure la storia funziona, e avvince). C'è ancora qualche traccia di quel senso di freddezza che si provava davanti a Polar Express e a Christmas Carol. E infine, ci sono Marion Cotillard e Brad Pitt, in diverse scene le uniche due persone a sembrare vere nell'inquadratura: salvo che appunto, lei è troppo perfetta per esserlo davvero. Solo Pitt, con la sua faccia tirata, sembra garantirci che Zemeckis non lo abbia già sostituito col replicante digitale di sé stesso, che Allied non sia che un colossale scherzo tirato agli spettatori.
A un certo punto la performance capture vincerà: gli archivi di tutto il mondo forniranno agli sviluppatori tutte le fisionomie e le espressioni degli attori più importanti, e finalmente li vedremo interpretare qualsiasi ruolo nell'interpretazione migliore possibile, secondo algoritmi sempre più sofisticati. Ogni tanto magari qualche attore vero insisterà per recitare la sua parte sullo sfondo verde, e come faremo a capire che anche quell'attore non è una rielaborazione digitale? Lo noteremo dai difetti, come notiamo Brad Pitt. Che non è mai perfetto, e a un certo punto abbiamo capito che gli vogliamo bene proprio per questo.
Allied è al Cinecittà di Savigliano (21:30); al Cinelandia di Borgo San Dalmazzo (20:00, 22:40); al Citylplex di Alba (19:30, 22:00); all'Italia di Saluzzo (17:00, 21:30); al Vittoria di Bra (21:00)
Diventare mostri a Teheran
11-01-2017, 18:2921tw, cinema, Cosa vedere a Cuneo (e provincia) quando sei vivo, fb2020PermalinkRana una sera era stanca. Il trasloco, le prove a teatro fino a tardi. Era appena arrivata nel nuovo appartamento, aveva ancora il trucco addosso e voleva fare una doccia. Il citofono ha suonato e lei ha aperto. Ma non era suo marito. Sono incidenti che purtroppo capitano dappertutto: perché non a Teheran?
A Cannes l'anno scorso c'è stato il festival del degrado urbano cinematografico. In una botta sola Mungiu (Bacalaureat), Ken Loach (Daniel Blake), i fratelli Dardenne e l'ultimo ottimo film di Asghar Farhadi - premiato per la migliore sceneggiatura. Nel complesso, un tripudio di marciapiedi crepati, piastrelle sbeccate, ruggine e polvere, sulla Croisette vanno pazzi per queste cose e un po' li capisco, tutti quegli yacht ancorati proprio dietro il Palazzo del Cinema dopo un po' ti devono venire a noia.
Forushande condivide con Bacalaureat non solo la premessa iniziale - un caso di molestia sessuale, un capofamiglia che cerca di farsi giustizia da solo - ma anche questo torvo accanimento nell'esibire la bruttezza delle periferie. Se Mungiu si dedicava a sbriciolare ogni residuo esotico della Transilvania, portandoci a spasso per i sobborghi sconsolati di Cluj-Napoca, Farhadi ha un gusto per lo squallore, il cemento, la paccottiglia ammassata in un angolo che degrada in rifiuto, che lo innalzano sopra ogni confine culturale. Non importa se là fuori c'è un muezzin che invita alla preghiera, le targhe sono in alfabeto arabo; basta accendere la luce nella cucina di una casa sfitta, ingiallita dall'uso, ed è come se il film parlasse di noi.
Sta davvero parlando di noi... (continua su +eventi!) che a volte siamo distratti e non alziamo la cornetta del citofono e poi ce ne pentiamo. Che a volte iniziamo a lucidare una finestra e poi ci blocchiamo sgomenti constatando l'enormità del compito. Che vorremmo essere migliori del mondo in cui viviamo, ma sarà vero? Se avessi un bulldozer tirerei giù tutto quanto e lo rifarei da capo, dice Emad al suo amico regista, più anziano. Lo hanno già fatto, risponde lui: e questo è il risultato. Emad è il protagonista (Shahab Hosseini, palma a Cannes): è un giovane insegnante, generoso, colto, recita a teatro, ci sembra naturale assistere alla storia dal suo punto di vista. Che possa essere proprio lui il moralista più intransigente, è una cosa che ci costerà un poco accettare. Come Mungiu, Farhadi sembra volersi prendere gioco del suo protagonista, che ogni tanto vediamo in scena truccato da vecchio, trasformato in quei cattivi padri depravati che disprezza e che intende punire. Mentre a scuola i ragazzini stanno già cominciando a ridergli alle spalle.
Il miglior cinema iraniano è sempre riuscito a usare le proprie limitazioni come punti di forza. In un film iraniano non si può parlare di prostitute? Farhadi ci gira intorno per tutto il film, costringe gli spettatori a non pensare ad altro, e nel frattempo fa recitare ai suoi personaggi Morte di un commesso viaggiatore, dove una prostituta c'è, e c'è un'attrice che la interpreta (vestita di tutto punto). In un film iraniano le donne devono coprirsi il capo anche in casa? Taraneh Alidusti si prenderà una botta in testa in una colluttazione, così può restare fasciata per tutto il film. Il modo in cui Farhadi riesce a prendersi gioco apertamente delle stesse convenzioni che rispetta ha qualcosa di epico, ma se fosse tutto qui si tratterebbe soltanto dell'ennesimo film che ci spiega com'è difficile vivere in Iran oggi: l'ennesima edificante visita di istruzione in un Paese totalitario offerta al pubblico dei festival europei.
Invece Forushande parla anche di noi, e per accorgersene basta aspettare che si accendano le luci in sala, e ascoltare gli spettatori. È un film che ci fa discutere, e non soltanto della condizione delle donne in Iran. È un film che non rinnega le questioni irrisolte del suo Paese, ma riesce anche a toccarne di universali: la giustizia, la vergogna, la vendetta, la corruzione. È anche una detective story, a modo suo, che per un'ora e mezza va avanti rapida senza una sola scena di troppo, e poi si concede un'ultima mezz'ora lentissima, estenuante, spietata come il suo protagonista. Meno male che non aveva un bulldozer, ti viene da pensare. E ricordi una delle prime battute del film: "Come fa un uomo a diventare un mostro?", chiedeva uno studente. "Col tempo", rispondeva l'insegnante.
Il cliente è in programmazione al Cinelandia Fiamma di Cuneo fino a mercoledì 18 gennaio (ore 21; sabato 14 ore 17.20-20-22.35; domenica 15 ore 15.40-18.20-21).
Nello spazio nessuno può sentirvi pomiciare
04-01-2017, 02:45cinema, Cosa vedere a Cuneo (e provincia) quando sei vivo, essere donna oggi, fb2020, futurismiPermalinkTi svegli un mattino su un'astronave generazionale e scopri che c'è stato un errore: tutto il resto dell'equipaggio dorme e non si sveglierà che tra 90 anni. Re-ibernarsi è impossibile, suicidarsi la prospettiva più logica. Mentre ci rifletti, inciampi nella cella criogenica di Jennifer Lawrence, che sulla Terra faceva la giornalista ed era (ovviamente) molto spigliata e simpatica. La svegli? non ci pensi neppure.
Ma il giorno dopo ti svegli e sei di nuovo lì, tutto solo, davanti a Jennifer Lawrence congelata. Basterebbe ficcare un cacciavite nel circuito giusto, e potresti avere Jennifer Lawrence per tutta la vita, senza doverla dividere con nessuno, su un'isola deserta con tutti i comfort (per esempio sull'astronave c'è il karaoke e i ristoranti etnici e una piscina affacciata sullo spazio, altri comfort agli sceneggiatori non sono venuti in mente). Ma sarebbe un crimine, no? Una specie di omicidio, anzi forse peggio. Quindi non ci pensi più.
Ma il giorno dopo sei di nuovo lì, tutto solo, davanti a Jennifer Lawrence - non c'è rimedio a questa cosa. Del resto, se la svegli poi dovresti mentirle per tutta la vita. E convivere con questo orribile segreto (ma anche con Jennifer Lawrence). Che follia. Meglio pensare ad altro.
Ma il giorno dopo? E il giorno seguente?
Là dove l'uomo non è mai arrivato e forse neanche quelle famose foto che tenevo sul telefono. |
Ora ti salto addosso in sala mensa, così anche col femminismo siamo coperti |
E quindi ecco Chris Pratt e Jennifer Lawrence. Il trailer parlava chiaro, la locandina ribadiva il concetto: questo è un film in cui Chris Pratt e Jennifer Lawrence si baciano, tutti soli su un'isola deserta - no, in realtà è un'astronave, ma è quasi la stessa cosa, anzi se volete può anche essere più romantico perché... perché... ci sono le stelle, ad esempio, tutte le stelle che vuoi... le nebulose, e ogni tanto cose ancora più incredibili come... le giganti rosse, ecco, il giorno del compleanno di Jennifer l'astronave passa davanti a una gigante rossa, una rotta economicamente suicida, ma vuoi mettere il romanticismo (qualche ora dopo la gigante rossa è già sparita, del resto vanno alla metà della velocità della luce).
Un film del genere, una crociera spaziale di Jennifer Lawrence e Chris Pratt, la puoi portare nei cinema anche a ridosso di un capitolo di Star Wars senza troppa paura di patire la concorrenza al botteghino; è tutta un'altra idea di fantascienza, di fiction, di romance. Probabilmente non è l'idea che venderà più biglietti; sicuramente è un'idea che farà inorridire molti critici e qualche femminist* - parliamo di un film in cui il maschio fa il meccanico e la donna la scrittrice. Persino io, che per le astronavi generazionali ho una specie di ossessione, ho avuto qualche difficoltà ad accostarmi a un film che sembrava più indirizzato al pubblico di Io prima di te. Ma devo ammetterlo: sono rimasto piacevolmente sorpreso. Forse perché, davvero, non mi aspettavo niente di più che un film in cui la Lawrence scopre che Chris Pratt è l'uomo della sua vita (nonché l'unico in tutto quel braccio della galassia) e gli dà due bacetti senza svestirsi, e invece ho passato una prima mezz'ora solo con Chris Pratt che mi ha fatto pensare a un vecchissimo film di astronavi e solitudine, Silent Running. Ho incontrato il barista Arthur (Michael Sheen), uno degli androidi più verosimili mai visti al cinema: cordiale, ragionevole, un ideale compagno di bevute, a differenza del sistema operativo di Her non acquisisce mai umanità e anzi contribuisce in modo determinante a farcene sentire la mancanza.
La mia scena di bacetti preferita è quando ci provano con le tute ma è complicato. (Qui lei gli sta facendo notare che non può entrare nella tuta col vestito da sera). |
Con tutte le sue ingenuità, le sue giganti rosse e le gag involontarie, Passengers è un film che prova a raccontarci una storia diversa, che prende in prestito le suggestioni di tutti i successi fantascientifici degli ultimi anni (Gravity, Interstellar, The Martian) per ricordarci che anche nello spazio profondo continueremo a essere uomini e donne, ad attrarci e a respingerci per problemi altrettanto profondi. E poi, certo è anche un film in cui se Jennifer ha voglia di Chris, gli salta addosso in sala mensa. Migliore opera di fantascienza sentimentale del 2017, fin qui. Lo trovate al Vittoria di Bra (18:00, 20:10, 22:30), al Multilanghe di Dogliani (21:45) e al Cinecittà di Savigliano (20:20, 22:30).
Capitan Fantastico scende in città
15-12-2016, 18:1221tw, Americana, cinema, Cosa vedere a Cuneo (e provincia) quando sei vivo, fb2020PermalinkLassù sulle montagne, dove l'aria è più buona e il capitalismo non arriva, vive senza chiedervi il permesso la famiglia Cash. Sono filosofi e carnivori; di giorno cacciano e disossano i cervi e la sera, intorno al fuoco, bivaccano studiando la teoria delle stringhe. Scalano montagne, affilano lame, sono buddisti ma armati. Un giorno scenderanno a darvi una lezione. Non si sentono superiori a nessuno; lo sono.
Fino a qualche anno fa non succedeva mai, e quest'anno è capitato già più volte, di ritrovarmi di fronte a un film americano pensando "beh ma preferivo la versione italiana". Non so se abbia più a che fare con la salute del cinema USA o con la mia. Il paragone tra Captain Fantastic e Le meraviglie di Alice Rohrwacher non ha molto senso, comunque: anche se entrambi sono molto piaciuti a Cannes. Da una parte un prodotto d'autore europeo, drammatico (con qualche virata nel simbolico), dall'altra un comedy-drama americano, uno di quei film da Sundance che di indipendente non hanno nemmeno la confezione; l'ennesimo tentativo di far convivere le suggestioni del ritorno alla natura con un linguaggio che infallibilmente ne restituisce immagini patinate. È una di quelle situazioni in cui i famosi production values americani, quei livelli ineguagliati di professionalità e organizzazione, si ritorcono contro la macchina: fai fatica a spiegarci Henry David Thoreau se i tuoi strumenti sono quelli con cui si gira la pubblicità di uno shampoo... (continua su +eventi!)
Matt Ross ha voluto girare un film diametralmente opposto alla sua opera prima, 28 Hotel Rooms: là c'erano soltanto due attori in 28 camere d'albergo diverse (da cui il titolo), qui c'è tutto l'Ovest, dalle foreste dello Stato di Washington fino ai campi di golf del New Mexico, uno schiaffo alla miseria e alla siccità; e una famiglia di selvaggi sapienti che è un trionfo di casting - ragazze e bambini hanno tutti pochi minuti per lasciare un segno, e ce la fanno. E poi c'è Viggo Mortensen, padre-padrone illuminato, che per metà film sembra davvero l'uomo più saggio del mondo: com'è prevedibile, basterà scendere un po' a valle perché tutto venga messo in discussione. Ma appunto, è un po' troppo prevedibile. È capitato ad autori più esperti di Ross di scontrarsi con lo stesso argomento, e di consegnare agli spettatori qualcosa di irrisolto o ambiguo (vedi Into the Wild). È come se intorno all'argomento ci fosse qualcosa di sostanzialmente sacro: magari ritornare alla natura è impossibile, ma non è comunque consentito riderne.
Il manuale di base della sceneggiatura televisiva prevede che l'eroe si scontri con le convenzioni; che a ogni parziale successo corrisponda l'accettazione dei propri limiti; le convenzioni sono elastiche, si lasciano penetrare, ma in cambio l'eroe deve capire che hanno un senso. Captain Fantastic deve accettare di essere un po' meno fantastic; passare dalla caccia all'agricoltura; in cambio resterà un filosofo e continuerà a conservare la sua famiglia bellissima. È un finale che ha un senso soltanto al cinema o in tv, e soltanto in America. Qui da noi è diverso, al punto che di un film così forse non sappiamo che farcene. Captain Fantastic questa settimana resiste solo al Fiamma di Cuneo (giovedì 15, venerdì 16, lunedì 19, martedì 20 e mercoledì 21 alle ore 21; sabato 17 ore 17.30 - 20.00 - 22.30; domenica 18 ore 15.00 - 18.00 - 21.00).
Vita da gatto, un film da cani
09-12-2016, 14:1521tw, animali, cinema, Cosa vedere a Cuneo (e provincia) quando sei vivo, fb2020PermalinkPerché la maggior parte della gente cerca di comportarsi bene? Ok, qualcuno pensa di andare in paradiso. Qualcuno spera di lasciare un buon ricordo. Qualcuno proprio per fare il cattivo non è tagliato (ci vuole coraggio, ambizione, inventiva, è complicato). Ma la maggior parte della gente, perché non si comporta male tutto il tempo? Probabilmente credono nella metempsicosi: sperano di reincarnarsi nei gatti d'appartamento. Che altro chiedere dalla vita? Per dire che anche dietro a un film apparentemente inutile come Una vita da gatto c'è un'importante figura dell'inconscio collettivo: il sogno di finire come Kevin Spacey, palazzinaro di New York, troppo preso dalla sua carriera per vedere le esigenze di moglie e figlia bla bla bla bla, che una sera cade dal suo grattacielo e si risveglia nel corpo del gatto di famiglia. Scoprirà che non sono tutte rose e fiori e gomitoli di lana.
Perché l'Europa Corps non fa dei bei film, invece di farli brutti? Non è una domanda così peregrina. Nine Lives aveva un budget di 30 milioni di dollari (il triplo di Big Game): sono pochi? Se puoi scritturare Kevin Spacey, Christopher Walken e Jessica Gardner, e alla regia Barry Sonnenfield (La famiglia Addams, Men in Black); se hai abbastanza computer-grafica da riuscire ad animare un gatto che sembra vero, perché non riesci a costruirci non dico un capolavoro, ma un film abbastanza carino? Coi film d'azione forse è più facile - no, non mi riferisco a Lucy, Lucy è un episodio imperdonabile. Però finché è azione puoi sempre spararle grosse, magari non centri il bersaglio ma un effetto lo ottieni lo stesso, e anche un po' di ridicolo involontario non guasta mai (vedi il ciclo di Taken). Nine Lives invece vorrebbe essere un film per le famiglie: una cosa molto più delicata. Lo hanno scritto in cinque, senza mai azzeccare il tono. Si capisce che l'idea della trasformazione in gatto non è partita da un autore - qualcuno che avesse veramente voglia di dire qualcosa sui gatti d'appartamento, sul loro modo di essere e non essere parte della famiglia - ma dal reparto effetti speciali: ehi, guarda qui, siamo riusciti ad animare un gatto che sembra vero. Facciamoci un film, come quelle vecchie pellicole della Disney in cui a Dean Jones succedevano le cose più strane - in uno si trasformò effettivamente nel cane di famiglia. Perfetto, che problema c'è?
C'è che i gatti non sono cani, per esempio (continua interessantissimo su +eventi!) Immaginare un gatto che si strugge per cercare di dimostrare la propria umanità è faticoso. In generale, è faticoso immaginare un gatto che si strugge. Se sogniamo tutti di reincarnarci in felini è proprio perché sappiamo che quando finalmente ci arriveremo non ci fregherà più nulla di nulla - il nirvana. Gatto-Spacey invece si dà un sacco da fare, deve salvare la sua azienda, finire in qualche video buffo su youtube, creare quei simpatici casini domestici che fanno gli animali, e scoprire tante cose importanti sulla propria famiglia. Addirittura a un certo punto cerca di aiutare sua figlia coi compiti - ma un gatto che fa i compiti non è un gatto. Non fa nemmeno ridere. Nine Lives è un film che mette meccanicamente assieme tante cose che in teoria potevano fare un film, ma non ci riesce. Resta un'accozzaglia di cose messe lì. Negli USA è uscito il 5 agosto 2016, una delle date più terribili della storia del cinema mondiale (uscì anche Suicide Squad). Nine Lives non è altrettanto brutto, ma dimostra che il cinema americano non è un'alchimia così semplice. Anche con buoni attori americani, con un veterano americano alla regia, con un concetto tipico dei film per famiglie americane, il risultato è inferiore alla somma degli addendi. Lo trovate al Cityplex di Alba (19:00); al Vittoria di Bra (20:15); al Cinelandia di Borgo San Dalmazzo (15:15, 17:20, 20:15, 22:30); al Fiamma di Cuneo (18:10, 21:10); ai Portici di Fossano (20:00); all'Italia di Saluzzo (20:00); al Cinecittà di Savigliano (20:20, 22:30).
Capitan Sully, l'eroe di due minuti
04-12-2016, 23:2721tw, cinema, Cosa vedere a Cuneo (e provincia) quando sei vivo, fb2020PermalinkAnche i migliori a volte hanno dei dubbi. Per esempio Clint Eastwood, come dire, la Storia del cinema. Secondo me ogni tanto se lo domanda: e se avessi sbagliato qualcosa? E se avessi fatto un errore? Quell'inquadratura era da dilettanti. Quel raccordo non riesco a perdonarmelo. Quante cazzate che ho fatto, e diciamolo, come attore valevo nulla. Ok, ho scoperto Michael Cimino, ma forse era meglio se lo avessi lasciato a girare pubblicità, per lui e per tutta l'industria. Magari sta uscendo da una macchina, Clint Eastwood, magari cammina su una passerella; tutt'intorno un cordone di sicurezza, sconosciute che vorrebbero abbracciarlo, c'è gente a cui Clint fa sesso a 80 anni, e intanto lui pensa: forse faccio pena.
L'unico modo per cambiare idea è riguardarsi uno dei suoi film. E commuoversi. No, Cristo, io non faccio pena, io sono la fottuta storia del cinema. Ho portato a casa film impossibili, ho dato un capo e una coda persino ad American Sniper - ok, la gente sarebbe andata a guardarlo anche se fosse stato girato e montato da un ragazzino daltonico, ma io ne ho fatto un fottuto film di guerra e di pace, e ci ho messo anche la retorica, ma solo quel pizzico che non stomaca e ti lascia il sapore dolce sul finale. Ed era la storia di un cecchino mitomane, Cristo, lasciate perdere i critici. Non sanno cos'è il mestiere, non se lo immaginano, non possono capire. Nessuno sa cosa vuol dire trovarsi sul set sotto pressione, a un'età in cui dovreste stare ai giardinetti, a stingere i denti e macinare un altro film da 60 milioni di dollari. Nessuno sa quanto sono bravo. Solo io posso capirlo. Gli altri al limite devono fidarsi. Di Clint Eastwood.
Sully forse non è un grande film, ma proprio per questo è un film straordinario. C'erano tanti modi di raccontare un'impresa epica, ma brevissima (cinque minuti tra il decollo di un jet di linea e l'ammaraggio più riuscito della storia dell'aviazione civile, 155 superstiti salvati nelle gelide acque del fiume Hudson, nessuna vittima). Hollywood conosce tantissime ricette per allungare il brodo e produrre film di successo, e Clint Eastwood le ha scartate tutte. Avrebbe potuto concentrarsi sulla biografia del pilota, darci dentro coi flashback; e invece a Eastwood dopotutto il passato di Sully non interessa un granché. Avrebbe potuto insistere sui passeggeri, raccontare le loro vite che si intrecciano casualmente sullo sfondo di una tragedia contemporanea evitata per un soffio - trovando nei nostri cuori più di una corda da suonare, in fondo siamo tutti passeggeri, siamo tutti potenziali vittime, potenziali eroi - invece no, neanche i passeggeri in fin dei conti sono così importanti per Clint. Avrebbe potuto insistere sul procedurale, offrirci dettagli ancora più specifici dell'inchiesta, le manovre vere o presunte della compagnia per pagare qualche migliaio di dollari in meno d'indennizzi - non ci avremmo capito quasi nulla, ma ci sarebbe piaciuto lo stesso, come in quei film di avvocati o broker finanziari. Ma non era quello il punto.
A Clint Eastwood interessavano solo quei due minuti: quelli in cui capitan Sully ha fatto la differenza (continua su +eventi!)
Questo non è il film (ma nel film è uguale). |
A Clint Eastwood interessavano solo quei due minuti: quelli in cui capitan Sully ha fatto la differenza. Ce li mostra una, due volte: e poi le simulazioni, quattro simulazioni, in tempo reale; e giusto quando stavamo pensando Grazie, Clint, basta anche così, ci infila a forza le cuffie e ci fa riascoltare la scatola nera. Non è neanche più esattamente cinema, non è narrazione, ma nemmeno documentario; alla quinta volta che ritorni nella stessa cabina, è qualcosa di più simile a un addestramento, o a una liturgia. Scordati il passato, non pensare alla famiglia, non preoccuparti dei processi che ti faranno - faranno bene a farteli, ma adesso non ci devi pensare: e anche al boato dei passeggeri lì dietro, non c'è tempo per soffrire con loro, devi salvarli. È tutto lì. È veramente tutto lì. E se andrà a finire bene, ti daranno dell'eroe o del pazzo incosciente, ma che ne sanno? Non ne sanno nulla. Tutti i critici veri o computer-simulati non possono capire cosa vuol dire trovarsi al comando in quel momento, e prendere la decisione che non è mai giusta, la decisione che è meno sbagliata delle altre. Ti odieranno, ti ameranno, ti daranno dell'eroe, ma nessuno potrà capirti. E tu stesso avrai dei dubbi, tu stesso saprai di non poterti fidare dei tuoi ricordi. La memoria fa scherzi assurdi, l'inconscio di notte cambia le carte in tavola.
Sully è la piccola storia straordinaria di un tizio che fa una manovra mai fatta, viene immediatamente acclamato come eroe, ma in cuor suo sospetta di aver sbagliato tutto, di aver perduto un aereo, la pensione, e (soprattutto) l'autostima. Sully è un film che si appoggia con la leggerezza di un jet sul grande tema dello stress post-traumatico: che tra mille modi di commuoverci sceglie di ricordarci quei momenti in cui ci svegliamo di soprassalto pensando a un incidente che stavamo per commettere, e che in un mondo parallelo è successo, e siamo morti tutti, tutti. È un film che prosegue con un paragone azzardatissimo: dopo aver salvato il suo equipaggio, Sully salverà sé stesso, con lo stesso stile: poche semplici manovre al momento giusto. Il discorso con cui impone alla commissione la sua versione dei fatti è efficace e stringato (un altro segno subliminale che l'età di Obama è finita, forse anche nei film di Spielberg i discorsi si asciugheranno). Eastwood aveva a disposizione 60 milioni di budget e Tom Hanks nell'ennesimo ruolo di Capitano d'America. Poteva usarli come li voleva: li spende per dirci che il successo, il boato del popolo che ti ama e ti abbraccia, non significa niente. Se sei un professionista, l'unica verità sta nella scatola nera. Se sei un professionista, il miglior critico di sé stesso sei tu. E Sully questo è: un professionista. Come le hostess che da un attimo all'altro cominciano a eseguire una procedura mai fatta prima, una di quelle che non funziona quasi mai e di solito dopo si muore di schianto. Come tutta la città di New York, tutti i suoi abitanti e impiegati portuali che se vedono un aereo planare non perdono neanche un istante a domandarsi cosa fare: c'è una cosa sola da fare, se sei un professionista. E poi sarai anche un eroe, ma l'impresa eroica è quel tipo di cosa che ti capita se sei un professionista.
Sully è al Cityplex di Alba; al Cinelandia di Borgo San Dalmazzo; al Vittoria di Bra; al Fiamma di Cuneo; al Multilanghe di Dogliani; ai Portici di Fossano; al Baretti di Mondovì; al Cinecittà di Savigliano.
