Col mio cuore vincerai

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La bandiera offerta al colonnello
de Charette non era probabilmente
un tricolore, ma uno stendardo bianco.

16 ottobre - Santa Marguerite-Marie Alacoque, veneratrice del Sacro Cuore di Gesù.

[2012]. Nell'autunno del 1870 Parigi è assediata, la Francia è fottuta. Appena nominato comandante di una delle legioni di volontari formate nel tentativo, ormai disperato, di spezzare l'assedio prussiano, il colonnello Athanase de Charette riceve la visita di un Monsieur Dupont qualsiasi, che viene da Tours a portargli il dono più prezioso: uno stendardo con il Sacro Cuore di Gesù, recante il motto Cuore di Gesù, salvate la Francia. Era stato l'abate di Musy a concepirlo, e a farlo cucire dalle suore di Paray-le-Monial. In origine era previsto che Dupont lo portasse al comandante della piazza di Parigi, ma la città era ormai irraggiungibile. Mentre cercava un sistema per passare, Dupont incocciò nei volontari di de Charette, e l'incontro gli parve provvidenziale. Tra loro vi erano 300 zuavi che avevano appena difeso (male) Roma dall'attacco sabaudo: fuggiti dopo la breccia a Porta Pia, nel giro di un mese erano già sul fronte francoprussiano, pronti per una nuova sconfitta. Prima però accettarono di farsi consacrare al Sacro Cuore di Gesù, "l'unico vero re di Francia". La Francia per la verità era appena ridiventata una Repubblica (la terza), dopo la fuga di Napoleone III e l'ingloriosa fine dell'Impero (il secondo). Ma la situazione era un caos, a Parigi incubava lo spettro della prima rivoluzione comunista, che sarebbe scoppiata di lì a pochi mesi, tutt'intorno i prussiani dilagavano, e più indietro ancora i legionari accanto al tricolore sventolavano il Sacro Cuore. Di Gesù. Un muscolo cardiaco raffigurato solitamente con un certo realismo, avvolto in un rovo spinoso, e sormontato da una croce. Che razza di brand. Chi lo aveva inventato?

Pompeo Batoni, 1760 (chiesa
del Gesù, Roma). Una vita a
far ritratti, e l'unico di cui tutti
si ricordano è un santino.

È una storia lunga. Monaci e suore devoti al Sacro Cuore ce n'è stati per tutto il medioevo. Il cuore in questione però non era ancora esattamente il nostro: oltre a rappresentare l'affettività, era considerato la sede delle facoltà intellettive. Ma era ancora un cuore perlopiù astratto, nelle miniature rassomigliante più a una fiamma che a una pompa cardiaca. Che ne sapevano, in fondo, nel medioevo, del cuore? quel che potevano dedurre macellando altri animali: autopsie e dissezioni del corpo umano erano atti sacrileghi. Il vero e proprio culto del Sacro Cuore nasce in epoca moderna, quando ormai il cuore si è capito cos'è, quanti atri ha, quanti ventricoli. È una specie di sfida cattolica alla scienza medica: tu dici che il cuore è solo una pompa? Ebbene, dal Seicento in poi i mistici si metteranno a sognare pompe cardiache, i pittori a raffigurarle nei quadri, i combattenti a esporle nei loro stendardi. Il realismo - nei limiti dell'abilità degli artisti - è causato dalla necessità di negare qualsiasi stilizzazione simbolica: il Sacro Cuore non è un simbolo, è semplicemente e trionfalmente il muscolo cardiaco di Nostro Signore Gesù Cristo, sanguinante per i nostri peccati. Come nel quadro di Batoni, che abbiamo tutti visto almeno una volta nella vita senza saperlo (è uno dei quadri semisconosciuti più famosi del mondo), molto spesso è Nostro Signore stesso a mostrarlo, esattamente come lo vide nel maggio del 1675 una suora del convento di Paray-le-Monial, Marguerite-Marie Alacoque.

Antonio Ciseri (1888) lo fa
sembrare un tatuaggio,
per me è un no.
Mi disse: "Il mio Cuore divino è così appassionato d'amore per gli uomini e per te in particolare che, non potendo più contenere le fiamme della sua ardente carità, occorre che le diffonda attraverso il tuo tramite, e che si manifesti a loro per arricchirli dei suoi preziosi tesori che ti ho rivelato, e che contengono le grazie santificanti necessarie e salutari necessarie a rimuoverli dal baratro della perdizione; (tirate fiato) e ti ho scelto in quanto abisso d'indegnità e ignoranza per la realizzazione di questo grande scopo, in modo che tutto sia compiuto da me.

Dopodiché domandò il mio cuore, che io lo pregai di prendere, ciò che fece, e lo mise nel suo, adorabile, all'interno del quale me lo fece vedere come un piccolo atomo che si consumava in questa fornace ardente..." basta, tanto non sta più leggendo nessuno. Un simile scambio di cuori era stato descritto da una monaca tre secoli prima: ma la novità di un cuore-atomo che si vaporizza in una fornace ci suggerisce che persino l'immaginario delle suore di clausura, il luogo che immagineremmo più refrattario all'innovazione, lentamente si rinnovi.

Così come dietro ogni grande uomo c'è (quasi sempre) una grande donna, dietro a una mistica di successo c'è sempre un prelato che ne ha capito le potenzialità. Nel caso di Marguerite-Marie, fu Padre Claude La Colombière, anche lui più tardi proclamato santo (da Giovanni Paolo II). Padre Claude era un gesuita, e gesuitico fin da subito fu il tentativo di trasformare il Sacro Cuore nel brand più fortunato della Controriforma francese. Come ogni bandiera, il Sacro Cuore per trionfare aveva bisogno di sconfiggere qualche nemico in battaglia: nei primi cent'anni il nemico furono i giansenisti, una corrente teologica che rifacendosi ad Agostino aveva elaborato una dottrina della Grazia pericolosamente vicina a quella protestante. I giansenisti portavano avanti un cristianesimo austero e intellettuale, che due secoli dopo avrebbe attirato Manzoni, se vi ricordate negli appunti della maturità sotto Manzoni c'era una freccina che puntava verso "giansenismo". I giansenisti, di fronte a questo nuovo culto del Sacro Cuore, reagirono prevedibilmente storcendo il naso: sapeva di idolatria, di paganesimo, e poi insomma siamo nel diciassettesimo secolo, sappiamo tutti che il cuore è una pompa, via. Vien quasi da pensare che i gesuiti lo facessero apposta, a sventolare quel simbolo simil-pagano, continuando gesuitescamente a insistere che non era affatto un simbolo, ma il vero Cuore di Gesù, da adorare in tutti suoi atri e ventricoli e reticoli venosi. Con il cuore però si difendeva l'idea di un Gesù buono, misericordioso, disposto a perdonare i peccati a chiunque si fosse arruolato nelle sue schiere: il Gesù gesuita, insomma. I giansenisti furono più volte condannati per eresia, il Sacro Cuore si conquistò la sua festa (mobile) sul calendario (19 giorni dopo la Pentecoste). 

Questa invece è una bandiera quebecchese (dei canadesi di lingua francese)

Riprese a battere con vigore nell'Ottocento, ancora una volta impugnato come stendardo contro un nemico: non più il giansenismo, ma la rivoluzione (anche se ai ribelli della Vandea, i primi a metterlo sulla bandiera, non aveva portato troppa fortuna). L'idea che il cuore di Gesù sanguini per i peccati della Francia rivoluzionaria si fa strada soprattutto durante il disastro del 1870: rileggendo le lettere di Marie-Marguerite (beatificata quattro anni prima da Pio IX) ci si accorge che nella visione del 1675 il Sacro Cuore aveva espressamente richiesto di essere dipinto "su tutti gli stendardi" del nuovo re di Francia: il giovanissimo Luigi XIV. L'entourage di Marie-Marguerite aveva effettivamente mandato una petizione a Versailles, ma probabilmente la richiesta non era mai arrivata all'attenzione del Re Sole. Evidentemente il Sacro Cuore se l'era presa male e, 150 anni più tardi, aveva inviato la tempesta rivoluzionaria sulla casa Borbone. Poi, siccome l'empietà dei francesi perdurava, aveva insistito mandando, un secolo dopo, i prussiani. Per salvarsi non restava che pentirsi e consacrare la Francia intera al Sacro Cuore di Gesù, magari costruendo un'enorme basilica in un luogo che sovrastasse la capitale, e magari sostituendo al tricolore lo stendardo del muscolo cardiaco. Questo tentativo antico e postmoderno di riscrivere tutta la storia delle rivoluzioni francesi come una serie di punizioni divine culmina con la battaglia di Loigny, dove i volontari di de Charette si battono come martiri, indossando scapolari del Sacro Cuore e massacrando effettivi prussiani al grido di "Sacro Cuore Salvaci!", "Viva la Francia", "Viva Pio Nono". Vincono? No.

RESTA! quella parte di me, quella più quella più vicina al nulla (scusate).

Tanto ormai la guerra è persa. Tre anni dopo viene posata la prima pietra della basilica del Sacro Cuore a Montmartre, in espiazione per i sacrilegi commessi durante la Comune. Sarà consacrata soltanto nel 1919. Il Cuore avvolto nelle spine e sormontato da una croce continua a essere uno degli stendardi della Francia reazionaria e cattolica, quella che oltre confine si conosce meno. Ciò che è da noi il crocefisso. Quando in Italia qualche teocon, con l'arroganza dei neofiti, propone di cucire il crocefisso sulla bandiera, in Francia qualcuno, come una corda che vibra per simpatia, butta lì una foto col Sacro Cuore sul tricolore blu-bianco-rosso. Segue dibattito, perché per molti il tricolore è ancora una creatura massonica e satanica, e l'idea di cucirci sopra la pompa cardiaca di Nostro Signore può risultare un sacrilegio. E così via. Nel frattempo il Sacro Cuore ha riscosso successi in tutto il mondo: dopo la Francia (consacrata al S. C. nel 1873 in seguito a un pellegrinaggio di una cinquantina di parlamentari a Paray-le-Monial), anche l'Ecuador si consacrò qualche mese dopo, per decisione del suo Presidente. Alla fine, su insistenza di un'altra religiosa, Leone XIII consacrò al Sacro Cuore tutti i cristiani in una volta sola. Nel Novecento l'iniziativa passò all'altro Cuore, quello Immacolato di Maria, che attraverso i pastorelli di Fatima chiese per sé la consacrazione della Russia, proprio nel momento più complicato, il 1917. Oggi cuori se ne vedono un po' dappertutto, sono parte del paesaggio. Insomma il brand ha funzionato, padre Claude aveva visto giusto. E tuttavia è sempre più un cuore di plastica, un simbolo astratto: non quel muscolo palpitante che Marguerite-Marie aveva visto atomizzare il suo. Il quadro di Batoni, a vederlo con occhi vergini, ha un che di surrealista: non era un'idea, non era un simbolo, era davvero un uomo di carne, con un cuore di carne in mano. Questa idea della carne, la afferriamo sempre meno. Non è solo l'agnosticismo moderno, è che stiamo diventando sempre meno palpabili, sempre più virtuali, simboli di noi stessi: e davanti a un cuore di carne non sappiamo veramente cosa dire. Ci aspettiamo che rappresenti qualcosa, un'idea, uno stile, un brand, qualsiasi cosa: è impossibile che sia tutto lì, due atri e due ventricoli, una pompa. Forse siamo troppo astratti per il cristianesimo.

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Tu sei il Male, io sono il Curato

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4 agosto - San Jean-Marie Vianney (1786-1859), patrono dei parroci (ma non dei sacerdoti).

La cosa fantastica è che un po' a Voltaire ci somiglia.
La cosa fantastica è che
un po' a Voltaire ci somiglia.
[2013] La notizia girava da quasi un anno. Lo sapevano tutti, lo davano per scontato. Venerdì 11 giugno 2010 San Giovanni Maria Vianney, già patrono dei parroci di tutto il mondo, sarebbe stato promosso a patrono dei sacerdoti di tutto il mondo (i parroci sono sacerdoti titolari di una parrocchia, perciò non tutti i sacerdoti sono anche parroci). Lo avevano scritto su Avvenire e sull'Osservatore Romano. Di più. Avevano già steso il suo arazzo da una balaustra della facciata della basilica di San Pietro, un onore che ti fanno soltanto quando ti beatificano, ti canonizzano o ti concedono un nuovo patronato, come appunto in questo caso. Insomma, era ufficiale.

E invece no. Due giorni prima la prevista proclamazione, un sobrio comunicato informò che non se ne faceva niente. L'arazzo restò lì a sventolare, la beffa unita al danno, e i vaticanisti ad arrovellarsi: perché? Cosa aveva fatto di male il povero Jean-Marie, per subire uno smacco del genere? Nulla di nuovo, avendo lasciato il mondo un secolo e mezzo prima. Forse qualcosa, un particolare fino a quel momento inosservato era diventato importante all'ultimo minuto? Buon Dio, e cosa? Non era "abbastanza abbastanza rappresentativo del sacerdozio del XXI secolo, né abbastanza universale", scrissero. Non rifletteva "completamente la figura del prete di oggi, all'epoca della comunicazione". Se ne erano accorti solo 48 ore prima?

In effetti Jean-Marie non è proprio quel tipo di parroco che oggi mettono nelle pubblicità dell'otto per mille. Da laici poi è molto difficile accostarsi alla sua storia senza fare quella tipica smorfia, avete presente - il sorrisetto à la Voltaire che Voltaire magari poteva permettersi, noi no. Gli agiografi ufficiali ci mettono del loro, sembrano che ci tengano particolarmente a tratteggiare una figura di prete ignorante e oscurantista, e perché no, fanatico e allucinato. Tutta questa insistenza sulla carriera scolastica, per esempio. Non c'è una biografia di Jean-Marie che non sottolinei e dettagli la sua inettitudine agli studi, la sua profonda incompatibilità col latino, che potrebbe non essere molto inferiore a quello di un classico liceale classico diplomatosi per il rotto della cuffia. A catechizzare i fanciulli viceversa pare fosse molto bravo, ed era un buon predicatore, uso a mandare a mente le omelie; col tempo si sarebbe dimostrato un fundraiser astutissimo, insomma qualche virtù intellettuale doveva pure averla; però i suoi veneratori ci tengono a dipingerlo come la capra più capra che ci fosse in circolazione. Dietro c'è tutta una polemica con l'illuminismo e con la Rivoluzione: Jean-Marie era cresciuto negli anni in cui i preti francesi che rifiutavano di giurare fedeltà alla République rischiavano la ghigliottina celebrando la messa nascosti nei fienili.

Dopo un lungo, lunghissimo percorso scolastico, in cui gli capitò di avere insegnanti più giovani di lui, finalmente Jean-Marie ottenne una minuscola parrocchia (200 anime), e la trasformò. Fece chiudere le taverne e proibire i balli. Messa giù così, suona veramente male. Se fossi io il PR di Jean-Marie, l'articolerei in questi termini: "lottò vittoriosamente, con le uniche armi della parola e dell'esempio, contro la piaga dell'alcolismo che dilagava in quella piccola comunità agraria". E con le taverne siamo a posto.

Coi balli, davvero, coi balli non saprei che dire. Jean-Marie ma che male ti facevano questi contadini ottocenteschi, se per la mietitura gli veniva voglia di divertirsi e sgambare un po'? Vediamo cosa ne dicono su wikipedia...
 Il fatto era che, all'epoca, il ballo non era certo un divertimento innocuo e innocente ma una vera e propria piaga...
Eh?
...una specie di ebbrezza e furore"[84] la definirono alcuni, che spesso conduceva a disordini descritti come "vergognosi" dai contemporanei. Anche qui la sua azione pastorale non fu riservata soltanto al pulpito ma si tradusse in azioni concrete. Il più delle volte fu costretto a pagare il doppio di quanto stabilito ai suonatori itineranti perché smettessero di incitare la gente a questa frenetica usanza[85].
Vabbe', ma che tattica è, come pagare gli spacciatori il doppio perché cambino il quartiere, peggio che nascondere la polvere sotto il tappeto...
Per educare le giovani e le fanciulle, spesso vittime d'abusi durante le frenesie del ballo, il curato mise un'estrema cura nella formazione dei genitori[86], non solo delle ragazze che spesso, venute a confessarsi, non ricevevano l'assoluzione finché non avessero deciso di abbandonare quel pericoloso divertimento[87].
Io lo giuro non lo sapevo che i balli ottocenteschi fossero così frenetici; dai romanzi perlomeno non risulta. Gli è che i romanzieri parlano sempre e solo delle città, maledetto Flaubert, quattrocento pagine di I Love Shopping Con La Moglie Del Dottore e nel frattempo in campagna facevano le orge musicali e non te ne sei accorto, non ci hai scritto niente.
Si giunse perfino a una lotta giudiziaria: nel 1830 un decreto del sindaco, Antonio Mandy, aboliva i balli pubblici scatenando così la riprovazioni degli organizzatori delle feste locali e di alcuni ragazzi che chiesero al sottoprefetto di Trevoux di abrogare la decisione del sindaco. Cosa che ottennero, ma senza risultato[88]: le giovani avevano infatti preferito recarsi in parrocchia per la messa domenicale, non lasciando così altra scelta ai festaioli che di disperdersi. Senza più ragazze con cui ballare la gioventù maschile di Ars fu costretta a dividersi: chi accolse le parole del curato e chi invece preferì trasferirsi nei paesi vicini.
La cucina dove digiunava.Ok, ci rinuncio, sei indifendibile Jean-Marie. Anche se un mostro sacro della sinistra italiana, don Milani, sul ballo aveva più o meno le tue stesse idee. Comunque è difficile immaginare Ratzinger che a 48 ore dalla proclamazione si fa prendere dallo scrupolo, ehi, un prete che odia le feste danzanti forse non è il massimo come esempio per il XXI sec.

Jean-Marie Vianney era un simbolo già in vita: il suo villaggio per i cattolici francesi un anti-Parigi, da contrapporre polemicamente alla modernità peccatrice. Con lui prende forma l'archetipo del Curato di Campagna che lotta contro le tentazioni di un demonio annidato nell'ignoranza e nella povertà della provincia: il protagonista dei romanzi di Georges Bernaros. Un modello che ha esercitato un fascino incontestabile per un secolo e mezzo, ma che forse oggi segna un po' il passo.

Sul blog di un famoso vaticanista infuriava il dibattito. "Un altro colpo da maestro assestato al Papa dai soliti modernisti postconciliari che non accennano ad estinguersi. Si spegneranno, per contrappasso, all’inferno". In che modo i modernisti fossero riusciti a scongiurare la proclamazione all'ultimo minuto non era chiaro. Altri, pur professando una "venerazione di prim'ordine", ammettevano che "il sacerdozio è una figura piu’ ampia, e vi sono figure sacerdotali molto diverse dai parroci".
Senza scomodare i soliti missionari, facciamo l’esempio dei cappellani militari. Il curato d’Ars è famoso per aver passato tutta la sua vita nel confessionale: e un buon parroco si vede da questo, dal poterlo sempre trovare in Chiesa a qualunque ora del giorno. Accostamento perfetto.
Ma un buon missionario o un buon cappellano militare hanno bisogno di altri esempi, non immediatamente riconducibili al curato d’Ars.
Come vede, non ho menzionato la questione modernista nemmeno di striscio. Saluti.
Non ha neanche menzionato il fatto che Jean-Marie fu disertore, imboscato per tre anni, e se la cavò con un'amnistia, insomma decisamente non il miglior patrono che i cappellani militari potrebbero augurarsi. Tra tanti pareri un tanto al chilo (però interessanti) posso anche dare il mio. Secondo me a Ratzinger il curato d'Ars non era simpatico.

Non mi vengono in mente due preti più diversi: un teologo e una capra. Uno ha passato la vita in campagna, lottando per portare in paradiso le sue duecento anime, incurante di quello che succedeva poco più in là, dove sarebbero andati i suonatori e i ballerini che allontanava. L'altro ha vissuto quasi tutta la sua carriera al centro delle cose, a Roma, abituato a pensare alla Chiesa come a una comunità planetaria. Jean-Marie stava così tanto tempo nel confessionale che puzzava. Ratzinger sapeva d'acqua di colonia persino dalle fotografie, e aveva una certa passione per scarpine e cappelli. Vianney digiunava e sentiva le voci, il demonio che lo voleva morto. Ratzinger da prefetto per la congregazione della dottrina deve aver passato anni a esaminare storie di infelici allucinati. Vianney è un santo ovviamente caro ai lefebvriani. Ratzinger ai lefebvriani ha concesso molto, ma forse cominciava a stancarsi dell'arroganza con cui rispondevano alle sue aperture. Ma alla fine dev'essersi trattato di un moto improvviso, qualcosa che non sapremo mai e che ha reso all'improvviso insostenibile il fastidio naturale che Ratzinger doveva nutrire per una figura come quella di Jean-Marie Vianney.

Che così alla fine non è diventato patrono dei sacerdoti. I suoi fan possono consolarsi ricordando come Jean-Marie non apprezzasse le onorificenze: quando Napoleone III volle concedergli la Legion d'Onore, lui prima volle informarsi se la medaglietta in sé avesse qualche valore; nel qual caso ci avrebbe fatto su qualche soldo per i poveri d'Ars (o per ingrandire la sua collezione di reliquie). Gli dissero di no, non valeva niente: e allora la rifiutò.

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Diui Vdertii apotheosis

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Di Uderzo potrei parlare per mesi e non escludo di farlo in un momento più tranquillo. Era il più grande. Ha regnato per un quarto di secolo in una regione impossibile, tra l'iperrealismo e la caricatura. Disegnava gli accampamenti romani più realistici e li riempiva di nanerottoli col nasone, nessuno riusciva a passare dal grottesco al classico con tanta disinvoltura.