Obama tramonta, Snowden resta (ma a Riotta non va proprio giù)
27-11-2016, 02:1621tw, Americana, cinema, Cosa vedere a Cuneo (e provincia) quando sei vivo, fb2020, giornalisti, internetPermalinkRicordate il giorno in cui avete pensato di coprire la webcam del vostro computer, il giorno in cui non vi è sembrata più una paranoia? Quando è successo? Difficilmente prima dell'estate del 2013. In primavera l'ex agente NSA Edward Snowden aveva abbandonato la sua postazione di lavoro alle Hawaii portando con sé in una card più di due milioni di documenti riservati dei servizi americani (e inglesi, canadesi, australiani, neozelandesi). In giugno li aveva consegnati ai reporter del Guardian che lo avevano raggiunto in una stanza d'albergo di Hong Kong. Qualche giorno dopo il suo avvocato riusciva a metterlo su un aereo. Snowden sperava di trovare asilo in Sudamerica, ma una volta arrivato in Russia, gli USA gli hanno revocato il passaporto. È ancora là.
Man mano che l'astro di Obama tramonta, è più facile accorgersi di come Edward Snowden sia una delle figure più importanti dell'ultimo decennio. Non ha semplicemente gettato una macchia sul presidente più cool di sempre; non si è limitato a rivelare segreti militari, non ha soltanto bruciato qualche agente di antiterrorismo: Snowden ci ha fatto coprire le webcam. Se prima dell'estate del '13 avevamo qualche sospetto di essere spiati dalle nostre compagnie telefoniche, da lì in poi abbiamo dovuto accettarlo: non c'è paranoia che non si stia realizzando. Ogni smartphone è una cimice, ogni videocamera fa rapporto a qualche grande fratello. A inizio 2013 sarebbe stata la premessa di un film di fantascienza distopica: tre anni dopo è già materiale per Oliver Stone.
Forse la storia più congeniale a essergli passata per le mani dai tempi di Nato il 4 luglio, a cui fin troppo somiglia. Prima di questo film la nostra idea di Snowden oscillava tra l'hacker e l'attivista per i diritti civili; ma lo Snowden di Stone è per prima cosa un veterano. Si ricomincia dal solito addestramento da accademia militare: correre nei boschi, strisciare nel fango, urlare sissignore all'istruttore. Potrebbe essere l'inizio dell'ennesimo film di guerra, se il giovane Edward non si fratturasse le ossa alzandosi dalla brande con troppo zelo. Non importa, gli spiega l'ortopedico: ci sono altri modi per servire la tua patria. Ma anche quando si dimetterà dalla CIA per scrupolo, trasformandosi in una specie di contractor privato; anche quando sceglierà di tradire il suo Paese, lo Snowden di Stone resterà a suo modo un soldato, proprio come il Kovic di Nato il 4 luglio che aveva bisogno di scoprire la militanza pacifista per rimettersi a urlare ordini ai sottoposti. Snowden è disciplinato e responsabile, Snowden valuta i pro e i contro di ogni situazione; rispetta il presidente come comandante-in-capo; prova devozione filiale per i superiori e un malcelato disprezzo per i camerati che per far carriera compiono gesti irresponsabili. E come il cecchino di American Sniper, di cui è una specie di gemello buono, ha una donna che vorrebbe proteggere e che in un qualche modo lo protegge.
Stone prende una complicata storia di leak e di intelligence e la smonta fino a trovare i fattori primi, umani, che funzioneranno anche con gli spettatori digiuni di crittografia. Se il rischio è accreditare il personaggio come un genio del computer, Stone lo corre volentieri. Non ha mai avuto la mano leggera, ma forse in questo caso c'era proprio bisogno di trasformare entità astratte in immagini potenti. La webcam che diventa un occhio: un ragazzino con la camicia in fuori che in qualche ufficio dall'altra parte del mondo può spiarti l'account facebook per antiterrorismo o per capriccio. Stone preferisce girare all'estero, ma quel che vuole realizzare è proprio il caro vecchio blockbuster americano: non esita a mettere al centro una storia d'amore; ce la mette tutta pur di inserire sequenze che non stonerebbero in film di spionaggio o di azione. E come Michael Moore, sente l'esigenza di ricordarci a ogni pié sospinto che è altrettanto americano dell'America che sta criticando (continua su +eventi!)
A Washington c'è un posto dove gli innamorati
mettono i lucchetti?
PS: per un approccio più completo, segnalo questa epica recensione di Gianni Riotta sulla Stampa, che vi riassumo per sommi capi e per divertimento:
Primo paragrafo: nel 1932 Walter Duranty, un giornalista del NYT vinse un Pulitzer con un'inchiesta filostalinista (che c'entra con Snowden, vi chiederete? Dopo lo spiega);
secondo paragrafo: Zizek è affascinato da Trump e Stone bazzica il Cremlino: Putin gli avrebbe affidato un documentario sull'Ucraina (in realtà Stone ha prodotto un documentario di un regista ucraino naturalizzato negli USA, vabbe', dettagli);
terzo e quarto paragrafo: l'avvocato russo di Snowden è un uomo di Putin, Snowden è una sua marionetta, anche Stone è una sua marionetta e inoltre a una festa ha messo una mano sul collo della documentarista Laura Poitras. Nel romanzo che l'avvocato russo ha scritto sul caso Snowden tutti i nomi sono cambiati, il che non c'entra veramente nulla col film ma Riotta si mette a elencarli, per dimostrare che ha letto il libro (e il film, lo avrà visto?);
quinto paragrafo: Snowden ha arrecato gravissimi danni al controterrorismo, almeno a detta delle agenzie americane e francesi di controterrorismo. Kerry voleva arrestarlo, invece Oliver Stone ci ha fatto un film. È un regista che ha vinto degli Oscar, ma anche a un giornalista stalinista una volta hanno dato un Pulitzer, vi ricordate? Credevate che Riotta fosse andato fuori tema, eh? E invece no, tutto torna. E il film? Beh, il film lo liquida in una riga: "girato con telecamerine spia per effetto, è intriso di «superparanoia». Capita, come capitò a Duranty, cui, 90 anni dopo, vorrebbero togliere il Pulitzer". In realtà non risulta che Duranty fosse affetto da superparanoia, con o senza virgolette. L'ossessione di Riotta per un vecchio premio Pulitzer ha radici abbastanza contorte: qualche anno fa Glenn Greenwald (nel film è Zachary Quinto) definì un intervento di Riotta su Snowden "the opposite of journalism". Qualche mese dopo vinse il Pulitzer, appunto, per lo scoop su Snowden. Si vede che il critico cinematografico della Stampa se l'è legata al dito.
L'America di Tom Ford, incubo patinato
22-11-2016, 02:22Americana, cinema, Cosa vedere a Cuneo (e provincia) quando sei vivo, fb2020PermalinkSusan (Amy Adams) si annoia. Alla sua età, col suo reddito, è praticamente un must. Susan ha una ricca casa e un maggiordomo; una galleria d'arte che gestisce con sempre meno convinzione; un marito ricchissimo che la tradisce nel modo più discreto; e un fantasma del passato, un ex marito scrittore fallito (Jack Gyllenhaal) che dopo 19 anni le invia un manoscritto. Il mondo di Susan è finzione, ma ricorda: il mondo vero è molto peggio.
...That you're tired of yourself and all of your creations... |
And you say, “Oh my God, Am I here all alone?”
|
Standing on a corner a ringin' my bell, Up stepped the sheriff from Thomasville. He said 'Young man is you name Brown? Remember you blowed Sadie down." |
(35 anni fa) Simon Le Bon ci ha salvato la vita
14-11-2016, 18:5521tw, cinema, Cosa vedere a Cuneo (e provincia) quando sei vivo, fb2020, musica, OttantaPermalinkSing Street (John Carney, 2016)
C'è stato un momento - mica come adesso sapete. C'è stato un periodo in cui truccarsi non era una scemenza vanitosa come adesso, c'è stato un momento in cui era questione di vita o di morte. Ti mettevano in un angolo e te ne davano finché il trucco non ti serviva davvero a qualcosa. C'è stato in un periodo in cui non andavi ai talent a farti compatire, c'è stato un momento in cui dovevi farti compatire in casa, girarti un video e mandarlo in giro nella speranza che qualcuno dall'altra parte del mondo volesse perdere un po' di tempo e denaro per compatirti. C'è stato un momento in cui Simon Le Bon era avanguardia, in cui gli Spandau Ballett erano la ribellione, in cui i Cure potevano servirti con le ragazze. Ci sono stati gli anni Ottanta ma non erano la favola di plastica che vi raccontano adesso; erano ormoni, sangue, nicotina, brufoli, disperazione, e in mezzo a tutto questo, per quanto assurdo potesse sembrare, un George Michael.
A metà anni Ottanta, Cosmo piove dallo spazio in un sordido liceo di Dublino (nei titoli finali ci avvertono che adesso invece è una scuola bellissima che diploma tantissimi ragazzi successful: andateci). Due genitori che litigano, un fratellone depresso che passa il tempo a girare canne e 33giri, un compagno bullo che ha intenzione di sodomizzarlo entro gli esami. Bisogna avere un progetto, anche solo far colpo su una ragazza. Bisogna mettere su una band, girare un video, far finta finché non funziona (continua su +eventi!). Il successo sembra un traguardo impossibile, eppure la terra promessa è solo a un braccio di mare. Il film più autobiografico di John Carney non è probabilmente il suo meglio riuscito: la necessità di rendere un tributo a chi lo ha aiutato e a chi è rimasto indietro gli impedisce forse di guardarsi indietro col distacco necessario. Coi metri che usiamo da vent'anni, il suo eroe non è che un poser: si esprime per citazioni che ha appena mandato a memoria, cambia look a seconda del videoclip che è riuscito a guardare il giorno prima. Il suo stesso immaginario è poco più elaborato di una mensola di videocassette. Cosa dire, salvo che negli anni Ottanta eravamo davvero così: ignoranti, superficiali, disperati, determinati. Ci esprimevamo per versi malintesi di canzoni, e sognavamo per videoclip. Ne abbiamo copiata di roba prima di trovare una voce personale, ammesso che l'abbiamo trovata e che interessi a qualcuno. Del resto avevamo quindici anni: e il suono più meraviglioso del mondo non era la campana della scuola e neanche il rullante della batteria. Era la voce gracchiante al citofono del tuo migliore amico appena conosciuto, che ti chiedeva se avevi voglia di andare al parco a scrivere una canzone. Sempre.
Sing Street è al Moretta di Alba lunedì e martedì alle 21; al Fiamma di Cuneo alle 21:10 fino a mercoledì.
Cicogne, tornate al core business
31-10-2016, 10:2721tw, animazione, cinema, Cosa vedere a Cuneo (e provincia) quando sei vivo, fb2020PermalinkCome sapete, da un po' di tempo in qua le cicogne non portano più i bambini. Troppo rischioso, troppo coinvolgimento, insomma adesso preferiscono recapitare smartphone e altri beni di prima necessità. Gli affari vanno bene, tutti sono contenti, noi umani abbiamo trovato un sistema per fare bambini comunque, eppure... eppure forse si stava meglio prima.
Bastano pochissimi minuti per capire che gli autori di Storks hanno lavorato anche al meraviglioso Lego Movie. Le scenografie sono diverse (più convenzionali, purtroppo), i mattoncini hanno ceduto temporaneamente il posto a un mondo di fattorini pennuti, eppure l'atmosfera è la stessa: una grande azienda, un meccanismo grigio, omologante, perfettamente oliato dove basta che qualcuno non sia dove dovrebbe essere per scatenare un'esplosione caotica e vitale. Questo è probabilmente il miglior pregio di Storks: in una fase in cui ormai esce un buon film d'animazione alla settimana, e il rischio che si assomiglino tutti è inevitabile, la nuova divisione digitale della Warner quantomeno sta riuscendo a costruirsi un'identità.
Se non può rivaleggiare con la Pixar per qualità o per ambizione, almeno sta diventando un'anti-pixar dal punto di vista ideologico: se la compagnia di Monsters & co., e Inside Out ha sempre celebrato l'importanza del lavoro di gruppo, anche nella versione più corporativa e aziendale, Lego e Storks cercano di suggerirci che le ditte sono la morte dell'individualità e della fantasia. Giusta o sbagliata che sia, almeno è un'idea: alla Universal con Pets si sono contentati di prendere vecchie idee Pixar e rimetterle assieme senza aggiungerci niente, e il botteghino sta dando ragione a loro. Ma Storks è un film più interessante. Sfortunatamente, l'altro punto in comune con Lego è l'ipercinesi (continua su +eventi!)
La vita segreta (non troppo originale) degli animali
12-10-2016, 02:1421tw, animali, animazione, cinema, Cosa vedere a Cuneo (e provincia) quando sei vivo, fb2020PermalinkMORTE AL GENERE UMANO! |
Pets è il sesto film della Illumination Entertainment - se contiamo anche il primo Cattivissimo me (2010), che era ancora un prodotto della francese Mac Guff, acquisita di lì a poco. L'Illumination ha l'esclusiva per i film di animazione della Universal e grazie ai Minions è diventata una delle più grandi realtà dell'animazione digitale: più grande della branca animazione della Fox, da cui proviene il fondatore (Chris Meledandri lavorò ai primi due Era glaciale), più grande della Dreamworks che forse Meledandri si comprerà. Più in altro c'è solo la Disney/Pixar, ma per ora più che competere sembra che la Illumination si contenti di imitare. Gru e i Minions almeno avevano una loro identità, magari non originalissima, ma tra tanti prodotti in 3d si facevano riconoscere; Pets non prova neanche per un istante a sembrare diverso da quel che promette nei trailer: una rifrittura di concetti e luoghi pixariani e disneyani.
Che poi non si capisce come vada a finire: diventa vegetariano? |
Quanto sia meccanico l'approccio lo si vede bene nel momento in cui il film si ritrova all'improvviso in una situazione 'alla Up': da qualche parte nella grande città c'è una piccola casa col giardino, dentro forse c'è ancora un anziano signore che aspetta uno dei personaggi. Una scena del genere, in un Pixar autentico, sarebbe stato un colpo al cuore: il classico momento dei lacrimoni. Qui niente. Viene persino pronunciata la parola speciale, "morte" - una parola che in un prodotto per bambini deve essere usata con una cautela - ma non ci si ferma a riflettere, men che meno a piangere: è solo uno snodo qualsiasi della trama, lo spunto per un battibecco in attesa dell'ennesimo inseguimento. Verrebbe da dire che per i bambini magari è meglio così, il pathos di certi film della Pixar è inadatto a loro - ma poi c'è una scena d'azione eccessivamente intensa, in cui i personaggi praticamente annegano, roba che gli stessi bambini potrebbero sognarsi di notte. Non è una questione di budget, non è un problema di rendering: è proprio che manca il cuore. Ma c'è un sacco di animaletti buffi, e sta piacendo a tutti. Al Vittoria di Bra (alle 20:00 in 3d, alle 22:20 in 2d); al Fiamma di Cuneo (alle 21:00); al Multilanghe di Dogliani (alle 21:30 in 2d) e ai Portici di Fossano (alle 18:30 in 2d).
Woody torna a Hollywood, Woody torna a NY
02-10-2016, 13:36cinema, Cosa vedere a Cuneo (e provincia) quando sei vivo, fb2020, Woody AllenPermalinkNon importa se nel frattempo ti sei scavato il tuo buco in questo mondo: quante mani stringi, quante persone conosci, quanti ti devono un favore. Lì su un divano c'è il tuo primo amore, per quanto hai scavato è riuscito a snidarti. Vuole controllare che stai bene, vuole mostrarti che sta meglio. Chiacchiera di cose che non ti interessano, cose che non ritenevi dovessero interessarle: cose che comunque non avresti potuto permetterti, tutte queste cose teoricamente inutili che ormai stanno tra te e lei. Spalanca una finestra su quel teatrino che avevi messo insieme con due ricordi, quella farsa che chiamavi il passato trascorso assieme: non è trascorso davvero, non eravate realmente assieme: ogni discorso era un equivoco in attesa di una terza, o una quarta persona. Rimane solo un gran vuoto, ogni tanto qualcuno ti avvertirà che lo stai fissando.
Cafè Society questa settimana è il film proiettato in più sale, anche nella provincia di Cuneo - se la gioca con la pesciolina Dory - del resto lo abbiamo visto, ormai il marchio Woody Allen è una specie di Walt Disney per la terza età. La gente non va a vedere molti film, ma i suoi sì. Non è un film particolarmente divertente, non è nemmeno una tragedia: è il tipico film del tardo WA. Un cast notevole, costumi stupendi, fotografia pazzesca - in un certo senso è più un film di Storaro che di Allen, luci e inquadrature sembrano più importanti delle chiacchiere pure interminabili dei personaggi. La trama è più evanescente del solito e questo è forse un vantaggio, rispetto agli ultimi anni di canovacci un po' scontati: come se volendo evitare la solita storia, si fosse ritrovato quasi senza storia da raccontare. Siccome i fratelli Dorfman sono una coppia classica del cinema alleniano - il gagster e il giovane innocente di belle speranze - per buona parte del film ti aspetti una svolta tragica che invece, sorpresa! non avviene. Qualcuno viene effettivamente ucciso e nascosto, ma per futilissimi motivi, quasi non se ne possa fare a meno: c'è una pistola sul set, usiamola.
Forse una relativa novità sta nell'idea di mostrare un triangolo sentimentale dal punto di vista del giovane infelice. Sappiamo che per Allen le ragazze sono naturalmente attratte da uomini col doppio dei loro anni: non necessariamente ricchi o potenti (ma aiuta), senz'altro più saggi e colti (continua su +eventi!). Un tipo preciso di relazione da sempre vista con sospetto nelle commedie sentimentali e quasi del tutto rimossa da quelle di ultima generazione, che per WA è una specie di condizione di natura, indiscutibile, al punto che nel film dell'anno scorso la studentessa Emma Stone non aveva nessuna difficoltà a scambiare effusioni col suo professore Joaquin Phoenix sul prato della facoltà - sono quelle piccole cose che ricordano allo spettatore che siamo nel mondo di Allen, un mondo dove un cinquantenne troverà sempre una ventenne disposta a impazzire per lui.
Poi le cose non vanno sempre a finire nel migliore dei modi, ma forse è la prima volta che Allen sceglie di mostrarci la storia dal punto di vista opposto al suo: il ragazzo giovane che viene scaricato perché l'uomo ricco e potente (Steve Carell), per una volta, ha deciso che lascia davvero la moglie per la segretaria. È una piccola rivoluzione copernicana, ma forse è anche il motivo per cui il film gira un po' a vuoto, malgrado Jesse Eisenberg sia quel tipo di attore che sembra nato per recitare film di Allen. Si capisce che il regista vorrebbe dare al suo personaggio un po' di profondità - gli regala anche un siparietto divertente con una ragazza squillo che ai fini dello sviluppo della trama non ha molto senso - e però fino alla fine questo giovane Dorfman resterà poco più che una silhouette, uno che prende continuamente le distanze dalla superficialità e dal cinismo hollywoodiani salvo andare a infilarsi in un posto altrettanto superficiale e cinico come un nightclub newyorchese. Come se WA, dopo aver deciso di mettere in scena l'educazione sentimentale di un giovane, si fosse distratto - tanto che le battute migliori stanno in bocca ad attori attempati e riguardano, come al solito, la morte ("vivi ogni giorno come se fosse l'ultimo, e un giorno o l'altro ci azzeccherai"). Partito con l'idea di raccontare le illusioni perdute della gioventù, WA sembra davvero ritrovarsi soltanto davanti a quell'ingrigito padre ebreo che senza alzarsi da letto lancia la sua sfida alla morte: me ne andrò, ma non staro zitto. "Protesterò"; e a quella moglie in vestaglia che gli risponde: protesterai con chi, protesterai di cosa?
Infine c'è Kristen Stewart, che con Eisenberg recita spesso e si trova bene - anche se neanche con lui sembra mai davvero a suo agio - coi suoi broncetti imbarazzati che contagiano lo spettatore e lo lasciano sempre interdetto - è brava a sembrare imbarazzante, o è imbarazzante e basta? Quando è sulla spiaggia col fidanzato giovane, e i raggi dell'amore si velano all'improvviso dell'ombra del rimpianto che Kristen sottolinea trattenendo a stento il fiato come a reprimere un rutto: cattiva recitazione o colpo di genio? Perché a volte le ragazze fanno davvero così, io le ho viste. Credo. È passato del tempo. Non sono più la stessa persona. Vivo in un'altra città, faccio un altro lavoro, tutti mi salutano l'unica cosa che mi è rimasta è che vado ancora a vedere i film di Woody Allen - oggi al Citiplex di Alba (17:00, 19:00, 21:15), al Cinelandia di Borgo San Dalmazzo (15:20, 17:40, 20:20, 22:30), al Vittoria di Bra (17:30, 20:00, 22:00), al Fiamma di Cuneo (15:15, 18:15, 21:15), ai Portici di Fossano (16:00, 18:30, 21:15), al Baretti di Mondovì (21:00), al Cinecittà di Savigliano (16:00, 18:10, 20:20, 22:30).
I cagnolini della guerra
27-09-2016, 01:36Americana, cinema, Cosa vedere a Cuneo (e provincia) quando sei vivo, fb2020, guerra, traffico d'armiPermalinkVoi cosa combinavate a 22 anni? Nel 2006, Efraim Diveroli gestiva dal tinello del suo appartamento una ditta scalcinata che gli aveva passato il padre per levarselo di mezzo. Cercava di vincere appalti per forniture all'esercito. Appena l'esercito metteva il bando su un sito, Diveroli si metteva a cercare le forniture più a basso costo che trovava. Le forniture erano armi, fucili e munizioni, raccattate il più delle volte a prezzi di saldo dai magazzini dei Paesi del vecchio blocco sovietico. Qualche volta vinceva un appalto, qualche volta lo perdeva, e nel giugno del 2006 ne vinse uno per trecento milioni di dollari. Questo faceva Efraim Diveroli a 22 anni - e a 24 era in galera. Ma non c'è rimasto poi tanto, e in seguito non ha nemmeno cambiato mestiere - solo il nome alla ditta. In fondo cos'aveva fatto di male? aveva soltanto smerciato munizioni albanesi agli afgani filo-USA, senza sapere che erano di fabbricazione cinese. Pare che per il Pentagono non sia un problema se armi i tuoi alleati con Ak-47 degli anni Sessanta e con proiettili recuperati in qualche bunker in Albania, magari da un tizio che è sulla blacklist e usa come prestanove un ventiduenne sovrappeso di Miami. Però se scopre che è roba fatta in Cina, è un guaio, ehi, con la Cina c'è un embargo. La guerra è così. L'America è così. E Trump non ha ancora vinto, pensa
Un film come War Dogs si scrive da solo, ma se l'avesse scritto Scorsese saremmo tutti più felici (continua su +eventi!)
Fa ridere perché sono al Ministero della Difesa ma si sono appena fatti una canna e quindi sono in para dura AH AH AH (no sul serio forse sono troppo vecchio, boh), |
Un film come War Dogs si scrive da solo, ma se l'avesse scritto Scorsese saremmo tutti più felici. Un bel vortice di avidità e dissipazione, l'ascesa e la caduta dell'ennesimo personaggio posseduto dallo spirito animale del capitalismo eccetera. Invece è toccato a Todd Phillips, reuccio della stoner comedy, avete presente, quei film coi ragazzi americani che si fanno le canne (il che pare sia divertente in sé, almeno questa è la spiegazione che mi do: i giovani americani vanno al cinema a vedere giovani americani farsi le canne, perché ciò li diverte). Molto spesso c'è Jonah Hill, che in Wolf of Wall Street faceva proprio da anello di congiunzione tra la stoner comedy e l'universo adulto (ma ancora più stonato) di Scorsese. E benché Jonah e la sua spalla perfettina Miles Teller, mentre inseguono i loro sogni avidi, citino più volte Scarface di De Palma, è a Scorsese che Phillips torna in continuazione. E va benissimo: siamo tutti in crisi di astinenza da Scorsese, in quella fase in cui non si va tanto per il sottile e mandi giù di tutto, anche Bradley Cooper che fa il ricercato internazionale (del resto produce lui). War Dogs avrebbe potuto riuscire meglio: l'epopea di due ragazzini americani ignoranti che si ficcano in guai più grandi di loro meritava forse una narrazione più distesa; ma la formula originale per miscelare il moralismo con la fascinazione per il crimine la conosce solo Scorsese, e se la tiene ben stretta. O forse si sarebbe potuto insistere di più su come l'esercito americano si sia voltato dall'altra parte per non vedere da dove i fornitori gli procuravano le armi - imbroglioni di mezza tacca, ragazzini che fotoscioppavano i bilanci, a un certo punto andava bene di tutto, e se non ci si fossero messi in mezzo i giornalisti forse Diveroli starebbe ancora trafficando kalashnikov della guerra fredda. Magari lo sta ancora facendo. Hill e Teller sono in parte, ma non sembrano giovani come effettivamente erano Diveroli e il suo socio Packouz: del resto a 22 anni qui da noi sei ancora un ragazzino. I due protagonisti sembrano già sulla trentina, quel momento nella vita in cui certe porte si chiudono, magari una compagna resta incinta e sì, se un tuo vecchio amico ti avesse proposto di trafficare munizioni in medio oriente, tu saresti stato abbastanza disperato da accettare. Trafficanti è al Cinelandia di Borgo San Dalmazzo alle 20:20 e alle 22:45; al Cinecittà di Savigliano alle 20:20 e alle 22:30.
Alla ricerca del sequel perfetto
23-09-2016, 01:35animazione, cinema, Cosa vedere a Cuneo (e provincia) quando sei vivo, fb2020PermalinkCara Pixar,
c'è qualcosa che volevo chiederti, ma non ricordo cosa.
A proposito, complimenti per il successo del tuo nuovo film - il seguito di Nemo, tredici anni dopo - sembra che stia mettendo tutti d'accordo, e con i sequel non è facile, sai? Ma certo che lo sai. Ormai siete i più esperti: tra la saga di Toy Story, Cars 2 e... e... quell'altro film coi mostri che ho pur visto e adesso... c'è un altro tuo film al cinema, lo sapevi? Beh, sì, immagino di sì.
Stavamo dicendo?
Il prossimo fatelo sul polpo per favore |
quello che vorrei dirti è che sono proprio contento per i tuoi ultimi successi. Ti credevamo un po' appannata, poi Inside Out ha fatto il botto e soprattutto non era il solito film, era qualcosa di davvero nuovo. L'altro film coi dinosauri non è andato altrettanto bene, ma anche in quel caso non si può dire che abbiate scelto l'approccio più banale al problema. Invece ero un po' in pensiero a causa dei sequel. No, non ho niente contro i sequel, immagino che siano investimenti sicuri. Non si vive di soli Inside Out, certe volte bisogna anche prendere fiato. E poi bisogna ammettere che il vostro approccio ai sequel è tutt'altro che banale. Questa idea, per esempio, di spostare l'attenzione sul comprimario, su un personaggio che nel primo film sembrava monodimensionale - è una mossa interessante, perché sfida davvero le tue aspettative di spettatore. Anche solo l'idea di dire: facciamo un film con Cricchetto protagonista e Saetta McQueen da spalla - è chiaro che la prima reazione dello spettatore è: non funzionerà mai. Cricchetto è ridicolo, è imbarazzante, inaffidabile, non ha la profondità che serve. E invece. Stessa cosa col mostro-monocolo di Monsters University, come si chiama... è solo una spalla comica, non puoi caricare tutto il film sulle sue palpebre, no? E invece...