È un tipo di arte che siamo sempre meno in grado di apprezzare, la caricatura soprattutto: non so quanto in patria si sia già attivato un movimento per definirlo un razzista, tutti i caricaturisti in un certo senso lo erano e Uderzo non si è mai tirato indietro fino alla fine: in particolare il suo ultimo Asterix trasudava di una xenofobia lungamente negata e repressa.

Bisognerà spiegare ai ragazzini che all'inizio della storia quei nasoni e quelle pance, quei distillati di un'arte grafica secolare, esprimevano sotto i costumi di scena le speranze di un'Europa del dopoguerra in cui i popoli cominciavano timidamente a presentarsi gli uni gli altri (ed erano popoli di mezza età, panciuti e sdentati, proprio come quelli usciti dal conflitto mondiale): ma forse non basterà, forse non riusciremo a farci capire, forse di Asterix rimarrà solo il guscio vuoto, come Mickey Mouse che degli anni della Depressione non conserva nemmeno più la coda. Mi dispiacerebbe però.
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Giovanna era bellissima che ne sai

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30 maggio - Santa Giovanna D'Arco (1412-1431)


Spiacente Milla, mi spiace Ingrid,
Jean Seberg è più Giovanna di tutte.
[2013]. Santa Giovanna mi trova sempre nel momento peggiore - scadenze e pendenze d'ogni tipo, scrutini, rovesci temporaleschi, astratti furori che rubano sonno ed energia. Si arriva a fine anno scolastico sopravvivendo a tutti i buoni propositi caricati a settembre, seppelliti uno alla volta lungo il sentiero verso il maggio atroce, il giugno torrido. Si parte giovani e pieni di voglia di cambiare il mondo e si arriva stanchi, sfibrati, senza prospettive, come doveva trovarsi il Bastardo d'Orléans nel 1429, mentre difendeva Orléans. Tutti i sogni cavallereschi di gioventù seppelliti in quel disastro che era stato la battaglia delle aringhe. Ormai la guerra, se non già perduta, era comunque un mestiere come un altro, magari più a rischio infortuni. Il Bastardo, a dispetto del soprannome un nobile di primo rango, tirava avanti perché aveva due riscatti da pagare: i fratellastri prigionieri degli inglesi. Era l'ultimo Orléans rimasto in campo e ci mise 25 anni a saldarli, peggio di un mutuo sulla casa. Una guerra insomma senza gloria, le prospettive oscillavano tra la resa disonorevole e gli orrori di un assedio a oltranza, crepare di fame e peste mentre il tuo popolo ti maledice. Le provviste in città erano già razionate, il re Carlo lontano e talmente pavido da non potersi nemmeno definire in senso stretto un re: non aveva le palle per sfidare gli inglesi mettendosi una corona in testa. E poi che altro? Niente, sta arrivando in città una matta, una contadina che parla con gli angeli, ha appena imparato a cavalcare e dice che la guerra la vincerà lei. Pure i matti adesso, putain, non bastavano le epidemie? Ma quando finisce 'sto medioevo che ne ho piene le palle.

Finché non arriva Giovanna: ed è bellissima.

No, non abbiamo ritratti. Ma che fosse bella è chiaro. Per quanto tu possa parlare con Michele Arcangelo e vederti ogni sera con Domineddio, se non sei un po' carina difficilmente ti darebbero retta gli eserciti della Francia intera. Doveva essere bella di una bellezza scostante, hai presente quelle ragazze talmente fuori standard che nessuno ci prova veramente: così come non ci provarono i cavalieri che la stavano accompagnando, e che testimoniarono sulla sua correttezza al di sopra di ogni sospetto. Questa spaventevole bellezza, Giovanna doveva portarla con molta disinvoltura: in poche settimane aveva imparato a cavalcare, mentre teneva testa ai nobili della corte di Chinon e ai dotti di Potiers. Per esigenze di cavalcatura si era adattata a mettere i pantaloni, cosa mai vista se non in qualche bordello assai raffinato, di cui lei nella sua incontestabile innocenza nulla poteva sospettare. E poi che altro?

E poi era simpatica. Anche su questo, tutti concordano. Pronta al riso e alla battuta, di fronte a qualsiasi autorità. A Potiers un erudito, fra Seguin - immaginatevi un accademico davanti a una contadina che sostiene di parlare gli angeli, immaginatevelo - le aveva chiesto che lingua parlassero, questi angeli. Glielo aveva chiesto con uno spiccato accento di Limoges, la Campobasso della Francia meridionale. Beh (rispose lei) senz'altro una lingua migliore della vostra. E fu amore a prima battuta, anche per il professorone. Seguin avallò il parere della commissione, che considerava Giovanna utile alla causa regia, e anche ad anni di distanza non smise mai di parlarne e di scriverne tutto il bene che poteva scrivere il futuro ultrasettantenne decano della facoltà di Poitiers.

Giovanna era incantevole, nell'autentico senso. Piacque a tutti quelli che ebbero l'opportunità di conoscerla un poco. Durò poco (e lo sospettava) ma finché durò i mercenari smisero di chiedere riscatti, i saccheggiatori di saccheggiare, i politici di mercanteggiare, i francesi di lamentarsi - riuscite a immaginarli? Francesi che non si lamentano? Tutto dunque era possibile. Il Bastardo incontrò Giovanna, e all'improvviso non era più il mesto impresario di un teatrino al massacro. Era di nuovo un Capitano del Re; e anche il Re, quella mezzasega, se Giovanna insisteva una corona in testa poteva ben mettersela.

Jean de Dunois, senza l'aria di essere soprannominato il bastardo d’Orléans.

Giovanna non sapeva combattere, e ben presto fu chiaro che nemmeno le piaceva. Dopo la prima scaramuccia seria chiese di non portare la spada, ma la bandiera. Prima di ogni combattimento implorava i nemici di arrendersi, e riconoscere l’evidenza: erano un esercito di occupazione, avevano Dio contro, ma se si fossero arresi Giovanna li avrebbe difesi da vendette e ritorsioni. E quelli: fottiti strega! Puttana degli armagnacchi! Giovanna non portava rancore. Si prese frecce e pietrate; cadde sull’antenata di una mina antiuomo – un arnese di ferro appuntito che serviva ad azzoppare cavalli. Era la Guerra dei Cent’Anni, era cominciata con le frecce e finì coi cannoni. La gente nasceva in guerra, viveva in guerra, moriva in guerra, e gli anni di tregua dovevano lasciare come una sensazione di vuoto dentro. Più di una rivelazione angelica, questo era miracoloso: che una contadina nata in un’enclave armagnacca nei territori occupati credesse a qualcosa che chiamava “pace duratura”. Non erano mai esistite paci durature, solo tregue un po’ più lunghe del solito: esistevano assedi e battaglie, massacri e riscatti, dai tempi del nonno e del nonno del nonno era sempre andato così, in che modo una bella ragazza avrebbe potuto cambiare le cose?

Giovanna ci provò. Li fece innamorare. Liberò Orléans, diede al Bastardo la sua vittoria più bella. Portò il Delfino a Reims, dove si incoronavano i re di Francia, e lo fece re, lo rese uomo. Ma non poteva durare, ed era la prima a saperlo. Gli uomini son fatti così, i re come i bastardi: qualche anno di fuoco e fiamme, e poi cenere. Appena indossata la corona Carlo VII stava già pensando a cosa offrire agli inglesi per non farli troppo incazzare. A Giovanna regalò uno stemma nobiliare, ma nessuno riusciva a immaginare una Giovanna a corte che sorseggia champagne e discute di beneficenza rifiutando pudicamente un macaron. Disobbedendo all’ordine di ritirata, proseguendo la guerra in qualche scaramuccia periferica, Giovanna aveva controfirmato il suo destino: prima o poi si sarebbe fatta ammazzare. Si trattava semplicemente di stabilire il quando, il come. A Compiègne  mentre rientrava da una sortita trovò la porta della rocca chiusa. Forse qualcuno aveva tradito. C’erano taglie sulla sua testa, gli inglesi avrebbero pagato parecchio per portarla nella zona occupata, svergognarla pubblicamente e bruciarla viva. Anche se all’inizio la presero i borgognoni.


Divenuta merce di scambio lungo la proficua e intricata filiera dei riscatti, Giovanna per qualche tempo fu ospite-prigioniera di tre nobildonne che avevano il suo stesso nome. Quel poco di psicologia che crediamo di condividere con l’aristocrazia del Quattrocento ci lascia immaginare cosa potessero pensare queste tre Giovanne ben nate di lei, contadina in pantaloni al soldo del nemico. Ma è proprio da questi dettagli che si riesce a capire quanto doveva essere irresistibile la pulzella di Orléans, perché le tre dame si innamorarono anche loro, non volevano lasciarla andare; Giovanna di Lussemburgo minacciò di diseredare il nipote. Niente da fare, Giovanna finì a Rouen, a recitare la parte di invasata e strega, e a farsi bruciare viva.

Sola, senza nessun uomo esperto di legge o teologia, Giovanna combatté la sua ultima battaglia: e vinse. Per più di un mese la contadina che sentiva le voci mise in imbarazzo i teologi che cercavano disperatamente prove di eresia o stregoneria. Chiunque dia un’occhiata ai verbali non può nutrire dubbi su da che parte stessero superstizione e fanatismo. Il vescovo Cauchon le provò tutte. Insistette a lungo sulle ghirlande con cui da bambina Giovanna aveva adornata un albero al suo paese: è un’usanza pagana! Si fece ridere dietro, e intanto gli inglesi scalpitavano: la volevano al rogo, la procedura era un dettaglio; purché si trovasse un modo. Giovanna di morire sembrava tutt’altro che entusiasta, e si difese in tutti i modi che riuscì a trovare; ma non rinunciò mai alla sua ironia, forse controproducente. Quando l’inquisitore le chiese se un’entità soprannaturale le avesse suggerito un modo per evadere, Giovanna sbottò: ma se davvero me l’avesse detto ve lo racconterei? Dopo un po’ cominciarono a fare le udienze a porte chiuse.

Rarissima foto di santa travestita da altra santa (è Teresina del Bambin Gesù nei panni di Giovanna, e ci crede un casino).

Alla fine non riuscirono a trovare niente di più incriminante dell’abitudine di indossare i pantaloni. Giovanna aveva capito al volo e si era rimessa una gonna: gliela tolsero. Sola in un carcere maschile, senza indumenti (dopo aver già subito percosse e tentativi di violenza), Giovanna alla fine cedette e si rimise i pantaloni. Tecnicamente questo faceva di lei una relapsa, un’eretica che dopo aver abiurato alle sue perfide idee ritornava sui suoi errori. Cauchon si volle assicurare che il falò fosse composto di solida legna, e non fascine che avrebbero asfissiato la ragazza prima che le fiamme l’ustionassero. Giovanna doveva andare arrosto e bestemmiare, l’accordo con gli inglesi era questo. Giovanna andò arrosto, ma non bestemmiò. La gente venuta a vedere la strega allo spiedo tornò a casa dicendo che era morta da santa. Un soldato inglese ebbe un malore, raccontò di averle visto uscire di bocca una colomba.

Vent’anni più tardi gli inglesi avevano perso la guerra, una volta per tutte. Carlo VII era ancora re, il primo dopo secoli a regnare su qualcosa di simile a una Francia unita. Il Bastardo era diventato suo gran ciambellano. Un giorno ebbero la pensata di riabilitare Giovanna, con un processo al contrario. Invitarono i testimoni sopravvissuti, trovarono molta gente che non ne disse che bene. Il perfido Cauchon non era più su questa terra: lo scomunicarono ex post. E magari così si lavarono un po’ la coscienza, per aver lasciato andare al rogo quella ragazza bellissima che nel giro di pochi mesi aveva preso quei due falliti da un angolino sfigato del libro di storia – il bastardo e il delfino – e li aveva fatti uomini. Non risulta nessun tentativo di Carlo VII di liberare Giovanna, nei mesi della prigionia e del processo. Qualche storico pietoso però ha notato come non vi siano tracce del Bastardo, per almeno due mesi nel bel mezzo del 1431: sembra scomparso. Il Quattrocento non è un secolo oscuro, a saper scartabellare si riesce a trovare anche il nome del cavallo preferito dell’arcivescovo di Limoges; ma del Bastardo, in quei due mesi, niente. Così si è fatta strada questa ipotesi: che il Bastardo fosse in missione segreta per ordine di sua Maestà, oltre le linee nemiche. Scopo: liberare la pulzella, fede, speranza, amore della Francia. È una bella storia, raccontabile in settembre.

Ma è il trenta maggio e io me ne immagino un’altra: probabilmente il Bastardo era da qualche parte nelle retrovie, a non combinare un granché come la maggior parte degli uomini nella maggior parte delle loro esistenze (i soldati, poi). La Storia poi la fanno i vincitori, e il re e il suo uomo di fiducia avrebbero avuto vent’anni a disposizione per riscriverla a piacere, fingendo una missione priva di un reale senso strategico. Giovanna era andata, ormai: bellissima ragazza, sì, d’accordo, ma ingestibile come combattente, e nemmeno così performante. Invece come martire avrebbe ancora avuto un senso, e in fondo non era quello che voleva? Non era quello che aveva sempre voluto? Erano gli angeli a ispirarla, no? Ci pensassero gli angeli.

E così se n’è andata un’altra primavera. Quanta vita mi è passata intorno, senza che sia riuscito a trarne niente di sensato. Ormai non riesco neanche a ripromettermi che la prossima volta andrà diversamente: non andrà diversamente, come potrebbe? Le forze in campo sono queste, le conosco. Sono qui sotto assedio da cent’anni, è il mio mestiere e non so più perché lo faccio, chi sto riscattando. Intanto paro i colpi, schivo le scadenze, campo alla giornata. Eppure lo so, lo sento, che potrei rivincere tutto in un giorno solo, una sola meravigliosa battaglia campale. Se solo Giovanna si rifacesse viva e sorridesse, io mi ci metterei. E vincerei. Ma poi la tradirei, metterei pancia, e penserei a lei soltanto un giorno all’anno. Quel giorno farei in modo di trovarmi in una locanda, berrei forte e al primo borgognone che incontrassi farei una scenata: a chi hai detto puttana? Ta gueule, frocetto, mettiti in ginocchio quando parli di lei. Tu non c’eri, tu non puoi capire, era bellissima.
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La nostra dama

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Resto abbastanza convinto che se fosse andata a fuoco una proprietà immobiliare delle sue, e gli avessero proposto di risolvere il problema con un bombardamento a tappeto di Canadair, Trump avrebbe reagito: Are you insane? Cioè non credo che la stupidità spieghi tutto: diventiamo molto meno stupidi quando l'oggetto della discussione è una nostra proprietà (già i bambini sono molto più bravi a contarsi i soldi in tasca che le quantità astratte).

Per cui secondo me non si tratta di farsi furbi, lo siamo già se a qualcosa ci teniamo; si tratta di capire che è tutto nostro, che tutto ci riguarda, che qualsiasi perdita è una nostra perdita. Ma mi rendo conto che possa diventare un'esperienza angosciante, e che il cinismo sia una forma di difesa, per i più fragili, necessaria.
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A Parigi è già inverno (il più caldo)

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Sarà l'inverno più caldo di sempre in Europa, e non a causa dei gilet gialli. Per quanto abbiano dimostrato, nel giro di un paio di settimane, di poter mettere Parigi e la provincia a ferro e fuoco; costringendo il governo a un passo indietro clamoroso, e dimostrando ancora una volta al mondo che ribellarsi paga (almeno in Francia): per quanto abbiano già scritto un pezzetto di Storia, quel pezzetto non racconterà che i gilet gialli furono la miccia dell'inverno più caldo. Tutto il contrario.

Sarà l'inverno più caldo di sempre perché farà più caldo, semplicemente: e l'evidenza non può più essere ignorata. È l'inverno che ha già causato i gilet gialli; è l'emergenza ambientale che sta bussando alla porta; è la catastrofe del clima che si annuncia, e i tafferugli francesi non sono che un timido annuncio di quello che succederà da qui in poi. È normale che l'allarme arrivi dalla Francia: è il suo destino, la sua geografia: la nazione più vasta dell'area più ricca, che include come l'Italia paesaggi diversissimi, ma a differenza dell'Italia non separati da barriere difficili da valicare: il che l'ha resa il laboratorio dell'assolutismo, del protezionismo, e allo stesso tempo ha creato le premesse per la Rivoluzione.

Due secoli e trent'anni dopo, la Francia è l'unica grande democrazia presidenziale europea, ed era assolutamente prevedibile che la tensione tra una provincia avvilita dalla globalizzazione e un'élite tecnocratica confinata nella capitale dovesse spezzarsi proprio qui. In un certo senso la novità non sono i gilet gialli, che protestano come i francesi hanno sempre protestato: la vera novità è il loro avversario, il presidente Macron. Salito all'Eliseo grazie a un sistema elettorale che lo ha investito di un potere e di una responsabilità assolutamente sproporzionate rispetto al credito che gode presso i cittadini, Macron e i suoi uomini si sono ritrovati a incarnare con precisione fin qui mai immaginata l'archetipo del tecnocrate gelido e cosmopolita. L'Europa delle istituzioni, lontana dal cuore del popolo eccetera.  È chiaro che avrebbe risposto all'emergenza con misure impopolari: è ovvio a chi le avrebbe fatte pagare.

L'idea del suo governo aveva un che di disumano, nella sua drastica semplicità: il costo del riscaldamento globale, lo paghino gli automobilisti e gli autotrasportatori. Chi non abita entro i confini della capitale; chi non è stato abbastanza fortunato o avveduto da ritrovarsi da vivere nei centri lambiti dall'Alta Velocità; che anche in Francia ha assorbito l'attenzione dello Stato ai danni delle tratte ferroviarie periferiche; chiunque si ritrovi costretto ancora nel 2018 a usare un'automobile per lavorare (o semplicemente viva in un piccolo centro dove i supermercati sono riforniti dai camion). Per la Capitale sono loro i colpevoli, sono loro che ammorbano l'aria di Co2 e polveri sottili; quindi è a loro che toccherà pagare. C'è il piccolo particolare che sono la maggioranza dei francesi, e i francesi non sono quel tipo di popolo che mugugna ma sopporta.

Questo è più o meno il senso della lotta: non che si possano fare analisi più approfondite, ma si rischia di caricare un movimento spontaneo di connotazioni che ancora deve assumere (magari le assumerà, ma non forziamo lo sguardo). Certo, c'è un programma, e in quel programma ovviamente c'è di tutto e quasi il contrario di tutto: solidarietà con i richiedenti asilo e rigore con i richiedenti asilo respinti. Ci sono tantissime misure sociali che nessuno a sinistra potrebbe respingere, innalzamento del salario minimo e delle pensioni; salvo che ovviamente non ci si pone il problema della copertura; così come non se lo ponevano, in campagna elettorale, né Di Maio né Salvini. Ma quanti gilet hanno davvero letto e sottoscritto il documento, quanti sono scesi in piazza semplicemente per difendersi da un rincaro del carburante? (continua su TheVision)

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San Martino, l'estate che non c'è

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11 novembre – San Martino da Tours (316-397), soldato, vescovo, fenomeno meteorologico
Carpaccio (1480 circa)
L’estate di San Martino dura tre giorni e pochino, e nessuno sa spiegarmi il perché. Pensavo si trattasse di un piccolo anticiclone stagionale, ma salta fuori che esiste in tutte le fasce temperate del mondo; addirittura anche in Australia, anche se là ovviamente arriva tra aprile e maggio. E quindi non la chiamano estate di San Martino ma, come un po’ dovunque ormai, Indian Summer. L’estate indiana, già, ma di che indiani si parla?
È parere unanime che si tratti di nativi nordamericani. Il primo a segnalare l’espressione fu uno scrittore francese immigrato a New York, nel 1778; cinquant’anni più tardi, una colona anglo-canadese si burla della leggenda metropolitana per cui l’aumento effimero della temperatura sarebbe causato dai grandi falò rituali accesi dalle nazioni indiane [questa cosa l’ho pur letta da qualche parte, ma non riesco più a trovare la fonte] . Già allora nessuno sapeva esattamente spiegare cosa ci fosse di indiano nella piccola estate che nella Madre Patria continuava a essere attribuita a San Martino. Forse era un periodo particolarmente indicato per per la raccolta di determinati frutti della terra, o per le razzie e il saccheggio. Oppure, semplicemente, l’aggettivo “indiano” veniva usato in senso dispregiativo, come sinonimo di “falso”. Quest’ultima spiegazione ha il pregio di essere più semplice e il grosso difetto di suonare razzista – al punto che al momento è stata espunta dalla pagina inglese di Wikipedia. Risolverebbe anche la coincidenza per cui dall’altra parte del mondo, in Bulgaria, la stessa estate è chiamata “zingara”. In molti altri Paesi slavi è “l’estate delle vecchie” o “delle donne” (in russo Babye Leto): anche in questo caso le interpretazioni si sprecano, le donne potrebbero essere le Norne della mitologia norrena, ma anche le madri di famiglia che in questo periodo dell’anno potevano approfittare dei giorni di sole per uscire a raccogliere funghi o castagne; ma alla fine anche in questo caso viene il sospetto che le “donne” siano l'”indiano” di turno, qualcuno a cui attribuire un fenomeno irrisorio, depotenziato. Un’estate di tre giorni, come dire un’estate da donne.
Nel resto d’Europa l’estate è stata attribuita a un santo. Martino, l’ex legionario divenuto vescovo di una diocesi della Francia profonda, l’ha spuntata su concorrenti agguerriti: San Luca (UK), Sante Brigida e Britta (Svezia), San Michele (Galles, Spagna, Serbia), Santa Teresa (Paesi Bassi), Tutti i Santi (altrove). Com’è giusto che sia: l’estate in questione non si verifica negli stessi giorni in tutte le latitudini – ammesso che si verifichi. Non siamo nemmeno sicuri che Martino abbia vinto il confronto perché l’11 novembre era il giorno statisticamente più probabile: forse si è fatto strada perché era un santo simpatico, un vescovo sollecito che non lesinava aiuti e miracoli. Fosse nato appena qualche anno prima, probabilmente sarebbe stato martirizzato sotto Diocleziano molto prima di diventare un vecchio saggio, e su di lui sarebbero state raccontate le solite storie favolose e sanguinose, arti che si staccano e riattaccano, gole che si offrono alla lama ma la lama schizza via, eccetera.
Per me i legionari romani sono tutti così (e mi sono sempre chiesto l’utilità di quel mantello in un combattimento)
Martino però viene al mondo (in Pannonia, oggi Ungheria) tre anni dopo che l’editto di Milano ha sospeso le persecuzioni.  È uno dei primi santi-non-martiri, santi che diventano vescovi e invecchiano. L’unica leggenda sulla sua giovinezza è quella famosa del mantello: trovando un mendicante per strada, dalle parti di Amiens, in un freddo giorno (di novembre), taglia col gladio il suo rosso manto da ufficiale della legione e gliene passa metà. Una versione più recente a questo punto fa uscire il sole, ma è chiaramente un’aggiunta postuma che serve a spiegare la singolarità meteorologica. Invece la leggenda originale fa comparire a Martino, la notte seguente, il mendicante in sogno: era Gesù.
Il manto di Martino nei quadri di solito è rosso, come quello dei centurioni di Asterix. Mi ricordo una favolosa pala d’altare in una minuscola città del Poitou (o forse era già Turegna). Era dello stesso rosso della mia minuscola macchinina, con la quale in quel periodo mi aggiravo tra Tours e Poitiers, cercando case di Balzac, di Descartes, rovine romane, il più delle volte trovando pioggia e girasoli. E autostoppisti, coi quali dividere l’unica cosa che possedevo, la mia vetturetta il mio unico mantello; sperando con ciò di propiziare il sole. Non voglio dire che credo in queste cose, ma nella targa c’erano le lettere S-M-A-R. Lascia che le altre vetture preghino san Cristoforo o Antonio da Padova, la mia era devota a San Martino.
La macchinina esiste ancora, ogni tanto la vado a trovare, la usano per andare nei cantieri. È un po’ acciaccata, lo sterzo è durissimo, ma ogni volta che mi vede è come se mi dicesse: sei tornato, connard? Quand’è che ce ne torniamo su su più a nord del Moncenisio, dove piove sempre e i girasoli s’en fichent? E se troviamo ragazze rosse di capelli o studenti con l’alitosi li carichiamo. Ho ancora un’autoradio, ci ha pure gli mp3, ma lo sai da quand’è che non ascolto un pezzo di Brel a palla? Non è che mi lamento, eh, è tutto piatto anche qui. Ma un bel dosso, ti ricordi quei dossi pazzeschi che arrivavi in cima ai cento all’ora e non vedevi più niente! più niente! dimmi che non ti divertivi con me in Francia, dillo. Senza un quattrino e un progetto a termine, con le valigie già fatte nel dormitorio. Stavamo dicendo?
Sole? Sì, ne abbiamo sentito parlare, ma dalle nostre parti non crediamo molto in queste cose, siamo laici sapete.
Per le stesse strade, secoli prima, Martino si aggirava, prima soldato, poi diacono, poi infaticabile vescovo deciso a evangelizzare il pagus, il contado, infine cadavere, conteso dai fedeli di Tours e Poitiers, affamati di reliquie e dell’indotto turistico-commerciale che avrebbero creato. Martino è sempre stato molto amato. Si intuisce che lui stesso amasse profondamente la sua terra d’adozione, piatta come la Pannonia (a parte qualche dosso effettivamente pazzesco), forse un po’ più esposta agli elementi. Come molti santi in seguito, partì rivoluzionario e invecchiò pompiere: cominciò bruciando idoli dove ne trovava, e verso la fine probabilmente si contentava di benedirli: il Dio di questo fiume d’ora in poi è il tal martire, ecc. ecc. Lui stesso forse subì lo stesso destino: forse sotto Martino c’è un po’ del Dio soldato, Marte: un Dio che smette di fare la guerra e si dà alla filantropia.
Quanto al fenomeno atmosferico, mi domando se esista. Per esempio, oggi è San Martino e piove come Dio la manda. Mi spiace un po’ per le bancarelle a Bomporto (MO), ma se ci penso bene, sin da quando ero bambino è sempre andata così. Quando non pioveva c’era nebbia, o vento, persino vento, guardate che dalle nostre parti è una notizia il vento, insomma, Estate di cosa?
Concludo con una poesia, e con un’ammissione pesante: a me San Martino di Carducci piace. Mi mette di buonumore, mi fa venir voglia di annusare mosto e mangiare castagne, una poesia che fa appetito secondo me merita. C’è quel participio molto semplice ma così appropriato, scoppiettante, è una poesia scoppiettante. La trovo semplice e aggraziata, con quello stormo di uccellacci neri che si dilegua, come i cattivi pensieri, appena torni a casa da una sagra piena di pioggia e nebbia e ti metti davanti a un camino, scoppiettante. Buona estate, se la vedete salutatemela.
Novembre di Pascoli invece mi fa venir voglia di morire
[Questo pezzo è apparso la prima volta l'11/11/2011].
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I 1001 pianeti di Valérian

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Valerian e la città dei mille pianeti (Valérian et la Cité des mille planètes, Luc Besson, 2017).


Da qualche parte al centro di questa città quadrimensionale, vivono i superstiti di un antico e nobile popolo che abbiamo sterminato un giorno senza volere - cose che càpitano quando si esplora la galassia. Non vivono in armonia con la natura: la natura non c'è più. Hanno la loro tecnologia, sviluppata un po' in autonomia un po' rubacchiando quello che passava ai piani superiori. Non è incomprensibile, ma ha le sue stranezze - comunicano col Minitel, hanno le tastiere con la A al posto della Q. Un giorno spiccheranno il volo, verso un nuovo pianeta dove vivere in pace e stagionare altri ottocento formaggi diversi. E ci mancheranno. Sì, proprio i francesi. Lo so, sembra impossibile.

Ma tingerle i capelli proprio non si poteva? Anche in CGI...
Un giorno ci mancherà Luc Besson - per quanto sia così difficile volergli bene. È un tamarro senza scrupoli e senza redenzione. La sua idea di cinefumetto fantascientifico è esattamente quella che aveva Lucas negli anni Ottanta: navi spaziali in fiamme e pupazzoni. In più Besson ci mette tutta la computergrafica che si può permettere con 197 milioni di euro, e non gli resta nemmeno un eurocent per pagare lo sceneggiatore. Questa è la cosa che fa più rabbia, perché sul serio: quanto si può risparmiare se invece di farti scrivere buoni dialoghi, te li fai scrivere scadenti? Il costo di un mostro digitale? Di un attore europeo in ribasso? Tra un'ospitata di Rihanna e una buona storia, tu cosa avresti scelto? È praticamente impossibile voler bene a Luc Besson quando prende uno, anzi due storici personaggi del fumetto fantascientifico francese, e invece di farli battibeccare per tutto il film come due colleghi che flirtano tra una battaglia e l'altra, decide che proprio in quelle due ore devono confessare la reciproca attrazione e fidanzarsi - che cosa imbarazzante, in un cinefumetto del 2017, vedere lui che fa una proposta di matrimonio e lei che fa la difficile perché non vuole essere "una della tua playlist". Se almeno fosse una gag e invece no, man mano che il film perde l'energia iniziale, l'idea banalotta del matrimonio procede per inerzia fino ad assorbirlo tutto. È come se Besson, che in teoria sogna questo film da una vita (e ci ha investito parecchio), fosse persuaso di non avere seconde possibilità: Valérian e Laureline hanno solo un film a disposizione, tanto vale buttarci dentro tutto, immergerli in centinaia di ambienti diversi in due ore (il che andrebbe anche bene) e poi farli sposare come succede nelle fiabe (il che invece no). Il film poi non è andato nemmeno così malaccio come sembrava, per ora siamo a 225 milioni di euro di incasso. Quindi per il sequel che ci dobbiamo aspettare, Valérien e Laureline oltre i limiti della galassia in luna di miele? Valérien e Laureline che litigano su chi deve cambiare il cyberpannolino? Ci sarà un motivo se gli eroi dei fumetti non si sposano mai? E impossibile voler bene a Luc Besson quando cade su queste sciocchezze. Eppure è necessario (continua su +eventi!)

L'idea - molto europea - che la convivenza sia un caos, però un caos che tutto sommato funziona.

Si potesse fare a meno di lui, ne sarei contento. Ci fosse in circolazione qualche altro visionario regista francese in grado di attingere a quell'immaginario autoctono che negli anni Sessanta dava i punti agli americani - ma non c'è. Quel momento in cui il pianeta Francia e il suo satellite Belgio erano gli astri più fiammanti del firmamento, e Mézières e Moebius plasmavano il nostro immaginario, con situazioni più problematiche di quelle che arrivavano da oltre oceano, ma immagini altrettanto suggestive - alzi la mano chi ha trovato l'astronave di Valérian un po' troppo simile al Millenium Falcon, beh, è ovviamente il contrario. Besson non sarà il miglior difensore del patrimonio culturale che rappresenta, ma al momento è l'unico, e quindi viva Luc Besson e i suoi pupazzoni digitali (che comunque reggono il confronto di Avatar). Per quanto sia difficile volergli bene, una volta su dieci ne vale la pena. A volte gli riescono cose impossibili, ad esempio rendere simpatica Cara Delevigne. Mentre Dane DeHaan ha esattamente la faccia da schiaffi che serve a un avventuriero dello spazio. Valerian e la città dei mille pianeti resiste indomito al Monviso di Cuneo, almeno fino a stasera 24 ottobre alle ore 21.
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Questa non è la Francia, Matteo Renzi

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Matteo Renzi ha ottimi motivi per essere entusiasta del successo di Emmanuel Macron in Francia: è stato uno dei primi a scommettere su di lui, quando era una scelta non solo azzardata, ma politicamente scorretta. Era ancora il segretario del PD, Renzi, quando all'indomani della sconfitta referendaria adottò l'hashtag #InCammino, evidentemente ricalcato sul nome del neonato movimento di Macron, En marche.

Un sostegno così smaccato a un candidato che non solo non rappresentava la componente francese del Partito Socialista Europeo (di cui il PD è orgoglioso membro), ma che si proponeva di cannibalizzarla, avrebbe dovuto forse destare qualche perplessità in più - acqua passata, Renzi non è più il segretario, è un battitore libero. InCammino è diventato un sito 100% renziano, con un claim vagamente minaccioso ("il futuro, prima o poi, torna") e senza un solo riferimento uno al suo partito; c'è anche l'app e un servizio che mi invita alle riunioni via sms.

(Colgo l'occasione per un appello - visto che a quei sms non si può rispondere - potreste togliermi dalla lista? Non so chi vi ha dato il numero - cioè lo so benissimo, ma non solo state usando la lista di chi ha votato alle primarie PD per promuovere un tizio che non mette neanche più la scritta PD nel suo sito... ma è anche uno spreco per voi, cioè, è chiaro che io non sono il vostro target, dai).

Non è la prima volta e non sarà l'ultima che un politico un po' appannato in patria cerca di aggrapparsi ai fenomeni che vincono all'estero: vedi l'euforia veltroniana per Obama. Macron poi ha davvero qualche tratto in comune con Renzi - forse più col Renzi invitto di qualche anno fa: è addirittura più giovane di lui, ha fatto un'OPA sul partito di centrosinistra e ha vinto. Nel dicembre del 2012, durante la campagna delle primarie, Renzi arrivò a minacciare di uscire dal partito: disse che c'erano sondaggi che lo davano al 25%. Quella che in bocca di Renzi era solo una smargiassata (in quel novembre prese 300 000 voti meno di Bersani, in dicembre 600 000), Macron l'ha realizzata. È rimasto fuori dal PSF, ne ha quasi svuotato il bacino liberal-moderato, ha attirato qualche voto dagli altri poli - ma anche così non supererebbe quel 25% che è la soglia del PD italiano.

Invece - e qui si capisce l'invidia di Renzi - a Macron un 23% basta e avanza per aggiudicarsi l'Eliseo al secondo turno: grazie al semipresidenzialismo della Quinta Repubblica, al doppio turno e alla conventio ad excludendum, la clausola anti-LePen che sin dai tempi del padre fa sì che la maggior parte dei francesi concentri il voto sul suo avversario, chiunque sia. Non è difficile capire che il sogno che ha animato l'avventura politica di Renzi sembra modellato più sul sistema francese che su quello italiano: la cosiddetta "vocazione maggioritaria" di Renzi non prevede un sfondamento del suo partito a destra o a sinistra (anzi il partito R. lo vorrebbe leggero, senza opposizioni), ma un bel doppio turno in cui mettere spalla al muro ogni italiano con una coscienza: o me o qualche personaggio impresentabile, un Grillo, un Salvini, un portavoce di Berlusconi o la sua mummia. Era il sogno dell'italicum: gli è andato male e non ha ancora capito perché. O almeno non mi pare che si sia reso conto che l'italicum non è stato bocciato dagli italiani cattivi, ma dalla Corte Costituzionale che non poteva che ribadire l'ovvio: i ballottaggi nazionali per eleggere un premier si fanno nelle repubbliche presidenziali (come la Francia); la nostra non lo è, e non lo può diventare con una legge elettorale. Non mi pare che si sia dato per vinto, perlomeno la retorica che lo anima è sempre la stessa: O me O la barbarie. E la risposta è sempre la stessa: in questo modo ci condanni alla barbarie, Matteo Renzi.

Perché in Italia non solo non c'è il semipresidenzialismo, non solo non c'è il doppio turno: soprattutto non c'è (né può essere introdotta per legge) la cosa più importante: la clausola anti-LePen, che da noi sarebbe... fino a qualche anno fa la chiamavamo clausola antifascista, ma adesso? Antigrillo, antisalvini, antigeloni? Non che abbia molta importanza. Non solo l'Italia ha, rispetto alla Francia, un passato fascista importante; ma anche nel passato più recente abbiamo avuto una coalizione berlusconiana che vinse placidamente le elezioni associandosi persino a Forza Nuova. È successo una decina d'anni fa, perché non potrebbe succedere domani?

Renzi sembra vivere la sua avventura politica come un romanzo di formazione: anche i suoi discorsi della sconfitta sembrano pervasi dalla fiducia che nell'ultima pagina del romanzo l'eroe trionferà; è una fede inossidabile che senz'altro lo ha aiutato ad arrivare dov'è, ma che purtroppo non posso condividere. Nel romanzo che ho studiato io, che non smetto di ripassare, i fascisti ogni tanto vincono. Il doppio turno, che in Francia li ha bloccati fin qui così efficacemente che Houellebecq addirittura se ne preoccupava (quanto è democratico un sistema che concede appena due o tre seggi a un partito che ha quasi un quinto dei suffragi?) in Italia potrebbe avere l'effetto opposto, e tenere per lungo tempo fuori dai giochi la parte politica che mi rappresenta. In futuro, se riuscirà a mettermi davvero con le spalle al muro, forse non avrò altra scelta che lui, ma finché posso evitarlo non vedo davvero perché dividere anche solo un tratto di strada con Matteo Renzi. Non è solo una questione di interessi diversi, è che secondo me va a sbattere. In Francia la pista è diversa, sì. In Francia avevano Gainsbourg, a noi è toccato Boncompagni, siamo diversi. È il bello dell'Europa (e la sua croce).
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Cos'è il Front National sotto il 50%? Nulla. Cosa sarà sopra il 50%?

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Le elezioni francesi sono quella cosa che dopo il primo turno ci regala una settimana di allegro allarmismo giornalistico: i fascisti stanno per prendersi la Francia! Non faranno prigionieri! - dopodiché arriva il ballottaggio, e un sacco di espertoni si allontana fischiettando.

In nero i dipartimenti vinti dal Front National AHAHAHAH
Succede sempre così - voglio dire, solo quest'anno è già successo due volte. Quando mi capita di immaginare la bolla mediatica in cui viviamo come un acquario di pesci rossi, con una memoria a lungo raggio di pochi minuti, ho in mente situazioni del genere: in marzo - era ancora fresco lo choc della strage di Charlie Hebdo - il Front National fece un notevole exploit al primo turno, e al secondo portò a casa 0 dipartimenti. Zero. Nove mesi dopo, lo stesso risultato, e tutti stupiti. Ieri a pranzo un telegiornale italiano mostrava Marine Le Pen "preoccupata" - ecco, no, se ho capito anche poco di politica francese non credo che la Le Pen fosse preoccupata. È il suo mestiere, è la sua vita, probabilmente due conti ha avuto il tempo per farli. Ha visto suo padre perdere decine di elezioni e sa che le succederà la stessa cosa ancora per un po' di tempo. La barra è ancora lì dove la indicava il patriarca: il 50%.

Finché non ci arriva, il Front non è nulla. Quando ci arriva, sarà tutto. Ma ci vorrà ancora un po' di tempo, ammesso che.

A questo punto credo sia più facile anche qui da noi capire il punto di vista di Houellebecq. Un mese fa il Corriere, in crisi d'astinenza da pensierini fallaciani, lo andò a disturbare. Si aspettavano una tirata anti-islamica, si ritrovarono un pezzo che attaccava frontalmente Hollande e si chiudeva proponendo la democrazia diretta - da noi ne parlavano i grillini, prima di arrivare in parlamento (in seguito se ne sono quasi dimenticati). Ma che c'entrava la democrazia diretta col terrorismo?

Quasi niente. Occorre rassegnarsi: a Houellebecq non interessa particolarmente né il terrorismo né l'Islam. Quello che davvero lo preoccupa è il sistema elettorale francese. Lo aveva detto con chiarezza proprio al Corriere della Sera, nell'intervista rilasciata dieci mesi prima, all'indomani della strage di Charlie.

Se vogliamo parlare nello specifico del Front National, hanno due deputati e il 25% dei voti (alle Europee, ndr)... C’è uno scarto evidente. Il Front National ha un peso nella società che non corrisponde affatto alla sua rappresentanza parlamentare. Mi domando fino a che punto una situazione simile sia sostenibile, con questa astensione poi. C’è un sistema che dovrebbe essere democratico e che non funziona più». [...] Se François Hollande sarà rieletto presidente nel 2017 forse molte persone emigreranno. Per ragioni fiscali ed economiche, per l’idea che è difficile fare granché in Francia, un Paese che appare bloccato. E poi potremmo vedere qualcuno alla destra del Front National che si innervosisce e passa a un’azione violenta».

La chiave di Sottomissione è qui - davanti agli occhi di chiunque non si lasci distrarre dalla cronaca. Non è un libro che usa il sistema elettorale per suggerire che l'Islam possa conquistare la Francia; è un libro che usa l'Islam come paradosso per suggerire le iniquità e le perversioni del sistema elettorale francese. Per ammissione dello stesso autore, il protagonista avrebbe potuto convertirsi sia all'Islam che a un cristianesimo identitario vagamente lefebvriano: se alla fine ha scelto il primo, probabilmente è perché gli scenari paradossali sono meno faticosi da costruire di quelli realistici. La stessa cosa si potrebbe dire della Francia prossima ventura del suo romanzo: una nazione incerta se buttarsi sull'Islam o sul Fronte Nazionale, disposta a tutto pur di finirla coi partiti tradizionali.

Per Houellebecq era molto importante immaginare non tanto una rivoluzione islamica, ma una presa di potere attraverso le elezioni: a queste ultime dedica molta più attenzione che non al fumoso ritorno all'artigianato che verso la fine del libro viene buttato lì come la salvezza dell'economia francese. Lo stallo del primo turno, le irregolarità che causano la ripetizione del secondo, i bizzarri apparentamenti che portano il candidato islamico moderato a prevalere sulla solita Le Pen: tutto questo probabilmente ha addormentato molti lettori italiani, ma erano argomenti che all'autore premevano davvero. Francesi, in guardia: il sistema che vi ha regalato vent'anni di stabilità e altrettanti di decadenza, è lo stesso che useranno gli avversari per soggiogarvi. Basterà arrivare al 50%, e si prenderanno tutto. E probabilmente è giusto così - Houellebecq tifa per l'entropia, da sempre. E dunque? Non ho idea di cosa intenda H. per "democrazia diretta": quel che è sicuro è che la democrazia com'è adesso in Francia non lo convince.

Houellebecq ha in mente la Francia, ma se spostiamo il suo discorso all'Italia, c'è il rischio di fare qualche scintilla. Quello che H propone di eliminare è più o meno il sistema elettorale che Renzi e Boschi hanno appena fatto approvare in parlamento. Ovvero no, Renzi si è fatto confezionare una scorciatoia - a lui basterà il 40% per non far scattare il ballottaggio e ottenere una maggioranza solida alla Camera. E se non passa?