È un po' come con la vita vera, quando all'improvviso condividi qualcosa con una persona che fino a quel momento era rimasta sempre all'orizzonte delle tue conoscenze, e ti rendi conto che è una persona in carne e ossa proprio come te, e che tu l'hai snobbata fino a quel momento. È un effetto molto particolare, ma non ricordo assolutamente perché ne stavo parlando con te che sei... chi sei? Ah sì, la Pixar.
Per dire, hai presente Nemo? Immagina che un giorno ne facciano un sequel, e invece di raccontare un altra storia di Nemo che si perde, si concentrino, che ne so! sulla tartaruga hippie, o magari su quella pesciolina che aiutava il padre di Nemo e che aveva un problema con la memoria a breve termine, come si chiamava? Ecco, immagina una cosa del genere. La tua prima reazione è: ma cosa puoi raccontare su una pesciolina che perde la memoria ogni cinque minuti? È solo una comparsa, una spalla, non può funzionare. E dopo un'ora di film immagina che stai piangendo per la sorte della pesciolina, e di Nemo non ti frega più niente, è diventato la comparsa nella vita di qualcun altro. Sarebbe incredibile, no?
Ecco, forse sto scrivendo alla Pixar per proporre una storia del genere.
O il romanzo di formazione di Anton Ego.
O le avventure di Charles Muntz sul suo dirigibile.
Cara Pixar,
ultimamente ho qualche problema a mantenere la concentrazione - (continua su +eventi!)
Cara Pixar,
ultimamente ho quaalche problema a mantenere la concentrazione - sarà l'età, o gli impegni, insomma, quel che scrivo può risultare un po' sconnesso. Volevo dirti che ho visto il tuo ultimo film ma... non sono così sicuro di averlo visto. Ma correggimi se sbaglio. C'è un comprimario di un film precedente che nella prima mezz'ora si comporta in modo insopportabile. Finché non ti rendi conto che dietro questa scorza imbarazzante c'è una persona vera (anche se è solo un personaggio di pixel), col suo fardello di traumi e delusioni. Scommetto che si ritroverà sperduto in una situazione più grande di lui, e potrà farcela soltanto grazie al sostegno di amici vecchi e nuovi, perché lo spirito di squadra è il minimo comun determinatore di ogni lungometraggio Pixar. E ci sarà una scena madre attentamente preparata per sessanta minuti, che ci farà piangere come fontane, e poi un po' di azione insensata e divertente prima del finale. Ecco, questo è il film che tra un po' uscirà nelle sale, e non vedo l'ora. Anche se non vado matto per i sequel. Ma non si può sempre aver tutto.
Non mi freghi piiaaaaaaaaaaawwwww |
mi è venuto un dubbio. Forse il film dopo tutto l'ho visto, ma ero stanco, oppure in sala c'erano troppi bambini che chiedevano di essere rassicurati: ma poi tornano il papà e la mamma? ma poi lo ritrova Nemo? Ma poi dove va il polpo? Ma poi, ma poi, ma poi. Cara Pixar, adesso che mi ricordo forse volevo scriverti che sono un po' stanco del modo in cui riesci sempre a manipolarmi: a farmi odiare un personaggio (Dory per metà film è insopportabile) e poi a farmi piangere per lei. Che ormai ho capito come funzioni e non c'è neanche più bisogno di ricordarseli, i tuoi film, dopotutto la struttura si ripete. Che questo, in particolare, funziona fino a un certo punto: i vecchi personaggi sono ridotti a macchiette, i nuovi sono interessanti ma non c'è quasi tempo per svilupparli (il polpo in particolare non sta fermo un attimo). Che la sequenza finale è un po' troppo fracassona, come era già successo con Cars 2, uno dei tuoi film più deboli. Che insomma forse a questo punto è ora di lasciarci, perché è più colpa mia che tua. Tu hai i tuoi franchise da mandare avanti per quei milioni di bambini che hanno il diritto di sentirsi raccontare le vecchie storie. Se io comincio ad annoiarmi, a fissarmi sui dettagli o a intravedere i meccanismi, è un problema mio. Devo passare ad altro. Magari facendo finta di non vedere che c'è più cinema in un tuo sequel riuscito a metà che in molti film cosiddetti d'autore. Cara Pixar.
Non mi ricordo più cosa ti stavo dicendo. Ma sai che c'è? Non importa. Non vedo l'ora di vedere il tuo prossimo film, ho sentito che è nelle sale! Anche se è un sequel. Alla ricerca di Dory è al Cityplex di Alba (19:45, 22:00), al Cinelandia di Borgo San Dalmazzo (20:20, 22:35), all'Impero di Bra (alle 20:20 in 3D, alle 22:30 in 2D), al Fiamma di Cuneo (21:00), al Bertola di Mondovì (21:00), all'Italia di Saluzzo (20:00, 22:15), al Cinecittà di Savigliano (20:20, 22:30).
Compra un esame in Transilvania (prima che lei compri te)
06-09-2016, 02:18cinema, Cosa vedere a Cuneo (e provincia) quando sei vivo, fb2020, invecchiarePermalinkUn padre, una figlia (Bacalaureat, Cristian Mungiu, 2015).
Romeo ha una cinquantina d'anni, una moglie che non lo guarda più negli occhi, un appartamento dignitoso al piano terra di un quartiere in sfacelo, un telefono che suona in continuazione, un reparto di ospedale da mandare avanti, un'amante che comincia a lanciare ultimatum, un'unica figlia a cui ha insegnato l'importanza dell'onestà, dell'integrità, del duro lavoro. La Romania è un disastro, ma Eliza può farcela; ha vinto una borsa di studio per l'Inghilterra, l'importante è superare l'esame di maturità. Cosa può mai andare storto? Romeo ha una settimana di tempo per rovinare tutto; perdere la famiglia, la stima di sua figlia e di sé stesso. Può bastare un sasso, una distrazione, una tentazione, una macchina ferma sul lato sbagliato della strada. La Romania è un cantiere abbandonato, chi ha vinto l'appalto è scappato per primo, c'è gente che ci si nasconde e gente che gira a vuoto, in cerca di uscita.
Oh com'è difficile restare padre quando i figli crescono e le mamme imbiancano - oh oh oh oh |
(Ani de liceu, cand tii soarele in mana si te crezi legendar Prometeu...)
Vien voglia di chiedere la cittadinanza onoraria, anche perché Mungiu si è fatto un po' prendere la mano. Ormai lontana la secchezza di 4 mesi 3 settimane e 2 giorni, con quella scansione fulminante in tre atti: Bacalaureat dura venti minuti in più, di cui alcuni passati semplicemente a far girare a vuoto il protagonista, o a farlo riflettere immobile su una panchina. E per quanto la sceneggiatura sembri infierire contro di lui, alla fine non si riesce a non voler bene a questo povero tizio che vuole salvare la figlia dal disastro che lui stesso è diventato. Del resto Bacalaureat parla di corruzione sociale ma anche fisica - di come sia inevitabile venirci a patti, a una certa latitudine e a una certa età. Ma anche chi è scappato in terre meno corruttibili potrà voler dare un'occhiata - il film è al Fiamma di Cuneo fino a mercoledì (ore 21); da giovedì è al Monviso (sempre a Cuneo, sempre alle 21).
Chi vi uccide sa quello che fa, date retta
29-08-2016, 00:4521tw, cinema, Cosa vedere a Cuneo (e provincia) quando sei vivo, fb2020, guerra, terrorismoPermalinkOra vi spiego la guerra, signorini. |
C'è un Occhio che gira intorno al mondo e vede quello che vuoi e che non vuoi. C'è una casetta da qualche parte in Kenya, con stanze separate da tramezze che non arrivano al tetto (molto comodo per le inquadrature dei mini-droni). Dentro ci sono terroristi fanatici, che forse credono che la cittadinanza inglese o americana li protegga dall'Occhio. Stanno per indossare pettorine e andarsi a fare esplodere in qualche luogo affollato. Bisogna colpirli prima che colpiscano - ma c'è una bambina in strada, a pochi metri dal probabile impatto, vende focacce e non si sposterà finché non avrà il paniere vuoto. Ci sono soldati che devono fare il loro mestiere. Ci sono politici che non sanno che ordini dare.
È fortissimo, James Bond gli taglia le unghie dei piedi. |
QUALCUNO LE COMPRI QUEL PANE |
Hanno già le armi più potenti e precise mai adoperate, ora reclamano anche di avere sentimenti raffinati e coscienze tormentate. Come il ragazzino di Ender's Game, a cui Hood non consentiva soltanto la licenza di sterminare una razza aliena, ma anche il privilegio di sentirsi in colpa e rimediare. Anche stavolta la voce più falsa è quella di una donna che fa appello ai buoni sentimenti; nella penultima battuta del film, il generale le fa il cazziatone. Io ho visto il mondo, ho raccolto i cadaveri di quattro attentati suicidi, non si permetta più di spiegarmi cos'è la guerra. Uno vorrebbe tanto che Hood fosse un po' meno militarista di così, perché bravo è bravo; o che almeno lo fosse in modo più onesto (alla Clint Eastwood?), senza confondere le acque, senza mimare la tenerezza e nascondersi dietro il velo quasi integrale di una povera bambina innocente. E invece anche stavolta si può andare a vedere il suo film convinti che si tratti di una parabola sugli orrori della guerra; si può tremare per un'ora sul destino della povera vittima collaterale, ma poi?
Non esistono razze superiori, salvo rare eccezioni come gli attori britannici di una certa età. Rickman e la Mirren sono perfetti e lo sarebbero anche se interpretassero i droni. |
Ma poi sulla strada di casa ti accorgi che i militari sono quelli che ne escono meglio. Sono attori di razza come Helen Mirren e Alan Rickman (nel suo ultimo ruolo), ma c'è anche tantissima varietà razziale, ci sono ragazze ispaniche e morette dell'Iowa con occhioni pronti a inumidirsi, c'è una coppia fantastica di spie kenyote, tra cui il Barkhad Abdi già visto di Captain Phillips. Sono tutti bravi, sono competenti, dicono le bugie solo a fin di bene ed è chiarissimo che non godono a uccidere la gente, anzi. Chi potrebbe mai pensarlo. Alan Rickman è molto preoccupato per la bambola che deve comprare alla nipote. Le vittime collaterali dovrebbero sentirsi fiere di essere uccise da gente così.
Per contro, i politici sono tutti bianchi e preoccupati. Sudano, strillano, si tolgono la giacca, il Ministro degli Esteri è al gabinetto a Hong Kong perché ha mangiato gamberetti - non che l'Occhio del Cielo non riesca a trovarlo anche lì, ma insomma Hood non rinuncia a nessun espediente per ridurre l'autorevolezza degli eletti dal popolo. Un discorso a parte gli americani, che non capiscono che tempo ci sia da perdere e preferirebbero sparare prima e farsi le domande poi. Eye in the Sky resta un film importante: forse il primo dramma da camera ambientato intorno al mondo. Semplicemente non è il film controverso che il trailer ci vende: è un film sulla guerra telecomandata e chirurgica, su come funziona bene e soprattutto su come funzionerebbe meglio senza troppi civili nella sala dei bottoni. Un eventuale ufficio propaganda delle forze armate britanniche non avrebbero saputo produrne uno migliore - anche per la pubblicità offerta ai mini-droni di ultimissima generazione
Finalmente hanno riaperto l'Aurora di Savigliano, che lo proietta alle 18:30 e alle 21:15, e il Cinelandia di Borgo San Dalmazzo (alle 15:15, alle 17:35, alle 20:15 e alle 22:35).
La vera Squadra Suicida si chiama Warner Bros
22-08-2016, 12:0321tw, cinema, Cosa vedere a Cuneo (e provincia) quando sei vivo, fb2020, fumettiPermalinkCom'è che i nemici di Batman e di Superman scappano sempre di prigione? Non ci stanno mai più di qualche mese, se sciogli l'acido nell'acquedotto di Gotham City ti danno massimo tre settimane con la condizionale. Era ancora l'Età dell'Argento dei fumetti di supereroi, gli anni '60 nel mondo reale, quando qualche lettore cominciò a porsi il problema: è verosimile che Joker esca dal manicomio criminale ogni tre per due? Perché i lettori di fumetti sono così. Possono accettare che Superman abbia il superudito e la supervista, ma dev'essere calato in un contesto verosimile. E gli sceneggiatori questa cosa la capiscono, e invece di farsi due risate si sforzano di trovare spiegazioni, per esempio... c'è un superservizio segreto che arruola i supercriminali in missioni suicide in cambio di sostanziosi sconti di pena. Batman lo sa ma non ci può fare niente, ha le bat-mani legate.
Avete quindici minuti per incontrarvi, raccontarvi che siete uno più cattivo dell'altro, ammazzare gli altri cattivi e sviluppare un maschio senso di cameratismo. |
La Warner Bros?
Da qualche parte ai piani alti della Warner Bros dev'esserci un gruppo di, come definirli, diversamente umani. Qualche figlio di, qualche ragazza di, qualcuno che passava di lì e aveva bamba per tutti, una squadra di iperattivi ipodotati che se hanno mai sfogliato un fumetto non riuscivano a decifrare le scritte nelle nuvolette; se mai sono entrati in un cinema, si sono addormentati dopo i trailer. Una gang di deficienti con una missione suicida: salvare il cinema da sé stesso. Perché andiamo, dopo 15 anni di cinecomics, non sentite anche voi una certa stanchezza? Nell'anno in cui abbiamo già visto Batman pestare Superman e incontrare Wonder Woman, i Fantastici Quattro horror, gli X-Men anni Ottanta, gli Avengers che litigano, Deadpool che scoreggia, e potrebbe andare avanti così per decenni, i calendari sono pieni di uscite fino al 2020, nelle fumetterie c'è un archivio di trame e personaggi praticamente inesauribile... chi può fermare il treno in corsa? Chi può salvare il cinema da tutto questo? La Warner può. La Warner può colarsi a picco prendendo i supereroi e i supercattivi più popolari del mondo e buttarli in film senza senso finché il pubblico non si stufa. Sembra impossibile, ma può funzionare.
"Zio la vetrina è il simbolo, se non spacchi la vetrina non sei nessuno". |
Già, i trailer.
Ecco quel che sanno fare alla Warner: i trailer (continua su +Eventi!)
Per cui a un certo punto qualcuno deve aver proposto la cosa: ma perché non ce ne fottiamo della struttura del film, del ritmo, della costruzione dei personaggi, e non montiamo semplicemente una ventina di trailer movimentati e colorati? Ai ragazzini piacciono, magari riusciamo a non addormentarne qualcuno. L'idea che si possa sostituire una storia con la pubblicità della storia è di un'arroganza, di un'ignoranza spettacolari. Da qualche pezzo di trama che emerge qua e là in mezzo a questo carosello di esplosioni e smorfie si capisce che David Ayer una storia se l'era immaginata (uno squadrone di antieroi votati alla morte lo aveva già messo in scena in Fury). Forse era una storia troppo noir, poi Deadpool ha fatto il botto col suo umorismo da spogliatoio delle medie e ai piani alti hanno deciso di spazzare via tutto e lasciar per terra i rottami. Una giovane archeologa scopre in un sito antichissimo uno Spirito che la possiede e che vuole dominare il mondo: avvincente, no? No? Come dite? è la storia più vecchia del mondo, la Mummia, vi cascano le palle? Vabbe', la riassumiamo in un trailer di tre minuti e ci mettiamo un pezzone classic rock in sottofondo. Un assassino nato, siccome è impersonato da Will Smith, vuole riallacciare i rapporti con la figlia preadolescente. Originale, vero? È tipo la trama di tutti i film d'azione con maschi stagionati per protagonisti, da Liam Neeson a Kevin Costner? Non importa, tanto te la riassumiamo in due minuti e ci mettiamo su un altro pezzone rock, dai che siamo la Warner. E poi c'è Joker, già, Joker.
"Però stavolta cattivi". |
Joker secondo me è il personaggio più facile del mondo. Ti metti una maschera e fai il matto. Non devi avere giustificazioni, non devi avere scrupoli, fai una risata e strabuzzi gli occhi. Jack Nicholson, certo. Heath Ledger, mi rendo conto. Ma solo perché nessuno ha mai pensato a Costantino Vitaliano, io credo che sarebbe stato un buon Joker anche la Gegia con il trucco e il parrucco adeguato. Non a caso, nel vecchio telefilm di Batman, i cattivi tutti-matti li facevano fare agli ospiti, una volta lo ha fatto pure Liberace divertendosi tantissimo. Qui c'è Jared Leto, e non ho pregiudizi contro Jared Leto: almeno voleva farlo un po' diverso. Ma non gli danno il tempo. Non fa neanche in tempo a picchiare la sua ragazza, cosa che succedeva persino nei cartoni animati in tv e dava un senso a entrambi i personaggi. Cinque minuti di smorfie e risatine e poi passiamo ad altro. La seduzione della sua psicologa, una storia potenzialmente fortissima e inquietante, bruciata in tre scene con la voce fuori campo, manco fossimo in piazza col cantastorie che mostra i pannelli col dito: GUARDA-IL-PERFIDO-JOKER-SEDURRE-LA-PROFESSORESSA. È un film veramente suicida, nel modo in cui brucia sul suo cammino decine di storie e situazioni interessanti. Manipolazione, amour fou, folie à deux... che palle però dover raccontare tutta questa roba. Che palle dover raccontare qualsiasi cosa. Troppi dialoghi! Troppe cause ed effetti, noi vogliamo le esplosioni! Però, attenzione, nessuno si deve fare troppo male. Esplosioni per famiglie.
A un certo punto Harley Quinn - Margot Robbie, di cui tutti parlano bene - spacca una vetrina con la sua mazza iconica, e a chi le chiede conto risponde: Beh, che v'aspettate? Sono cattiva. I cattivi fanno queste cose, no? Spaccano vetrine. In effetti è la cosa più cattiva che la ragazza di Joker fa in tutto il film. Suicide Squad è quel figlio di papà che si concia da Black Bloc quando gli passa il corteo sotto casa, e poi si eccita ribaltando un cassonetto: rivoluzione! Cattivo come i tatuaggi che informano i passanti che sei un duro, perché altrimenti non ci farebbero caso e anche tu, allo specchio, qualche dubbio te lo faresti venire.
Suicide Squad ha fatto il pieno subito - era il minimo, con tutto il battage che c'era intorno - ma non è il colpo grosso che la Warner si aspettava per ridurre le distanza con la Disney/Marvel. In patria è crollato alla seconda settimana, come Batman v Superman (a dire il vero un po' meno). Viva il passaparola, e viva anche la pirateria, che punisce i film-evento non all'altezza dell'evento. E viva anche gli squadroni di pagatissimi deficienti che mandano in sala catastrofi del genere. Sono la nostra unica speranza di sopravvivere ai supereroi. Suicide Squad è al Fiamma di Cuneo (20:05, 22:45), al Multilanghe di Dogliani (21:30) e al Vittoria di Bra (20:00, 22:30).
L'uomo che batteva i nazisti (e i cavalli)
17-08-2016, 22:4321tw, cinema, Cosa vedere a Cuneo (e provincia) quando sei vivo, fb2020, nazismo, razzismi, sportPermalinkIl trucco è che il colpo di pistola spaventava un po' il cavallo, e intanto Owens era partito. |
Il ralenti sarà banale, ma con l'atletica funziona sempre. Hopkins non lo usa, sembra che abbia fretta di mostrarti le gare per passare ad altro. |
(Quando capisci che un biopic non funziona? Per esempio, quando è meno avvincente della pagina di Wikipedia).
Come si fa a sbagliare un film su Jesse Owens? Da una parte un afroamericano che resta a ottant’anni di distanza uno dei più grandi atleti di tutti i tempi: dall’altra hai i nazisti e i razzisti dell’Ohio. Per trasformare l’atletica in tragedia e in spettacolo, puoi ripassare Chariots of Fire; per capire come parlare di razzismo e di sport, puoi rifarti ad Ali di Michael Mann. Quanto alle olimpiadi di Berlino, prendi la Riefenstahl e vai sul sicuro. Ma se tutte queste lezioni le ignori, se i dilemmi etici degli atleti li risolvi in discussioni di tre minuti, se il razzismo lo dai per scontato, se i tuoi nazisti sembrano cattivi da melodramma (sul serio, ogni volta che parla Goebbels partono i violini), se la Riefenstahl ti interessa solo come personaggio, il risultato finale si avvicinerà pericolosamente al livello di una fiction italiana, con un budget più alto, ma con meno personalità addirittura.
Il reverendo che sposò gli Owens aveva i baffetti alla Hitler, il che mi fa impazzire. |
Proprio lui che col suo biopic su Sellers aveva dimostrato di saper sfidare le regole del genere - quella però era un’icona che supplicava di essere profanata; con Owens, con la leggenda olimpica, non si scherza, e il risultato è anche che non se ne riesce nemmeno a discutere seriamente. Più che personaggi in scena ci sono delle figurine: hanno tutti obiettivi lineari (l’atleta nero vuole vincere, l’allenatore bianco vuole riscattare i suoi insuccessi, il dirigente olimpico vuole sconfiggere i nazi) e quando qualcuno o qualcosa si mette di traverso, s’ingrugnano, finché qualcuno non li sblocca, di solito con un bel discorso. Anche Hopkins è succube di questa moda del discorso taumaturgico, che tanti danni ha fatto negli ultimi anni (vedi il Lincoln di Spielberg). Ma nel suo caso l’ossessione rasenta il comico, perché molto spesso i discorsi non c’entrano nulla col conflitto in atto: ad esempio, quando Owens è incerto se boicottare o no i Giochi come gli ha chiesto un’associazione afroamericana, l’allenatore lo commuove spiegandogli che una volta si è schiantato con un aeroplano. Non c’entra tantissimo, ma nel frattempo è partita la base languida e pare che adesso funzioni così, ogni volta che un personaggio è frustrato e deve prendere una decisione tu inserisci un blocco di testo qualsiasi nel copione, un attore lo legge, i violini partono, voilà, la decisione è presa. Pazienza se il protagonista sembra non aver personalità, e oscillare a seconda dei discorsi che ascolta.
Luz Long è un gran personaggio, ok,
ma arriva dopo un'ora e mezza di film.
Lo sport è spesso ingrato coi suoi protagonisti: li piazza alla ribalta e poi cala il sipario all’improvviso. Il caso di Owens è esemplare anche perché ha sempre rappresentato quello che gli Stati Uniti vorrebbero essere - la patria multietnica che piglia Hitler a calci in culo. Se la storia finisse lì, se Owens non avesse poi dovuto interrompere subito la carriera e fare i conti col razzismo in patria, sarebbe una storia fin troppo edificante - probabilmente quella che aveva in mente Hopkins. Race torna sul grande schermo giovedì (ore 22) a Bra, frazione San Matteo, in occasione della rassegna Cinema d’estate in periferia.
Un'altra estate, un'altra Purga
08-08-2016, 18:1521tw, Americana, cinema, Cosa vedere a Cuneo (e provincia) quando sei vivo, fb2020, traffico d'armiPermalinkL'idea va avanti dal 2014. Un budget contenuto, un regista giovane che dal primo episodio si è liberato dell'ansia di strafare, un concetto originale anche se un po' passé: un carnevale per adulti, una notte in cui, in un'America futura appena un po' fascistizzata, tutti possono "sfogarsi" commettendo tutti i reati che vogliono. Con tutte le armi che vogliono. A un primo livello, abbiamo una satira dell'ossessione particolarmente americana per le armi da fuoco. E andrebbe già benissimo così. Ma la carta vincente della Purga (nella versione italiana lo traducono Lo Sfogo e fa ridere lo stesso) è la sua grezzissima ipocrisia: la scelta di stare sempre dalla parte delle vittime, encomiabile se non venisse da chi ha inventato il marchingegno di tortura.
The Revenant, due ore e mezza di saporita ricerca della vendetta e cinque minuti finali per dire che la vendetta è una cosa ingiusta. Ecco, The Purge fa la stessa cosa: mette da una parte i buoni, pacifisti e tolleranti; dall'altra dei personaggi che sono un po' repubblicani, un po' nazisti, un po' satanici, insomma il peggio del peggio del peggio, e non vedi l'ora che i pacifisti li massacrino. Naturalmente questi ultimi devono esitare un po', devono essere perseguitati e costretti, perché sono pacifisti. Ma quando alla fine succede, ecco, è una gran Purga, volevo dire un grande Sfogo. DeMonaco gioca col senso di colpa dello spettatore progressista con un cinismo d'altri tempi: dai, sfogati, ti senti in colpa? Lo sai perché ti senti in colpa? Perché sei un ipocrita. Sfogati un altro po', ti farà bene. E così via, episodio dopo episodio.
Quest'anno poi è tempo di elezioni, e The Purge non poteva assolutamente perdere l'occasione: si scopre così che, malgrado tutto finora ci lasciasse pensare il contrario, l'America di The Purge è ancora una democrazia, e che non c'è oligarchia satanica che non possa essere rovesciata dal voto popolare ogni quattro anni: basta conquistare gli anziani della Florida ed è fatta. C'è addirittura una candidata (Elizabeth Mitchell, la dottoressa di Lost) che promette di abolire la barbara usanza che pure ha aumentato l'indotto delle armi e della sicurezza, e ha ridotto drasticamente la disoccupazione. Ovvio che il partito al potere voglia farle la pelle, approfittando della notte della Purga. Nel frattempo trovi stranieri - turisti della Purga - che vanno in giro per la capitale degli Stati Uniti travestiti da Abraham Lincoln e da Statue della Libertà, per sfogarsi su innocenti passanti americani. In un vicolo qualcuno sta ghigliottinando qualcun altro, tutto regolare. Teeen-ager birichine vanno in giro cosparse di sangue brandendo seghe elettriche. Però chi va al cinema aspettandosi esattamente questo, un'ora e mezza di violenza folle e insensata, ci rimane sempre male, perché? Perché questa roba rimane sullo sfondo, è la spezia con cui DeMonaco attira gli spettatori al cinema. Ma poi li vuole intrattenere con qualcos'altro che è una specie di agenda politica, progressista a suo modo, e scorrettissima. (Continua su +eventi!)