La domanda alla fine è sempre la stessa. Non occorre essere apocalittici alla Houellebecq per porsela: anzi, proprio perché non crediamo che la fine del mondo sia vicina, è lecito preoccuparsi non solo per come andranno le elezioni nel '16, ma anche nel '21 e più in là. Che vinca un partito islamico mi sembra comunque improbabile: ma prima o poi un leghista o un fascista ci arriva. E non avrà le limitazioni che impedirono a Berlusconi di abusare dei suoi poteri più di quanto non abbia fatto. L'italicum combinato con la riforma costituzionale trasformano il Capo dello Stato in un nobile soprammobile. Non ci sarà più il bicameralismo a temperare le iniziative legislative dei deputati, e questo è forse un bene - finché nella stanza dei bottoni non arriva qualche fascista o qualche incompetente.

Ma non siamo in Francia. Non abbiamo nessuna verginità da difendere. Fascisti e incompetenti ne abbiamo già avuti. È una cosa che ci capita ogni tanto. I padri costituenti magari non erano così autorevoli come poi ce li siamo immaginati, ma questa cosa almeno l'avevano notata. Non rifiutarono il presidenzialismo per un capriccio. A Renzi invece il presidenzialismo piace, ma è solo un corollario dell'enorme piacere che Renzi prova per sé stesso. Noi che Renzi non siamo, abbiamo il dovere di pensare a quello che verrà dopo. Che Dio ce la mandi buona - ma anche Allah, se vuole collaborare, non è il caso di fare gli schizzinosi.
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A Houellebecq dell'Islam non è che freghi un granché

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E così, orfani della Fallaci, alla disperata ricerca di un intellettuale-non-intellettuale che raccogliesse lo stendardo della guerra all’Islam e all’Eurabia, al Corriere si sono buttati su Houellebecq. Gli hanno chiesto un pezzo in esclusiva, l’hanno avuto. Probabilmente si aspettavano un tonante attacco alla Sharia, si sono ritrovati un fervorino contro François Hollande. Speravano in una chiamata alle armi anti-jihad, si ritrovano una specie di grillino che blatera di referendum e “democrazia diretta” - contro l’integralismo islamico? La democrazia diretta? Ci sta prendendo in giro? Scrive anche LOL - no, dev’essere il traduttore, i francesi non scrivono LOL.

Il fatto è che intorno a Houellebecq, in questo triste 2015, è cresciuto un equivoco che - non ci fossero tutte queste stragi in sottofondo - sarebbe persino divertente. Quando in febbraio la promozione della sua ultima fatica, Sottomissione, fu interrotta dalla strage di Charlie Hebdo, alcuni cominciarono a fantasticare di un Houellebecq autore di un libro finalmente, francamente anti-islamico: qualche frecciatina qua e là nei suoi romanzi l’aveva lanciata, e ora stava per darci dentro come soltanto un outsider come la Fallaci aveva saputo fare. Il libro vendette un sacco e poi non è che se ne parlò più tanto (in generale è interessante notare il contraccolpo emotivo seguito agli attentati di gennaio; per due settimane ci siamo preoccupati molto e poi ci siamo quasi dimenticati del problema, fino al 13 novembre). Di suo Houellebecq ci ha messo l’ormai distintiva trasandatezza stilistica, e una trama che non sembra concepita per catturare l’attenzione del lettore (le vicissitudini di uno studioso di Huysmans alla soglia della terza età, reggimi le palpebre). Insomma un sacco di gente che lo aveva comprato sperando nei nuovi Versetti Satanici col 150% di antislamismo in più magari aveva staccato a pagina venti.

Chi invece aveva avuto pazienza di proseguire, si era trovato davanti a una vera propria resa dell’uomo occidentale: per Houellebecq è tutto finito, forse già da un secolo: non resta che vendersi ai migliori offerenti (i sauditi?), i quali magari avranno la compiacenza di assumere qualche intellettuale e provvedere alla qualità dei suoi pasti, e soprattutto a che scopi regolarmente. Forza Islam purché magnam. Il tutto sviluppato su premesse che sì, riprendono alcune note problematiche della società francese (banlieues in rivolta, la crescita del Front National, la crisi di credibilità dei partiti istituzionali), però senza immaginazione, con una certa stanchezza che è ormai il marchio della fabbrica letteraria Houellebecq, la verve di un vecchietto in pantofole che mangia un pasto precotto davanti ai talk show e si domanda: ma i barbari, quando arrivano? Chissà se loro almeno sanno cucinare. Però al Corriere servirebbe una Fallaci e questo nelle foto fuma e fa le smorfie, perché non dovrebbe sbroccare alla Fallaci? Ci crede anche lui nel tramonto dell’Occidente, no? Sì, ma lui è della generazione successiva - e coi venerati padri degli anni Sessanta ha un conto in sospeso - è quasi più corretto dire che lui nel tramonto ci spera, lo auspica, in altri romanzi si domandava come accelerarlo. Per immaginarselo anti-islamico bisogna veramente evitare di leggerlo, e conferirgli l’ambito status di feticcio, quell’oggetto che in una libreria non sfigura, ma serve sostanzialmente a evitare che i volumi veri caschino di sotto.

Chi invece ha qualche familiarità con Houellebecq, nella paginetta concessa al Corriere ritroverà quasi tutto quello che ultimamente preme all’autore di Sottomissione. Niente Islam - più che giusto, alla fine l’Islam per H è poco più di una fantasticheria erotica. Si comincia con una negazione: i francesi non possono veramente essere angosciati dal terrorismo. Ai tempi degli attentati degli Hezbollah negli anni ‘80, forse, ma adesso no. “Ci si abitua, anche agli attentati”. In controtendenza con l’allarmismo che i media spargono per inerzia, Houellebecq insiste a descrivere una Francia blasé, apatica che di fronte all’attentato più grave dal dopoguerra sbadiglia e cambia canale.

Può persino darsi che H abbia inquadrato un dato di realtà che sfugge agli osservatori professionisti, tutti in disperata ricerca di emozioni un tanto al chilo; ma al di là di quanto assomigli alla Francia reale, la sua è soprattutto simile alla Francia descritta nel romanzo, dove, costretto a prevedere una fase di guerra civile tra identitari e musulmani francesi, H la liquida nel modo più sbrigativo, quasi nascondendola sotto il tappeto - al punto di immaginare che nel 2022 Hollande sia in grado di impedire ai testimoni degli scontri di filmarli e trasmetterli in tv e addirittura su Internet.
"In questi giorni ho provato: niente sulla CNN e nemmeno su YouTube, ma me l'aspettavo. A volte su RuTube si trova qualcosa, riprese di gente che filma con il cellulare; ma è molto casuale, e comunque non ho trovato niente neanche lì".
"Non capisco perché abbiano deciso il blackout totale; non capisco a cosa miri il governo".
"Questa, secondo me, è l'unica cosa chiara: hanno davvero paura che il Fronte nazionale vinca le elezioni. E qualsiasi immagine di violenze urbane significa voti in più per il Fronte nazionale".
Da cui il dubbio: Houellebecq sta esprimendo il suo timore per una deriva totalitaria della società dell’informazione-spettacolo, per cui dopo esserci abituati a scambiare la realtà con Youtube basterà controllare Youtube per darci a bere qualsiasi cosa - o non sta semplicemente proiettando la sua apatia, il suo malessere sulla Francia intera, per cui tutti devono disinteressarsi ai fatti di sangue perché se ne disinteressa lui? Il suo personaggio, un asociale che attraversa i più grandi sconvolgimenti sociali e religiosi degli ultimi due secoli senza capirci nulla, unicamente guidato dall’istinto all’approvvigionamento di cibo e sesso; uno che fallisce ogni tentativo di conversione perché per convertirsi bisognerebbe essere già stati qualcosa, prima - è davvero il francese medio come lo immagina Houellebecq, o è Houellebecq come ce lo immaginiamo noi suoi abituali lettori? Sottomissione è un libro che parla della decadenza della Francia o della depressione cronica del suo autore?

In fondo diventiamo un po’ tutti apocalittici quando invecchiamo, è un normale tratto narcisistico; anche la Fallaci, più che l’antropologo-geo-politica in cui l’hanno trasformata, era una giornalista malata che intuiva che dopo di lei sarebbe venuto il diluvio. Houellebecq a dire il vero non è ancora così estremo, ha ancora consigli concreti da fornire, proposte in grado di incidere sulla realtà, speranze insomma. Peccato che (e anche qui, immaginiamoci lo sbigottimento dei lettori del Corriere), queste proposte non abbiano niente a che vedere con l’Islam. A Houellebecq l’Islam non frega più di tanto - in certi punti del libro ha il sospetto che sarebbe un modo efficace per scoparsi delle quindicenni, e che anche a quest'ultime la prospettiva non dovrebbe dispiacere, - i mariti le riempiranno di regali, avranno “la possibilità di restare bambine praticamente per tutta la vita”. Quindicenni a parte, quel che preme davvero a Houellebecq è la fine del semipresidenzialismo francese, l’introduzione della “democrazia diretta”. La democrazia diretta.

La democrazia diretta? Cioè, Houellebecq è un grillino?

In un certo senso (continua)
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Che sia Fronte o che sia Islam, purché magnam

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Sprofondato in poltrona, una vaschetta da micro-onde sull'addome, François manovra stancamente il telecomando. Sta aspettando i barbari. Spera che sappiano far da mangiare, almeno loro. 

Io non ho mai galleggiato nello spazio, così l'esperienza più simile a un Ritorno sulla Terra che ho avuto è stata attraversare il tunnel che dalla Francia sbocca nell'autostrada dei fiori. Ci sono passato dozzine di volte, ma almeno quella avevo la radio accesa, che in un varco improvviso cominciò a trasmettere Vasco. Ero in Italia. Un chilometro più indietro, Vasco era un perfetto sconosciuto.

Stiamo a immaginare universi paralleli, e a poche centinaia di chilometri abbiamo questo universo completamente alternativo e incomprensibile che si chiama Francia. Non è straordinario? Pensa al nuovo libro di Houellebecq. Non è incredibile che un'ucronia interessante, appena a venti miglia da Ventimiglia diventi inimmaginabile? La storia di un tizio profumatamente pagato dallo Stato per insegnare cose inutili a gente a cui non interessano. A un certo punto subentra un nuovo governo che guida una rivoluzione culturale tesa a rinnegare un millennio e mezzo di cristianesimo, il cui risultato concreto sulla vita del protagonista è che qualcuno lo paga un po' di più per smettere di insegnare. Poi ci ripensano e lo pagano ancora di più per riprendere. Lui ci pensa un po' e poi accetta. Fine.

(Questi sono appunti su Sottomissione di Houellebecq. Uno degli spunti di oggi è un seguito parodico a un libro che secondo me è, bof, come definirlo senza offendere chi l'ha preso sul serio, uhm, comunque anche questo pezzo partecipa a modo suo alla Grande Gara degli Spunti. Se vuoi provare a capirci qualcosa, leggi qui. Puoi anche controllare il tabellone). 

Ora io non voglio dire che in Italia non esistano studiosi altrettanto inutili e inutilmente pagati - ma ve lo immaginate un libro che ruoti esclusivamente su uno di loro senza un intento esplicitamente anti-accademico? Un intento che in Houellebecq semplicemente manca. Ovvero, non è che a lui sfugga l'enorme vacuità di tutto il carrozzone accademico, un sontuoso castello gonfiabile che alla fine della fiera serve soltanto per procacciare fanciulle in fiore e tramezzini di qualità ai rinfreschi (nulla che l'Islam non possa allestirci meglio, ci sussurra). Però manca completamente quel disprezzo, quel sentimento anti-intellettuale che in Italia è egemonico da un secolo tondo. H. non dipinge un intellettuale inutile per denunciarne l'inutilità. Lo dipinge perché gli sembra un buon esemplare di francese medio. L'accademia inutile non è un obiettivo polemico in quanto accademia inutile. È solo un correlato oggettivo della Francia intera: per H. è fatta così, un posto dove tutti hanno un sacco di tempo libero e risorse per complicarsi l'esistenza intorno alle semplici esigenze di nutrirsi e fottere.

Una vita fa scrissi una cosa su Le particelle elementari di cui ovviamente mi vergogno, però a quanto pare quel che mi sorprende continua a essere la stessa identica cosa.
...I nostri eroi, invece, hanno tutti il posto fisso. Djerzinski e Desplechin sono ricercatori. Annabelle lascia il suo lavoro alla TF1 per fare la bibliotecaria; Bruno è un insegnante che non può più insegnare, per aver molestato una sua allieva: viene aggregato a una Commissione per il Programma di Francese (“mi giocavo gli orari da insegnante e le ferie scolastiche, ma il salario restava lo stesso”). La sua ex moglie è un’insegnante; la sua amante è un’insegnante: coincidenza sbalorditiva, ma nessuno dei personaggi ci fa caso. Ho la sensazione che non ci abbia fatto troppo caso neanche l’autore. Sembra una cosa normale: se sei insegnante finisci sempre a letto con insegnanti. [...] Djerzinski è in anno sabbatico quasi per tutto il libro (il suo superiore quasi si vergogna di doverlo richiamare). Bruno e Christiane si fanno certificare una malattia fasulla da un medico compiacente per recarsi a Cap D’Agde dove, dice lei “è pieno di infermiere olandesi, di funzionari tedeschi, tutti molto corretti, borghesi, genere paesi nordici o Benelux. Mica male, ammucchiarsi con un paio di poliziotte lussemburghesi, no?” Funzionari ed infermiere, il cuore pulsante e libertino dell’Europa. Niente operai nelle ammucchiate, figurarsi. Ma nemmeno un artigiano. O un imprenditore. Niente. È uno dei romanzi contemporanei più classisti che mi sia capitato di leggere. Anche perché ho il sospetto che sia un classismo involuto: Houellebecq non parla di operai e artigiani perché per lui non sono rappresentativi, come se si trattasse di esigue minoranze in un’umanità di impiegati statali
Stavolta chi abbiamo? Un ottocentista, François - una versione un po' più virile e affermata di Bruno Clément - che discute soltanto con accademici pari di lignaggio e un paio di escort, una delle quali comunque studia alla Sorbona. Siccome non è gente che più di tanto capisca di geopolitica, il narratore gli fa incontrare ogni tanto fortuitamente un analista dei servizi segreti (lo incrocia persino nel cuore della Dordogna, il che renderebbe chiunque paranoico, ma non François).

Questa percezione centralista, napoleonica della società - per cui il cristianesimo può anche tramontare, ma solo in seguito ai risultati di un ballottaggio, e all'Eliseo ci sarà sempre un Président, e sul tuo conto lo stipendio entro il 28 del mese - mi piacerebbe capire quanto sia condivisa dal pubblico francese e quanto non sia idiosincratica di Houellebecq, uno scrittore peraltro convinto di incarnare un qualche atteggiamento anarchico. Mi piacerebbe capire quanta consapevolezza ci sia nella sua decisione di ignorare completamente alcune dimensioni della società, ad esempio l'economia: si sa solo che la Francia è in crisi (non si capisce nemmeno che tipo di crisi), finché il nuovo presidente islamico non ha l'idea di tenere le donne a casa e rilanciare la piccola impresa a conduzione familiare: pochi mesi dopo "la Francia ritrovava un ottimismo che non ricordava dalla fine delle Trente Glorieuses". Per tutto questo servirebbero come minimo misure protezioniste, ma Houellebecq viceversa immagina la Francia al centro di una nuova comunità euro-mediterranea, un nuovo impero romano napoleonico islamico. Ma l'aspetto veramente più paradossale è il modo in cui il libro narra la violenza. Non la narra. Dà per scontato che durante la campagna elettorale ci siano ovunque incidenti e conflitti a fuoco tra islamisti e fascisti, ma che nessuno riesca a farsene un'idea perché la televisione deciderebbe di non mostrarli - la televisione, s'intende, controllata dai socialisti al governo. No, ma sul serio?

"No, so già che sui canali d'informazione non ci sarà niente. Forse sulla CNN, se ha una parabola".
"In questi giorni ho provato: niente sulla CNN e nemmeno su YouTube, ma me l'aspettavo. A volte su RuTube si trova qualcosa, riprese di gente che filma con il cellulare; ma è molto casuale, e comunque non ho trovato niente neanche lì".
"Non capisco perché abbiano deciso il blackout totale; non capisco a cosa miri il governo".
"Questa, secondo me, è l'unica cosa chiara: hanno davvero paura che il Fronte nazionale vinca le elezioni. E qualsiasi immagine di violenze urbane significa voti in più per il Fronte nazionale".

È l'indizio che più di tutti mi fa sospettare che Houellebecq semplicemente si sia ridotto a un anziano misantropo che contempla stancamente il mondo dal journal télévisé di TF1. Nel 2022 in Francia nessuno riuscirebbe a postare il video di un tafferuglio su internet? (Continuerebbe pure, ma non diventerà nulla di narrativo se non voti questo spunto contro Il chiar di luna colpisce ancoraPuoi farlo mettendo Mi piace su facebook, o esprimendoti nei commenti. Grazie per l'attenzione e arrivederci al prossimo spunto).
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Redenzione, di Michel Houellebecq

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È il seguito di Sottomissione, di Michel Houellebecq. Se non lo avete letto vi regalo tre ore di vita riassumendone la trama: un docente universitario perfettamente inutile che comincia a perdere i colpi (non riesce più a sedurre una studentessa a semestre) assiste svogliato alla colonizzazione islamica della Francia, che avviene attraverso regolari elezioni - in strada all'inizio ci si ammazza un po', ma la tv fa finta di niente e lui si guarda bene dal ficcare il naso. All'inizio è un po' preoccupato dalla prospettiva di non vedere più femmine scoperte ai rinfreschi accademici, ma quando si rende conto che la nuova fede gli consentirebbe di sposare un paio di fanciulle dai 15 in su (ma anche una matrona che lo riscatti da una vita di pasti precotti), il delicato fiore della conversione germina in lui spontaneo. Fine di Sottomissione di Houellebecq. Non trovate anche voi che qualcosa non torni?

Il libro si basa stancamente ("stancamente" è il mio avverbio preferito quando si parla di Houellebecq) su alcune premesse un po' discutibili:

1. I francesi non di un lontano futuro, ma del 2022, se al ballottaggio si trovassero a scegliere tra Marine Le Pen e un candidato dell'Islam moderato, sceglierebbero l'Islam moderato. Non solo i socialisti, anche i centristi. CERTO HOUELLEBECQ, CERTO.

2. Pur martoriata da una crisi strutturale, e segnata da lotte intestine tra islamici e identitari, la Francia del 2022 dovrebbe fare talmente gola ai sauditi da indurli a comprarsela. Perché è quello che succede nel libro: dietro al partito islamico moderato ci sono i petrodollari dei sauditi. Fantastiliardi. Si comprano tutto, pure le università coi professori dentro. A ogni professore regalano tre mogli (ovvero, il reddito per mantenerle). Un affarone, no? Chi non si comprerebbe la cultura francese avendone l'agio? Tu preferiresti girare in Lamborghini o mantenere a vita un esperto di Huysmans? Non c'è gara, vero?

3. L'Europa non farebbe una piega, anzi si appresterebbe a riconoscere nel presidente islamico della repubblica francese il nuovo imperatore del Mediterraneo - perché di solito funziona così, no? Quel che va bene ai francesi va bene al mondo. Pieni i manuali di Storia di esempi. Cerca sul minitel.


(Questo pezzo partecipa alla Grande Gara degli Spunti! Se vuoi provare a capirci qualcosa, leggi qui. Puoi anche controllare il tabellone).

Insomma il tentativo houellebecqiano di immaginare uno scenario un po' più concreto per quell'incubo che la Fallaci chiamava Eurabia, finisce proprio per dimostrare quanto poco sia plausibile. Ma vediamo cos'è successo nel 2027. François, l''eroe' di Sottomissione, ora è un pacioso wahabita con qualche difficoltà a recitare le preghiere in arabo e un harem di tre donne che gli danno il tormento. La vecchia cucina sempre le stesse cose (troppo burro!) quella di mezzo gli fa le corna con un esperto di Rimbaud, la quindicenne è insostenibile come sanno essere insostenibili le quindicenni. Il lavoro all'università è la solita rottura. Dimostrare il criptoislamismo di Huysmans a studentesse che sotto il burqa si messaggiano con l'iphone12 è una tale palla. Aggiungi un lieve ritardo nei pagamenti, qualcuno già sussurra che i sauditi vogliano chiudere i rubinetti. È abbastanza comprensibile, visto che il riscaldamento globale sta portando tutta l'Europa a tagliare drasticamente l'emissione di idrocarburi. In Francia invece si continua a bruciare petrolio allegramente, ma ormai è tempo di elezioni, e il presidente Ben Abbas rischia di perderle.

Quando ci pensa, François ha la sensazione sempre più netta di essersi fatto vendere una sòla. Il nuovo Cesare Augusto, come no. L'ambizioso progetto di smantellamento della società post-industriale, l'idea di trasformare la famiglia in una piccola impresa e incentivarla come tale, si è infranta di fronte alle evidenze degli anni Venti: le piccole imprese non servono più. L'artigianato è morto, sepolto, riesumato, ristampato in 3d. In un mondo che va verso la standardizzazione digitale, Ben Abbas ha fatto perdere alla Francia ulteriori anni preziosi, raccontando con parole nuove la solita fiaba: sei diversa, sei unica, sei speciale, gli americani non possono capirti, i cinesi non possono copiarti, gli europei possono soltanto seguirti, intanto però devi continuare a fare il pieno di super.

Quando Ben Abbas viene sorpassato al primo turno dal nuovo leader lepennista, François avverte le prime crepe nella sua fede. Di nascosto dalle mogli, comincia a frequentare un cenacolo di intellettuali identitari, un po' clerico-fascisti un po' ambientalisti. Capisce metà dei discorsi che fanno, ma il buffet è di tutto rispetto. Evidentemente i nazionalisti e i fasciocristiani dell'Europa del Nord li stanno finanziando: vogliono prendersi la Francia e non faranno prigionieri. All'indomani del ballottaggio, mentre qua e là per Parigi le moschee bruciano e la police fa finta di niente, François ha un'illuminazione: c'è un solo Dio e Gesù Cristo è il suo prof... boh, insomma, decide di farsi ri-battezzare. Deve anche ripudiare almeno due mogli, un sacrificio che commette volentieri - anche se rimane a lungo incerto su chi salvare delle tre. Qualche anno più tardi, lo vediamo un po' dimagrito impartire stancamente lezioni sul problema razziale in Huysmans. Dalla strada rumori di fucilate e bestemmie in arabo, ma lui non capisce. È una lingua che proprio non gli è mai entrata in testa. Come tante altre cose.

Questo non ha speranza, vero? E invece secondo me farebbe il botto. Se la pensate così, non esitate a votare per Redenzione, di Michel Houellebecqche oggi se la gioca contro Le avventure di Pandolfo. Potete cliccare sul tasto Mi Piace di Facebook, o linkare questo post su Twitter, o scrivere nei commenti che questo pezzo vi è piaciuto. Grazie per la collaborazione, e arrivederci al prossimo spunto.
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Il prof Lo Cascio è sempre più laido

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Il nome del figlio (Francesca Archibugi, 2015)

"Se lo avete odiato
nel Capitale Umano e nei
Nostri Ragazzi, non perdete
le sue nuove figure di m."
Luigi Lo Cascio è un intellettuale di sinistra che un tempo era idealista è adesso è soltanto frustrato. Ancora? Sì. È il terzo film in un anno in cui fa si ritrova nello stesso personaggio, e ogni volta riesce a metterci dentro qualcosa di più ributtante. Stavolta per esempio è schiavo di twitter, e la fatica di pensare in segmenti di 140 caratteri, gli impedisce di aiutare la moglie a sparecchiare e assolvere ad altri doveri coniugali. Ora io capisco che casting che vince non si cambia, ma tra un po' siamo alla Commedia dell'Arte; c'è il serio rischio che al prossimo carnevale tra le maschere di Arlecchino e Balanzone spunti quella di Lo Cascio Prof di Sinistra Frustrato. Il suo antagonista è, per la seconda volta in sei mesi, Alessandro Gassman Pariolino Apparentemente Arrogante ma Dal Cuore d'Oro.


Ci lamentiamo di Hollywood che fa troppi sequel, ma il Nome del figlio rischia di presentarsi come I nostri ragazzi 2 - il ritorno. Ancora una cena, ancora parole grosse tra parenti, guest star Micaela Ramazzotti che indovinate, fa la coatta (stavolta, purtroppo, non bisessuale, ma ci auguriamo sia un'eccezione), Valeria Golino ancora una volta madre amorevole ma oberata dagli impegni, Rocco Papaleo musicista. I nostri ragazzi era tratto da un thriller olandese, Il nome del figlio da una commedia francese: è strano che si somiglino. Vorrei però confortare chi ha espresso il timore che il film risulti incomprensibile fuori dal Raccordo Anulare. In realtà il rifacimento italiano di Le prénom non è poi così lontano dal testo originale, e lo si può serenamente apprezzare anche se si ha un'idea molto vaga del Pigneto e di Casal Palocco. Francesca Archibugi e Francesco Piccolo si sono impossessati del testo in modo più sottile, ricavandone un film secondo me più interessante di quello francese, proprio per come si allontana dal modello pur rispettandone apparentemente le strutture.


Lo sai cosa sei? Sei un paguro! (Giuro).
Considerato che si trattava della riduzione di un testo teatrale su due coppie (e mezza) che si rinfacciano le peggio cose a cena, il rischio di un film 'urlato in faccia', alla Baciami ancora, era altissimo. Il modo in cui l'Archibugi lo ha sventato ha del miracoloso: è commovente vedere attori italiani che riescono a litigare per più di un'ora sbroccando soltanto quand'è davvero il momento, senza sbavate inutili. Lé prenom era un film molto più autoindulgente verso le sue origini teatrali; un tipico buon prodotto della borghesia francese per la borghesia francese (l'unico elemento estraneo, un fattorino porta-pizza, veniva scacciato al terzo minuto). In scena andava un classico gioco delle parti tutto interno a quel milieu: intellos arrabbiati contro neogollisti goderecci e rampanti. Una contrapposizione molto meno netta e divaricata di quella tra postcomunisti e postfascisti italiani. Quello che nel Prénom era una discussione oziosa e astratta sul tabù di Hitler e sul narcisismo della sinistra, condotta da benestanti contenti con un bicchiere in mano, nel Nome del figlio viene presa più sul serio: metà dei personaggi diventano ebrei figli di un reduce di Auschwitz, l'altra metà è declassata affinché il conflitto sociale scoppi davvero. Il personaggio del musicista, che nella versione francese era un trombonista svizzero un po' fuori del mondo, nel film diventa letteralmente il figlio della serva. Ma la differenza più spettacolare la fa ovviamente Micaela Ramazzotti.

Il Pigneto non è un arrondissement. Non può e soprattutto non vuole diventare un mondo a sé; non se la passa certo male ma sotto sotto si vergogna di non essere come Tutti, e quindi li invita a cena sotto forma di una scrittrice coatta di best-seller.  Nell'originale francese il suo personaggio era un'algida manager di una maison di moda: con questa trasformazione il film ottiene almeno tre risultati molto interessanti. Il primo è far entrare effettivamente un po' di aria fresca. La seconda è infilare tra una riga e l'altra del canovaccio francese un'ode alla spontaneità dei neoprolet di borgata, loro sì che sanno come si racconta una storia, mica noi borghesi e parassiti di borghesi (il fatto che questa ode la intoni forse Piccolo è un cortocircuito meraviglioso). La terza è caricare ulteriori frustrazioni sulle spalle del repellente Lo Cascio, che ovviamente invidia la scrittrice di successo perché il suo libro invece non se l'è comprato nessuno.

Forse parlo da uomo ferito, però l'accanimento nei confronti dello stereotipo locasciano dell'intellettuale di sinistra comincia a sembrarmi eccessivo. (continua su +eventi!) Se Le Prénom riservava qualche frecciata a tutti i personaggi (mostrando le unghie più che graffiare davvero), la sua versione italiana sembra molto più sbilanciata nel distribuire difetti e responsabilità. Alcuni finiscono per uscirne quasi esenti. Su Lo Cascio invece si infierisce senza pietà, quasi dovesse chiedere scusa per sempre per aver dato il volto dieci anni fa a un progressismo sorridente e ottimista nei film di Giordana. Uno stereotipo altrettanto irritante, d’accordo, ma non è colpa sua se quel progressismo ha mostrato nel frattempo tutti i suoi limiti. D’altro canto in Lo Cascio si rispecchia una fascia di spettatori che pratica orgogliosamente l’autocritica, ridendo volentieri dei propri difetti, e che al cinema ci va già. Quindi tanto vale continuare a prenderlo di mira, tanto più che bisogna attirare altre fasce di mercato: stuzzicare i coatti, confortare i borghesi, proporre pariolini simpatici, insomma andare verso il centro, verso quelli che votavano Berlusconi e non vogliono sentirsi dire che si sono fatti prendere in giro per vent’anni anche se sono i primi a sospettarlo. Vogliono vedere Renzi che se la prende coi dinosauri di sinistra, vogliono leggere Piccolo che se la prende coi radical di sinistra, vogliono vedere al cinema un tipo di sinistra come se lo immaginerebbero Sallusti e la Santanché al telefono, un disadattato schiavo di twitter che si riempie la bocca di imperativi categorici e non sa neanche dove sua moglie tiene le posate, un parassita che sicuramente insegna cose inutili (ha appena finito un corso di “metrica ariostesca”). E Lo Cascio si presta, ma a questo punto forse dovremmo smettere di prestarci noi.

Intellettuali e cognitari di sinistra, uniamoci! Facciamo sentire la nostra voce mentre diciamo chiaro e tondo che questo è l’ultimo film di Lo Cascio intellettuale frustrato che abbiamo intenzione di vedere. Come riparazione esigiamo un film in cui l’intellettuale di sinistra lo farà Argentero a torso quasi sempre nudo, dottore di ricerca in filologia romanza, irresistibile tombeur de femmes costretto dalle circostanze della vita ad affrontare a mani nude un commando neonazista pariolino che ha preso in ostaggio un asilo nido – un film così ci porto le classi a guardarlo, anche a prezzo ridotto è un affare, rifletteteci. Va bene voler piacere a Tutti, ma ogni tanto vi conviene piacere anche a Me.

Trovate Il nome del figlio al Cinelandia di Borgo San Dalmazzo (20:30, 22:40); all’Impero di Bra (20:20, 22:30); ai Portici di Fossano (20:30, 22:30); all’Aurora di Savigliano (21:15). Buona visione!

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Charlie è un martire, e io l'ho tradito

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13 gennaio - Santi Ðaminh Phạm Trọng Khảm, Giuse Phạm Trọng Tả, Luca Phạm Trọng Thìn, martiri in Vietnam

Di loro so pochissimo. Erano laici francescani di Quần Cống, che 156 anni fa rifiutarono di calpestare la croce e furono pertanto torturati e uccisi a Nam Đinh. Le periodiche persecuzioni ordinate dall'imperatore Tự Đức a lungo andare offrirono alla Francia un buon pretesto per invadere il Vietnam e costituire la colonia francese di Indocina. Luca, il più giovane, aveva quarant'anni ed era il figlio di Daminh (Domenico), che ne aveva un'ottantina.

I 117 martiri del Vietnam furono canonizzati in massa da Giovanni Paolo II - il più grande santificatore della storia - nel 1988. Nel martirologio complessivo scritto per l'occasione si legge che "il martirio fecondò la semina apostolica in questo lembo dell'Oriente". Sarà.

Io resto scettico. Per me ogni storia di martirio ne nasconde almeno una di tradimento. Se conosciamo i nomi dei martiri, non è tanto per il sangue che hanno versato, ma perché qualcuno è sopravvissuto per raccontarceli. Quel qualcuno, che condivide la fede del martire ma non il martirio, non può che essere un rinnegato - lapsi li chiamavano, ai tempi della Chiesa clandestina - qualcuno che evidentemente ha ceduto alle torture, ha sacrificato agli dei dell'Olimpo, ha consegnato i libri sacri, ha calpestato la croce e rinnegato il Vangelo. Per salvare la pelle. Naturalmente poi si è pentito; ha invidiato il destino glorioso dei martiri, e lo ha raccontato ai figli e ai nipoti: ma se non fosse sopravvissuto, di quei martiri gloriosi non ci resterebbe memoria. Nascosta dietro ogni vita di martire, c'è quella di dieci rinnegati, e il loro senso di colpa che spesso dà più colore e vividezza al racconto.

Ci ho ripensato domenica, dando un'occhiata come tutti agli oceanici funerali dei caduti di Charlie Hebdo. Definirli martiri della libertà di espressione non è una forzatura: erano perfettamente consapevoli del rischio (soprattutto dopo l'attentato di tre anni fa), e l'hanno corso fino alla fine. "Forse potrà suonare un po’ pomposo, ma preferisco morire in piedi che vivere in ginocchio", aveva dichiarato Charbonnier nel 2012, e ora no, non suona pomposo affatto. Ogni volta che in questi anni l'opinione pubblica, divisa e perplessa, gli suggeriva di calpestare la croce della libertà, Charlie reagiva alzandola più in alto. Sembra paradossale che questo avvenisse attraverso dei disegnini satirici, ma noi viviamo in un'epoca di paradossi: il volto di Maometto, che per gli islamici non si dovrebbe mostrare, su Charlie Hebdo era diventato l'icona della libertà occidentale di prendersi gioco di tutto, anche di un simbolo tanto caro a una minoranza religiosa. E attraverso dei disegnini buffi, Charlie ci ha posto la domanda: la tanto sacra libertà, fino a che punto siamo disposti a difenderla? Charb, Wolinski e gli altri con la vita, e noi?

Si è visto nell'occasione che non eravamo disposti poi a molto. Da qualche tempo lo Stato non forniva più una scorta, e Charb ne aveva una privata. Ora però è morto e possiamo onorarlo con un funerale immenso, venerarlo come martire. La sua coerenza, che ce lo rendeva un po' fastidioso da vivo, da lontano possiamo ammirarla meglio e raccontarla ai nipoti come esempio eroico: quanto a noi, siamo tutti Charlie, adesso, ma continueremo a usare una certa prudenza.

Ai tempi del primo attentato mi chiedevo chi fosse il più iconoclasta, tra l'islamista disposto a uccidere pur di non vedere disegnato il suo profeta, e il vignettista disposto a morire pur di farne la caricatura. Ancora oggi non saprei rispondere, ma forse la domanda è diventata un po' leziosa. Charb è vittima dell'integralismo islamico, ma come molti martiri è portatore di una coerenza assoluta, che noi sopravvissuti, noi lapsi, invidiamo e additiamo, ma non compreremmo mai davvero al prezzo della nostra pelle. Per prima cosa - come è stato da molti notato - il coraggio di ripubblicare certe vignette di Charlie non lo abbiamo. Non solo quelle anti-islamiche: anche le altre religioni monoteiste venivano irrise per par condicio. Quindi insomma siamo tutti Charlie, ma la vignetta natalizia (e tutto sommato affettuosa) in cui Gesù bambino sguscia aureolato dalle cosce della madre, quella forse no: siamo Charlie solo in un certo senso, in un certo momento, per un certo motivo. Preferiremmo anche in un qualche modo distinguerci da Calderoli che quando indossò la maglietta con Maometto era già a suo modo Charlie, ma sembrava così tanto un catastrofico cialtrone. 

Siamo tutti Charlie... ma in Italia la bestemmia è sanzionata dalla legge. Siamo tutti Charlie, ma un'altra legge sanziona l'incitamento all'odio razziale, e perfino Charlie almeno una volta dovette licenziare un redattore storico per una battuta antisemita. Molti che oggi sono Charlie fino a qualche giorno fa chiedevano nuove leggi che riconoscessero aggravanti omofobiche o sessiste. Insomma, siamo tutti Charlie, ma non significa che siamo tutti disposti a offendere il Papa, o gli ebrei, o l'Islam, o le donne, o i gay, o chiunque: è una libertà che spettava a Charlie incarnare, in un recinto neanche tanto dorato che ora un cospicuo contributo statale rafforzerà. Avremo, ed è un paradosso più francese di altri, la blasfemia di Stato: anche i francesi di fede ebraica dovranno pagare per difendere la rivista che raffigura la Torah su un rotolo di carta igienica; anche i francesi di fede islamica pagheranno perché possa uscire nelle edicole la rivista che, quando mostrare il volto del profeta diventò stucchevole, cominciò ad esibirne le natiche. Forse cominciamo a capire il senso di certi riti carnascialeschi che in epoca antica e medievale erano codificati dal potere tanto quanto quelli religiosi: in certe situazioni ridere (o sopportare le risa altrui) diventa a quanto pare obbligatorio. E anche un po' meno divertente, ma sospetto che nessuno si stia più divertendo da un pezzo.

La discussione sulla libertà di espressione e i suoi limiti è probabilmente inesauribile, e in questi giorni ha fruttato alcuni contributi davvero interessanti. Forse però andrebbe prima disinnescata, perché molti in buona fede sono convinti che la guerra prossima ventura possa scoppiare per due vignette. Gli editorialisti dai sessant'anni in su sono entusiasti - ma se davvero una guerra ci sarà, si combatterà come sempre per questioni economiche e demografiche: perché l'Europa non è riuscita a costruire una sua identità comunitaria ed è rimasta la terra di mezzo tra benessere occidentale, disperazione africana e caos medio-orientale, in balia di dinamiche migratorie che non riuscirebbe a contenere nemmeno se volesse. In mezzo a tutto questo, Charlie è il solito pretesto. Se Gavrilo Princip non avesse fatto fuori l'arciduca a Sarajevo, qualcun altro avrebbe sparato a qualcuno in qualche altra città. Se Charb e compagni avessero deciso di sospendere le vignette anti-islamiche, un francese di seconda generazione incazzato col mondo se la sarebbe presa con Houellebecq, o qualsiasi altro. Anche se potessimo e volessimo davvero comportarci in modo più sensibile nei confronti delle minoranze, non possiamo davvero impedirci di offenderle. Il mondo è diventato un cortile: ci sarà sempre qualcuno che estrae furtivo il dito medio e qualcuno che se la prende (non sono esperto di molte cose, ma di questa, fidatevi, sì). Discutiamo pure di cosa sia la libertà di espressione e dei suoi limiti, ma facciamolo semplicemente per chiarirci le idee - quanto alla guerra, se deve scoppiare, scoppierà: e mezz'ora dopo il primo combattimento, l'idea che si stia morendo per il diritto a disegnare Maometto ci sembrerà già un'ingenuità, una beata coglioneria di quei bei tempi di pace.

Dalla discussione possiamo stralciare facilmente tutti i contributi degli alfieri dello scontro di civiltà. Non perché la loro posizione non sia interessante: ma è talmente limpida che non necessita di ulteriori spiegazioni. Per Salvini e la Santanché l'unico diritto in discussione è quello di offendere l'Islam: per loro è una religione che incita all'odio, e quindi è giusto odiarla. Facile. Fallaci. Non è una posizione da sottovalutare: credo che molti si sentano Charlie soprattutto in questo senso. Per loro non si tratta di offendere il profeta per dimostrare che c'è libertà di espressione, ma di ammettere quel tanto di libertà di espressione sufficiente a offendere il profeta. Non un grammo di più. Tutto chiaro? Passiamo oltre.

Una volta rimossi gli anti-islamici, è possibile intravedere grosso modo due schieramenti. Da una parte ci sono gli alfieri di una libertà assoluta, a-storica; dall'altra si sta rinfoltendo il gruppetto di chi scuote la testa e dice no, Charlie sarà anche un martire, però... stava esagerando. Trovo suggestivo il fatto che da una parte si sia messo in pratica il governo francese, disposto a sovvenzionare da qui in poi il libero Charlie, e dall'altra parte qualche columnist dall'altra parte dell'Atlantico. Potrebbe essere una semplice coincidenza, ma anche il segno di quanto siano ancora e forse irreparabilmente diverse queste due concezioni della libertà, separatesi alla nascita durante le rivoluzioni di fine Settecento. Da una parte la Libertà francese: assoluta, centralizzata, garantita da una Dea Ragione intepretata da un'élite costituitasi Comitato di Salute Pubblica, e imposta dall'alto sui cittadini riconoscenti. Dall'altra una libertà sempre provvisoria, consuetudinaria, continuamente negoziata tra Stati, comunità etniche e religiose in perenne frizione tra loro (continua sul Post...)
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La pastorella e la Bella Signora

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Ha degli occhietti furbetti.
16 aprile - Santa Bernadette Soubirous (1844-1879), pastorella e mistica di Lourdes

[Il pezzo intero è qui]. La Madonna è contagiosa, chi la conosce lo sa. Chi la vede, di solito, ha già sentito parlare di altri che l'avevano vista. Proprio come le malattie infettive, il fenomeno è particolarmente evidente nei collegi. Un'allieva intravede Nostra Signora in fondo a un corridoio; lo dice a un'amica; la vede anche lei; il resto della camerata le prende in giro; nel giro di un mese l'hanno vista tutte. È successo in più casi. Da bambino mia zia ogni tanto andava a Medjugorje, molti anni prima che Paolo Brosio si accorgesse delle potenzialità mediatiche del fenomeno. Però non è che ci si potesse recare così spesso in quel Paese relativamente lontano che ancora si chiamava Jugoslavia (la Madonna spesso sceglie nazioni sulla via del disastro: in quegli anni si faceva vedere anche in un collegio in Ruanda). Così a volte si contentava di Fossoli di Carpi, perché tra i cultori locali di Medjugorie si era diffusa questa storia, che la Madonna stesse apparendo anche a Fossoli, poco distante dal vecchio campo di concentramento. E un giorno, in effetti, mentre una folla pregava da qualche parte a Fossoli, si sentì una voce ben distinta dall'alto che diceva: peccatori, pentitevi. Non era esattamente Nostra Signora, come si vedrà.

La natura virale delle apparizioni mariane è un grande argomento in mano agli scettici: chi vede la Madonna in realtà sa già cosa deve vedere. È stato, per così dire, istruito da una tradizione secolare. Questo spiega il perché la madre di Dio frequenti di preferenza contrade cattoliche: altrove, del resto, può capitare che ti curino a elettroshock, o ti recludano finché non confessi che ti eri inventato tutta la storia, prima per prendere in giro i compaesani e poi per non deluderli (così accadde per esempio alla giovane Margarethe Kunz nel 1878, appena qualcuno cominciò a parlare di una "Lourdes tedesca" a Marpingen, nel Saarland). Anche i veggenti in buona fede non farebbero che riprodurre, nelle loro allucinazioni, un immaginario cattolico condiviso da secoli.