Questi sono i Buoni, multietnici come è giusto che sia. Ammazzano tantissima gente, ma per un buon motivo e senza goderne troppo visibilmente. |
I Cattivi sono gente vecchia e sanguinaria, tutti rigorosamente bianchi (sembrerebbe una proiezione distopica se non avessimo visto un pubblico del genere alla Convention repubblicana): adunati in una chiesa presbiteriana, conducono riti orgiastici che prevedono l'eliminazione di poveri e senzatetto. Quanto ai Buoni, sono tutti minoranze etniche, perlopiù afro e latinos, con facce che non vedi di solito a Hollywood e che gridano blaxploitation (Betty Gabriel). I soli bianchi dalla loro parte sono il candidato donna e il suo gorilla, l'efficiente e spigoloso Frank Grillo, l'unico sopravvissuto dal film precedente. Il candidato dei tristi satanici invece è un pretino, abbastanza simile ad alcuni rivali di Trump alle primarie - nemmeno un visionario come DeMonaco poteva immaginarsi Trump candidato. Il risultato non è semplicemente un sano film di fuga metropolitana che adatta i temi dei Guerrieri della notte o di 1997: fuga da New York ai nuovi tempi e allo spirito di fraternità interrazziale di Fast and Furious; è anche il manifesto politico più sfacciato che credo di aver visto in vita mia. Per un'ora e mezza non fa che dirti che i cattivi sono i bianchi ricchi, tranne quella che, con molta sensibilità e diplomazia, guiderà la rivolta dei ghetti. Non so quanto lo staff di Hilary Clinton possa apprezzare. Tanto le elezioni si vincono coi voti dei pensionati in Florida. Però quando un giorno i nostri figli ci chiederanno: papà, cosa hai fatto per evitare che vincesse Trump? DeMonaco avrà almeno la risposta pronta: con un budget medio-basso ho fatto il film di propaganda più smaccato di sempre. L'ho fatto con tutta la violenza che serviva per conquistare le sale dei quartieri più malfamati d'America. Di più di così un regista di genere cosa poteva fare? La notte del giudizio: Election Year è all'Italia di Saluzzo alle 20 e alle 22:15, e al Fiamma di Cuneo alle 21:15.
I fantasmi dell'84 (non li cacci via)
01-08-2016, 15:40cinema, Cosa vedere a Cuneo (e provincia) quando sei vivo, fb2020, nostalgia, OttantaPermalinkC'è stato un tempo in cui avevamo paura dei fantasmi. C'è stato un tempo in cui ridevamo dei fantasmi. Oggi tutto questo è molto lontano, oggi i fantasmi siamo noi. Viviamo in un limbo di cose né morte né vive, cose che principalmente sono successe intorno al 1984, e per un bizzarro inghippo del destino non sono state dimenticate. Infestiamo questa casa, tirando orribili scherzi a chiunque prova a entrare per dare un'occhiata. La maggior parte bisogna dire che se lo merita, vogliono solo grattare qualche soprammobile vintage e rivenderlo, c'è un mercato pazzesco per queste cose. Altri invece sono solo curiosi, è tutta la vita che sentono parlare di questo benedetto/maledetto 1984, vorrebbero capire cosa si provava a entrare in una sala per vedere Ghostbusters e beccarsi i primi trailer di Indiana Jones e il Tempio Maledetto. Perché se davvero c'è stato un momento in cui tutto il nostro immaginario si è azzerato ed è ripartito, non può che essere l'anno di Terminator, Nightmare, Gremlins, Karate Kid, Amadeus, La storia infinita, Footlose, e potrei andare avanti. È successo qualcosa di pazzesco nel Palazzo Incantato del 1984, ed è normale che la gente voglia entrare per capire, per provare, anche solo per passarci la notte.
Ma non ne hanno il diritto, quel palazzo appartiene a noi. Li cacceremo via, li prenderemo a sassate su Youtube o Imdb. Come osano reclamare la proprietà intellettuale sui marchi dei nostri ricordi, su ciò che ci tiene vivi, ammesso che sia vita questa (se la passi a trollare le attrici di Ghostbusters 2016 probabilmente non lo è).
A un certo punto della leggenda dei sequel di Ghostbusters - leggenda che si perde ormai nella bruma dei tempi, è da trent'anni che il progetto restava nel limbo delle cose inevitabili quanto irrealizzabili - sembra che Bill Murray avesse dato l'ok per partecipare al terzo film, soltanto a un patto: avrebbe dovuto interpretare un fantasma. Era in effetti un'idea geniale, che inspiegabilmente Paul Feig ha lasciato cadere. Avrebbe dato una profondità a un film che sembra volerla evitare a ogni costo. È come se dopo aver rilevato un marchio che ha lasciato un segno indelebile su una generazione; dopo aver avuto l'idea forte, e commercialmente rischiosa, di investire su un cast femminile (e usare Chris Hemsworth come damigella in pericolo, più che un'idea una gag), Feig avesse tirato i remi in barca e pensato solo a ridurre i danni. Il marchio è pesante, il cast è controverso, il budget impressionante, il film è una commediola divertente che si comincia a dimenticare già prima dei titoli di coda. Tocca difenderla perché è stata messa sotto attacco dai troll maschilisti e razzisti, ma la difenderemmo più volentieri se Feig oltre a mettere le donne in primo piano ci avesse anche dimostrato che sono brave: che possono fare un Ghostbusters non dico migliore dell'originale, ma spassoso, potente, originale.
Purtroppo non è andata così, però sarebbe ingiusto prendersela con Feig per il fatto che il suo Ghostbusters non funzioni come quello del 1984. Non è colpa sua se certe merendine non torneranno più. C'è qualcosa di particolarmente irripetibile, nel successo del primo film, che lo rende un tesoro tanto prezioso della nostra preadolescenza. Nell'elenco sommario dei grandi successi del 1984, Ghostbusters spicca per un motivo che a prima vista magari non si vede: è l'unica commedia. Quasi. Altri film hanno grossi inserti di commedia, ma Ghostbusters è l'unico a nascere intorno a un gruppo di attori e autori comici - Aykroid e Ramis, che all'inizio pensavano a Belushi, e poi lanciarono cinematograficamente Murray. Il risultato fu un film che metteva insieme ingredienti instabili, mai mescolati prima, in un'alchimia probabilmente irripetibile: commercializzato come prodotto per le famiglie, convinse tanti decenni come noi a farsi portare al cinema, per vedere non solo le prime scene horror della nostra vita (gli effetti speciali sono ancora notevoli), ma anche la prima commedia per adulti - una scena in cui un'entità invisibile slaccia la cintura a Dan Aykroid nei coevi film di Bud Spencer non s'era mai vista.
Uscivamo dalla sala, nel 1984, con la sensazione di aver finalmente passato una serata coi fratelli maggiori, quelli che già fumavano e si portavano le tipe negli angoli: e non è che ci avessimo capito molto, ma ce l'avevamo fatta, nessuno ci aveva mandato via, nessuno ci aveva preso in giro, alla fine ci eravamo anche divertiti. Forse tra i troll maschilisti che hanno preso di mira le attrici del nuovo film c'è qualche mio coetaneo che visse quella proiezione del 1984 come un rito di passaggio all'età adulta; un rito che evidentemente non ha funzionato molto bene, ma di tutto questo Feig e il suo cast non hanno responsabilità. In un certo senso la scommessa di Feig conserva qualche tratto dell'impudenza dell'originale: Aykroid e Ramis volevano mescolare l'horror, l'action e il Saturday Night Live. Feig vuole mettere d'accordo i nostalgici degli anni Ottanta con i fan e soprattutto le fan delle migliori attrici comiche e monologhiste della sua generazione, e sulla carta è un'idea coraggiosa. Ma è proprio l'idea che non si realizza. In molti casi, semplicemente, le ragazze non sono divertenti come dovrebbero, come potrebbero essere. Specie se il film lo guardi doppiato, e due o tre sketch basati sui doppi sensi vanno a farsi benedire.
Ma forse il problema dell'adattamento è più profondo: pensate all'ultima commedia americana che avete trovato divertente (continua su +eventi!)
Scommettiamo che vi tocca risalire di almeno tre o quattro anni? Melissa McCarthy, un talento indiscusso, in Italia continua a essere conosciuta soprattutto come comprimaria in Una mamma per amica. E a proposito di serie: vi ricordate che una volta c'erano sit-com americane in prima serata sui canali generalisti e adesso ormai non ci sono più? È difficile da dimostrare, ma è come se la comicità americana nell'ultimo decennio fosse diventata meno esportabile, meno traducibile. Forse semplicemente c'è una generazione di autori che lavora più sulla parola e meno sulle situazioni. Il risultato è che le commedie in Italia ormai ce le facciamo in casa (con risultati alterni), e i film di Feig con la McCarthy li ritroviamo al cinema tra luglio e agosto.
Lo stesso ruolo di quest'ultima in Ghostbusters poggia su riferimenti che si perdono parzialmente nella traduzione: per lo spettatore italiano è facile scambiarla per la donna grassa e buffa (buffa perché grassa), mentre negli USA la sua è piuttosto la taglia standard, quella che vedi per strada e non al cinema e in tv. Non è una cicciona divertente, è la donna media che col suo buon senso e qualche dote sconosciuta riesce sempre a dimostrarsi migliore dei comprimari e antagonisti maschi. In questo film Feig la degrada a spalla: dopo averla presentata in una delle prime scene come la classica amica eccentrica, in seguito la usa come la più assennata del quartetto. È la vecchia amica a cui potevi raccontare i tuoi incubi da bambina, quella a cui non telefoni da 15 anni ma non esiteresti a tuffarti in un varco spazio-temporale per salvarla. Tutto questo però ti tocca indovinarlo perché Feig non lo racconta. Non calca sui rapporti umani, non calca sull'horror (del resto ormai sarebbe impossibile far spaventare il pubblico con un'invasione elementale di New York), non crea un antagonista inquietante, non si capisce veramente cosa faccia per 120 minuti - a parte insistere su quanto può essere scemo Chris Hemsworth e quanto è matta Kate McKinnon ingegnera protonica. Forse di questa occasione sprecata che è stato il Ghostbusters al femminile ricorderò soprattutto la scena in cui le ragazze, per tirarsi su il morale, scendono nel vicolo a provare nuove armi ammazzafantasmi: questa idea che non ci sia problema che non si possa risolvere provando qualche arma di grosso calibro dietro casa. Sarà una coincidenza, ma è già il secondo film del 2016 in cui vedo donne americane sparare al bersaglio per risollevarsi l'umore. Ghostbusters, solo in versione 3d, è al Fiamma di Cuneo alle 21:10 e al Multilanghe di Dogliani alle 21:30.
Zootopia è un mondo impossibile, il nostro
18-07-2016, 22:30animazione, cinema, Cosa vedere a Cuneo (e provincia) quando sei vivo, fb2020PermalinkZootropolis (Zootopia, Byron Howard e Rich Moore, 2016).
"E il lupo e l'agnello giaceranno insieme, ma l'agnello dormirà ben poco".
Secondo i più recenti studi di ciascuno di noi, vivere insieme è impossibile: d'altro canto è necessario. Siamo troppo diversi? Sì. Siamo programmati per diffidare del diverso e cercare di allontanarlo? Altroché. Il nostro cervello è naturalmente portato a processare gli impulsi e a ridurli in stereotipi, e agire rapidamente in base a pregiudizi? Senz'altro. Forse un giorno potremo superare queste ataviche diffidenze e vivere tutti insieme in pace? Chi lo sa. Abbiamo alternative?
No.
Qualche anno fa Luke Epplin, dell'Atlantic, notò come tutti i grandi cartoni animati in circolazione nei cinema in quel momento raccontassero la stessa storia profonda: un outsider (può essere una lumaca, un aeroplano spargiletame, un mostriciattolo divertente) lotta contro il proprio destino per vincere un gran premio, o un giro del mondo, o il titolo di mostro più spaventoso della facoltà. È il culto dell'autostima, scriveva Epplin: questi film stanno raccontando ai nostri bambini che hanno il diritto di diventare qualsiasi cosa vogliono diventare. Basta credere ai propri sogni. Peccato che non sia così.
Molti anni prima, quando l'autostima era ancora un lusso per pochi, Walt Disney portava nelle sale la sua silly simphony più controversa, The Flying Mouse. È la storia di un topolino che non riesce a darsi pace perché non ha le ali: finché non trova una fatina che gliele regala, solo per scoprire di essere diventato un enorme pipistrello, orribile a tutti e anche a sé stesso. È un cartone stranamente crudele, che lasciava perplessi anche i disegnatori a cui Disney chiedeva di infierire sul povero topo con alcune gag piuttosto sadiche. Sui forum dei vecchi appassionati c'è ancora qualcuno che si confessa segnato per la vita da quel cartone animato, o dal suo sinistro ritornello, "You're nothing but a nothing". ("Dite quel che volete su quel che dovrebbe significare, ma l'effetto che ha avuto su di me è che mi ha terrorizzato con l'idea di essere diverso dagli altri").
Ottantadue anni dopo, Judy Hopps soffre ancora dello stesso complesso del topo volante. Stavolta è una coniglietta che non vuole sentirsi chiamare "carina" (solo i conigli hanno il diritto di chiamarsi così, se lo fa qualcun altro è razzismo). Judy viene della Tana dei Conigli con un sogno: farà la poliziotta. Dopotutto, perché non dovrebbe riuscirci a Zootropolis (nell'originale Zootopia), il luogo dove predatori e prede vivono in armonia? Ma il punto è tutto qui: Zootopia non è l'utopia di un filosofo o di un profeta. È il mondo brulicante e complesso studiato dagli animatori della Disney, così caotico e stratificato che per un'ora e mezza di film ti sembra vero. Si capisce che in cattedra c'è ancora Lasseter, e sulla lavagna la lezione che ha portato dalla Pixar: non basta una storia, bisogna inventarci un mondo attorno. A Zootropolis i bei discorsi si infrangono subito nella prassi: prede e predatori convivono, ma diffidano, con conseguenze inattese anche se prevedibili: se i predatori sono la minoranza, è così sorprendente che qualcuno cerchi di speculare sulla paura che ispirano? (Continua su +eventi!)
A Zootropolis puoi diventare tutto quello che vuoi, ma più facilmente diventerai quello che gli altri si aspettano da te. Se davvero vuoi dare una svolta alla tua storia, hai bisogno di forzare le porte, di farti amici in ogni nicchia ecologica, dai bassifondi ai corridoi del potere: e di tanta fortuna, naturalmente. Zootropolis si presenta come un film progressista - il culto dell'autostima è temperato da un'altra lezione Pixar, l'importanza del lavoro di squadra - ma è talmente disincantato da rasentare lo scetticismo, e può essere apprezzato anche da chi alla società multiculturale non si rassegna - dopotutto chi può credere a un roditore che da grande sogna di diventare un elefante?
Zootropolis è un film che parla esattamente dell'America di oggi: un gelataio elefante che si rifiuta di servire la volpe sta approfittando di una legge molto simile a quella firmata in Indiana dal governatore Mike Pence (il vicepresidente che Trump si è appena scelto). Allo stesso tempo, è uno dei film più profondamente disneyani degli ultimi anni, dopo gli sbandamenti manga di Big Hero e i mondi pixellati di Ralph Spaccatutto. Judy ha gli occhioni di Tippete, il suo nemico/amico Nick è un degno discendente della volpe Robin Hood. Se Zootropolis ha un difetto, è il ritmo indiavolato con cui concentra in 100 minuti una trama che avrebbe potuto svilupparsi in una miniserie. Certe ambientazioni meravigliose, studiate fino al minimo dettaglio (la città dei roditori!), nel risultato finale resistono solo come sfondi per una o due gag. Certo, col successo che ha avuto i sequel non mancheranno. Vale la pena di vederlo sul grande schermo, martedì 18 luglio ai Cine Dehors dei Portici di Fossano, dalle 21:30.
La cena delle notifiche
12-07-2016, 02:0321tw, cinema, Cosa vedere a Cuneo (e provincia) quando sei vivo, fb2020, telefonatePermalinkIl dramma della Comunicabilità, la tragedia di una generazione che può permettersi l'Iphone ma non ha imparato a silenziare le notifiche. Li senti poi sui treni che chiacchierano con la suocera, pur di farci vedere che hanno relazioni umane: li vedi sui balconi mentre guardano nel vuoto e parlano con l'ex, o con la next; mentre attraversano gli incroci una volta, due volte, con l'auricolare; mentre sextano in coda al bagno pubblico e poi entrano per scaricare la fotina. Vogliono essere scoperti, questa è la verità. Come i serial killer. Vogliono essere osservati - che gusto c'è ad avere segreti se nessuno se ne accorge?
"Tante volte può essere il T9". |
"Son stato frocio due ore e m'è bastato". |
Il nome del figlio riprendeva dall'originale francese l'idea di una borghesia ormai spaccata in due, così pronta alla guerra civile che la scintilla potrebbe scoccare in qualsiasi momento, anche a una cena tra amici. Di queste tensioni in Perfetti sconosciuti non rimane traccia: non c'è più toponomastica sociale, borgatari portatori di una sana vitalità o professori di sinistra isterici, grazie al cielo. Non c'è una guerra segreta tra post-berlusconiani e post-anti: c'è un liquido gruppo di amici, di cui sappiamo appena il mestiere, che credono di conoscersi finché una sera hanno l'imperdonabile idea di fare il Gioco della Verità 2.0: tenere i cellulari aperti, sul tavolo, per tutta la cena. C'è bisogno di dire che quel venerdì sera chiameranno tutti? Ma proprio tutti, non solo la figlia e l'amante incinta: anche l'ospizio, il gioielliere, fin oltre il dessert continueranno a sputtanare gli incauti commensali. Per quanto irrealistica, l'idea è originale, ma se funziona è merito degli attori, tutti in forma, e di una sceneggiatura che non lascia né a loro né allo spettatore il tempo di prender fiato e riflettere sull'assurdo della situazione. Buon cinema, ottimo teatro.
Non è un ingranaggio perfetto - verso la fine c'è uno svelamento che forse in una prima stesura funzionava da colpo di scena, ma a quel punto ormai siamo tutti esausti e non ci stupiremmo più di niente - però riuscire a trovare il ritmo giusto e non perderlo per quasi un'ora e mezza non è da tutti. E far sembrare fresca una commedia degli equivoci, nel 2016, strappa l'applauso. Poi c'è il finale, che fa qualcosa di molto raro nel cinema italiano: nel momento in cui ci aspetteremmo la risoluzione della crisi, un po' di quiete dopo la tempesta (persino Polanski chiudeva Carnage coi bambini che giocano assieme), Genovese fa un passo indietro, restituendo a tutti i loro segreti. E quando nell'ultima scena Battiston scende dalla macchina, ti accorgi che stai trattenendo il fiato.
Perfetti sconosciuti giovedì 14 è programmato in ben due rassegne di cinema all'aperto: il Cinedehors di Fossano (dalle 21:30) e il Cinema all'Arena di Alba (dalle 21:45).
Siamo tutti figli di Cuarón
05-07-2016, 12:4221tw, cinema, Cosa vedere a Cuneo (e provincia) quando sei vivo, fb2020, futurismi, razzismiPermalinkL'umanità è diventata sterile, l'Inghilterra è invecchiata e isolata. I più giovani - hanno sedici anni ormai - si radicalizzano, mettono bombe a casaccio, non si sa nemmeno cosa vogliano. I vecchi se la prendono coi migranti, nessuno ricorda più il perché. Succederà tra vent'anni - no, aspetta, nove sono già passati.
È vero che ci sono film più recenti in sala, ma se al Castello di Roddi sabato 9 luglio fanno I figli degli uomini, forse vale la pena di ridare un'occhiata per scoprire quanto poco sia invecchiato un film che dieci anni anni fa sembrava già una cosa notevole, se non proprio un capolavoro. Quel che è successo nel frattempo è che non solo le tematiche del film non hanno smesso un attimo di restare attuali - anzi, i rifugiati nei recinti e i campi profughi militarizzati somigliano sempre di più a una profezia - ma che lo stile sfoggiato da Cuarón nell'occasione è diventato tipico del migliore film d'azione. Nel 2007 esistevano già i found footage; Von Trier e Gus Van Sant ci avevano già assuefatto alla nausea da handicam; e però i piani sequenza insistiti (e truccati); la scenografia un po' Bagdad un po' videogioco sparatutto, sono cose che sono diventate moneta corrente dopo i Figli degli uomini, se non grazie ai Figli degli uomini (continua su +eventi!).
Non voglio dire che non avremmo avuto film acclamati il Figlio di Saul, o l'ultimo Mad Max, ma forse li avremmo apprezzati meno se nel 2007 Cuarón non ci avesse iniziato a un nuovo modo di girare l'azione, visionario e più immediato: anche questo film è in sostanza un solo lungo inseguimento; anche Cuarón è deciso a narrare soprattutto attraverso le immagini, riducendo al minimo gli spiegoni. Vedi l'intermezzo dell'"Arca delle Arti", un progetto che viene semplicemente menzionato e mostrato, senza che nessun personaggio o voce narrante si preoccupi di spiegarci cos'è: ce lo devono dire le immagini, e il maiale rosa sulla fabbrica e il David di Michelangelo con una gamba rotta, e ci riescono egregiamente. Del romanzo di P. D. James restano solo le suggestioni: la trama è stravolta anche da un punto di vista politico, senza troppe preoccupazioni per la logica (un'Inghilterra condannata a invecchiare sarebbe costretta a importare i lavoratori stranieri più che a scacciarli, e in effetti la James nel romanzo prevedeva dei campi di lavoro coatto). Cuarón la taglia a fette molto meno sottili: sceglie come nuova Eva (che all'inizio avrebbe dovuto essere Julianne Moore) una ragazzina d'origine africana con un pessimo gusto per i nomi: trova i sobborghi meno caratteristici di Londra e chiede ai suoi scenografi di messicanizzarli. Per lui il confine tra primo e terzo mondo ormai è un fronte mobile. Gli preme mostrarci un'Inghilterra senile e xenofoba, e dieci anni dopo è difficile dar torto alla sua intuizione.
In generale rivedere su un grande schermo I figli degli uomini potrebbe rivelarsi un'esperienza straniante per chi ha la sensazione che tutto stia precipitando all'improvviso: è un film che appartiene assolutamente al decennio scorso, all'era pre-crisi dei bond, ai tempi in cui il nemico numero uno era Bin Laden - la scena della bomba a Londra fu girata poche settimane dopo l'attentato suicida del 2005 - e ci mostra come tutti gli incubi che crediamo avere avuto negli ultimi anni ce li stiamo portando avanti ormai da più di dieci. Non è che i cinema siano già chiusi, ma non mi pare che questa settimana ci sia in giro qualcosa di più interessante e attuale dei Figli degli uomini. . Al Castello di Roddi dopo le 21, sabato 9 luglio.
Prima sfasci le vetrine, poi ti deridono, poi vinci, poi continuano a deriderti
23-06-2016, 02:0221tw, cinema, Cosa vedere a Cuneo (e provincia) quando sei vivo, fb2020PermalinkEmmeline Pankhurst. "Fatti, non parole" era il suo motto. Nel film esorta le proletarie a rompere le vetrine. |
L'ultima battaglia di Emily Davison. |
Peccato perché la storia da qualche parte c'era, e alcuni spunti di partenza erano fantastici - ad esempio a un certo punto il film mostra di sfuggita una suffragetta che spiega alle altre alcune mosse di autodifesa, ebbene, pare che una membra del WSPU fosse un'esperta di Ju Jitsu. La cosa muore lì, del resto sarebbe stato difficile far funzionare una scena in cui Carey Muligan o Helena Bonham Carter abbattono un bobby a colpi di Ju Jitsu. La Gavron non si accontenta della ricostruzione storica - quella ormai è a portata di qualsiasi produzione televiva - vorrebbe anche avere qualcosa da dire sul presente, al punto di rischiare l'anacronismo: l'astuto segugio di Scotland Yard che spia le mosse delle femministe ha un pallino per le fotografie, ne scatta tantissime alle manifestazioni e durante le cariche della polizia.
Un'altra occasione piuttosto persa è il taglio che dà alla scena della morte di Emily Davison. Perlopiù sconosciuta qui da noi, la Davison in patria è un personaggio leggendario, non tanto per i nove arresti o i ripetuti digiuni, ma per le circostanze in cui morì - travolta da un cavallo a un derby, e non da un cavallo qualsiasi: da quello del re. L'incidente le costò la vita, ma diede anche al suo movimento quella pubblicità che i suoi scioperi della fame non erano riusciti a ottenere: ma fu davvero un incidente? Se ne discute più o meno da allora. Aveva intenzione di farsi travolgere o voleva semplicemente attaccare una fascetta al cavallo, con uno slogan che chiedeva il voto alle donne? Era in grado dalla sua posizione di riconoscere il cavallo del re, o lo intercettò per pura (s)fortuna? Il film decide di sposare la tesi più semplice, facendo della Davison una militante suicida, che decide di sacrificarsi lì su due piedi, senza pensarci troppo. Forse il personaggio meritava più spessore.
Anche la leader del movimento, Emmeline Pankhurst, è resa da Meryl Streep in modo impeccabile ma un po' freddo: una che inneggia più o meno alla lotta armata, per dileguarsi svelta appena arrivano i bobby. Invece il personaggio di Carey Mulligan, la protagonista, è inventato: uno di quei ruoli abbruttenti che sembrano obbligatori per le attrici di livello internazionale (la smorfietta vezzosa ormai simile a un'emiparesi facciale alla Stallone). È l'operaia che all'inizio non sa cosa sia il suffragio e poi, a furia di essere accostata a queste amiche pericolose, picchiata con loro, arrestata con loro, finisce per radicalizzarsi. Suffragette è alla Sala Polivalente di Piasco giovedì e venerdì alle 21:10.
Shane Black e il portaceneri gigante
11-06-2016, 02:5321tw, cinema, Cosa vedere a Cuneo (e provincia) quando sei vivo, fb2020PermalinkRyan Gosling è un mentecatto. Tanto per cambiare, già. Ryan Gosling è un ex sbirro che ha già dato il suo meglio, e da quel che ci è dato di capire, anche quel meglio non era un granché. È uno di quei personaggi che all'inizio dei vecchi film sonnecchiano sulla loro scrivania di detective privati, tra cicche e bicchieri vuoti, in attesa che arrivi un ispettore o una bionda fatale a svegliarli, a ributtarli nella mischia. All'inizio del film effettivamente Ryan sta dormendo immerso in una vasca da bagno, in giacca e cravatta, ma lo sveglierà sua figlia perché da qualche tempo in qua il regista Shane Black ha deciso che vuole portare al cinema anche la nuova generazione, e l'unico sistema che gli è venuto in mente è piazzare minorenni nelle sue storie - anche in quelle hard-boiled ambientate nel mondo della pornografia californiana. Funziona? Insomma. Ma è un trucco talmente vecchio che sembra quasi fresco, come certe barzellette che ti ricordi improvvisamente dopo trent'anni.
Shane Black a un certo punto dev'essersi creduto un autore, uno che ha una cifra stilistica tutta sua e la persegue a dispetto di logiche commerciali o del buon senso. Forse. È un'ipotesi, neanche la più triste. Sempre la California, fragile e letale - macchinoni che precipitano dentro villette prefabbricate - sempre gli stessi personaggi fragili e perdenti che però in un qualche modo alla fine portano a casa il risultato. Gente a cui è invariabilmente successo qualcosa di brutto e non ci vuole più pensare, piuttosto ci beve sopra fino a morirne. A metà di un film non memorabile, Ryan Gosling si ritroverà seduto a fumare sul trampolino di una piscina vuota, ingombra di mozziconi. Questo cos'è, gli chiederà Russel Crowe, un portaceneri gigante? Ho la sensazione che sarà l'unica scena che mi ricorderò del film (continua su +eventi!)
Shane Black ha gusto per i dialoghi surreali, ma non è Tarantino; sa costruire una scena d'azione ma non è Tony Scott; ha un po' di sincera nostalgia per la California anni '70 ma non ci sguazza come P. T. Anderson. Ma ci sono quei piccoli momenti in cui riesce a mostrarti la disperazione in un'immagine - un uomo in un portaceneri gigante, oppure una bambina seduta in un prato, con una torcia, che racconta una storia a delle bambole che non esistono più, ecco, quelle piccole spine nel cuore Shane Black le sa conficcare. Magari sarebbe diventato un autore davvero, se Hollywood si fosse fidata un po' di più. Magari non ci ritroveremmo davanti a un prodotto che sembra pensato apposta per l'estimatore di Shane Black (ma siamo così tanti?): un catalogo di situazioni che non erano originalissime neanche quando le usava in Arma Letale, nell'Ultimo boy scout, in Kiss Kiss Bang Bang e... basta, via, non è che abbia scritto tutti questi film Shane Black. Magari lui stesso avrebbe cose più interessanti da dirci, ma a questo punto è come il vecchio amico che ritroviamo in un bar, uno da cui vogliamo sentire esattamente le stesse storie, la stessa barzelletta, non perché ci faccia ridere ma perché ci consola sapere che si è rincoglionito almeno quanto noi.
The Nice Guys è al City Plex di Alba alle 22:20; al Cinelandia di Borgo San Dalmazzo alle 20:15 e alle 22:45; all'Impero di Bra alle 22:30; all'Italia di Saluzzo alle 20:00 e alle 22:15; al Cinecittà di Savigliano alle 20:15 e alle 22:30.
I mutanti non muoiono mai (quasi)
25-05-2016, 22:52cinema, Cosa vedere a Cuneo (e provincia) quando sei vivo, fb2020, fumettiPermalinkX-Men: Apocalypse (2016, Bryan Singer)
I primissimi X-Men, quelli con la casacca della Nocerina. Jean Grey sta già battendo la fiacca. |
Nei primi anni Sessanta, Stan Lee ottiene inconsapevolmente un dono da cui derivano grandi responsabilità: qualsiasi idea gli frulli per la testa, anche scema, si trasforma immediatamente in oro, tirature esaurite, ristampe, merchandising. E se Superman invece di essere uno solo fosse un gruppo, anzi una famiglia, ognuno con un potere specifico? Li potremmo chiamare... Fantastici Quattro! E se in ragazzino morso da un ragno radioattivo cominciasse ad arrampicarsi sui muri? E se uno scienziato durante un esperimento diventasse una belva irrefrenabile, grigia, anzi verde perché in quadricromia viene meglio? Sessant'anni dopo queste idee ancora funzionano, ancora ci tormentano, ancora macinano soldi. Ma nel 1963 Lee non lo sapeva. Poteva durare ancora pochi mesi, bisognava battere il ferro finché era caldo, la gente voleva leggere di teenagers trasformati in supereroi a causa di qualche incidente atomico o cosmico, ma Lee a un certo punto non sa più che incidenti inventarsi. Decide di buttarla in genetica, e si mette a inventare un gruppo di ragazzi che semplicemente coi poteri ci è nato. Mutati geneticamente, anzi, mutanti. È l'idea più inquietante che gli sia venuta, ma ci mette del tempo a ingranare: forse perché i primi costumini non erano un granché. Poi nel 1975 un giovane sceneggiatore (Chris Claremont) cambia i costumi e gran parte dei personaggi, ma soprattutto decide di dare ai suoi personaggi uno spessore emotivo.
La quintessenza di Claremont: perché inventarsi dei nemici? I nemici siamo noi. (Ho perso il conto di quante volte Xavier ha ripreso l'uso delle gambe). |
Gli X-Men del 2000, almeno in foto, non sembrano invecchiati così male: ma non ho proprio voglia di controllare. |
Negli ultimi anni la Fox le ha provate tutte per ridare smalto alla saga. L'idea migliore (anche se non troppo originale) è stata quella di giocare la carta vintage, retrodatando la saga agli anni Sessanta. Nel frattempo gli attori cominciavano a invecchiare, e bisognava trovare una scusa per cambiarli tutti tranne Jackman - che bisogna ammetterlo, ci crede tanto, s'impegna, fa palestra, dieta, insomma il successo se lo merita: anche se ogni volta che lo guardo mi sembra di sentire Andrew Lloyd Webber in sottofondo. Ovviamente, tra ripartire da zero facendo tabula rasa della prima trilogia un po' bruttina, e ingarbugliare tutto con un viaggio del tempo e una serie di paradossi temporali, non c'è mai stata scelta. Tutto questo ci porta all'assurdità della trama di X-Men: Apocalisse, dove nuovi mutanti simili a quelli vecchi ma con nomi e provenienze geografiche diverse combattono contro un cattivo mutante che vuole distruggere la Terra... negli anni Ottanta. Il che ci fa escludere a priori che possa esserci riuscito, assai prima che i nostri amici giovani mutanti riescano a coordinarsi e annientarlo, ops, spoiler. È il terzo film della seconda trilogia, e ancora abbiamo la sensazione che la storia debba cominciare davvero.
Quello che fa arrabbiare è che gli X-Men avrebbero tutto per essere il miglior gruppo di supereroi al cinema: la spensierata gioventù, ma anche la competitività scolastica e professionale. Gli intrecci sentimentali, l'interiorizzazione del conflitto razziale, eccetera eccetera... niente da fare. Alla fine in due ore la ricetta è sempre quella: trova un cattivo mutante nuovo, fallo attaccare i nuovi, distruggi un po' di mondo, e poi tarallucci e vino. A salvarsi sono i singoli numeri dei singoli eroi, alcuni ormai codificati al punto che sembrano già concepiti per essere ritagliati e condivisi su Youtube: la scena Hugh-Jackman-uccide-tutti, la scena Evan-Peters-corre-e-gli-altri-stanno-fermi, la scena Fassbender-s'incazza, qualcuno-fa-qualcosa-di-insensato-e-poi-si-scopre-che-è-Jennifer-Lawrence-mutaforma. Poi che dire, la Lawrence è meravigliosa anche quando è blu, Olivia Munn dovrebbe stare in scena più spesso (non solo in questo film), il nuovo Nightcrawler è simpaticissimo malgrado l'accento assurdo del doppiaggio: il classico ragazzo appena arrivato dall'estero che capisce metà di quel che succede ma ha tanta voglia di far bene e alla fine salva tutti un paio di volte. Ad alcune scene d'azione anche divertenti si alternano recitativi ridicoli, spiegoni scritti coi piedi, sotto la media di qualsiasi altro film supereroistico del 2016: e nota che è l'anno di Deadpool e di Batman Vs Superman.
16 anni dopo siamo messi così, e non è chiaro chi siano
gli X-Men e chi siano i nemici.
Poi c'è il solito problema di Magneto (che negli ultimi tre film è Fassbender), un nodo presente già nei fumetti che al cinema viene inevitabilmente al pettine. Magneto è un mutante cattivo che però si pente. Si pente sempre: non prima di aver ammazzato un numero indefinito di esseri umani. Nei fumetti c'è lo spazio per fargli provare dei rimorsi, per fargli spiegare le sue ragioni, dopotutto è un reduce da Auschwitz, ecc. ecc.: al cinema è tutto automatico, un momento prima stai distruggendo il mondo e un momento dopo sei diventato buono. Succede anche ad altri personaggi, ed è una cosa che ammazza la ricezione finale del film, perché anche lo spettatore meno raffinato non può impedirsi di pensare eh vabbe', però questi mutanti sono davvero inaffidabili. Per fortuna che non esistono, perché un film come Apocalypse di sicuro non ce li renderebbe più simpatici, anzi.
La morale forse è che di gente come Stan Lee o Chris Claremont ce n'è poca. Quando li leggi non è che ti sembrano particolarmente raffinati, in fondo facevano robaccia: fumetti per gli adolescenti, novelas con ragazzini in costume. Però sapevano farla. Sembra facile imitarli, e infatti ci hanno provato in tanti. E il mondo si è riempito di ragazzi in costume con storie complicatissime che muoiono buoni, risorgono cattivi, poi si convertono alla bontà, poi incontrano il loro clone cattivo, poi scoprono di essere cloni essi stessi, e così all'infinito. E il pubblico? Continua a comprare i fumetti, anche i biglietti al cinema da un po' di tempo in qua. Si vede che la qualità non è poi così importante dopotutto. X-Men: Apocalypse è al Cinelandia di Borgo San Dalmazzo in 2d alle 20:30 e alle 22:10, in 3d alle 22:20; al Multisala Impero di Bra alle 21:45 (2d); ai Portici di Fossano alle 21:30; al Bertola di Mondovì alle 20:30.
Un autobus chiamato 63
20-05-2016, 01:5221tw, cinema, Cosa vedere a Cuneo (e provincia) quando sei vivo, fb2020, malattiaPermalinkLe pazze non sono simpatiche, le pazze sono pericolose. Agli altri e a sé stesse, e lo sanno. La notte si rigirano, telefonano alle solite persone sbagliate, ingollano valium clandestino, tengono lontani i cattivi ricordi a botte in testa. Le pazze, potendo scegliere, guarirebbero stasera. Ci fosse una terapia, un lavoro socialmente utile, una scossa a centoventi volt - o tornare da papà, o tornare dal bambino, tornare indietro. Le pazze vorrebbero solo essere felici.
Da quand'è che Virzì non sbaglia un film? Una volta capitava anche a lui. Ma dopo N è come se avesse ingranato una marcia diversa: da lì in poi una serie positiva che fa quasi sgomento. Persino La pazza gioia, quante possibilità aveva di raccontare la malattia mentale senza indulgere al pietismo, senza inveire contro strutture coercitive che in effetti non esistono più, senza trasformare le sue matte in eroine depositarie di una Verità Più Profonda, sconosciuta ai sani di mente? I trailer alimentavano i peggiori timori: Valeria Bruni Tedeschi e Micaela Ramazzotti che fanno le matte, scappano in decappottabile e si divertono. Sta a vedere che Virzì ha sbagliato un film - beh, prima o poi doveva succedere. Via il dente, via il dolore.
"Il cinema italiano, non so se si rende conto". |
Con un senso dell'equilibrio che non ha paragoni in Italia, una mano mai tanto salda - sarebbe bastata una sbavatura, una parola di più, una caratterizzazione appena appena più marcata, una concessione a quei bozzetti grotteschi che una volta erano il suo punto di forza. Il confine tra commedia e tragedia è una lama su cui le protagoniste saltellano senza cascare veramente mai.
Si intuisce, dietro, un lavoro di osservazione quotidiana, di riflessione sulla malattia, che solleva il film di svariate lunghezze sopra ogni altro recente tentativo di fare cinema intelligente. Quando a un certo punto compare, in un mezzo secondo, il volumetto Einaudi di Un tram chiamato desiderio, più che una strizzata d'occhio ha tutta l'aria di un'ammissione: Virzì e Francesca Archibugi non hanno bisogno di citar nomi importanti per ricordare al pubblico di essere colti, ma nemmeno possono fingere che nel personaggio della Bruni Tedeschi non riviva il fantasma di Blanche. La Ramazzotti invece è una nuova Maria Farrar, l'infanticida di Brecht che nessuno ha voluto aiutare. Intorno a loro le figure maschili sono più evanescenti del solito: ex amanti, padri e mariti non hanno più nulla da dare, se mai hanno dato qualcosa. Per Virzì e per le sue attrici era forse il film più difficile, il passo falso che gli avremmo perdonato. Niente da fare, neanche stavolta. Tocca aspettare il prossimo.
La pazza gioia è al Cityplex di Alba alle 20:00 e alle 22:15; al Cinelandia di Borgo San Dalmazzo alle 20:10 e alle 22:35; al Multisala Impero di Bra alle 20:10 e alle 22:30; al Fiamma di Cuneo alle 21:00; all'Italia di Saluzzo alle 21:30; al Cinecittà di Savigliano alle 20:15 e alle 22:30.
Perché Accorsi sembra uno sballato
04-05-2016, 02:2121tw, auto, cinema, Cosa vedere a Cuneo (e provincia) quando sei vivo, drogarsi, Emilia paranoica, fb2020, OttantaPermalinkMa come lo stai girando, tutto perfettino, con gli stacchi giusti, le curve tonde, soccia, che due balle fai venire. Ma te, ti diverti mai quando giri?
C'è un momento, diobono, in cui non pensi alla postproduzione, alla distribuzione, all'ipoteca che ti mangerà la casa se il film va di merda e tutte le altre balle? C'è un momento in cui ti gasi e basta? Lo sai di cos'hai bisogno, te?
Di benzodiazepina. Dodici gocce e poi vai liscio.
No, scherzo.
Te hai bisogno di Loris. E sei fortunato, eccomi qua.
(Però anche la benza non ti farebbe mica male sai, anzi, se hai venti carte ci passo io in farmacia, all'Operaia mi fanno gli sconti).
Ho visto Veloce come il vento e ora nessuno potrà convincermi che Stefano Accorsi non abbia passato gli anni del suo apprendistato a imitare Vasco Rossi per far ridere i compagni; se non era proprio Vasco era lo scoppiato del quartiere. Poi da cosa nasce cosa, uno spot qua, un Muccino là e vent'anni dopo Stefano Accorsi è attore di livello quasi internazionale. Il primo a crederci poco è probabilmente lui, e questo è il motivo per cui in fondo è impossibile volergli male. Ogni tanto ci pensiamo: ma che fine ha fatto? Quand'è che torna a farsi vivo, con una delle sue genialate?
(Hanno tutti fatto uno spot ridicolo ma quello di Accorsi non ce lo dimentichiamo. Prima o poi hanno tutti avuto un'"idea", ma solo "un'idea di Stefano Accorsi" è diventato un tormentone. Non c'è un perché, Accorsi non sarà un grande attore ma non è nemmeno il più cane di tutti. Non diremmo mai di Accorsi quel che si dice di solito a scuola, che uno è bravo ma non s'impegna. Accorsi s'impegna pure, Accorsi non puoi mai dire che non ci stia provando).
Veloce come il vento era, sulla carta, un film suicida. Una storia vecchia come la Turbosedici nascosta nel casolare, implausibile come un manga fine anni Settanta, o una storia di Bug Barri di Basari e Giovannini, nessuno sa di cosa sto parlando. Una ragazza minorenne al volante di una Granturismo, che durante la prima gara resta orfana (il padre si piglia un infarto nei box, la madre è fuggita anni prima) e con un fratellino a carico. Tutto questo poteva forse essere verosimile sulle pagine del Corrierino o del Giornalino, ma verso il 2015 lo spettatore italiano è ormai abituato a standard di verosimiglianza molto diversi. Poi però succedono due cose.
La prima è che Jeeg Robot, un film ancora meno plausibile su un borgataro che beve la monnezza radioattiva del Tevere e diventa Supercoatto tiene le sale per un mese intero e si presenta alla consegna dei David di Donatello col carrello della spesa. E lo riempie. Segno che il pubblico e persino la critica stanno cominciando a fottersi della verosimiglianza e a manifestare interesse per qualcosa di diverso che in mancanza d'altro chiamiamo "film di genere" (ma ha ancora senso chiamarlo così come se fossero gli anni Settanta e lo spettatore medio andasse al cinema una volta alla settimana? (Continua su +eventi!)
La seconda è che la sceneggiatura di Veloce come il vento a un certo punto è arrivata ad Accorsi, che magari non ha sempre voglia di recitare e lo capisco, ma stavolta aveva voglia di divertirsi a fare lo Scoppiato Anni Ottanta per un'ora e mezza. Perché con tanto rispetto per il giovane Rovere che ha talento, e gira sorpassi e curve e inseguimenti che Ron Howard, per dirne una, non ne ha fatti di migliori; con tanta ammirazione per la giovanissima Matilda De Angelis che regge il volante e la scena senza sbavare, Veloce come il vento non filerebbe così bene - Veloce come il vento non filerebbe nemmeno se Accorsi non riempisse ogni buco e fessura di trama. Il suo sporc-drughè, struggente ed esilarante e completamente fuori le righe, chi ha condiviso un po' di anni Ottanta nei parchetti dell'Emilia-Romagna non potrà trovarlo famigliare - quando spalanca le braccia ti sembra di sentirlo puzzare. Non so se chi è nato a nord del Po e a sud degli Appennini possa sentire lo stesso turbamento: ma qui ce l'abbiamo tutti un fratello, cugino, zio maggiore ridotto così. Cioè: ce l'avevamo. E in un qualche modo lo rimpiangiamo. Perché è vero che era un deficiente e ci ha rubato pure le posate. Però era nel nostro sangue, e quando se ne è andato è come se ci avesse tolto il divertimento. Quello non torna più, le posate si ricomprano.
Alla quarta settimana di programmazione, Veloce come il vento regge ancora al Comunale di Barge (21:15), al Cinelandia di Borgo San Dalmazzo (20:10, 22:40); al Nuovo Lux di Centallo (21:00). Vai, vai, ballerino.
Kate Winslet è il boss
26-04-2016, 14:0521tw, cinema, Cosa vedere a Cuneo (e provincia) quando sei vivo, fb2020PermalinkChe fine ha fatto Kate? |
Codice 999 è un poliziesco corale, come a dire uno di quei film in cui bisogna incastrare gli impegni di sette od otto attori di primo livello e il rischio che si corre è di sembrare comunque un Heat dei poveri. Il punto di vista oscilla continuamente tra buoni e cattivi, ma è un oscillare del tutto meccanico: se Heat o The Departed ne approfittano per mostrare che i due fronti si assomigliano più di quanto dovrebbero, e che insomma il bene e il male son concetti relativi ecc., Codice 999 è semplicemente un canovaccio scritto così, perché si usa così. I poliziotti sono marci, e i cattivi sono ancora più marci - tanto che alcuni di loro sono poliziotti deviati. Perché sono marciti? Non c'è un perché - cioè, Chiwetel Ejiofor ha decisamente sposato la persona sbagliata (la sorella di una boss russo-israeliana), che tutto sommato può essere un motivo valido per far esplodere le persone. No, la gente marcisce perché sai, la società, tutti sono armati, c'è tanta violenza a
Qui era fatto anche il fotografo |
La cosa è talmente smaccata che fino a un certo punto ti aspetti il colpo di scena, cioè dai, è impossibile... (continua su +eventi!)
La cosa è talmente smaccata che fino a un certo punto ti aspetti il colpo di scena, cioè dai, è impossibile che i neri siano i cattivi, i latinos siano ancora più cattivi però cialtroni e iperviolenti che non ragionano, gli ebrei i più cattivi di tutti che tramano trame - e i bianchi quelli buoni, quelli che danno sempre il meglio, che vorrebbero "fare la differenza". C'è persino una poliziotta asiatica che è un mago al computer.
Si sa come vanno le sceneggiature in questi casi: prima ti fanno credere una cosa e poi... scommetti che alla fine salta fuori che in cima a tutta la piramide del Male c'era il capo Harrelson con la sua ridicola cravatta stellestrisce? E quella brava coi computer in realtà faceva finta? E invece? E invece non è che posso dire il finale ma insomma, forse è persino una buona notizia: finalmente un film in cui ai neri capita di essere i cattivi (però professionali), agli ebrei capita di fare i mafiosi (ok, non è una novità) e ai bianchi di salvare la giornata, e nessuno lo trova razzista. Neanche in patria sembra che ci siano state molte polemiche. C'è anche Gal Gadot in quota israeliana ed è uno spreco terribile - una truzza mafiosa senza qualità, serve a far risaltare l'intelligenza della sorella Kate.
Il film ha un buon ritmo ma non si ferma mai - soffre di quell'affanno tipico di sceneggiatura troncata perché è vero che Hillcoat ha fatto La strada, ma non è né Mann né Scorsese e non può concedersi quella mezz'ora in più per spiegare perché certi personaggi si comportino in certi assurdi modi. Il risultato, temo, è che tra un paio d'anni ci ricorderemo ancora tutti dei film di Mann e di Scorsese, e di Codice 999 resterà il vago ricordo di un film in cui Harrelson si re-inventava poliziotto marcio ma completamente diverso dal suo true detective, e soprattutto Kate Winslet si trasfigurava in imperatrice ebreorussa del male, un'Imma Savastano dove meno te lo aspetti.
Codice 999 è al Cinelandia di Borgo San Dalmazzo (20:15, 22:45); all'Impero di Bra (22:30); all'Italia di Saluzzo (20:00, 22:15); al Cinecittà di Savigliano (20:20, 22:30).
Villeneuve non ha pietà
21-04-2016, 19:23cinema, Cosa vedere a Cuneo (e provincia) quando sei vivo, fb2020PermalinkSicario (Denis Villeneuve, 2015).
Anche qui arriveranno i lupi e i macellai, non c'è confine o barriera che possa contenerli. Reggie e Kate sono due agenti FBI di stanza in Arizona, per lo più indagano sui rapimenti e tirano giù porte coi calci. Un giorno squarciano un muro di cartone e si ritrovano nell'inferno del narcotraffico messicano. La cosa migliore sarebbe farsi trasferire in una piccola città, un posto dove le leggi possano avere ancora senso, dimenticare tutto. Ma Kate ovviamente non può.
Quando qualche anno fa uscì Polytéchnique, un critico scrisse che il regista era riuscito a trasformare un massacro scolastico (ispirato a una storia vera) in un'esperienza estetica. Con Villeneuve si corre spesso questo rischio: storie agghiaccianti fotografate in un modo magnifico. Nessuno è mai riuscito a tirar fuori tanta arte dai profili delle tute antiproiettile stagliate su un tramonto: una ricerca estetica che rasenta il Kitsch e di solito ai registi statunitensi non interessa - rischia di distrarre l'attenzione dall'intreccio.
"Finisci di mangiare". |
Il mondo di Sicario lo abbiamo già visto altre volte al cinema o in tv: eppure sin dall'inizio abbiamo la sensazione che stavolta sarà diverso (continua su +eventi!)
Non possiamo fidarci di chi ci accompagna: sicuramente non è chi dice di essere. Villeneuve sfida tutte le convenzioni del genere, e soprattutto nella prima straordinaria mezz'ora sembra concentrarsi su tutte le situazioni che un buon professionista hollywoodiano eviterebbe: riunioni a un tavolo dove nessuno dice nulla d'interessante, trasferimenti silenziosi in auto o in aeroplano, e poi quel briefing che sembra una presa in giro, tra agenti distratti e assonnati che pochi minuti dopo faranno una strage. Emily Blunt ci presta gli occhi, Brolin in ciabatte ci mette a disagio sonnecchiando e sgranocchiando noccioline, Del Toro è l'orco buono dietro a cui nascondersi, salvo che non sta scritto da nessuna parte che sia buono davvero. Sicario è la dimostrazione che si possono violare tutte le regole del cinema d'azione e fare lo stesso uno straordinario cinema d'azione - o meglio, che lo può fare Denis Villeneuve. Lo si può rivedere venerdì 22 al Nuovo Cinema Lux di Centallo (21:00).
Batman contro Superman non ha senso (neanche se li costringi)
01-04-2016, 01:2021tw, cinema, Cosa vedere a Cuneo (e provincia) quando sei vivo, fb2020, fumettiPermalinkDue città si dividono la baia, e se nessuno è ancora riuscito a inquadrarle assieme, forse c'è un motivo.
A est c'è Zackopolis, terra solare di Dei olimpici o aspiranti tali. I templi sono più ottone che oro, se vogliamo proprio dirla tutta, ma l'aspirazione alla grandezza è genuina. C'è un'attesa messianica, un senso del divino e della meraviglia, quella nota di fascismo che gli americani sulle prime non riconoscono - addolcito da quella spezia camp, appesantito da qualche cedimento pacchiano che possiamo scambiare per ironia. Di film di supereroi ne trovi a ogni cantone, ma nessuno li inquadra come Zack. Nessuno ci crede davvero, hanno tutti paura di passare per ragazzini e ci scherzano su.
Come hai detto che si chiama tua madre? |
Ho fatto il militare in Israele, cosa volete che m'impressioni Doomsday |
"Clark Kent e Bruce Wayne! Come mi piace mettere in contatto le persone" |
Peccato che a Nolan City si faccia più o meno il contrario.. (continua su +eventi!) Come ai tempi del Joker di Nolan, c'è di nuovo un cattivo pazzo con un piano che non ha senso, a volte sembra calcolato al millimetro e a volte improvvisato sul set. Il film sembra riscritto dozzine di volte con dozzine di priorità diverse: facciamo un Superman realistico, che si misura con la contemporaneità: un po' di undici settembre (e persino l'attentato a Massoud, che riemerge come in un sogno) No, anzi, facciamo il Cavaliere Oscuro di Miller, anche se ai tempi Superman era Ronald Reagan e Batman piegava già verso i neonazi... Ho cambiato idea, facciamo un universo cinematico come la Marvel! Un cameo a Wonder Woman, un altro per Flash, via che si va... dite che è roba già vista? Ok, giochiamoci la carta di Doomsday. Ma sentite, e se il cattivo lo facessimo fare a Zuckerberg? Non a quello vero, no, all'attore... Oppure facciamo tutto, mettiamoci di tutto, e speriamo che qualcuno confonda la complicazione con la profondità. Con Nolan dopotutto funzionava.
E funziona anche stavolta. Il terzo miglior weekend di sempre negli USA - ok, a lunedì si era già sgonfiato di parecchio, ma al miliardo di $ ci arriverà. Ed è solo l'inizio, perché è talmente scombiccherato che i nerd, il nocciolo duro, dopo averne parlato male per un mese correrà a ordinare il dvd con le Scene Tagliate che dovrebbero Spiegare Tutto e invece probabilmente Faranno Ancora Più Casino. In questo stesso momento centinaia di blogger convinti di avere un senso critico stanno lavorando a un pezzo sui Cinquantasette Buchi di Trama di Batman v Superman (il Quarantaduesimo Ti Sconvolgerà!) Quella è gente che un film del genere se lo merita. Lo guarderanno e lo riguarderanno fino a sognarselo, finché non lo costringeranno ad avere un senso, come i predicatori con la Bibbia. Magari il cinema dovrebbe essere un'altra cosa - anche quello di intrattenimento, anche quello coi tizi in mantello che volano e tirano raggi laser. Una cosa meno seriosa, meno inutilmente complicata. Poi vai a vedere gli incassi, e... Batman v Superman è anche questa settimana al Cityplex di Alba (21:00), al Cinelandia di Borgo San Dalmazzo (19:50, 21:10, 22:45), al Vittoria di Bra (21:00), al Fiamma di Cuneo (21:00), al Multilanghe di Dogliani (21:05), ai Portici di Fossano (18:30, 21:15), al Cinecittà di Savigliano (21:30).