Bernadette davanti alla grotta (ma è passato qualche anno).
A questa obiezione i credenti rispondono col modello della Pastorella, di cui la piccola Bernadette è l'incarnazione più famosa. Se è abbastanza naturale che una collegiale o una suora sogni le madonne e i sacri cuori che si vede intorno dappertutto, come la mettiamo con le pastorelle? Sono ignoranti, analfabete; frequentano cappelle disadorne; non riconoscerebbero la Madonna nemmeno se la vedessero, e nel caso di Bernadette andò proprio così: non la riconobbe. La chiamava "aqerò" ("quella là" in dialetto occitano); la descriveva come una piccola, bellissima signora biancovestita con una cintura blu e una rosa gialla su ciascun piede. Chiunque a quel punto penserebbe, se non a uno scherzo, a Maria di Nazareth; ma bisogna concedere che il vestito biancoazzurro non era così diffuso: entrò nell'iconografia standard proprio dopo le apparizioni di Lourdes. Nostra Signora dal suo canto ci mise più di quaranta giorni, e sedici apparizioni, prima di presentarsi con quelle fatali parole, que soy era immaculada concepciou, che, a detta di tanti lourdologi, Bernardette sarebbe stata troppo ignorante per capire: come poteva una pastorella sapere che appena quattro anni prima papa Pio IX aveva dichiarato dogma di fede l'Immacolata Concezione di Maria, al termine di un dibattito che aveva messo contro per secoli il fior fiore dei teologi? Anzi, se Bernadette riuscì a riferire la curiosa espressione allo scettico abate Peyramale, fu soltanto perché nel tragitto non smise di ripeterla sottovoce: quesoyeraimmaculadaconcepciou, quesoyeraimmaculadaconcepciou, quesoyeraimmaculadaconcepciou. Padre! Ho rivisto la bella signora! Mi ha detto di dirle quesoyeraimmaculadaconcepciou.

Per il povero parroco fu un bel colpo. Sei sicuro che ti ha detto così? Ma lo sai cos'è... lo sai chi è l'immaculada eccetera? No, certo che non lo sai, poveretta. Fin lì l'abate aveva diffidato della pastorella allucinata. Quando era venuta a riferirle la pretesa della bella signora di costruire un santuario nella grotta, aveva preteso un segno: di' alla tua signora che faccia fiorire il roseto lì sotto. Chissà se aveva in mente il miracolo della Vergine della Guadalupe a Città del Messico.

Io ne avevo una, una volta mio cugino ne ha bevuto un sorso ed è ancora vivo.Il roseto non rifiorì. In compenso la fonte che Bernadette aveva trovato scavando lì sotto con le unghie cominciava ad attirare i malati. Era stata un'amica della pastorella, Catherine, a immergere per prima un braccio paralizzato e a trarne, diceva, un subitaneo giovamento. Non poteva certo immaginare di essere la prima di settecento milioni di visitatori, nonché di una settantina di guarigioni ritenute inspiegabili e pertanto miracolose - una ogni dieci milioni, percentuale tutto sommato ragionevole. Fu l'acqua benedetta a fare di Lourdes la Madonna più famosa del mondo: le altre si limitavano a sorridere e sussurrare segreti angosciosi a pastorelli perplessi, ma quella della grotta ti guariva. O perlomeno ti lasciava un segno tangibile, imbottigliabile: un sorso d'acqua pura - a patto di intercettarla molto vicino alla fonte, perché qualche metro dopo il miracolo è non prendersi il colera, con tutti quei malati intinti nella fanga.


Se l'acqua rese famosa la Madonna di Lourdes, la dichiarazione raccolta da Bernadette (quesoyeraimmaculadaconcepciou) la rese canonica: Pio IX riconobbe ufficialmente le apparizioni quattro anni dopo (1862) un record. Per dire: i veggenti di Medjugorje stanno aspettando lo stesso riconoscimento da trentaquattro anni. E d'altro canto l'apparizione a Bernadette era stata straordinariamente tempestiva. Proclamando l'immacolata concezione nella sua enciclica Ineffabilis Deus, il pontefice aveva sfidato i suoi stessi vescovi: era la prima volta che un papa proclamava un dogma senza consultarli in un concilio. Parecchi probabilmente borbottavano, specie quelli di formazione domenicana che avevano osteggiato il concetto di immacolata concezione sin dai tempi di Tommaso d'Aquino. Per metterli a tacere, niente di meglio che un intervento della diretta interessata, anche nel dialetto dei Pirenei. Quando alla fine il concilio si farà - nel 1870 - Pio IX ne profitterà per farsi dichiarare infallibile ex cathedra. Notevole prova di forza per un pontefice che stava per perdere l'ultimo brandello di Stato della Chiesa. Bernadette per quanto possibile, gli aveva dato una mano, recapitando un messaggio dal Cielo con la sua voce pura, immune da contaminazioni culturali e intellettuali. Perlomeno la tesi è questa: Bernadette era troppo ignorante per essere stata anche solo imbeccata da qualcuno meno che santo.

È una tesi che trasuda malafede (continua sul Post...)
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Giovane, carina, molto occupata

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Giovane e bella (François Ozon, 2013).

Vi state sensibilizzando sull'odioso fenomeno della prostituzione minorile?
Isabella ha compiuto 17 anni ed è uno schianto. Ha una madre che non le fa mancare niente, un patrigno che l'ama come un padre, un fratellino che si strugge per lei e forse non riuscirà a toccare nessun'altra donna. Isabella è giovane e meravigliosa e tutti si aspettano da lei una serie di mosse precise: perdere la verginità una notte in spiaggia con un ragazzo straniero bellissimo, e poi tornare a Parigi e tra una lezione e una festa trovarsi un fidanzato, magari innamorarsi davvero, comunque cominciare una liaison benedetta dai parenti da interrompere prima della laurea (quando incontri il padre dei tue due figli, da cui divorzi verso i 35). Perché più o meno è quello che fanno tutte le belle ragazze di buona famiglia nei romanzi e nei film, e i genitori lo sanno, si tengono al corrente, hanno già cominciato a lasciarti i preservativi in bella vista in bagno. Peccato che a Isabella di tutta questa trafila postpuberale contemporanea non freghi nulla.

Isabella ha appena compiuto 17 anni e le piace far sesso con gli sconosciuti. Non tanto il sesso in sé, ginnastica a tratti piacevole ma generalmente noiosa. Ma dare appuntamenti a voci misteriose con un cellulare clandestino; viaggiare nel ventre di Parigi con una missione segreta; cambiarsi nei bagni, diventare più grande e poi di nuovo più piccola; intrufolarsi come un agente segreto negli alberghi esclusivi, ottenere da mani trepidanti una misura precisa della propria bellezza (cinquecento euro a botta), tutto questo è senz'altro pericoloso e sconsigliabile e a Isabella piace. Jeune et jolie è stato presentato a Cannes come La vita di Adèle, cui somiglia come un fratello cattivo: all'amour fou delle ragazze di Kechiche, Ozon oppone la frigidità sentimentale di Isabella. E tanto appassionato è il regista di Adèle (ai limiti dello stalking) tanto stavolta sembra glaciale Ozon. Non importa quanto vecchi od odiosi saranno i clienti di Isabella: nulla riuscirà a sporcarla, nulla è irreparabile.

Sbrigatevi a sensibilizzarvi, ché lei entro le sei dev’essere a casa.

L’avessi visto in qualsiasi altro momento, Jeune et jolie mi avrebbe innervosito per il distacco con cui abbozza un tema così attuale e pesante senza darsi la pena di cercare moventi sociali, morali, psicologici – niente, pare che a Ozon interessi soltanto impaginare la giovinezza di Marine Vacth in meravigliosi fotogrammi. Ma è il novembre del 2013, e oltre al fatto che gli sono ancora debitore di uno dei film più belli dell’anno, in queste due settimane ho fatto talmente il pieno di accorati opinionismi sulla prostituzione che l’impassibilità di Ozon mi è gradita come un balsamo, un necessario colpo di spugna profumata su tante chiacchiere benpensanti e puzzolenti. Ah, per inciso, viva la Francia; dove se tua figlia si prostituisce, la polizia viene a spiegarti con molto tatto che è meglio se metti la password ai computer di casa; dove un’assistente sociale spiegherà a tua figlia che prostituirsi è pericoloso da un punto di vista igienico; il tutto senza pazziate imbarazzanti che non servono a niente e a nessuno, senza Barbare D’Urso corrucciate e croniste d’assalto appostate. I compagni non sospetteranno niente; Isabella avrà ancora un po’ di tempo per crescere e capire il rischio che ha corso (un rischio fisico, concreto, non il “degrado antropologico morale” con cui i nostri esperti marchiano vittime e genitori).


Chissà se poi funziona così davvero, non lo so. Magari è una Francia di sogno, in tal caso viva la Francia dei sogni di Ozon e miei, un luogo dove persino un ponte pieno di lucchetti non è più un oggetto degno di derisione: Ozon non ha bisogno di ironizzare su Moccia o il moccismo per sentirsi superiore; ammira la giovinezza così com’è, con la sua arroganza e il suo sprezzo del pericolo, e i suoi errori di percorso. Anche se per apprezzarla davvero bisogna tenersi un po’ distanza, sennò ti si spezza il cuore come a Kechiche, o anche in modi meno metaforici. Un caro vecchio avatar del regista interverrà verso la fine per dirci che Isabella, alla fine, è solo una ragazza che ha avuto un po’ troppo coraggio: il coraggio di non inventarsi un amore quando l’amore in effetti non c’è, il coraggio di fare sesso se ne hai voglia e di farci i soldi se ne hai voglia. Tutto qui? Tutto qui. È un film immorale? Non più di tanti altri. È un film che restituisce un’immagine fuorviante della prostituzione? Senza dubbio, di sicuro non sono tutte così carine e prive di preoccupazioni economiche. Potrebbe mettere idee sbagliate in testa alle ragazzine? Mah, prima di prendervela coi film mettete una password ai laptop di casa. È un bel film? Non lo so, ma dopo Adèle ne sentivo un po’ il bisogno.


Gonna give you some terrible thrills.

Ah, quasi dimenticavo: per me la prostituzione minorile è una brutta cosa. Ma non perché sia sintomo di degrado antropologico o cazzate del genere. A me sembra inevitabile che ci siano automobili per strada, ma non vorrei che le guidassero i sedicenni. Mi rendo conto che si tratta di un pregiudizio non del tutto razionale – in fin dei conti un sedicenne ha riflessi e vista migliori dei miei – ma ritengo che sia più sicuro, più igienico che i sedicenni non guidino. Non so se prostituirsi sia più pericoloso che guidare: senz’altro è pericoloso. Si possono contrarre malattie, si possono incontrare psicopatici, il rischio di subire violenze è altissimo. Questo è l’unico discorso sensato che io farei a Isabella, e mi piace che qualcuno glielo faccia nel film.

Giovane e bella questa settimana è al cinema Fiamma di Cuneo, nei giorni feriali alle 21; al sabato alle 17.35, alle 20.15 e alle 22.35; la domenica alle 15.15, alle 18.10 e alle 21.00.
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Apocrifo del XXI sec

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Un assassino assurdo
Sale oggi al patibolo "Monsieur l'Antéchrist"


Un piccolo impiegato francese, un assassino senza movente e senza rimorso. Oggi ad Algeri si esegue la sentenza di morte contro l'assassino che ha fatto
inorridire una nazione. 


Questa è una storia normale. Una storia di un ragazzo spavaldo, cresciuto in una famiglie normalmente complicata in un quartiere né bello né brutto, né alto né basso. "È un bel tipo, sembra più maturo della sua età. Imbronciato, di poche parole. Non piange mai. Neanche davanti a un crocefisso". Un ragazzo andato a scuola nelle scuole pubbliche, buone scuole anni fa all'avanguardia didattica, quando
l'educazione primaria era un valore. Cresciuto in un sobborgo dell'Algeri francese,
un triangolo soffocato dal traffico di auto e tram, bar botteghe e studi medici di media fama e medio prezzo, vecchie scuole ospitate in edifici di mattoni rossi e bandiere tricolori, media e piccola borghesia del commercio e degli uffici, e potrei andare a lungo ammucchiando dettagli inutili ma familiari, non so neanche perché lo faccio. Forse perché non ho la minima idea di cosa scrivere su questo tizio che ha ammazzato un arabo e si è difeso dicendo che faceva caldo. 

I fatti, allora. Meursault, lo chiamano così, qualche mese fa seppellisce sua madre. Durante il rito funebre non tradisce un'emozione. Del resto - come ammetterà al processo - lui e la mamma erano ormai estranei, da quando per motivi economici aveva deciso di confinarla in una casa di riposo. Esce dalla camera ardente per fumarsi una sigaretta, ne offre una anche all'inserviente. Il giorno dopo incontra in spiaggia una splendida ragazza e la invita al cinema. Vanno a vedere un film di Fernandel, l'idolo dei botteghini francofoni, il Checco Zalone d'Oltralpe. Nel buio della sala Meursault fuma e ride, forse comincia a sfiorare la nuova amica. La madre morta non è nemmeno più un pensiero lontano. Non è mai esistita. 

Nei giorni seguenti Meursault è coinvolto da un amico e vicino di casa, Raymond, in una squallida vicenda i cui contorni non sono ancora chiariti. Raymond è un donnaiolo, un violento: frequenta i bordelli, a volte si porta a casa le donne algerine che incontra per strada. Un mattino le urla dal suo appartamento svegliano il vicinato. Il gendarme che accorre trova una ragazza sanguinante. Per amicizia, o complicità maschile, Meursault testimonia che la ragazza aveva una relazione con Raymond, e che il diverbio era scoppiato perché "lo aveva tradito". Pratica archiviata. Ma la famiglia della ragazza non ci sta. Raymond e Meursault scoprono in fretta di essere osservati da occhi impassibili che non si perdono un movimento. Per strada. Sulla spiaggia. Frasi brevissime. Ai lettori piacciono.

In un pomeriggio più torrido del solito, su una spiaggia arsa dal sole scoppia la rissa. Qualcuno estrae un coltello. Raymond viene sfregiato, è solo un taglio superficiale. Meursault rimane tranquillo: ma poi, sotto il sole meridiano, si fa prestare la pistola dell'amico e uccide un membro della gang avversaria. Arrestato, non fa nessuno sforzo di difendersi: tanto l'hanno visto tutti. Non nomina nemmeno un avvocato: gliene viene offerto uno d'ufficio che fa quel che può, ma non riesce a convincere il suo cliente a simulare almeno una lacrima di fronte ai giurati. Meursault non piange: né davanti al feretro della madre, né alla prospettiva della ghigliottina. Sostiene - e sembra sincero - di non essere mai riuscito a provare puro dispiacere per qualcosa. Il giudice istruttore lo ha soprannominato "Monsieur l'Antéchrist", signore Anticristo. Dice di non credere in Dio, e fino a ieri non aveva mai voluto ricevere il confessore. Stamattina alla fine lo ha fatto entrare, ma pare che lo abbia cacciato a male parole. Marie, la ragazza che ha incontrato l'indomani della morte della madre, ha sperato in una grazia fino all'ultimo. Diceva a tutti che lo avrebbe sposato. E invece la vita di Meursault, questa traiettoria casuale e assurda, finisce oggi, com'è cominciata: senza un perché. 
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Leonardo non ti giudica

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6 novembre - San Leonardo di Limoges, (496-559) liberatore.

I santi a sinistra ti giudicano,
quelli a destra ti perdonano

All'eremita Leonardo, il primo re cristiano Clodoveo conferì un privilegio singolare: l'amministrazione della grazia. Ovunque avesse incontrato prigionieri, Leonardo avrebbe potuto liberarli. Prima che a lui, questo privilegio era stato concesso al suo maestro, Remigio vescovo di Reims. Nella storia della nazione francese, San Remigio ha un ruolo particolare: è lui il primo vescovo a battezzare cattolicamente un re barbaro, Clodoveo appunto. Con Remigio un clan di barbari diventa la prima dinastia regale della Francia cattolica, i Merovingi. Da lì in poi tutti i successori avrebbero cercato di farsi incoronare a Reims, la cui cattedra vescovile sarebbe diventata la più prestigiosa di Francia: quello che per l'Inghilterra è Canterbury, e per l'Italia ovviamente Roma. Alla morte di Remigio, la cattedra fu offerta a Leonardo, suo discepolo, di nobile famiglia intrecciata a quella regale. Leonardo rifiutò, non gli interessava la politica. Preferiva stare in campagna. Ma conservò comunque i privilegi di Liberatore.

Al Metropolitan di New York c'è una sacra conversazione di Correggio, con al centro Marta e Maddalena, e ai lati Pietro e Leonardo. Le due sante rappresentano, ovviamente, la vita contemplativa e quella attiva (anche se all'occhio moderno Marta sembra una suora e Maddalena una modella). Anche Pietro e Leonardo sono complementari: il primo ha ovviamente in mano le chiavi, il secondo le manette. Pietro è la giustizia, Leonardo la grazia. Pietro ti condanna perché è giusto, Leonardo ti libera perché è buono.

TANA LIBERA OMNIBVS

Il Leonardo storico, poi, ammesso sia esistito, non si sa quanti prigionieri realmente liberò: la sua scelta di vita in un eremo al centro della Francia profonda non si concilia benissimo col ruolo di negoziatore di ostaggi. Bisogna anche spiegare che ai suoi tempi, e per molti secoli ancora, la prigionia fu un business fiorente. Molta gente rinchiusa nei castelli non è che avesse infranto qualche legge (che peraltro non era quasi mai scritta, e poi tanto nessuno degli interessati sapeva leggere): erano stati catturati in guerra e aspettavano di essere scambiati con denaro o con altri prigionieri. Mille anni più tardi poteva ancora capitare a un aristocratico come Carlo di Valois di restare prigioniero per un quarto di secolo, in attesa che il fratellastro mettesse insieme la cifra necessaria ad affrancarlo. Oppure ci si poteva votare a San Leonardo. L'ultima spiaggia, in molti casi l'unica. Fu Boemondo re d'Antiochia, all'indomani della prima crociata, a riscoprire il santo liberatore dopo i secoli bui; catturato dagli islamici, Boemondo proclamava di essersene liberato invocando San Leonardo, e non grazie all'interessamento di un alleato indigeno, il re d'Armenia. Qualche epidemia e il ritrovamento miracoloso delle reliquie contribuirono alla riscoperta di un santo che aveva rischiato di perdersi nella nebbia dei secoli bui. Anche se ovviamente tutto quello che sappiamo di lui è leggenda, e nessuna di queste leggende è attestata prima del decimo secolo. Ci piace tuttavia immaginarlo a zonzo per la Francia immensa, mentre svuota carceri e prigioni destando l'indignazione di vassalli e servi della gleba, dov'è la certezza della penache razza di Stato di diritto è quello che rilascia i malviventi? eccetera. Uno Stato medievale, senza dubbio. Leonardo se ne frega dell'impatto sociale delle sue azioni; Leonardo ha scelto di essere la grazia incarnata. Alla giustizia ci pensino politici e magistrati. Non è un ministro; avrebbe potuto esserlo per formazione e per lignaggio. Non gli interessava. Del resto anche noi, troppe volte, nei ministri cerchiamo dei santi, degli intercessori (continua sul Post...)

È il famoso sostrato cattolico, che ci rende a volte incomprensibile la modernità (e viceversa: la modernità non riesce a capirci). Stimati opinionisti vanno in tv e si domandano: ma in fondo la Cancellieri cos’ha fatto di male? Ha aiutato un’amica. Pretendete che aiuti soltanto gli estranei? Si dà per scontato che un ministro debba comunque aiutare qualcuno. In questo consisterebbe il suo potere, o il suo privilegio: nel poter intercedere per noi. Sotto il cattolicesimo c’è una scorza di pessimismo ancora più profonda e pagana. Gli dei, se esistono, sono inaffidabili e continuamente presi dalle loro scaramucce. Non esiste una vera giustizia nel Caos: esiste un destino che fa quello che gli pare, avvinghiando gli stessi dei che a loro volta trascinano nella disgrazia gli umani votati a loro. Non resta che onorarne il più possibile, sperando che non si incazzino comunque per misteriose questioni restate in sospeso da millenni, e provare a entrare nelle grazie di qualche divinità più misericordiosa. Magari uno poco importante, periferico, che abbia tempo per ricordarsi di te e interesse a trattar bene i suoi clienti. I cristiani, quando arriveranno, li chiameranno “santi in paradiso”. È importante averne almeno uno. In teoria poi i cristiani dovrebbero credere in un Dio che sia giustizia pura e puro amore, e quindi non necessiti di alcuna intercessione. In teoria. In pratica i cieli e la terra restano quel caos che sono, e alla prima sfiga la gente si appende al telefono: solo tu mi puoi aiutare, tu che sei tanto buono, di’ una parola buona. Scetticismo e devozione sono due facce della stessa medaglia: chiedere cose ai santi (o ai ministri) significa non fidarsi di Dio (o della giustizia). Una concezione feudale, clientelare, diciamolo: mafiosa.

La modernità, viceversa, vista da lontano sembra un’entità monolitica disegnata dall’Emilio di Rousseau quando crescendo ha avuto nostalgia dell’ordine, poi è diventato giacobino e si è messo a falciar teste imparruccate. Non c’è bisogno di intercessioni né di altre deroghe alla norma, perché lo Stato tutto vede, tutto capisce, è un Ente Supremo che tutto giudica con giustezza e precisione: chi è in galera è dunque giusto che ci resti. Per la verità chi nella modernità c’è stato – in vacanza o in erasmus – ci riporta immagini più ragionevoli: anche laggiù si concepisce che le cose non sempre vadano come dovrebbero, e l’istituto pre-moderno della grazie è previsto e disciplinato dalle leggi. I privilegi concessi a San Leonardo vengono ancora oggi riconosciuti, per esempio, al presidente della Repubblica, o a quei governatori nei film americani che fino all’ultimo possono telefonare nella cella della morte e interrompere l’esecuzione, così, perché il dubbio e la pietà possono prevalere fino all’ultimo momento. Nei fatti non prevalgono quasi mai: sono tutti eletti che hanno ancora bisogno di voti, e le elezioni si vincono ostentando giustizia, piuttosto che grazia. La grazia viceversa le elezioni te le fa perdere (anche nei Paesi meno moderni), ed è giusto così. La giustizia ci riguarda come collettività, la grazia come individui. Voteremo sempre per chi ci promette ordine e certezza della pena, salvo appenderci al telefono quando la pena colpirà proprio noi. Non c’è nulla di strano. Probabilmente anche la singola formica, quando capisce che la regina ha deciso di sacrificarla, ha pietà per la sua sorte. Noi non siamo formiche e probabilmente a questo punto non lo diventeremo mai: siamo mammiferi onnivori che tendevano a collaborare per difendersi e cacciare prede più grosse, dopodiché ognuno per sé. Il fatto che siamo riusciti comunque a costruire edifici sociali straordinariamente complessi è sorprendente, ammesso che ci sia qualche dio la fuori disponibile a sorprendersi. Ma probabilmente dipende dal fatto che ci interessano prede sempre più grosse. Quel dio lo sa, e non ci giudica.