Cuore di un ragazzo che senza paura sempre lotterà
06-03-2016, 11:4721tw, cinema, Cosa vedere a Cuneo (e provincia) quando sei vivo, fb2020PermalinkLo chiamavano Jeeg Robot (Gabriele Mainetti, 2016).
Vai a vedere Jeeg Robot. Me l'hanno detto tutti per una settimana. Io nicchiavo, ero rimasto bruciato dal primo tentativo del cinema italiano di abborracciare un supereroe. In realtà Jeeg è agli antipodi del Ragazzo Invisibile, praticamente in tutto: al servizio di Salvatores si era messa una macchina industriale anche efficiente, ma che di supereroi non sapeva nulla e non ci teneva neanche troppo a informarsi - tanto è roba per ragazzini e i ragazzini si bevono tutto, no? No, sono anzi molto esigenti.
Invece Jeeg, per come ce la raccontano, è un progetto portato avanti in solitaria da un regista testardo che il target non lo ha studiato a tavolino, ma se lo porta tatuato su qualche organo interno. Jeeg è un film per il ragazzino che è rimasto intrappolato in ciascuno di noi. È un disadattato che si è arrangiato a vivere nel nostro condominio interiore - tutti i suoi amici o sono svaniti all'Apparir del Vero, o si sono trovati una famiglia e un lavoro - ma lui è ancora lì, rannicchiato su qualche puzzolente divano, vuole solo guardare porno e mangiare yogurt. Si esprime per citazioni misteriose, cartoni giapponesi, canzoni di vecchi Sanremo. Non farebbe male a una mosca ma allo stesso tempo è violento - la violenza è l'unico linguaggio che conosce - tanto violento quanto fragile.
Vai a vedere Jeeg Robot, mi dicevano. Avevano tutti la mia età, un brutto segno. Perché noi quarantenni continuiamo ad andare al cinema a vedere questi tizi in calzamaglia, quando ce ne piace di solito uno su cinque, perché ci siamo intestarditi su una delle tendenze, diciamolo, più bimbominchia della storia del cinema? Dall’Uomo Ragno di San Raimi in poi, non ce ne siamo persi uno, e non ce n’è uno che ci abbia convinto per più di un film. Che cosa stiamo cercando esattamente? Abbiamo avuto l’approccio scanzonato alla Marvel, l’approccio serioso alla DC, il finto gotico di Burton, il bislacco Nolan. Film di genere, li chiamano: come se gli autori non avessero provato in tutti i modi a colonizzarli, a darci il supereroe intelligente, il supereroe tragico shakespeariano, il supereroe horror. Va’ a vedere Jeeg – e già sapevo più o meno cosa aspettarmi: una farsa in romanesco col coatto che “ci ha i poteri”, tante strizzate d’occhio citazioniste a chi è cresciuto a pane e anime. E invece?
E invece ho visto il tizio in felpa che riavvia una giostra e poi salva una bambina, e un inquilino della mia Tor Bella interiore si è messo a piangere come una fontana: finalmente! è questo che ho sempre voluto vedere, coglione. I supereroi non sono buffi, non sono seri, i supereroi fanno quello che vorresti fare tu se avessi la forza di schiacciare un termosifone. Non passano il tempo a strizzar l’occhio allo spettatore, a confortarlo sul fatto che è molto, molto più intelligente di così, ed è in sala soltanto per gentile concessione al suo bambino interno o esterno. I supereroi sono quelli che i bambini li salvano, afferrandoli un attimo prima che cadano nel burrone. Non sono invincibili, anzi ne devono prendere tante dai gemelli cattivi – e perdere pezzi per strada.
Andate a vedere Jeeg Robot. Anche se ormai ce l’ha fatta: è ancora in sala dopo dieci giorni, anche in provincia di Cuneo (ad Alba oggi alle 18:45 e alle 21). Claudio Santamaria e Luca Marinelli mettono l’anima in due personaggi straordinari e implausibili, ma è Ilenia Pastorelli che continuerà a tormentarvi anche a fine visione: con gli occhi e gli strilli insopportabili di tutti i bambini che dovevate salvare, e non ne avete avuto il coraggio, le forze.
Non t'immischiare con Capitan Totomorto
23-02-2016, 10:3721tw, cinema, Cosa vedere a Cuneo (e provincia) quando sei vivo, fb2020, fumetti, invecchiarePermalinkLei è Morena Baccarin. |
Dopo i supereroi coi superproblemi, i supereroi dal destino tragico e dalle grandi responsabilità, i supereroi recalcitranti, finalmente arriva Deadpool, ed è soltanto un coglione. Non è una ventata d'aria fresca? Un po' lo è. D'altro canto, non basta ammettere di essere coglioni per smettere di esserlo. A volte è il primo passo. Ma può anche essere un passo indietro. Di solito è il modo in cui cercavamo di sfangarla al liceo.
A volte penso a quanto sono fortunati i ragazzini di adesso, con tutti questi supereroi al cinema che ai miei tempi te li potevi soltanto sognare. Altre volte penso a quanto dev'essere difficile crescere in un mondo in cui i genitori conoscono tutti i personaggi dei tuoi sogni. Prendi Star Wars. Trent'anni fa era un mondo nuovo, qualcosa che creava un'immediata frattura tra il tuo mondo e quello dei grandi. Tuo padre non sapeva chi fosse Luke Skywalker - non era previsto che lo sapesse. Anzi, era previsto che non lo sapesse e non lo capisse. Invece adesso noi maledetti grandi coi capelli grigi sappiamo tutto, tutto. Tutte le vite di tutti gli eroi. Per i buchi di memoria ci sono le ristampe, le antologie, se proprio butta male wikipedia.
Nel frattempo, in virtù di un calcolo di mercato neppure troppo oscuro, l'Universo Cinematico Marvel continua a insistere su storie di quarant'anni fa, che perfino noi abbiamo letto in ristampa. Vedi l'ultimo Avengers: contiene due personaggi irrimediabilmente datati, l'androide Ultron e il suo antagonista buono, Visione, un tizio col mantello. Non so se vi rendete conto: il mantello. E quell'incarnato magenta che probabilmente negli anni Settanta era più pratico da stendere in quadricromia. Qual è il senso di resuscitare situazioni così vecchie, a parte compiacere i genitori che portano figli e nipotini e vogliono mostrare di saperla lunga? Per fortuna che da qualche cassetto la Fox ha tirato fuori Deadpool.
Una mossa abbastanza disperata, da parte di una major che negli ultimi anni ha fatto tutto quello che poteva fare per sputtanare gli eroi Marvel di cui deteneva ancora i diritti. Un Uomo Ragno per ragazze, un X-Men che ha definitivamente incasinato la timeline, un Fantastici Quattro horror, e poi cosa?
"Ci sarebbe un assassino psicopatico onnisessuale che non tace mai".
"Stai scherzando?"
"Ryan Reynolds ci tiene tantissimo".
"Ah beh allora".
"È un personaggio autoironico, dice un sacco di parolacce, infilza la gente con le spade..."
"Non si può fare, lo vieterebbero ai minori".
"Magari così funziona".
"Dici?"
"Teniamo basso il budget e vediamo. Insomma qualcosa prima o poi dovrà pur funzionare. È la legge dei grandi numeri".
Beh, ha funzionato. Però resta un sospetto. Forse più dell'autoironia da quattro soldi, di quel turpiloquio da macchinetta delle merendine, più di quella cosa così sovversiva che è sfondare la quarta parete (che non è un valore in sé, se la sfondi solo per dire cretinate) Deadpool ha funzionato proprio perché noi vecchi non lo conosciamo. Chi è questo Deadpool, in fin dei conti?
Se Deadpool ha un merito - non sono del tutto sicuro che ce l'abbia - è proprio quello di tagliarci fuori. Finalmente un supereroe che non è fatto per noi. Il film non ha niente di originale - anzi, cavalca senza vergogna e con una certa foga tutti gli stereotipi del genere "origini di un eroe". Di buono ci mette uno script compatto, che mira al sodo e taglia tutto il grasso; si sente che stavolta gli sceneggiatori non provavano la solita ansia da primo episodio ("Oh mio dio devo raccontare le origini di questo famoso personaggio senza tradire i fans e trasformandolo in un eroe maturo a metà del secondo tempo"). Deadpool non è una leggenda, Deadpool è una barzelletta: era essenziale non tirarla in lungo. Detto questo, rimane pur sempre la storia della sfida mortale tra due galletti che ce l'hanno a morte perché hanno iniziato a sfottersi in un corridoio. Il target è più ristretto del solito: è un film che in patria è vietato ai minori di 16 e che nessun normodotato maggiore di 24 dovrebbe avere un motivo serio per guardarsi. Gli X-Men forniscono due guest star, si fa per dire, due avanzi di continuity che rappresentano abbastanza fedelmente l'idea che lo spettatore tra i 16 e i 24 ha della generazione successiva (una teen-ager musona che whatsappa durante il combattimento) e della precedente, ovvero Colosso. Ecco: il nobile Colosso, che finalmente ha recuperato il suo accento russo, è il personaggio in cui gli spettatori più grandi sono costretti a immedesimarsi. Per tutto il film non fa che chiedere a Deadpool di non fare il deficiente. Indovinate che figura ci fa.
Deadpool, tra le altre cose, è un segnale eloquente che mi manda l'industria cinematografica: la vuoi piantare di andare a vedere i film di supereroi e di uscire deluso? Cosa ti aspetti ancora alla tua età da dei tizi in maschera e tutina colorata? Da bravo, perché non vai a vedere i film intensi o di denuncia sociale o non porti semplicemente i tuoi popcorn ai piccioni nel parchetto più vicino? Niente di personale ma insomma ci spaventi i clienti veri. I ragazzini. Deadpool è al Citiplex di Alba (20:00, 22:15), al Cinelandia di Borgo San Dalmazzo (20:20, 22:40), all'Impero di Bra (20:20, 22:30), al Cinecittà di Savigliano (20:20, 22:30).
Il romanziere più snobbato del Novecento
20-02-2016, 02:55coccodrilli, Eco, fb2020, italianisticaPermalinkPoi c'è l'Isola del giorno prima che, letto d'un fiato ancora fresco di stampa, ovviamente mi deluse, e riaperto qualche anno dopo mi convinse di trovarmi davanti al migliore romanzo di Eco e alla migliore istantanea di com'era vivere in Italia a fine Novecento, sulla linea esatta tra un ieri ormai incomprensibile, inereditabile e un domani che non arrivava: salvo che non era ambientato in Italia, ma dall'altra parte del mondo, e non a fine Novecento, ma nel secolo più letterariamente antipatico di tutti, quello della peste e dei lanzichenecchi. Umberto Eco ha fatto cose magari più importanti, ma quei tre libri sono un monumento di cui dobbiamo ancora apprezzare la vera grandezza. Credo.
D'altro canto, sono anche i romanzi con cui sono cresciuto. Il mio Montecristo, se avete presente cos'era Montecristo per Eco. Magari hanno difetti, anzi ne hanno tantissimi, ma quanto mi ci sono divertito. Adso e Guglielmo che mappano il labirinto dall'esterno, Causabon che cerca la password di Abulafia, i collages di citazioni di Belbo, e quel folgorante capitolo sull'Editoria A Proprie Spese che probabilmente mi ha salvato la vita e i risparmi. La lista della spesa dei templari, "ma gavte la nata", l'assedio di Casale, la digressione sulla longitudine - sono quelle cose che quando sei un ragazzino, in quegli anni in cui hai il cervello che si secca e si imbeve come una spugna, possono fare la differenza. Credo di essere stato davvero fortunato a crescere nel preciso momento in cui i ragazzini in edicola trovavano il tascabile del Nome della Rosa prima del Signore degli Anelli. Insomma per me sono libri bellissimi, formativi e indispensabili, e non ho intenzione di riaprirli per verificarlo. Non li tengo neanche in casa, per sicurezza.
Umberto Eco è stato molto di più di un romanziere divertente, però che romanziere che è stato. Mi è ancora più difficile del solito parlare di lui senza ritrovarmi a parlare di me: di come mi capiti di aprire Apocalittici e Integrati in media una volta ogni due mesi (ormai è un plico di pagine scollate), di perché penso a lui ogni volta che un deficiente su un giornale infila una tautologia crociana o un signora mia dove andremo a finire; di quanto sono debitore del suo stile schietto e affabile e vittima delle sue arguzie d'erudito che altri, comprensibilmente, non sopportavano. Come se davvero potessi fornire me stesso come dimostrazione di quanto bene Eco ha reso al mondo, quando è il contrario: Eco meritava discepoli molto migliori. E li ha avuti.
Tutti gli uomini del Cardinale
19-02-2016, 13:4221tw, cinema, Cosa vedere a Cuneo (e provincia) quando sei vivo, fb2020, giornalisti, pedofilie, preti parlantiPermalinkAlla fine per una buona metà del tempo ci sono loro in un ufficio che si spiegano le cose. |
Liquidato da alcuni come un film necessario, ma un po' troppo convenzionale, Spotlight è un oggetto molto più curioso di quanto non appaia a prima vista. Per essere un film sul più grande scandalo di pedofilia della Chiesa cattolica, è notevole quanto poco compaiano sullo schermo sia i bambini sia i preti. Non c'è nessun sadico bavoso in sottana, nessun paperino che piange nascondo rintanato in un angolo. L'orrore è del tutto verbale, riportato da vittime che non sono più bambini da un pezzo - uomini ingrassati, nervosi, non proprio quel genere di persona che ti muove all'empatia. Addirittura il regista sceglie di staccare prima che si mettano a piangere. È una scelta antispettacolare davvero inusuale: un film che invece di commuoverti vuole farti ragionare, pazzesco. Spotlight sulla carta si era scelto i cattivi più facili su cui infierire - i preti pedofili - e invece di segnare a porta vuota, decide di parlare d'altro: di giornalismo, soprattutto.
Buongiorno, sono una vittima. Non piaccio a nessuno. |
Aspetta, forse ho sbagliato film. |
Spotlight si giocherà qualche oscar accanto a un film che gli somiglia come il gemello cattivo, The Big Short. A monte di entrambi c'è una sfida: raccontare al pubblico medio una storia importante e difficile. Completamente opposto è il modo in cui i due registi dispongono dei loro cast d'eccezione: McKay, il regista di Big Short, li lascia liberi di gigioneggiare a loro piacimento: McCarthy li mette al lavoro come se fossero onesti lavoratori di una fiction con un lavoro da portare a termine. Tanto è pessimista e sarcastico Big Short, tanto è composto e a suo modo epico Spotlight: il primo si guarda intorno disperato, accumula tentativi di spiegazioni e metafore inconcludenti. Il secondo regge la barra in mezzo alla tempesta e continua a dirti che ce la possiamo fare: il giornalismo può essere indipendente, può essere di qualità, può spiegarci le cose e migliorare il mondo. Anche per questo, più di Keaton o di Ruffalo il personaggio a emergere è il direttore, interpretato da Liev Schreiber e vicino all'ideale di boss che chiunque vorrebbe avere avuto - un tizio inflessibile e mite che ti propone un lavoro anche difficile, ti dà tutto il tempo che ti serve, e nel momento del dubbio ti dice le sole dieci parole che ti servono: non prendertela con te stesso, capita a tutti noi di brancolare nel buio per mesi e anni. Ma l'importante è ritrovare la luce, e tu stai facendo un ottimo lavoro. Sarà anche per questo messaggio, tutto sommato rassicurante, che Spotlight è piaciuto persino al nuovo cardinale di Boston.
O forse il fatto che i preti bavosi siano lasciati fuori dal cono di luce? Due anni fa, un altro film di denuncia come Philomena di Stephen Frears mi lasciò un gusto amaro: non avevo apprezzato l'apparizione finale di una suora mostruosa, l'incarnazione di tutto il male che fino a quel momento era stato soltanto descritto a parole: un modo un po' troppo facile, osservavo, di catalizzare l'indignazione del pubblico. Spotlight se non altro mi ha fatto capire meglio la scelta di Frears. È un film onesto, un film che non vuole tirar pugni allo stomaco ma spiegare quanto sia importante avere un giornalismo professionale, e direttori tutti d'un pezzo, alieni a qualsiasi condizionamento ambientale. Ma è pur sempre un film che parla di mostri senza neanche provare a mostrarne uno. Spotlight è al cinema Stella Maris - Moretta di Alba (21:00), al Fiamma di Cuneo (21:00) e all'Aurora di Savigliano (21:15).
E Trumbo prese la macchina da scrivere
11-02-2016, 13:1321tw, Americana, cinema, Cosa vedere a Cuneo (e provincia) quando sei vivo, fb2020Permalink"Mi appello al primo emendamento".
"La mamma è comunista?"
"No".
"E io?"
"Facciamo il test. Se a scuola un tuo compagno non ha la merenda, tu cosa fai? Gli dici di trovarsi un lavoro? Gli offri un prestito al cinque per cento?"
"Papà..."
"O condividi la tua merenda con lui?"
"Non credo che questo sia proprio il comunismo classico, sai".
"Ah no?"
"Il comunismo è quando i miei compagni senza merenda, essendo diventati la maggioranza, si impadroniscono delle merende di chi le ha e le collettivizzano".
"Vabbe' ma non è che dobbiamo proprio entrare nei dettagli".
"Papà, ma questo dialogo deve avvenire proprio mentre tu mi fai fare un giro su un pony nel nostro bellissimo ranch?"
"Che ti posso dire, io l'avrei scritto diversamente. Ma Hollywood ha sempre l'ultima parola, quando sarai grande capirai".
Trumbo (Jay Roach, 2015).
La sua posa iconica (gli hanno anche fatto una statua). Purtroppo se ci provi col laptop rischi la vita. |
Trumbo è uno di quei classici film con cui Hollywood si specchia in sé stessa, trovandosi non priva di difetti ma dopo tutto irresistibile - film che a noi sudditi di periferia non dicono un granché, ma che qualche nomination la portano sempre a casa. Stavolta è Bryan Cranston, più noto per i suoi ruoli televisivi (Breaking Bad), che si ritrova in lizza per l'Oscar tra Di Caprio e Fassbender. Come tutti i biopic più convenzionali, Trumbo è più interessante per le cose che decide di non raccontare: il protagonista compare in scena già fatto e finito, un radical chic che discetta di giustizia sociale mentre firma contratti milionari. Non interessa la traiettoria che lo ha portato fin lì, ma quel che accade dopo: la caduta in disgrazia di lui e degli Hollywood Ten, i mesi di detenzione che un atteggiamento più prudente e meno idealista avrebbe potuto evitare - e soprattutto la faticosa risalita, nei dieci anni di esilio in cui l'ex sceneggiatore-più-pagato-d'America si ritrova a sbarcare il lunario scrivendo robaccia per il mercato di serie B. Solo perdendo il suo snobismo - e il suo ranch - il Trumbo del film diventa un personaggio simpatico, un poveraccio che tira la carretta mentre i figli crescono e smettono di capirlo, un forzato della macchina da scrivere che deve dimenticare la lotta del proletariato e buttar giù ogni sera cento pagine di sparatorie e inseguimenti.
Così, dopo averlo allontanato e poi riabilitato, Hollywood si rimpossessa di Trumbo costringendolo a rinnegare il comunismo, non a parole ma nei fatti: trasformandolo in un caporale che smista il lavoro ai sottoposti, e la sua lotta per la libertà di opinione in una americanissima battaglia personale per rivedere il suo nome nei titoli iniziali. I dialoghi coi famigliari e col personaggio fittizio di Louis C.K. - un compagno arrabbiato che non riesce a rinnegare il suo radicalismo e cede al rancore e al cancro - puntano tutti lì: Trumbo deve partire comunista col ranch per finire come un eroe che paga ai figli il college e ambisce a una gloria puramente individuale, una bella statuetta e un applauso.
FOR THE MONEY AND THE PUSSY! |
Goodman è ancora una volta impiegato col contagocce, ma è il vero centro del film - anche perché la storia di Trumbo è affidata a Jay Roach, un regista che ha esordito con Austin Powers e proseguito con la saga di Ti presento i miei. Roach non è del tutto immune da un certo timore riverenziale, ma si capisce che l'idea che il celebratissimo Trumbo abbia passato anni a scrivere robaccia per gli analfabeti gli piace parecchio. Sarà stato anche un comunista, ma a salvarlo sono stati dei mezzi gangster ignoranti che volevano far soldi e picchiavano con le mazze da baseball - lo vedi figliola? Hollywood alla fine vince sempre.
Uomo nero inferno bianco
07-02-2016, 08:1521tw, Americana, cinema, Cosa vedere a Cuneo (e provincia) quando sei vivo, fb2020PermalinkNessun Gesù verrà a salvarvi |
Incredibile chi puoi trovare nella merceria di Minnie in una notte di bufera. Anziani generali del Sud, ex schiavi criminali di guerra. Cacciatori di taglie, sceriffi, boia e malviventi da impiccare, tutta la filiera della giustizia. Cowboy che tornano dalla mamma per Natale e stallieri messicani che sanno suonare il pianoforte. Gente di ogni tipo, razza e qualifica - anche se qualcuno magari non è proprio chi dice di essere. Ma nella bufera che differenza fa.
Sotto la neve saranno tutti uguali.
Starting to see pictures, ain't ya? |
Non resteremmo comunque storditi dagli attrezzi di scena, da quel luccicante feticcio che è il 70mm, dal coraggio con cui questo figlio di Hollywood continua a ignorare le regole di casa e ricreare un cinema che non sarà il più originale del mondo, ma è completamente a sé? Da anni gioca in un campionato a parte, per forza vince sempre. Nessun altro regista avrebbe preso in mano soggetti come Basterds e Django, nessun altro sarebbe riuscito a farne due film non ridicoli. L'Odioso Ottetto, viceversa, sulla carta sembrava un'idea meno folle: un delitto nella stanza chiusa, calato in quel preciso contesto storico che continua a tormentare gli spettatori americani: la guerra civile tra le razze, mai dichiarata, mai terminata.
Ad avere dei dubbi, stavolta, era lo stesso Tarantino. Quando una bozza di sceneggiatura cominciò a circolare abusivamente, sembrava voler cogliere l'occasione per rinunciare al film. Due cose pare gli abbiano fatto cambiare idea: la prima fu una lettura pubblica che andò benissimo, e che ha lasciato fin troppo il segno nella realizzazione. L'Ottetto che alla fine Tarantino ha girato, malgrado la ricercatezza della fotografia, è quasi un radiodramma. Verso il finale, dopo un colpo di scena escogitato per prendere alle spalle chi ha letto la vecchia bozza, ci si sorprende a domandarsi come abbia fatto il regista ad arrivare a tre ore. La storia non è più complicata del solito, Tarantino semplicemente non ha fretta - lui può permetterselo - e anche i suoi infreddoliti attori sembrano innamorati delle frasi che recitano. Tutti se le rimasticano nel loro accento preferito. È un film di dialoghi che sembrano monologhi.
L'altro fattore che ha convinto Tarantino a girare l'Ottetto è stata l'insistenza di Samuel Leroy Jackson (continua su +eventi!). Così come Joy è un film che David O. Russell doveva a Jennifer Lawrence, The Hateful Eight somiglia a un compenso per tutti i servizi che questo attore grandissimo ha reso a Tarantino - che effetto fa rendersi conto che non gli aveva ancora dato un ruolo da protagonista? E ripensando alla carriera di Jackson tra Spike Lee, Star Wars e Marvel (Per il Guinness dei primati è l'attore più profittevole in attività), che effetto fa pensare che in vent'anni l'Academy Awards si sia vagamente ricordato di lui solo con una nomination per Pulp Fiction? Se la metti in questi termini, anche l'ultima polemica sulla mancanza di candidati afroamericani all'oscar sembra meno pretestuosa.
The Hateful Eight è al Cityplex di Alba alle 16, 17, 19, 21 e 22; al Cinelandia di Borgo San Dalmazzo alle 15:40, 19:10, 21:30 e alle 22:30; all'Impero di Bra alle 18:30 e alle 21:30; al Fiamma di Cuneo alle 15:40, 19:10 e 22:30; al Multilanghe di Dogliani alle 21:35; ai Portici di Fossano alle 18:15 e 21:30; al Bertola di Mondovì alle 18 e alle 21; all'Italia di Saluzzo alle 15:30, 18:30 e 21:30; al Cinecittà di Savigliano alle 21:30.
Non hai bisogno di un principe (quando hai un mocio miracoloso)
03-02-2016, 09:42cinema, Cosa vedere a Cuneo (e provincia) quando sei vivo, fb2020PermalinkJoy (David O. Russell, 2015)
Joy ha un sogno: spiccare il volo, portare luce nel mondo. Joy ha due ipoteche sulla casa, tre figli a carico, una madre rimbambita dalle soap e un ex marito appoggiato nel seminterrato che studia ancora da cantante. Joy ha un'idea: nessuna donna dovrà più strizzare il mocio con le mani. Joy ha incubo che si chiama famiglia: un padre che vuole insegnarle gli affari, una matrigna che sceglie male gli avvocati, una sorellastra invidiosa che paga le fatture sbagliate. Joy ha una via d'uscita: diventerà una star delle televendite, fonderà un impero, e poi busserà a Hollywood e si farà realizzare un film su misura - così che tutti sappiano che ha sempre avuto ragione lei. E tutti vivranno soddisfatti o rimborsati.
Joy è anche il terzo film che David O. Russell gira con Jennifer Lawrence, quello che finalmente sembra tagliato per lei. Come se il regista sentisse di doverle qualcosa: quando la provinò per il Lato Positivo stava cercando una 40enne. Lei aveva 21 anni, lo convinse e poi ci vinse l'oscar. Persino più bizzarra, benché indimenticabile, la sua presenza in American Hustle, dove recitava quasi un mini-film a parte. Stavolta i comprimari sono gli altri - Bradley Cooper, anche lui alla terza presenza di fila, è in scena pochi minuti (ma sono fondamentali). Fa piacere ritrovare anche De Niro: Russell sembra l'unico direttore che riesce a trovargli ruoli dignitosi. Il regista che era famoso per i litigi con gli attori sembra aver fondato una piccola compagnia - sarebbe bello se si aggregasse anche Isabella Rossellini. C'è aria di famiglia ed è proprio quella che serviva a dare il tono alla fiaba (continua su
Certo, spiace un po' che l'occasione a Russell di lavorare coi suoi attori preferiti stavolta sia stata fornita da una dea americana delle televendite, l'inventrice Joy Mangano: lei voleva né più né meno che un'agiografia sulla donna che si è fatta da sola, lui gliel'ha confezionata senza mezze misure. L'idea di base - una Cenerentola emancipata, che non ha bisogno di principi ma di brevetti magici - è portata avanti con tanta convinzione che ci si è pure inventati una matrigna e una sorellastra.
Qualche spezzone di finte soap dovrebbe esprimere l'autoironia dell'operazione, ma è un espediente meccanico, a un continente di distanza dalle finezze di un Ozon. Russell ha la mano un po' più pesante, non riesce a dissimulare un certo tono rancoroso così tipico delle autobiografie dei self-made men (e delle self-made women); nella seconda parte sembra cedere il microfono alla committenza.
Forse è il primo film che parla di televendite senza prendersene gioco: anche perché a cantarne le lodi non c'è una Vanna Marchi qualsiasi, ma un estatico Bradley Cooper: quando scandisce "Qualità, Valore, Convenienza", tu per un attimo ci credi, e in quell'attimo potrebbe venderti un set di coltelli. Niente di male, ma fa un certo effetto pensare che dietro la macchina da presa ci sia lo stesso regista di I Heart Huckabees. Joy magari è un film più riuscito - certo meno irrisolto - ma è anche quel tipo di spettacolo di cui Russell dieci anni fa ci avrebbe voluto mostrare gli strappi, le cuciture, le crepe.
Joy è al Cinelandia di Borgo San Dalmazzo (20:00, 22:35), all'Impero di Bra (20:10, 22:30) e al Fiamma di Cuneo (21:10).
Un genio incompatibile (e il suo sceneggiatore)
26-01-2016, 01:0621tw, cinema, Cosa vedere a Cuneo (e provincia) quando sei vivo, fb2020, teatro, tvPermalinkAbbiamo mezz'ora e il copione, pardon, intendevo il software, è tutto da riscrivere. |
Questo è Aaron Sorkin, acclamato drammaturgo e sceneggiatore di The West Wing, The Social Network e... no, scusate, questo è Steve Jobs. Ma è anche un po' Sorkin, che ha preso l'immensa biografia di Jobs e ne ha ricavato qualcosa di assolutamente personale e incompatibile con qualsiasi altro film nelle sale; un dramma in tre atti, ambientato nei backstage di tre teatri diversi. Sono pochi i film che ti fanno pensare: chissà come renderebbe su un palco. Steve Jobs sembra pensato apposta per una messa in scena alla vecchia maniera sperimentale: niente sipario, gli attori cominciano a parlare di quello che deve andare in scena, e lo spettacolo consiste in questo. Lo stesso regista Danny Boyle, un po' meno frastornante del solito, sembra aver fatto qualche passo indietro di fronte all'evidenza: Steve Jobs è una questione privata tra Aaron Sorkin e il suo (alter)ego.
Lisa questo è Mac, Mac questa è la tua sorellina, ora disegnate un po' coi pennarelli e non rompete le palle a papà. |
"RICONOSCI LA MIA IMPORTANZA!" "AMMETTI LA TUA SUBALTERNITA''!"
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Sorkin non ha mai rifiutato l'autoreferenzialità, ma nelle serie tv almeno la disperde su più personaggi, coinvolgendoci in scene corali che ci fanno dimenticare come tutti i colori provengano dallo stesso prisma. Stavolta il coro non c'è: sulla scena Fassbender è solo. La Winslet, ovviamente ottima, non è che l'appendice del protagonista, necessaria a far risaltare il suo ego. Jeff Daniels ha a disposizione pochi minuti, lungo tre atti, per evocare un tortuoso complesso di Edipo - del resto è un Sorkin formato cinema, tutti camminano e parlano come indiavolati. La versione italiana sarà probabilmente un macello, quella coi sottotitoli va bene se invece di guardare il film vuoi leggerti i sottotitoli.
E quindi? Chi voleva vedere un film sull'inventore della Apple, potrebbe restarci male - e sarà la seconda volta in due anni. Se invece interessa l'opera di un talento individuale che voleva specchiarsi in un altro talento e raccontarci com'è difficile essere grandi in un mondo di mediocri, Steve Jobs è il pilota di una serie che butteremmo giù tutto d'un fiato, e uno straordinario dramma in scena stasera anche al Cityplex di Alba (19:45, 22:10); al Cinelandia di Borgo San Dalmazzo (20:10, 22:40); al Vittoria di Bra (21:30); al Fiamma di Cuneo (21:10); ai Portici di Fossano (18:30, 21:15); al Politeama di Saluzzo (15:30, 17:45, 20:00, 22:15); al Cinecittà di Savigliano (20:15, 22:30).
La vendetta è un piatto che si conserva a -40°
22-01-2016, 14:3521tw, Americana, cinema, Cosa vedere a Cuneo (e provincia) quando sei vivo, fb2020PermalinkIl Sud Dakota secondo Iñárritu. |
Il Sud Dakota com'è davvero. |
"Chi?"
"Quei due ragazzi, alla fine li hai ammazzati?"
"Fitzgerald e Bedger? Ah, no".
"E perché no?"
"Bedger era un ragazzino, e quanto a Fitzgerald..."
"Non avevano la stessa età?"
"...Si era già arruolato. Se gli avessi torto un capello mi avrebbero impiccato. Ci siamo messi d'accordo con 400 dollari, e mi restituì il fucile. Questo qui".
"Non erano 300 dollari?"
"Infatti".
"Ma hai appena detto 400".
"Mi sarò sbagliato. Figliolo, quando hai visto la morte in faccia, e hai sopravvissuto a una bufera di neve accucciandoti nella carcassa di un cavallo..."
"Ma era giugno".
(Se vi è piaciuto Il viaggio di Arlo, non perdetevi la versione per adulti, col mille per cento di sangue e cicatrici in più, e un'animazione digitale ancora più raffinata - l'orso sembra vero! Padre e figlio si scambiano le parti, c'è un po' più di sangue e di visioni dall'oltretomba, e Di Caprio presta la voce - il rantolo - a un mammuth ferito ma non domo).
Il salvaschermo più costoso mai realizzato |
A Iñárritu interessa il cinema vero, quello senza green screen e altri trucchetti, quello che si fa con la pellicola, e l'esposizione naturale, e gli animali veri, e le ferite e i colpi di tosse veri - come se tutta questa verità non costasse comunque milioni di dollari. Gli interessava il ritorno alla naturalezza, anche se l'orso che cerca di finire Di Caprio battendolo come un materasso è un prodigio di computergrafica. Con l'ipocrisia ingenua e inconsapevole di quei milionari che sognano il ritorno alla natura ma hanno più in mente il triathlon - a proposito, c'è anche il saggio capo indiano che si lamenta perché il viso pallido gli ha tolto tutto. E nessuno che gli dica: senti nonno, tra venticinque anni potrei anche capire, ma siamo nel 1820, "tutto" cosa? A momenti non c'è un solo viso pallido in tutto il Dakota, e comunque appena arriva lo scotenni e gli rubi il bottino di caccia, a chi la vuoi raccontare? Non ci hai fatto gli affari anche tu, coi visi pallidi, finché t'è convenuto? Eh, ma questi bianchi sono cattivi sul serio. Rubano le donne, impiccano per divertimento, aggiungendo un cartello di spiegazione come i nazisti - anche se nessuno sa leggere in un raggio di trecento miglia.
È difficile sfuggire a The Revenant, alla sua fotografia da National Geographic, al titanismo essenziale del suo eroe, maschiaccio di poche parole laddove pare che il vero Hugh Class fosse un affabulatore, magari pure un contaballe. Questa parte del suo ruolo se la prende Tom Hardy che prosegue il suo stato di grazia: un antagonista nervoso e rapace che non sta in scena per più di mezz'ora, ma ha più dialoghi di tutti gli altri personaggi messi assieme. Iñárritu ha coraggio da vendere, e anche stavolta non si può che dargliene atto. Dopo due ore senza una sola scena in interni, cominci a capire quello che intendeva Cimino mentre affondava sul ponte dei Cancelli del cielo: i film dovrebbero essere viaggi, dovrebbero prenderti di peso e portarti in un altro luogo, in un altro tempo.
Cosa sta succedendo allora a Hollywood, se Cimino sprofondò e Iñárritu ha preso 12 nomination? Siamo entrati in una nuova età del cinema, o il nuovo regista pazzo è un po' meno pazzo, un po' più paraculo di quanto non voglia sembrarci? Disprezza i fumettoni, ma il suo eroe sembra avere lo stesso fattore rigenerante di Wolverine. Vuole le luci naturali, ma sa che la gente verrà a vedere l'orso finto. Vuole la storia vera, ma poi se la reinventa da capo a piedi, ricattandoci col sentimento più a buon mercato - l'amor paterno. Il vero Glass era un fanfarone che si fece duecento miglia per trecento dollari e un fucile. Il Glass del film deve attraversare canyon e ghiacciai per vendicare un figlio. È una storia talmente costruita che alla fine Iñárritu se ne vergogna - e anche stavolta, come in Birdman, il finale manda un po' a gambe all'aria il film.
Vorrebbe essere profondo, vorrebbe essere autocritico, vorrebbe rivedere le sue stesse premesse. Ha fatto sanguinare Di Caprio, ha opposto bianchi sterminatori a pellerossa in armonia con la natura, e alla fine ci ha ricordato che la vendetta è un buon trucco per costruirci attorno un film - ma che resta sostanzialmente una cosa sbagliata, ragazzi, mi raccomando non vendicatevi a casa. Che gli puoi dire? Bravo è bravo. Ma resta lì sospeso nel bianco delle sue bufere fantastiche, né troppo pazzo né troppo furbo per arrivare davvero al punto. The Revenant è al Cityplex di Alba (21:30), al Cinelandia di Borgo San Dalmazzo (20:30, 22:10), all'Impero di Bra (19:45, 21:45), al Fiamma di Cuneo (21:00), al Baretti di Mondovì (21:00), all'Italia di Saluzzo (21:30), al Cinecittà di Savigliano (21:30)
L'ultimo gigante
20-01-2016, 11:2221tw, cinema, coccodrilli, fb2020PermalinkDei tre è il più borghese, quello che meno si vergogna di esserlo: è difficile immaginare Risi e Monicelli alle prese con il manifesto antipauperista di Brutti, sporchi e cattivi (Pasolini invece pare che volesse girarne il prologo, magari una versione in pellicola dell'Abiura). È anche quello che ha più ambizioni autoriali: nel 1970 fora la quarta parete in Dramma della gelosia, ma forse il vero choc del film è che il sex symbol Mastroianni è un marito becco e ingrigito con un destino da straccione; l'anno dopo coinvolge Sordi nella rischiosa trasposizione cinematografica della Panne di Dürrenmatt, La migliore serata della mia vita. Non è che tutto fili liscio, ma si capisce che all'alba degli anni Settanta la commedia gli sta stretta. Ci lavorava da vent'anni; era parte integrante di un sistema che funzionava, che riempiva le sale (restava da conquistare la critica, ma quella ci mette sempre un po' più tempo). Avrebbe potuto riprodurre le stesse formule ancora per parecchio. Ma tutti i suoi uomini stanno invecchiando, e lui è il primo a rendersene conto. Lui e Germi, che muore nel '74 passando a Monicelli la pratica di Amici Miei. Nello stesso anno esce C'eravamo tanto amati. Le maschere della commedia all'italiana si scoprono le rughe; si staccano dalla ribalta del presente e cominciavano a guardarsi intorno: chi eravamo? Cosa siamo diventati? E ora cosa ci succederà?
Dovendo scegliere un film solo di tutto un periodo e di un genere, a malincuore sceglierei C'eravamo tanto amati, che pure non è così tanto rappresentativo. È davvero un film manierista, se non barocco. Dentro c'è tutto: il romanzo generazionale, il conflitto sociale, il gioco delle citazioni non solo cinematografiche ma anche teatrali e televisive, la quarta parete fatta a pezzi. È anche il primo vero film forrestgumpista, in straordinario anticipo rispetto agli epigoni italiani, indegni di comparire al suo cospetto (La meglio gioventù? Per favore, dai). Ogni volta che lo vedo ci trovo qualcosa di nuovo - o che probabilmente mi ero dimenticato, e di nuovo rabbrividisco al pensiero che una volta gli italiani sapevano fare film così. In realtà di film davvero così ce n'è uno solo, e forse si poteva realizzare soltanto in un periodo in cui gli italiani il biglietto l'avrebbero staccato comunque. Bastava che in cartellone ci fossero Gassman e Manfredi - e la Sandrelli, certo.
La commedia all'italiana mi piace tutta, dai Soliti ignoti fino alla Terrazza. È un amore nato davanti alla televisione; maturato con la serale complicità di Retequattro; integrato con qualche videocassetta. Ci ho messo parecchio a capire cosa mi piacesse davvero tanto in quei film, cosa invidiavo ai miei genitori che avevano vissuto in un mondo di mostri di bravura, anche se al cinema loro non ci andavano spesso. Non un attore in particolare, per quanto i loro volti ricorrenti mi rassicurassero; nemmeno un regista. Alla fine mi sono reso conto che sono i dialoghi di Age e Scarpelli, e un po' anche di Scola. Credo che la differenza con quello che è venuto dopo sia tutta qui. Non ho paura ad affermare che oggi in Italia ci sono molto più che cinque attori bravi, per tacere delle attrici (c'erano anche allora, ma lo star system era una cosa molto angusta). Anche i registi: ne abbiamo senz'altro all'altezza dei grandi degli anni Sessanta, se non altro perché sono seduti sulle loro spalle. Il problema è che questi bravi attori, ripresi da ottimi registi, molto spesso non hanno niente d'interessante da dire. Non c'è più Age, non c'è più Scarpelli, adesso non c'è più Scola. Dispiace? Sì, mica da oggi. È da 35 anni che non lavoravano più assieme. Nel frattempo altre due generazioni hanno provato a raccontarsi; il confronto è impietoso.
La grande truffa dei mutui (che nessuno ha capito)
13-01-2016, 14:3721tw, cinema, Cosa vedere a Cuneo (e provincia) quando sei vivo, economie, fb2020PermalinkA CHRISTIAN, FACCE L'ASPERGER! |
Nel più grande film mai realizzato sui trucchi della finanza - che non è questo, ma più probabilmente The Wolf of Wall Street - ogni tanto Di Caprio ci guarda in camera e comincia a raccontarci uno dei suoi maneggi, per interrompersi subito: non avete capito niente, vero? Fa lo stesso, tanto voi siete qui per vedere il tiro al bersaglio coi nani, le feste al quaalude, il lancio d'aragoste contro i federali. Lasciate perdere la tecnica. Divertitevi.
Mi sa che stavolta non ce la pubblicano |
È un po' lungo, ma non annoia, La grande scommessa (continua su +eventi!)
Nei suoi momenti migliori sembra uno spinoff televisivo del Lupo di Wall Street, come se si fossero detti ehi, qui da questa parte c'è materiale per una serie, proviamoci. È uno di quei film che ti servono a capire per contrasto quanto è grande Scorsese, e quante cose apparentemente semplici, così naturali quando c'è lui che guarda in macchina, non siano alla portata dei registi mortali. Non è che Adam McKay non ci provi, anzi forse il guaio è che ci prova troppo. Si prende dei rischi, gioca con quarta parete, con la voce fuori campo, coi salti di inquadratura dal mondo irreale della finanza a quello vero fatto di case invendute e barboni sotto i ponti. Tutto sembra gridare: non sono il solito regista di pilota tv. Io ho una visione.
Magari non è la più originale. Un po' confusa. Certo non cinica come quella di Scorsese. I miei eroi non bruciano i risparmi dei loro clienti in pillole e coca, anche a Las Vegas vanno a letto presto. Se si appartano con le lapdancer è solo per capire come gestiscono il loro eccesso di liquidità. Hanno tutti una famiglia o desiderano averla; si arricchiranno grazie alle falle del sistema, ma ogni tanto si sentono in colpa. È una visione un po' benpensante, ma forse è quella che ti può sbloccare il budget. Ci metti la critica sociale, ci metti un po' di valori rassicuranti, ma soprattutto ci metti Bale, Carell, Gosling e Pitt - chi ti potrà più dire niente? Certo, si poteva anche provare a dirigerli. Il film era già centrifugo di suo, forse andava evitata la sensazione di quelle orchestre all-star dove a turno i virtuosi fanno un assolo di dieci minuti. A Bale tocca l'Asperger di talento - ormai è un personaggio codificato, l'Arlecchino del Duemilaedieci: l'asociale stravagante che ha ragione ma non riesce a spiegare il perché. Brad Pitt si immobilizza saggiamente in una posa redfordiana e almeno non dà fastidio. Gosling, nei panni dell'unico vero rampante senza scrupoli, continua a prendersi in giro: è il terzo ruolo antiparodico in tre anni, come se il suo adorabile faccino cominciasse a pesargli. Carell sarebbe sorprendente se non ci avesse già sorpreso in Foxcatcher. Dovrebbe essere il vero perno drammatico del film, ma il copione non lo aiuta: s'incazza a casaccio, e si sorprende di tutto quello che gli succede, come se fino al giorno prima avesse diretto un hedge fund a Disneyland.
L'alieno che cadde a casa mia
12-01-2016, 03:20coccodrilli, fb2020, musica, OttantaPermalinkUn'altra cosa inevitabile, è che anche stavolta la musica passerà in secondo piano. Lo chiameranno icona di stile e camaleonte, glorificheranno la sua capacità di aggiornare la sua immagine - tutto assolutamente vero, ma una volta ogni tanto si potrebbe anche segnalare che prima di ogni cosa Bowie è stato un musicista straordinario, un interprete originalissimo e un compositore dallo stile assolutamente peculiare - uno dei motivi per cui poteva permettersi di cambiare maschere e costumi era proprio il fatto di avere una personalità forte e immediatamente riconoscibile, qualsiasi cosa decidesse di fare.
All'inizio dei '70 stava rischiando di diventare semplicemente un cantante rock. The Man Who Sold the World era un disco robusto, giocava nello stesso campionato di Cream e Led Zeppelin, credo che si tratti del disco di Bowie preferito da Kurt Cobain. Toni Visconti in più occasioni ha dato l'impressione di volersi attribuire la paternità dei pezzi, che a suo dire uscivano soprattutto dalle jam session con Mick Ronson, mentre Bowie sembrava sprofondato nell'apatia e faticava a staccarsi dalla moglie appena sposata e a alzarsi dal divano per cantare qualcosa - non sembra già una scena dell'Uomo che cadde sulla terra? Bowie però ha sempre rivendicato la paternità delle canzoni del disco. Guardate i cambi di accordi, diceva. Solo io li scrivo così. Ecco, ogni tanto mi piacerebbe leggere - oltre al solito storytelling sul periodo glam, il periodo berlinese, la deriva degli anni '80, ecc. ecc. - un bel pezzo tecnico su Bowie musicista, perché su questa cosa degli accordi credo che avesse ragione. Solo lui scriveva canzoni pop o rock con certi passaggi, e questo ha continuato a farlo per tutta la sua carriera, indifferentemente dal genere che aveva deciso di mutuare o inventare.
Certo, se ti accosti a Bowie perché t'interessa il trasformista - e non c'è niente di male in questo, sia chiaro - probabilmente fai più caso ai continui cambi di registro: dalle ballate al glam al r'n'b alla disco (il lato B di Diamond Dogs!) al krautrock eccetera. Ma se hai orecchio per gli accordi ti rendi conto che c'è qualcosa di costante in tutta la sua carriera. Sotto la maschera spesso disorientante degli arrangiamenti c'è una dimensione armonica che rende Absolute Beginners o Heroes o Starman molto più simili di quanto vorrebbero sembrare. Non so più dove ho letto che a un certo punto Bowie era incerto se diventare l'Iggy Pop inglese o il nuovo Jacques Brel. Anche il lascito di Kurt Weill va ben oltre il ripescaggio di Moon of Alabama. Bowie era l'unica rockstar degli anni Settanta ad avere queste radici continentali. Te ne accorgi dall'enfasi di certi ritornelli fuori dal tempo, che incastonati in pezzi rock suonano caricaturali - prova a immaginare Sinatra che canta il refrain di Starman. Forse quello che suonava alieno, sotto il cerone argentato o iridescente, non erano che le progressioni armoniche di un passato neanche tanto lontano, ma ormai oltre l'orizzonte dei baby-boomers.
Io però sono cresciuto negli '80 - non è colpa mia. David Bowie faceva parte del paesaggio, molto più di tutti gli altri dinosauri rock pre-77: per esempio, in edicola c'era sempre la sua faccia. Rockstar lo metteva almeno su una copertina all'anno, che uscisse con un disco o no. Era un mondo musicale molto diverso: esisteva soltanto il presente. I video avevano ucciso le star della radio e alzato un argine invalicabile tra il mondo del passato e il nostro. Il nostro era un mondo a colori: canzoni e videoclip erano la stessa cosa, e Videomusic non trasmetteva pezzi anteriori al 1982. Credo che il video più antico fosse proprio China Girl (la versione censurata, ovvio). A metà anni Ottanta non avevo mai ascoltato gli Zeppelin e più di una canzone dei Pink Floyd; avevo una nozione vaghissima di Beatles e di Rolling Stones; Bowie era l'unico eroe del passato che riconoscevo al primo colpo. Soprattutto sapevo che dietro di lui c'era una storia lunga e complicata, che prima o poi qualcuno mi avrebbe raccontato. Nel frattempo però capivo che il passato era una terra straniera - e probabilmente più intrigante del presente: quel poco di Bowie che passava in tv (Heroes, Ashes to Ashes, Let's Dance, Look Back in Anger) era completamente diverso da tutto il resto. Suonava strano, o come si diceva allora, "poco commerciale".
Questa opinione di preadolescente scemo, Bowie ovviamente non la condivideva, come ho scoperto più tardi. Non è colpa mia, ma sembra proprio che io abbia conosciuto B. nel suo periodo peggiore. Lui nelle interviste parla malissimo del sé stesso anni '80 e dei brutti dischi che faceva. È un giudizio che riguarda senz'altro Never Let Me Down, ma non ho mai capito se lo estendesse anche alle colonne sonore di Absolute Beginners o Labyrinth o Tonight - per me quella roba era in effetti incredibile, distante mille miglia dai suoni di allora che mi sembravano falsi come la plastica. Quello che mi sorprendeva sempre di Bowie era il modo che aveva di incastrare strofe e ritornelli che sembravano non avere nulla in comune. Prendi Let's Dance. La strofa è puro Nile Rodgers, avrebbe potuto stare in un disco degli Chic di tre anni prima. Il ritornello se ne va dalle parti di Brel, con tutto l'annesso melodramma: because my love for you could break my heart in two. Poi si materializza dal nulla un coretto alla Twist and Shout, e quando stai per intonare Shake it up baby, ritornano gli Chic. Nel video intanto esplodeva una bomba atomica. Anche nel mio cervello. Ci sono altri pezzi di quegli anni che nessuno vi citerà tra i migliori di Bowie - Loving the Aliens, Underground, in cui succede qualcosa del genere. Avventure musicali di quattro minuti. Erano cose da classifica, ma mi sembravano esperimenti di un pazzo. Mi piacevano. David Bowie era la mia risposta preferita al paradosso dei viaggi nel tempo: se sono possibili, perché nessuno viene a visitarci dal futuro? E un viaggiatore del futuro catapultato negli anni '60, che altro avrebbe potuto desiderare di diventare se non una rockstar decadente?
In seguito, come avevo previsto, qualcuno mi raccontò la storia per esteso. Conobbi i personaggi, Major Tom, Ziggy Stardust, il Duca Bianco e tutto il resto. Oggi la mia idea di Bowie si sovrappone con quella del quarantenne medio europeo che esprime il suo cordoglio su facebook. Ho naturalmente le mie idiosincrasie - preferisco il lato B di Diamond Dogs a quello di "Heroes" - ma non è che siano così interessanti. Il Bowie che vorrei salvare è l'alieno che precipitò nella mia infanzia, coi suoi accordi stranamente familiari ma diversi da quelli di chiunque altro. È stato davvero lui a insegnarmi a fare quel che mi pare, con la chitarra e sulla pagina, mescolando alto e basso, George Orwell e la disco? Non lo so. Di sicuro lui in quegli anni c'era. Tanti altri erano già scomparsi, o poco accessibili. Lui c'era, e non se n'è mai davvero andato - sempre diverso da tutti, uguale a sé stesso. L'idea che stavolta ci abbia lasciato davvero mi turba più di quanto non dovrebbe.
Nessuno ci odia più di Checco
05-01-2016, 12:07cinema, Cosa vedere a Cuneo (e provincia) quando sei vivo, fb2020PermalinkC'è un mondo là fuori. Può essere la giungla africana o il circolo polare, ma è sempre un mondo più civile. Laggiù, sapeste! non si suona il clacson appena il semaforo è verde. Non ci si fa svegliare dalla mamma a quarant'anni. Non si critica un film comico soltanto perché ha fatto più di venti milioni in meno di una settimana. Non lo si rimpalla tra destra e sinistra, non si approfitta dello spazio di una recensione per parlare di Renzi o della storia della commedia all'italiana. C'è un mondo là fuori, e avremmo tutti una gran voglia di andarci, anzi di esserci già! e invece restiamo qui. Nessuno sa perché. Forse è il prezzo delle ciliegie.
Quelle che alcuni non perdonano a Checco sono in sostanza le regole d'ingaggio della satira di costume. Certo, Checco proietta i nostri difetti rendendoli più tollerabili. Certo, si offre al pubblico più vasto possibile con un prodotto che ha almeno due livelli di lettura - un occhiolino a chi non sopporta più le auto in seconda fila, un cenno d'intesa a chi l'ha parcheggiata sul marciapiede del cinema. Come se questa doppiezza non fosse la formula della commedia all'italiana dai Soliti ignoti fino a Fantozzi e alle sue derive cinepanettonesche. Il fatto che si rimproveri a Zalone di fare bene il suo mestiere significa come minimo che non siamo più abituati a vedere qualcuno che quel mestiere sappia farlo. Che dovrebbe fare un comico, a parte farci ridere mentre suggerisce che come popolo siamo da rottamare? Pretendiamo qualcosa di più? Deve entrare in politica, pure lui? E dopo saremo contenti?