Anche Leonardo non ci giudica, non gli interessa. Viveva nei boschi per non dar fastidio a nessuno, e se incontrava un prigioniero lo liberava. Liberò anche la regina Visigarda dal bambino che portava nel ventre, o se preferite liberò il bambino dall’utero. Liberare e far nascere sono la stessa cosa: un atto di grazia. La giustizia arriva dopo, non ci guarda in faccia e non ci chiama per nome. È giusto che sia così. Ma non è grazioso.


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La Francia è una cosa che esiste

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(Ancora sulla Vita di Adele, e contiene spoiler).

Distinto Asso, leggendo giusto iersera la sua gustosa doppia recensione, sono rimasto colpito da questo lungo passo, che mi perdonerà se cito nella sua interezza.

Le giornate della ragazza si dividono tra la scuola, dove Adele e i suoi compagni leggono con attenzione e analizzano complesse opere letterarie (e qui, sin da subito, il regista mette in chiaro che tutto il film non è nient'altro che una favola), la famiglia (dove genitori gentili sopportano una figlia che non riesce nemmeno a masticare con la bocca chiusa), le amiche e i ragazzi (dove anche il più scemo ha comunque letto Le Relazioni Pericolose ed è in grado di parlarne). Non si vede un cellulare, un computer o Facebook, proprio per rimarcare ancora di più il distacco tra il mondo fantastico di Adele e quello reale.
Ad un certo punto Adele incontra Emma, una ragazza lesbica. Ovviamente Emma non è una lesbica qualsiasi. Prima di tutto è bellissima pure lei, di una bellezza quasi aliena, poi - pure lei - è un pozzo di cultura (sciorina Sartre come fosse un amico suo) è molto sensibile, gentile, comprensiva e piena di talento.
A sottolineare ancora la natura favolistica di tutta la faccenda, Emma ha i capelli azzurri proprio come la Fata Turchina e, proprio come la creatura di Collodi, ha un ruolo determinante nell'educazione di Adele.
Le due, dopo un primo momento di titubanza, si mettono insieme.
Sono grandi baci, sesso ruvido ma patinato, e ancora ambienti e situazioni fantasiose: Emma diventa rapidamente un'artista di grido, Adele insegna ai bambini ed è felice della sua condizione di insegnante (va bene il contesto fantasy, qui però si esagera), ci sono salotti buoni dove tutti, ma proprio tutti, sono gentili e acculturati, famiglie aperte e comprensive, famiglie meno aperte ma comunque che non rompono i coglioni e poi le inevitabili tensioni di coppia, i tradimenti, le liti, la rottura e le frasi urlate come nei film. Poi ci sta lo stare male, il rivedersi, il non trovarsi e tutte cose tipiche di una coppia (etero o gay poco importa) più o meno in crisi, ma tutte rappresentate in maniera così straordinariamente civile e garbata e a modo che giusto a Topolinia o nella Contea.
Non so perché però mi è venuta voglia di intervenire, e precisare che c'è un altro luogo oltre a Topolinia o la Contea, dove si sarebbe potuto ambientare La vita di Adele; un luogo assai famoso e ben noto agli autori di fumetti, ovvero la Francia. E in effetti La vita di Adele è ambientata proprio là, in una Francia così Francia che è quasi Belgio; ed è una storia tutto sommato realistica, anche se è più divertente immaginare il contrario.

Ma in effetti nella Francia reale ci sono licei dove si legge Marivaux, e se ne discute, e non dovrebbe stranirci la cosa; anche noi al liceo leggevamo romanzi del Settecento - cioè no, perché non abbiamo romanzi del Settecento - insomma alla fine ci buttiamo sempre sull'Ottocento e persino Foscolo non ha lo stesso sex appeal dei libertini e delle cortigiane. Comunque se i nostri liceali, invece di continuare a tradurre versioncine di latino, si leggessero qualche mattone settecentesco per tre-quattro ore alla settimana, alla fine ci si affezionerebbero come si affeziona Adèle. Naturalmente serve anche la predisposizione - e infatti Adèle si innamora di un libro dove una ragazza semplice è fulminata dall'amore per un tizio di una classe sociale superiore; si mette insomma in chiaro da subito che la letteratura non risolve i tuoi problemi, al massimo te li anticipa. La letteratura ha un valore profetico, se da ragazzino ti piace Pascoli hai grosse possibilità di morir zitello, ecc.

Dopodiché in Francia, la Francia di adesso, quella che confina con la nostra disgraziata nazione, i teen-ager nascono probabilmente più o meno stupidi come i nostri, e senz'altro il più scemo non ce la fa a leggere le Relazioni pericolose; nel film infatti non l'ha letto da solo, e lo ammette: lo ha letto in classe. Gli è piaciuto perché un insegnante gliel'ha fatto piacere. In Francia ciò succede, fino a qualche tempo fa sono sicuro che succedesse anche in Italia, perché a me un'insegnante riuscì a farmi piacere cose incredibili, Tasso, Verga, ecc.

Il ragazzo in questione, poi, non è così scemo: ha tirato fuori Le relazioni pericolose perché ha capito che Adèle è il tipo intellettuale. E per Adèle farebbe qualsiasi cosa e anche di più, visto che promette di leggersi tutta la Vita di Marianna, un mattone settecentesco inaffrontabile. È fantascienza? no, è la vita in un normale liceo in Francia: c'è una ragazza a cui piace leggere, una scuola che riesce a orientarla verso prodotti letterari non banali, un ragazzo che per avere una chance si andrà a comprare un mattone settecentesco inaffrontabile di cui, siamo pronti a scommettere, sfoglierà soltanto le prime trenta pagine. Tutto questo nel fumetto originale non c'era: è una scelta del regista.

La famiglia di Adele tollera che lei mangi con la bocca aperta, perché... in quella casa mangiano tutti così. E mangiano spaghetti. Il cibo in Kechiche ha un simbolismo tutt'altro che raffinato: spaghetti a bocca aperta = proletariato; ostriche e champagne = borghesia. Altre cose che nel fumetto non c'erano, e ci fanno capire che Kechiche aveva altri fantasmi in testa mentre lo sfogliava. La lotta di classe, ma chiamiamola pure invidia di classe. In ogni caso, nel momento cruciale la ragazza borghese cita Sartre, e la ragazza prolet dice che è più o meno la stessa cosa di Bob Marley. Ora, io nei primi Novanta andavo a un liceo, e un dialogo del genere l'ho trovato assolutamente credibile. Parlavamo così, eravamo buffi, ma non ridicoli. Leggevamo roba importante per darci un tono (ma poi magari ci piaceva davvero e ci aiutava a capire cose di noi stessi che oggi non avremmo il coraggio di affrontare; abbiamo fatto bene a leggerla allora, quando insieme a tanta spocchia avevamo ancora qualche cellula attiva). E poi ascoltavamo le cose che ascoltavano tutti: Bob Marley. Infine mescolavamo tutto assieme, e quel mix apparentemente imbevibile era effettivamente la nostra vita. Col senno dei poi, Bob Marley non è assolutamente Jean-Paul Sartre, ma L'esistenzialismo e l'umanesimo non scava necessariamente più a fondo di Rastaman Vibration. Ed è assolutamente pacifico che nella civiltà liceale francese Sartre e Camus siano rimaste due rockstar culturali: se n'era accorto già Boris Vian, per cui vedi anche il film di Gondry tratto dalla Schiuma dei giorni. Ci può sembrare inverosimile, eppure io mi ricordo un ragazzino che si lesse tutto il Mito di Sisifo in quarta liceo perché la prof di francese - la più antipatica prof mai conosciuta - glielo aveva messo davanti al naso, invece di qualsiasi altra cazzata ci si possa leggere a 16 anni. E in effetti, guarda un po', non l'ho più riletto da allora e non credo mi piacerebbe, ma temo proprio che quel libro sia il mio destino. Comincia con un l'unico dilemma filosofico veramente importante (ci suicidiamo o no?) e non contiene una risposta proprio chiarissima.

Tornando al film: è vero, non si vede un cellulare, un computer o Facebook... perché la storia è ambientata negli anni Novanta, quando i device esistevano ma erano meno pervasivi; la cosa diventa evidente in uno dei momenti più toccanti del film, quando tornando a casa dal suo primo appuntamento Adèle si sente dire che "ha chiamato una tua amica, Emma si chiama": quel caratteristico tuffo al cuore negli anni Novanta lo abbiamo sentito tutti. Magari i ragazzi negli anni Zero ne hanno provati di simili leggendo nomi sui display. Ci si potrebbe anche lamentare di come Kechiche non abbia voluto o non sia riuscito a periodizzare la storia, assorbito com'era dalla necessità di stringere su Adele. Io, parlo per me, sono così stuccato dalla mania del vintage nei film, dalla precisione filologica con cui un film di metà anni Settanta conterrà sempre esattamente i costumi e i caroselli di quell'anno, che di sicuro non mi vado a lamentare per una volta che c'è un regista che se ne fotte. Comunque gli anni Novanta spiegano anche i capelli turchini: non era poi così raro trovare chiome azzurre o fuxia o giallo evidenziatore, specie nel parcheggio del liceo d'arte. È successo. Tutta colpa di Bilal, forse. È una delle poche cose che appena un po' mi manca.

Né Emma né Adèle sono bellissime. In particolare Emma potrebbe essere più bella di così. È l'occhio del regista che le trasfigura, secondo me. Da un certo punto in poi è evidente la presenza di un Dio dall'altra parte della macchina da presa, un Dio geloso (ed eterosessuale) che magnifica Adèle e s'ingegna a rendere Emma più antipatica di quanto non sia. Emma non diventa artista di grido: sta appena cominciando a esporre davvero quando finisce il film. Ma era necessario che facesse carriera, perché Kechiche la voleva borghese e questo è quello che i borghesi fanno: nascono ribelli, mordono il freno, poi trovano il passo giusto e hop! si sistemano. Mentre Adèle non ci riesce. Ed è il motivo in cui si mollano (secondo Kechiche): si piacciono tantissimo, ma sono di due caste diverse. Adèle capisce l'arte ma non capisce la carriera; per un po' prova a fare la donna di casa ma Emma in quel ruolo non la sopporta; vorrebbe che Adèle avesse la stessa ansia di autoaffermazione individuale, che tirasse fuori da qualche cassetto un diario geniale, e invece no. Adèle vuole cucinare per la sua donna e insegnare nella scuola dell'obbligo, perché sente che la scuola dell'obbligo le ha dato tanto e si ritiene obbligata a restituire qualcosa. È il senso di un altro bellissimo film di qualche anno fa, Stella: l'autobiografia di una ragazzina che vive letteralmente in un bistrot, un'osteria, circondata dall'affetto degli alcolisti del quartiere. Non scommetteremmo un eurocent sul suo destino, ma le capita una cosa curiosa: per sorteggio viene mandata in una bella scuola media di un altro quartiere. Lì scopre che studiare le piace - le piace anche giocare a biliardino con gli ubriaconi, però ci sono scuole in alcuni quartieri che funzionano: prendono gente che in casa ha fusti di birra al posto dei libri e la mettono davanti ai libri, ai film, alla musica. La ragazza cresce e appena può fa un film su quanto sia bella la scuola media francese. È il suo modo di restituire il favore.

Altri si accontentano di mettersi a insegnare. Hanno avuto buoni maestri e vorrebbero restituire quello che hanno ricevuto. Non è il mondo delle favole. Era la motivazione che ha portato a insegnare tanta gente anche noi, almeno fino a una generazione fa. Poi non è che sia successo chissaché: è solo che non è stato più immesso in ruolo quasi nessuno. Adele insegna ai bambini ed è felice della sua condizione di insegnante perché in effetti insegnare ai bambini, in scuole pulite e ben tenute, con colleghi giovani come lei, è una cosa stimolante. Faticosa, ma stimolante. Crescendo negli ultimi vent'anni in Italia siamo magari portati a pensare che l'insegnante medio sia una cinquantenne acciaccata, distrutta dalla fatica di far convivere famiglia e lezioni: basterebbe calare un po' la media, e prevedere soluzioni di praticantato come quelle della neodiplomata Adèle, per cambiare un po' il paesaggio e l'umore complessivo (anche la cinquantenne si sente meno acciaccata se trova più giovani in sala insegnanti, e magari invece di tumori e badanti si discutesse anche di dove andare a ballare tutti assieme).

È vero che sembra tutto straordinariamente civile e garbato, ma in realtà a ben pensarci non lo è: cacciare una ragazzina di casa di notte, a Lille, senza neanche chiamarle un taxi, è roba da galera, tanto più che Kechiche ci ha da un pezzo insufflato il sospetto che l'arrivista Emma stia soltanto aspettando un pretesto per sganciare la sua toy-girl di periferia. Se tutti ci sembrano civili e garbati è soltanto perché ci è inevitabile confrontarli con immaginari omologhi italiani, e purtroppo, non solo per colpa di Muccino, ci vengono in mente soltanto attori costretti a urlare come ossessi T'HO VISTO CHE LO BACIAVI T'AMMAZZZOOOOO!!!! T'AMMAZZOOOO!!! anche se poi alla fine la Mezzogiorno non solo non lo ammazzava, Accorsi, ma se lo riprendeva pure in casa (i francesi in effetti non è che siano meno stronzi di noi, anzi; sono soltanto più educati). Non manca la tragedia, anzi. Non mancano le lacrime. Non mancano le liti furibonde. Non manca nemmeno la rissa di comari nel parcheggio del liceo. L'unica cosa che manca è il melodramma. Le basi musicali strappalacrime e le urla scomposte. Si può raccontare la fine di un amore anche senza, e commuove lo stesso. Io addirittura mi commuovo di più, ma forse ho qualche gene normanno.

Parte della mia commozione deriva anche dal fatto che so che tutta questa non è una favola, ma un Paese che esiste a poche ore di treno da qui, la Francia. E che tutto questo sarebbe potuto succedere anche qui. Bastava un nonnulla, forse, una farfalla in Brasile, un vulcano indonesiano che non erutta proprio l'anno di Waterloo, offuscando parzialmente l'atmosfera e creando le premesse per un anno senza estate in cui i cannoni di Napoleone si infangarono e non poterono spedire al creatore quei diecimila fantaccini tedesco-russo-inglesi, il sacrificio necessario a vivere in un Paese con scuole decenti, e dove ci sono i bulli di periferia esattamente come da noi; però se li incontri sull'autobus ti dicono bonjour e se ti conoscono appena un po' ti stringono la mano, perché anche un bullo di periferia è comunque un essere umano e non un animale. Maledetto vulcano indonesiano. Ma non è vero. Non è colpa sua.

È colpa nostra. Dipende da noi. Non dico che basterebbe poco, ma se ci mettessimo tutti d'accordo potremmo fare di questo posto una Francia in una generazione. Servirebbe qualche soldo in più alle scuole, senz'altro. Cambiare qualche programma, pensionare qualche venerato maestro che ritiene che "il latino apra la mente" e balle del genere.

Più in profondo, dovremmo smettere di pensare che è impossibile: che le ragazze di periferia non si possono affezionare a romanzi settecenteschi o saggi di filosofia; che non si possa diventare maestri perché dopotutto è un bel mestiere; che non ci si possa lasciare senza far piazzate. Non è affatto impossibile, visto che funziona appena a qualche centinaio di chilometri da qui. Funziona.

Ed è tutto fuorché un mondo perfetto. Senza tanto parlare di mafia o di camorra, si ammazza e si delinque più o meno come da noi. E un cuore spezzato a vent'anni fa comunque male: aver letto Sartre o Marivaux non previene la cosa. Io ho il sospetto che un po' la possa alleviare, ma non sono sicuro; del resto che ne so, mi piaceva Pascoli.
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L'amore non è mai stato così blu

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La vita di Adele (Abdellatif Kechiche, 2013; palma d'oro a Cannes).


Un giorno Zeus ed Era stavano litigando su chi traesse più piacere dall'atto sessuale, se l'uomo e la donna, quando ebbero un'idea: chiediamo a Tiresia, è l'unico che possa sapere come stanno le cose davvero, per via dei suoi trascorsi transessuali. Quando uccise una serpentella che copulava col suo partner, lo punimmo rinchiudendolo per sette anni in un corpo femminile: lui lo saprà chi dei due gode di più. E dicci quindi, Tiresia, quale orgasmo hai preferito?

Tiresia non usò mezzi termini: nove decimi dell'orgasmo spettano alla donna, punto. Maledetto Tiresia, hai svelato il nostro segreto! disse Era, e per punizione lo accecò. Così almeno non avrebbe fatto il regista. La vita di Adèle è il terzo film a tema lesbico che guardo in un mese (e non mi sto annoiando). Di tutti è il più sfacciato. Kechiche si è accomodato nell'esile storia a fumetti di Julie Maroh svuotandola dall'interno, suggendola come un'ostrica, senza fingere nessun rispetto per tematiche e personaggi. A capirlo bastano le primissime scene: siamo in un liceo, ragazzi e ragazze ripassano un romanzo di Marivaux che col fumetto non c'entra assolutamente nulla. Ma Kechiche ha già provato con la Schivata a sovrapporre la retorica fiorita del drammaturgo settecentesco francese ai silenzi impacciati dei liceali di banlieue. Marivaux ha scritto il Paesan rifatto, ha composto commedie in cui i servi fingono d'essere i padroni e viceversa; Marivaux racconta di oneste fanciulle di campagna che finiscono in città, abbandonate agli azzardi del caso e dell'amore. Kechiche è un cinquantenne etero il cui amore per la cultura francese è pari soltanto alla sua diffidenza per la spocchia degli ambienti culturali francesi. La fatica di crescere lesbiche nella Lille degli anni Novanta non è che gli interessi più di tanto, e non finge nemmeno d'interessarsene, questo è in fondo apprezzabile: Kechiche lo sa di essere un intruso in una storia che non lo riguarda, e gli piace. Per girare tre o quattro scene di sesso Kechiche reclude per settimane sul set due giovani attrici che all'inizio nemmeno si conoscono, e pretende che si masturbino a comando. La più grandicella è erede di due dinastie di produttori cinematografici francesi. Kechiche è un regista di origine tunisina che si è fatto da solo, e ora sul set ha il corpo di Léa Seydoux a sua disposizione. Se conosci tutti questi dettagli, quando vai a vedere la Vita di Adele hai paura che non riuscirai a seguire la storia, che vedrai il riflesso del rancoroso paesan rifatto Kechiche in ogni occhio lucido d'attrice. Poi si spengono le luci, e scopri che c'è ben altro.

E però se davvero si è letto tutta La vie de Marianne per te,
a prescindere dalla scelta di genere, tu un po' gliela dovresti dare.
C'è che a un certo punto della lavorazione - molto presto - Kechiche deve essersi innamorato della 19enne Adèle Exarchopoulos. Ma parecchio. Una di quelle scuffie totali, che quando vai al liceo hai paura di morire per davvero, e poi per fortuna o disgrazia cresci. Un amore platonico nei limiti in cui può essere platonico il tizio che per mestiere ti ordina di leccare la tua collega su un set. Una passione senza vergogna, questa è la vita di Adèle: un film dove un regista ci mostra due ore e mezza di primi piani di una ragazza e non se ne vergogna. E poi sì, è complicato scoprire di essere lesbiche al liceo, ma... diomio avete visto com'è bella quando sorride? Adesso ve la rimostro. E la famiglia, eh, è un vero problema fare outing in famiglia, perché... ma che mi frega della famiglia, leggetevi il fumetto se vi frega di queste cose, ma guardate quand'è bella quando fa le facce stanche, è stanca perché le faccio rifare le stesse scene per ore e ore, il sindacato degli operatori è incazzatissimo e forse il film non uscirà mai, ma chissenefrega, io amo Adèle Exarchopoulos e credo dobbiate amarla anche voi: etero, gay, uomini, donne, sedetevi in poltrona e assistete all'abbacinante spettacolo di Adèle Exarchopoulos. Ve la faccio vedere che posa nuda. Ve la faccio vedere che fa sesso gay ed etero, il suo personaggio poi sostiene che l'etero le piace meno, ma a voi piacerà. Ve la faccio vedere tirata e nervosa per la festa col terrazzino degli amici intellos della sua fidanzata, gente che fa discorsi cioè troppo colti ("Schiele è morboso preferisco Klimt" "No vaffanculo Klimt è decorativo", e questa è gente che ha fatto l'Accademia di Beaux-Arts, Adèle si sente a disagio perché sa solo Marivaux a memoria). Ve la faccio vedere quando fa la maestra d'asilo, e adesso tenetevi forte, a un certo punto passa in prima elementare e per dettare alla lavagna si mette gli o c c h i a l i , ooooooooh, Adèle, ma sei proprio sicura della tua scelta di genere? Sicura sicura? Non è che semplicemente non hai ancora trovato quello giusto, che ne so, un magrebino che ti faccia ridere?