Alcuni si premurano di informarci che Checco non è Totò, né Alberto Sordi - grazie, correvamo il rischio di confonderci - ma il confronto andrebbe fatto con quel che passa in convento negli anni Dieci. Checco continua a sembrare uno dei pochi che ha capito che l'Italia non è un giardino fiorito stuprato da consorterie di uomini cattivi, politici e imprenditori. No, l'Italia è quel che è perché gli italiani sono così. I politici - vedi Lino Banfi, retrocesso con affetto a caratterista - non sono che emanazioni di una civiltà che è da buttar via e rifondare da capo.
A un certo punto del film c'è un bambino razzista. (Continua su +eventi!)
A un certo punto del film c'è un bambino razzista. I bambini di solito nei nostri film sono creature naturalmente buone, che dicono sempre la verità. Nel film di Checco no. Ci sono bambini educati (in Norvegia), che credono in qualsiasi Dio o anche in nessuno, e poi ci sono bambini razzisti. E sono proprio i tipici bambini italiani pettinati da calciatore, che giocano a pallone in piazza e non ti fanno entrare in squadra se non parli il loro dialetto. Veltroni non li vede, Checco sì. Checco vive nella mia Italia, Veltroni non so. Poi dite che è di destra. Un film in cui i cattivi sono i bambini pettinati da calciatori, e i buoni sono gli scienziati con la famiglia aperta. Un personaggio comico che continua a ribadire, film dopo film, che gli italiani non possono più vivere alle spalle dei genitori e dei figli; che devono cambiare: non perché lo impone il Politico cattivo o l'Euro assassino, ma perché oltre a essere necessario, sarà bello. A un comico così si perdona anche il fisiologico calo del secondo tempo (del resto il primo era partito a razzo), e il finale coi lacrimoni e i buoni sentimenti e l'Africa e la medicine.
Checco non sarà Sordi, ma il minimo che si possa dire è che si sta impegnando. A questo punto della favola Luca Medici e Gennaro Nunziante potrebbero riempire un'ora e mezza di pellicola di gag da quattro soldi, e invece insistono a cercare cose nuove, a cambiare situazioni e ambientazioni. Potrebbero restare anche loro nel casolare in campagna, e invece vanno al circolo polare a scherzare sul riscaldamento globale. Un esempio qualsiasi: non si ride quasi più dei gay. È un dettaglio, ma pensate a quanto era centrale la figura dei gay in Cado dalle nubi. Qualcun altro al suo posto avrebbe replicato la ricetta (per dire, sui gay di Cado dalle nubi hanno girato uno spinoff l'anno scorso senza Checco ma con Belén). Invece Medici e Nunziante, con un solo personaggio a disposizione hanno già fatto quattro film senza ripetersi. Villaggio e Salce con Fantozzi non ci sono riusciti.
Farei prima a scrivere i cinema in cui non proiettano Quo vado. La sala Lux di Busca, ad esempio (fanno Timbuktu), onm il cinema San Giacomo di Roburent dove c'è Star Wars. Invece al Cityplex di Alba (17:30, 19:30, 20:00, 21:30, 22:00), al Cinelandia di Borgo San Dalmazzo (14:15, 15:20, 16:20, 17:30, 18:30, 20:20, 20:40, 21:00, 22:35, 22:45), al Multisala Impero di Bra (20:20, 22:30), alla Sala Borsi di Ceva (16:00, 18:00, 21:00), al Fiamma di Cuneo (15:30, 17:40, 20:30, 22:40), ai Portici di Fossano (18:30, 20:30, 22:30), al Bertola di Mondovì (18:00, 21:00), all'Italia di Saluzzo (20:00, 22:15), al Cinecittà di Savigliano (20:20, 22:30) c'è Quo Vado. Tanto ci siete già andati
Chi ha ucciso Woody Allen
29-12-2015, 02:5421tw, cinema, Cosa vedere a Cuneo (e provincia) quando sei vivo, fb2020, invecchiare, Woody AllenPermalink– Woody Allen ha ucciso qualcuno. Impossibile stabilire chi e perché. Un'amante che sapeva troppo, un ricattatore, un semplice passante che non doveva essere in un certo posto proprio in quel momento. Woody Allen ha pagato un sicario, oppure lo ha ucciso con le sue mani: e il rimorso lo tormenta da allora - ma non si costituirà mai. Però ce lo sta dicendo da più di vent'anni - Crimini e misfatti è del 1989, e a ben vedere sotto il travestimento è una confessione fatta e finita. Da allora è tornato sullo stesso soggetto quante volte? Settembre, Pallottole su Broadway, Match Point, Cassandra's Dream, e adesso Irrational Man: tutte variazioni sul tema. Come si fa a non notare l'ossessione, come si fa a non sentire il muto grido di dolore sepolto sotto il rassicurante tappeto di fotografia elegante e swing d'epoca? Woody Allen è un assassino. Oppure:
– Woody Allen è morto. Impossibile stabilire chi è stato e quando. Un'amante che sapeva troppo, un ricattatore, un semplice psicopatico che lo ha trovato in un certo posto nel momento sbagliato. Woody Allen ci ha lasciato da un pezzo, ma il piccolo carrozzone che ha messo assieme in più di quarant'anni di carriera, la sua piccola Disney per anziani, doveva in un qualche modo andare avanti. Un film all'anno, niente che il pubblico pagante non si aspetti già. All'inizio hanno usato qualche vecchio copione scartato. Poi hanno iniziato a scriverne di nuovi alla sua maniera. Ultimamente usano un software che riesce a simulare anche l'invecchiamento di Woody Allen, per cui per esempio il 'suo' ultimo film, Irrational Man, sembra veramente scritto da un ottuagenario molto preoccupato di farsi capire a spettatori altrettanto rintronati. Joaquin Phoenix è un insegnante di filosofia morale depresso e alcolizzato: lo si potrebbe indovinare dagli occhi disperati, dal pancino alcolico, ma anche dal fatto che tira continuamente fuori una fiaschetta di scotch (la offre anche alle studentesse in mezzo al campus), e dalla voce fuori campo che martella ogni due minuti. ERO DISPERATO. LA VITA NON AVEVA PIU' SENSO. INFATTI AVEVO VOGLIA DI MORIRE. DA UN PO' ERO ANCHE IMPOTENTE. VI AVEVO GIA' DETTO CHE ERO MOLTO DEPRESSO? Così per un'ora. Nel frattempo Emma Stone si innamora di lui. Lo si capisce dal modo in cui sgrana gli occhioni, dal fatto che accetti di passeggiare con lui in mezzo al campus, che lo inviti alle feste dei compagni e a casa dei genitori,, dalle scuse che racconta al suo ragazzo ufficiale, nonché da dialoghi del tipo OH PROFESSORE HAI CAPITO CHE MI SONO INNAMORATA DI TE? ORA TI FICCO LA LINGUA IN BOCCA FAMMI UN CENNO SE TI ARRIVA IL MESSAGGIO. Woody Allen, insomma, è morto. Questa almeno è la mia ipotesi preferita, ma ce ne sono anche altre.
– Woody Allen sta benone, (continuava su +eventi!) rilascia interviste lucidissime. Ultimamente ha compiuto 80 anni e un sacco di gente su facebook si è divertita a stilare la sua lista dei cinque film migliori. È un gioco che funziona con Allen meglio che con qualsiasi altro regista, perché chiunque ne sappia almeno un po', senza sforzo riesce a ricordarsi una ventina di titoli. Tanta prolificità ha anche il suo lato oscuro, e infatti a un certo punto per il puro istinto di distinguermi ho pubblicato la classifica dei film di Allen che mi erano piaciuti di meno. Se ci riflettete, ha molto più senso, perché nessuno ci ha fatto vedere tanti film mediocri come Woody Allen – qualsiasi altro autore, dopo un paio di mosse false lo avremmo abbandonato. Invece da lui siamo tornati anno dopo anno, sempre sperando di assistere al miracolo di un nuovo Harry a Pezzi, un nuovo Zelig. E ci siamo sciroppati Another Woman, Vicky Cristina Barcelona, Magic in the Moonlight, senza neanche lamentarci troppo.
In questo senso Woody Allen è un po' come Bob Dylan, che oltre ai suoi capolavori, è riuscito a venderci una discreta manciata di dischi talmente scadenti che nessun altro artista ci avrebbe potuto propinare senza perdere la sua credibilità: dischi così orrendi che li ricordiamo con affetto. Alla fine chi ascolta Dylan, o chi guarda un film di Allen, ha soprattutto voglia di ritrovare un vecchio amico – non importa quanto sia fuori forma. Woody Allen magari è in perfetta forma, ma a questo punto si preoccupa dell'inevitabile invecchiamento del suo pubblico. Si chiederà: ma che razza di rincoglioniti tornano in sala a vedere qualunque cosa io faccia? Meglio non rischiare, meglio l'usato sicuro: ancora Dostoevskij, ancora un Raskolnikov (pazienza se rischia di sembrare quel tipo di studentessa di un suo film, che di ogni autore conosceva solo una citazione a effetto). Il protagonista deve essere un misantropo disilluso. Forse è meglio ribadirlo ogni due o tre minuti, metti che qualcuno in sala si addormenti – ehi non è uno scherzo, fare film di Woody Allen è una scienza, magari si sono addormentati durante un focus group.
Il protagonista deve commettere un omicidio, perché da sempre questo è l'unico modo che hanno i personaggi di Allen di votarsi al Male – omicidi e al limite le corna, ma queste ultime da un pezzo sono state derubricate a peccato veniale. Tutto il resto non conta - ad esempio farsi corteggiare da una studentessa davanti a colleghi e compagni di lei, per Allen è un comportamento normalissimo, accettato anche da superiori e genitori: ed è anche l'indizio più forte del fatto che ci troviamo ancora nell'universo mentale dell'autore e vecchio satiro Woody Allen, e non in quello di un software in grado di produrre intrecci verosimili.
Come in Pallottole su Broadway ci dev'essere un artista irresponsabile, irrazionale, assassino, e un piccoloborghese che lo ammira ma non potrà seguirlo per la sua strada: non si tratta di una vera e propria scelta, semplicemente la via del Male (ma anche dell'Arte) non è per lui/lei. Rispetto a dieci o vent'anni fa, la novità di rilievo non è tanto la colonna sonora più blues, ma l'atteggiamento sempre più didascalico, ai limiti dell'autoparodia. La trama che occupava una mezz'oretta di Crimini e Misfatti è dilatata sui novanta minuti. Allen può lavorare con gli attori migliori sulla piazza, e quello che vuole da loro ormai è che vestano una specie di costume kabuki e continuino a ripetere al centro della scena: SONO DISPERATO. VOGLIO MORIRE. TUTTO È ASSURDO. MA SE AMMAZZO QUALCUNO LA MIA VITA CAMBIA. AMMAZZO QUALCUNO. ECCO LA MIA VITA È CAMBIATA. SONO FELICE. HO FAME, RIESCO ANCHE A SCOPARE. Il risultato è un prodotto che oltre a funzionare in sala – ma in sala ormai ci andremmo in ogni caso – avrà un senso anche sul digitale terrestre tra un annetto o due, al pomeriggio, mentre stiriamo o diamo la polvere: quelle fiction che riesci a seguire anche se guardi una scena ogni tre.
Woody Allen a ottant'anni ci conosce meglio di noi stessi: ha capito che cominciamo a perdere colpi e si sta adeguando. Continua a macinare film che nessun altro sa fare, e che forse a nessun altro perdoneremmo. D'altro canto prima o poi ci regalerà qualche altra perla, anche solo un Whatever Works. Nel frattempo Irrational Man è al Cityplex di Alba (21:10), al Cinelandia di Borgo San Dalmazzo (15:10, 17:20, 20:10, 22:20), al Baretti di Mondovì (21:00) e al Cinecittà di Savigliano (22:30). Prego notare che è alla terza settimana di permanenza in sala; ed è quella tra Natale e Capodanno. Whatever works.
Veri detective (in Andalusia)
13-12-2015, 15:36cinema, Cosa vedere a Cuneo (e provincia) quando sei vivo, fb2020PermalinkIl franchismo è finito, la palude è rimasta. In paese ogni tanto qualche ragazza scompare, è normale: qui a parte la vendemmia e il contrabbando non c'è niente. Nessuno ne parla volentieri. Ogni tanto qualche ragazza ricompare, a pezzi, riaffiorando dalla laguna. Anche di questo nessuno parla.
Chi è già in crisi d'astinenza da True Detective potrà trovare un efficace placebo in La isla mínima, un thriller arrivato nelle sale spagnole l'anno scorso, che non fa nessun vero sforzo di sottrarsi al paragone con la serie americana uscita sei mesi prima. Persino i baffi del protagonista - l'accigliato Raúl Arévalo, un ispettore naturalmente in rotta di collisione coi superiori - sembrano ricalcati su quelli che si fa crescere Rust Cohle. Invece il suo collega (meno idealista e più praticone, ovviamente) è uno Javier Gutiérrez un po' troppo in forma per sembrare davvero un ex boia franchista cirrotico che cura i rimorsi e l'insonnia con l'alcool.
Il vero protagonista in questi casi è la cornice... (continua su +eventi!) quella foce del Guadalquivir che soffoca nei suoi miasmi tutto il pittoresco che ci aspettiamo dall'Andalusia. Le case coloniche abbandonate, le ville in mezzo al niente; il labirinto dei canali e delle strade sterrate su cui Seat e Diane si sfidano a sorpassare vecchi trattori. Tutto questo - se lo sai fotografare - funziona benissimo e costa anche poco. Ispirandosi a un reportage del fotografo Atín Aya, il regista ha fatto incetta di premi in patria, creando persino un'attrazione turistica: nei mesi successivi la regione andalusa ha creato una "Ruta Isla mínima", che porta nei luoghi del film.
Come fate a cascarci con Shyamalan?
09-12-2015, 15:3921tw, cinema, Cosa vedere a Cuneo (e provincia) quando sei vivo, fb2020PermalinkUno di quei film in cui i ragazzini non spengono la videocamera neanche se i mostri se li mangiano? Sì, però fatto bene. |
Del resto è un film di M. Night Shyamalan, che dopo alcuni disastri produttivi si è ritrovato retrocesso nella serie B dei film horror a basso budget, in quella che però è la situazione più congeniale al suo cinema: senza più i divi capricciosi che gli hanno commissionato After Earth, senza effetti speciali, chiuso in una casa di campagna con due macchine finto-amatoriali, l'ex maestro del suspense contemporaneo dovrebbe riuscire a mostrare le sue vere qualità. Ce la farà?
Dei tanti modi in cui si possono dividere gli esseri umani, e in particolare gli spettatori al cinema, uno mi sembra più indicativo degli altri e riguarda M. Night Shyamalan. Vi sono infatti due gruppi: quelli che ultimamente erano molto delusi, ma che apprezzarono molto i suoi primi film, talvolta acclamandolo come un maestro e un innovatore del genere thriller, se non proprio il nuovo Hitchcock - e quelli che dopo cinque minuti avevano capito che Bruce Willis è un fantasma.
Insomma, in quel film nessun adulto gli rivolgeva la parola. Nessun adulto. Come fa uno a non accorgersene?
Io ai tempi mi arrabbiavo pure perché insomma - quando appartieni a quel gruppo di persone, tu rifiuti l'idea che il mondo si divida in due gruppi di persone. No, tu credi che ci sia solo un gruppo giusto - ovvero quelli che hanno gli occhi collegati al cervello - e che quelli che appartengono all'altro gruppo devano essere rieducati. E non importa se si intendono di cinema, ci dev'essere un equivoco perché come si fa a intendersi di cinema quando non ti accorgi nemmeno che Bruce Willis è un fantasma? Come fai a goderti un film se hai capito come va a finire dopo cinque minuti? Devi veramente avere voglia di cascarci (continua su +eventi!)
Col tempo ho capito che è davvero così. Chi ama il cinema è animato soprattutto da una grandissima Voglia di Cascarci. È quella magia che unisce tutti i cinefili, sia quelli dei Cahiers che hanno appena votato Mia Madre film dell'anno (sembra una presa in giro), sia quelli che stanno cambiando le pile alle loro spade laser per la prima di Star Wars VII. Se non hai Voglia di Cascarci, non riuscirai mai a prendere sul serio certe cose. Potrai studiare tanto ma non diventerai mai un cinefilo. Per esempio, se non hai Voglia di Cascarci, anche quest'ultimo film di M. Night Shyamalan ti lascerà freddo. Probabilmente anche questa volta dopo cinque minuti avrai già capito esattamente cosa non va nella situazione; tutti quei particolari dissonanti che dovrebbero metterti a disagio, li troverai piuttosto prevedibili (anche se qualche geniale traduttore ha deciso di rendere "rumours about the hospital" con "pettegolezzi dell'ospedale". Pettegolezzi).
Colpo grosso in provincia di Barletta
23-11-2015, 12:3821tw, cinema, Cosa vedere a Cuneo (e provincia) quando sei vivo, fb2020PermalinkTrani è in subbuglio, corre voce che il Grande Regista TV sia scontento. Sta scegliendo le location, le comparse, il catering. L'anno prima Barletta ospitò una fiction e il turismo registrò il 200% - insomma è un'occasione da non mancare. Il sindaco gli sta pagando l'albergo, frantoi e viticoltori litigano per invitare il Grande Regista a pranzo, persino la camorra locale ha da piazzare il suo raccomandato. E allora cosa c'è che non va? Forse che la città non è fotogenica abbastanza? "No, Trani è bella", dice. "Ma non so se funziona per l'action".
Il Grande Regista, in realtà, è un piccolo truffatore. Ma il colpo che mette in scena a Trani è talmente verosimile che una volta tornato a casa mi sono messo a cercarlo su google: "falso regista fiction". Per ora ho trovato solo un tizio che a Brindisi convinceva delle tizie a spogliarsi per dei falsi provini, una cosa abbastanza deprimente. Invece le avventure di Edoardo Leo e Marco Giallini nella ridente località pugliese sono l'episodio più scoppiettante del film - e anche quello più rivelatore. Se ogni film è una truffa, un film di truffe è sempre un gioco di specchi: non sei mai sicuro di ciò che stai guardando. È un buon film di truffe inverosimili, o è un film inverosimile e basta? Le ragazze che suonano in playback a un concerto rock stanno recitando male o stanno recitando bene la parte di chi suona per finta?
Alla fine ho deciso che lo compro - e se i registi mi hanno fregato, peggio per me (continua su +eventi!) Anche se lavorano nel cinema da una vita, Loro chi? è il loro primo vero lungometraggio; gli unici difetti che mi sembra di notare sono quelli che lamentava il Grande Regista TV a proposito di Trani: belle cartoline, ma l'action? Non puoi fare un film di truffe senza piazzarne almeno un po'. Inseguimenti, conflitti a fuoco: l'unica strada è girarli inverosimili e poi rivelare che erano falsi, tutta una truffa appunto. Pazienza se un film distribuito dalla Warner in più di 300 sale sembrerà un prodotto a basso budget.
Quel che funziona meglio in Loro chi? è il ritmo, che dopo una partenza indiavolata riesce a contenere le inevitabili cadute. Da Roma a Trento a Trani, poi di nuovo a Trento, Leo e Giallini si spostano da un set all'altro come in un film di spionaggio. Le stangate diventano via via più improbabili, ma ci si diverte. Bonifacci si conferma come uno degli sceneggiatori più interessanti in circolazione, anche solo per il coraggio con cui si allontana dai temi e dai luoghi più frequentati della commedia italiana.
E sì, Trento e Trani sono più cinematografiche di quel che ci aspettavamo.
Uno di questi week end, quasi quasi...
La delocalizzazione è un film già visto, davvero
10-11-2015, 11:3221tw, cinema, Cosa vedere a Cuneo (e provincia) quando sei vivo, fb2020PermalinkMe ne sto qui impalato, faccio finta di lavorare, magari a Cannes mi danno una palma. |
"C'è questa offerta che potrebbe interessarti".
"M'interessa di sicuro".
"C'è un regista che cerca un cinquantenne che abbia perso il lavoro a causa di una delocalizzazione".
"Non m'interessa più".
"Guarda che paga bene".
"Grazie, non sono disperato".
"Ma..."
"Non così tanto disperato, perlomeno".
"Guarda che non devi imparare a recitare, vuole solo seguirti con la cinepresa mentre..."
"...mentre cerco lavoro, mentre non trovo lavoro, mentre incontro gli ex colleghi e non andiamo d'accordo, quando vado in banca a chiedere un prestito, credi che non lo sappia? L'ho già visto un film così. L'hanno visto tutti un film così".
Uno spettatore si è addormentato in seconda fila, che faccio? |
"Lasciami indovinare. Alla fine trovo un lavoro ma per superare il periodo di prova devo far perdere il posto a qualcun altro, non è vero? Cioè è il film dei Dardenne dell'anno scorso, in pratica".
"Ma non è proprio come quello dei Dardenne, perché..."
"Mi aggiungono anche una sfiga peculiare? Qualcosa che mi dia uno spessore diverso? La tizia dei Dardenne soffriva di depressione, a me che sfiga affibbieranno?"
"Vorrebbero abbinarti un figlio, ehm..."
"Un figlio?"
"Handicappato".
"Ah però".
"Embè? Hai qualcosa contro gli handicappati?"
"Sì, quando servono a ricattare gli spettatori".
"Senti, non so se ti rendi conto della fortuna... non devi recitare. Devi soltanto vivere le tue giornate noiose mentre un tizio le riprende da qualche metro di distanza. Come un reality".
"La mia vita non è noiosa!"
"Ah no?"
(Continua su +eventi!)
"Ho un sacco di cose da fare dalla mattina alla sera! Inseguo il lavoro ovunque, giro per le corsie dei supermercati scartando le offerte speciali farlocche, la sera vado a ballare con mia moglie..."
Litigare con don Pasolini
08-11-2015, 09:2921tw, cinema, fb2020, italianistica, PasoliniPermalinkAlla fine poi che colpa ne ha avuto lui. In qualsiasi altro periodo storico avrebbe trovato la sua nicchia abbastanza presto, e invece a causa di una guerra mondiale e altri equivoci si è ritrovato in una sezione bolognese del PCI invece che in seminario. Che prete ci siamo persi, ma soprattutto che vita da prelato si è perso lui. La sua passione per le dispute dottrinali gli avrebbe ispirato dotte dissertazioni teologiche che lo avrebbero reso uno dei protagonisti del concilio - vuoi mettere anche solo per un attimo, tra litigare coi lefebvriani o col Gruppo '63? Nel frattempo avrebbe potuto cullare la sua sensibilità decadente coltivando la poesia, la scrittura, l'arte, senza la necessità di impastoiarle con categorie marxiste che non c'entravano poi parecchio. Le periferie sottoproletarie, le avrebbe potute frequentare con molta più libertà, nessuno ci avrebbe avuto niente da ridire - son cose che a Roma si fanno da secoli e chi siamo noi per giudicare un alto prelato, un benefattore. Le sue naturali pulsioni avrebbero trovato molta più tolleranza in Curia che in certe sezioni di partito un po' retrograde. Le sue inchieste sulla sessualità degli italiani le avrebbe potuto condurre in modo assai più capillare nel confessionale. Nel frattempo avrebbe saputo diluire in comode omelie settimanali il suo presentimento dell'apocalisse, del genocidio culturale, della massificazione indotta dalla tv, dalla legalizzazione dell'aborto, dalle maschere di Halloween, le lucciole! cosa hanno fatto alle lucciole! Persino in Africa avrebbe più convenientemente potuto andarci da missionario; che prete sarebbe stato Pietro Paolo Pasolini, e invece gli è andata così. Eppure chi ancora si inginocchia al suo santino è sempre di un prete che sembra aver bisogno, uno che ti faccia le predica sulle false lusinghe della modernità, sul vuoto dei valori, uno che ti dica "io so", anche se non è chiaro come faccia a saperlo - ma già, il confessionale - in ogni caso i preti sanno sempre tutto, bisogna stare attenti, perché verrà un giorno... Don Pasolini, così come fra Lindo Ferretti, è uno di quei personaggi che in Italia abbiamo sempre avuto, forse addirittura il frutto dell'evoluzione, dell'adattamento a un certo tipo di ambiente; la novità è che seminari e conventi sono meno diffusi di una volta e così a gente che sembra nata per spiegarti il mondo da un pulpito capita di ritrovarsi scrittore, regista, cantante, comico, e non se la cavano neanche così male in verità. Sempre però un po' predicatori, se ci fai l'orecchio.
Per dire che Muccino un po' lo capisco.
Però poi ogni volta che vedo qualcuno cedere al mio stesso impulso, e di attaccare una tirata antipasoliniana, mi rendo conto che è vittima di un equivoco, se non di tanti. Ad esempio vedo in giro roba del genere.
E ci rido pure sopra, però intanto penso: ma uno che ha scritto una battuta del genere, l'avrà mai davvero sentito parlare, avrà letto qualcosa di Pietro Paolo Pasolini? Non solo il fatto che in realtà un film come Ricordati di me gli sarebbe davvero potuto piacere; una volta assorbito lo choc di un ritmo action che ai suoi tempi non esisteva nemmeno nei film di 007, figurati in un prodotto cosiddetto intimista, credo che avrebbe potuto vederci una conferma delle sue tesi sul vuoto della neoborghesia. Ma lasciamo stare: come fai a immaginare Pasolini che risponde "mi pulisco il culo"?
Se hai anche solo aperto a caso le Lettere Luterane, se hai ascoltato distrattamente la voce del corvo di Uccellacci e Uccellini, come fai? Ma neanche in una vignetta. Te lo immagini, boh, Hitchcock che dice la stessa cosa in una vignetta? Moravia? Viene il sospetto che nel modellare il feticcio PPP le giacche di pelle abbiano avuto più peso delle pagine di Empirismo Eretico dove Pasolini si permetteva eleganti frecciatine sul prognatismo di Sanguineti, ma non avrebbe mai usato il sintagma "pulisco il culo".
Forse funziona così: oggi la gente in giacca di pelle che va in tv a parlare di qualsiasi cosa è, boh, Scanzi? E così ci immaginiamo che Pasolini sia stato uno Scanzi dei suoi tempi; che di fronte a una provocazione si sarebbe comportato come lui: fanculo, stronzi, ecc. Di solito quando parliamo di lui non abbiamo la minima idea di quello di cui stiamo parlando. Anche quando lo citiamo, lo fraintendiamo; lui poi perlopiù parlava in una lingua che abbiamo messo via, il marxismo; una lingua che maneggiava un po' disinvolto, se non proprio alla carlona, perché gli era capitato di esser marxista per accidente, era semplicemente il clima culturale in cui era nato e aveva imparato a discutere - e di discutere aveva una gran voglia e un gran bisogno e non solo coi sottoproletari: anche e soprattutto coi suoi pari, intellettuali, artisti. Lui poi era convinto che i sottoproletari stessero per scomparire, parlava di genocidio, non si vergognava di scomodare Hitler per un po' d