Il film che ridefinisce il concetto di "ripetizioni di filosofia"
Le lesbiche si sono incazzate? Le lesbiche avrebbero qualche diritto di essere incazzate, questa all'inizio era una storia militante. Julie Maroh ha iniziato a disegnarla a diciannove anni, con tutta l'intensità e l'ingenuità che ci si può mettere a 19 anni. La tragica educazione sentimentale gay è stata completamente colonizzata da un franco-tunisino di successo che continua a sentirsi a disagio quando va ai cocktail. Il deragliamento è così completo che alla fine è spettacolare in quanto tale: non andate a vedere La vita di Adèle per ricavarne informazioni sulla vita o sull'amore delle lesbiche, perché probabilmente esse non vivono né si amano come nel film. Andate a vederlo se vi va di innamorarvi di nuovo della ragazzina nell'ultimo banco in fondo, quella che non avete notato per tre anni e poi improvvisamente esiste solo lei. Andateci per sentire il sale delle sue lacrime su vecchie cicatrici dimenticate. Andateci per passare l'ultima mezz'ora a dirle Adèle, non far cazzate, non sarai mica scema come la protagonista del fumetto? Tu sei in carne e ossa, Adèle, all'amore si sopravvive. Per fortuna, o per disgrazia. La vita di Adele è al Fiamma di Cuneo alle 21. Dura tre ore; è vietato ai minori di 14 anni.
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La schiuma dei giorni difficili

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Mood indigo - La schiuma dei giorni (L'Écume des jours, Michel Gondry, 2013).

Colin vive felice in un mondo assurdo, dove le scarpe abbaiano, il jazz ti allunga le gambe e l'esistenzialismo si assume in pasticche. In questo mondo decide di innamorarsi, cioè di crescere lavorare e soffrire. Colin è un'invenzione di Boris Vian, incredibile trombettista e scrittore che morì nemmeno a quarant'anni, in un cinema, mentre assisteva alla prima di un film tratto da un altro suo romanzo.

Sta terminando la stesura del quindicesimo volume dell'Enciclopedia della Nausea, o una cosa del genere.
Boris Vian ha vissuto poco e faticosamente; in quel poco ha scritto parecchio - tra cui una manciata di canzoni meravigliose - e non si esagera a definirlo un cardine della cultura francese del XX secolo: ha radici solidissime piantate in territori diversi, il surrealismo e lo swing, frequenta Sartre e Camus in quel breve ma cruciale periodo in cui l'esistenzialismo è un fenomeno di costume. Con lui arrivano a Parigi il bebop, la narrativa pulp e la fantascienza; senza di lui inoltre Gainsbourg non avrebbe mai pensato di scrivere canzoni a partire da sciocchi giochi di parole, e quindi insomma il pop francese sarebbe totalmente diverso da quel che è. Anche Gondry sarebbe diverso, forse non avrebbe mai girato l'Arte dei sogni. Insomma La schiuma dei giorni era un film che sulla carta aveva tutto per funzionare, e in effetti, a modo suo, funziona: e se vi sembra invece che qualcosa non vada, se vedete che qualcuno comincia a uscire dalla sala, e anche a voi vien voglia di farvi un giro e risparmiarvi il finale, vi invito a considerare l'ipotesi che il problema non sia Gondry. D'accordo, questo è il film in cui spalanca la sua valigia dei trucchi, mostrandocene il fondo; non è che siano pochi, ma dopo un po' sono sempre gli stessi: ancora art-attak a passo uno, ancora trovarobato vintage, ancora lana dove dovrebbe esserci carne. D'accordo, certe scene sembrano semplicemente non funzionare, soprattutto all'inizio si percepisce una concitazione che serve a distrarre lo spettatore quando il trucco non è troppo buono; la stanza che diventa sferica non sembra davvero sferica, il picnic tra pioggia e sole lascia perplessi, d'accordo, l'illusionista non era in giornata, però non è quello che vi fa sentire freddi. Ve lo ricordate il libro? Quand'è che l'avete, ehm, riletto? (continua su +eventi!)

Non è una domanda peregrina. Non mi ricordo più chi consigliava di leggerlo almeno tre volte nella vita: a vent’anni per innamorarsi, a quaranta per scoprirne il contenuto politico, a sessanta per capire la disperazione. Chiunque sia stato a darmi questo consiglio, vorrei ringraziarlo per avermi fatto sentire sessantenne a venti: per me La schiuma è sempre stato un libro disperato sulla malattia e la morte; non sono mai riuscito a trovarci né molta politica né molto amore. Quest’ultimo in particolare mi è sempre sembrato un pretesto: i personaggi di Vian sono automi caricati a molla che si innamorano perché decidono di innamorarsi, del primo automa che trovano a una festa; dopodiché i giochi sono fatti e la pista porta dritta dalla città danzante a un paludoso cimitero. Gondry non li rende più automatici di quanto non fossero già, anzi in certi casi riesce ad aggiungere brio dove Vian non aveva avuto voglia o tempo o necessità di mettercene. Se qualcosa è stato tradito, forse è quel cinismo che traspare sempre dietro le sue invenzioni stralunate: apro il libro a caso, trovo un colloquio di lavoro. È per pagare le cure a mia moglie, spiega Collin.

“Mi dispiace per lei. Quando le donne si ammalano, non sono più buone a nulla”.


Dove l’avete già vista? Un indizio che non vi piacerà: FABIO VOLO.

E non è uno scherzo. È la Schiuma dei giorni, un romanzo di automi che dicono troppo spesso la verità. Lo sceneggiatore ha fatto un lavoro egregio, ma se ha voluto perdere qualcosa, è stato precisamente questo stile tranchant che ci avrebbe reso ancora più freddi davanti allo schermo. E non ne avevamo bisogno. Non riusciamo a simpatizzare con Collin, non riusciamo a soffrire con Chloé, a dispetto dei mille trucchetti imprevedibili che Gondry snocciola senza entusiasmo, ci rendiamo conto che la storia è molto prevedibile e finirà male. E forse è esattamente quello che Vian voleva che provassimo: disagio e disperazione. Forse era prevista persino la curiosa simpatia che proviamo per i due personaggi secondari, meno perfetti e quindi più umani: Chick, l’amico di Collin che si droga di conferenze di Sartre, e Alise soprattutto, la splendida Aïssa Maïga, che deve rappresentare il rimpianto per tutte le vite che non abbiamo vissuto, tutte le avventure a cui ci siamo presentati in ritardo. “Se stavolta arriviamo primi noi cambieremo la storia! Diventerà il nostro romanzo”. Ma la storia è già stata scritta, è già diventata un feticcio culturale (dopo la morte dell’autore, come al solito), e i personaggi non possono farci più niente.

Anche Gondry non poteva farci niente. Di suo ci ha messo una curiosa cornice – una catena di montaggio di dattilografi – che ci autorizza ad accostarlo all’altra importante trasposizione cinematografica di quest’anno, Il grande Gatsby di Luhrmann. Due testi brevi e ingombranti, due registi che non si lasciano intimidire e si prendono un sacco di rischi, ma continuando a rivendicare una fedeltà al testo quasi maniacale e molto artificiale. Entrambi cominciano in quinta e dopo un’ora sembrano senza benzina: cosa c’è che non va? Forse quello che non va siamo noi spettatori cosiddetti colti, con pretese precise, idee molto chiare su cosa vorremmo vedere, salvo poi annoiarci perché dopo i fuochi artificiali il film va esattamente dov’è previsto che vada. Ed entrambi i registi aggiungono alla storia originale soltanto una cornice che esibisce la composizione del romanzo (i flash forward farlocchi in cui il protagonista “diventa” Scott Fitzgerald e si mette a scrivere Il grande Gatsby), puntando il dito su quella cosa che non so se chiamino ancora “letterarietà”… ma in parole povere è come se Gondry e Luhrmann sentissero la necessità di dirci ehi, non prendetevela con noi, è un libro, ricordate? Nel libro le cose vanno così, non ci possiamo fare niente se dopo un po’ vi annoiate. Una volta pensavo che i libri andassero sempre letti prima dei film; adesso mi piacerebbe brevettare una pillola per scordarmeli all’istante quando entro in sala. Mi domando a quel punto come avrei reagito a Mood Indigo, forse come uno di quelli che ieri sera si alzavano e se ne andavano via, che razza di film assurdo. La cornicetta letteraria supplisce anche alla carenza di finali lieti e rassicuranti: certo, le due storie finiscono male, però… qualcun altro sopravvive e le scrive, e questo dovrebbe consolarci. Funziona? Insomma, se uno si dimentica che entrambi gli scrittori sono morti in miseria, e che tutto il successo postumo è in un qualche modo indesiderato, ingiusto, un equivoco…

Ma forse il problema è ancora a monte. Non riesco più a emozionarmi, non riesco più a innamorarmi, non ho più tempo, la maggior parte lo passo a spazzar polvere e ragnatele, ne crescono di fittissime in poche ore, e i vetri, i vetri sono così schifosi a vedersi, quasi mi consola indovinare che tra un po’ si chiuderanno del tutto.

(Oppure potrebbe trattarsi di Audrey Tatou, una scelta sbagliata, secondo me. Se mai riuscirà a liberarsi da Amélie, non è certo con un film surreale come questo. Rischia di sembrare un sequel, Il fantastico mondo 2 – L’Agonia, ecco, e Gondry non è Jeunet. Ha una valigia più piccola, mi dispiace).

La schiuma dei giorni è comunque un film che va a visto al cinema Fiamma di Cuneo, tutti i giorni alle 21, tranne sabato alle 20 e alle 22:40, e la domenica pomeriggio alle 15:10 e alle 18, senza intristirsi troppo, non siete mica obbligati a innamorarvi ammalarvi e morire.
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Tu sei il male, io sono il Curato

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La cosa fantastica è che un po' a Voltaire ci somiglia.
4 agosto - San Jean-Marie Vianney (1786-1859), patrono dei parroci ma non dei sacerdoti, perché? È GIALLO.

La notizia girava da quasi un anno. Lo sapevano tutti, lo davano per scontato. Venerdì 11 giugno 2010 San Giovanni Maria Vianney, già patrono dei parroci di tutto il mondo, sarebbe stato promosso a patrono dei sacerdoti di tutto il mondo (i parroci sono sacerdoti titolari di una parrocchia, perciò non tutti i sacerdoti sono anche parroci). Lo avevano scritto su Avvenire e sull'Osservatore Romano. Di più. Avevano già steso il suo arazzo da una balaustra della facciata della basilica di San Pietro, un onore che ti fanno soltanto quando ti beatificano, ti canonizzano o ti concedono un nuovo patronato, come appunto in questo caso. Insomma, era ufficiale.

E invece no. Due giorni prima la prevista proclamazione, un sobrio comunicato informò che non se ne faceva niente. L'arazzo restò lì a sventolare, la beffa unita al danno, e i vaticanisti ad arrovellarsi: perché? Cosa aveva fatto di male il povero Jean-Marie, per subire uno smacco del genere? Nulla di nuovo, avendo lasciato il mondo un secolo e mezzo prima. Forse qualcosa, un particolare fino a quel momento inosservato era diventato importante all'ultimo minuto? Buon Dio, e cosa? Non era "abbastanza abbastanza rappresentativo del sacerdozio del XXI secolo, né abbastanza universale", scrissero. Non rifletteva "completamente la figura del prete di oggi, all'epoca della comunicazione". Se ne erano accorti solo 48 ore prima?

In effetti Jean-Marie non è proprio quel tipo di parroco che oggi mettono nelle pubblicità dell'otto per mille. Da laici poi è molto difficile accostarsi alla sua storia senza fare quella tipica smorfia, avete presente - il sorrisetto à la Voltaire che Voltaire magari poteva permettersi, noi no. Gli agiografi ufficiali ci mettono del loro, sembrano che ci tengano particolarmente a tratteggiare una figura di prete ignorante e oscurantista, e perché no, fanatico e allucinato. Tutta questa insistenza sulla carriera scolastica, per esempio. Non c'è una biografia di Jean-Marie che non sottolinei e dettagli la sua inettitudine agli studi, la sua profonda incompatibilità col latino; eppure alla fine in un qualche modo una sufficienza la strappò a tutti i suoi esaminatori, il suo livello di capraggine potrebbe non essere molto inferiore a quello di un classico liceale classico diplomatosi per il rotto della cuffia. A catechizzare i fanciulli viceversa pare fosse molto bravo, ed era un buon predicatore, uso a mandare a mente le omelie; insomma qualche virtù intellettuale doveva pure averla, però i suoi veneratori ci tengono a dipingerlo come la capra più capra che ci fosse in circolazione. Dietro c'è tutta una polemica con l'illuminismo e con la Rivoluzione: Jean-Marie era cresciuto negli anni in cui i preti francesi che rifiutavano di giurare fedeltà alla République rischiavano la ghigliottina celebrando la messa nascosti nei fienili.

Dopo un lungo, lunghissimo percorso scolastico, finalmente Jean-Marie ottenne una minuscola parrocchia (200 anime), e la trasformò. Fece chiudere le taverne e proibire i balli. Messa giù così, suona veramente male. Se fossi io il PR di Jean-Marie, l'articolerei in questi termini: "lottò vittoriosamente, con le uniche armi della parola e dell'esempio, contro la piaga dell'alcolismo che dilagava in quella piccola comunità agraria". E con le taverne siamo a posto.

Coi balli, davvero, coi balli non saprei che dire. Jean-Marie ma che male ti facevano questi contadini ottocenteschi, se per la mietitura gli veniva voglia di divertirsi e sgambare un po'? Vediamo cosa ne dicono su wikipedia...
 Il fatto era che, all'epoca, il ballo non era certo un divertimento innocuo e innocente ma una vera e propria piaga...
Eh?
...una specie di ebbrezza e furore"[84] la definirono alcuni, che spesso conduceva a disordini descritti come "vergognosi" dai contemporanei. Anche qui la sua azione pastorale non fu riservata soltanto al pulpito ma si tradusse in azioni concrete. Il più delle volte fu costretto a pagare il doppio di quanto stabilito ai suonatori itineranti perché smettessero di incitare la gente a questa frenetica usanza[85].
Vabbe', ma che tattica è, come pagare gli spacciatori il doppio perché cambino il quartiere, peggio che nascondere la polvere sotto il tappeto...
Per educare le giovani e le fanciulle, spesso vittime d'abusi durante le frenesie del ballo, il curato mise un'estrema cura nella formazione dei genitori[86], non solo delle ragazze che spesso, venute a confessarsi, non ricevevano l'assoluzione finché non avessero deciso di abbandonare quel pericoloso divertimento[87].
Io lo giuro non lo sapevo che i balli ottocenteschi fossero così frenetici; dai romanzi perlomeno non risulta. Gli è che i romanzieri parlano sempre e solo delle città, maledetto Flaubert, quattrocento pagine di I Love Shopping Con La Moglie Del Dottore e nel frattempo in campagna facevano le orge musicali e non te ne sei accorto, non ci hai scritto niente.
Si giunse perfino a una lotta giudiziaria: nel 1830 un decreto del sindaco, Antonio Mandy, aboliva i balli pubblici scatenando così la riprovazioni degli organizzatori delle feste locali e di alcuni ragazzi che chiesero al sottoprefetto di Trevoux di abrogare la decisione del sindaco. Cosa che ottennero, ma senza risultato[88]: le giovani avevano infatti preferito recarsi in parrocchia per la messa domenicale, non lasciando così altra scelta ai festaioli che di disperdersi. Senza più ragazze con cui ballare la gioventù maschile di Ars fu costretta a dividersi: chi accolse le parole del curato e chi invece preferì trasferirsi nei paesi vicini.
Ok, ci rinuncio, sei indifendibile Jean-Marie. Anche se. (Continua sul Post...)
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Però Giovanna io me la ricordo

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Spiacente Milla, mi spiace Ingrid,
Jean Seberg è più Giovanna di tutte.
30 maggio - Santa Giovanna D'Arco (1412-1431). Era bellissima.

Santa Giovanna mi trova sempre nel momento peggiore - scadenze e pendenze d'ogni tipo, scrutini, rovesci temporaleschi, astratti furori che rubano sonno ed energia. Si arriva a fine anno scolastico sopravvivendo a tutti i buoni propositi caricati a settembre, e seppelliti uno alla volta lungo il sentiero verso il maggio atroce, il giugno torrido. Si parte giovani e pieni di voglia di cambiare il mondo e si arriva stanchi, sfibrati, senza prospettive, come doveva trovarsi il Bastardo d'Orléans nel 1429, mentre difendeva Orléans. Tutti i sogni cavallereschi di gioventù seppelliti in quel disastro che era stato la battaglia delle aringhe. Ormai la guerra, se non già perduta, era comunque un mestiere come un altro (con altissime possibilità di infortuni sul lavoro). Il Bastardo, che a dispetto del soprannome era un nobile di primo rango, l'unico Orléans rimasto in campo, tirava avanti perché aveva due riscatti da pagare, i fratellastri prigionieri degli inglesi. Ci mise 25 anni a saldarli, peggio di un mutuo sulla casa. Niente gloria in vista, le prospettive oscillavano tra la resa disonorevole e gli orrori di un assedio a oltranza, crepare di fame e peste mentre il tuo popolo ti maledice. Le provviste in città erano già razionate, il re Carlo lontano e pavido. Talmente pavido che non era nemmeno in senso stretto un re: non aveva le palle per sfidare gli inglesi mettendosi una corona in testa. E poi che altro? Niente, sta arrivando in città una matta, una contadina che parla con gli angeli, ha appena imparato a cavalcare e dice che la guerra la vincerà lei. Ma pure i matti, putain, non bastavano le epidemie? Ma quando finisce 'sto medioevo che ne ho piene le palle.

Finché non arriva Giovanna: ed è bellissima.


No, non abbiamo ritratti. Ma che fosse bella è chiaro. Puoi parlare anche con Michele Arcangelo, vederti ogni sera con Domineddio, ma se non sei un po' carina non ti segue nessuno: figurati gli eserciti della Francia intera. Doveva essere bella di una bellezza scostante, hai presente quelle ragazze talmente fuori standard che nessuno ci prova veramente: così come non ci provarono realmente i cavalieri che la stavano accompagnando, e che testimoniarono sulla sua correttezza al di sopra di ogni sospetto. Questa spaventevole bellezza, Giovanna doveva portarla con molta disinvoltura: in poche settimane aveva imparato a cavalcare, mentre teneva testa ai nobili della corte di Chinon e ai dotti di Potiers. Per esigenze di cavalcatura si era adattata a mettere i pantaloni, cosa mai vista se non in qualche bordello assai raffinato, di cui lei nella sua incontestabile innocenza nulla poteva sospettare. E poi che altro?

E poi era simpatica. Anche su questo, tutti concordano. Pronta al riso e alla battuta, di fronte a qualsiasi autorità. A Potiers un erudito, fra Seguin - immaginatevi un accademico davanti a una contadina che sostiene di parlare gli angeli, immaginatevelo - le aveva chiesto che lingua parlassero, questi angeli. Glielo aveva chiesto con uno spiccato accento limosino (Limoges è un po' la Campobasso della Francia meridionale, per capirci).

"Migliore della vostra".

E fu amore a prima battuta, anche per il professorone. Seguin avallò il parere della commissione, che considerava Giovanna utile alla causa regia, e anche ad anni di distanza non smise mai di parlarne e di scriverne tutto il bene che poteva scrivere il futuro ultrasettantenne decano della facoltà di Poitiers. Giovanna era incantevole, nell'autentico senso. Piacque a tutti quelli che ebbero l'opportunità di conoscerla un poco. Durò poco (e lo sapeva), ma finché durò i mercenari smisero di chiedere riscatti, i saccheggiatori di saccheggiare, i politici di mercanteggiare, i francesi di lamentarsi - riuscite a immaginarveli? Francesi che non si lamentano? Tutto dunque era possibile. Il Bastardo incontrò Giovanna, e all'improvviso non era più il mesto impresario di un teatrino al massacro. Era di nuovo un Capitano del Re; e anche il Re, quella mezzasega, se Giovanna insisteva una corona in testa poteva ben mettersela (continua sul Post...)
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La casa è un libro (senza librerie)

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Germaine da giovane scriveva. Ha anche pubblicato un romanzo, ma niente di che. Poi ha capito di essere un mediocre e adesso insegna letteratura in un liceo. Al pomeriggio corregge sul tavolo della cucina temi sempre più banali, ogni anno è peggio. Non ce n'è più uno che sappia scrivere qualcosa di interessante, e questi saranno la Francia di domani? Finché un giorno, dalla pila, non spunta un vero e proprio racconto incompiuto: è il compito di Claude. Come Angel, la protagonista di un altro vecchio film di Ozon, Claude è un talento naturale: non ha cultura, non se la può permettere, ma sa tener vivo l'interesse del suo unico lettore. Se Angel era ossessionata dall'eleganza dell'aristocrazia inglese, Claude è morbosamente attratto dal benessere borghese della famiglia di un suo compagno di classe. Germaine vorrebbe aiutarlo a sbocciare, ma non basta passargli qualche volume di Flaubert e abbozzare uno schemino narratologico alla lavagna: occorre alimentare la sua ossessione, far scoppiare i conflitti di cui ogni buona storia ha bisogno.

Un film francese lo riconosci ancora dalla quantità di libri che vedi inquadrati. La libreria di Germaine, ovviamente, occupa pareti intere. I libri sono merce di scambio, ostaggi, prigionieri, armi contundenti; sono i figli di chi figli non può averne, ce l'ha spiegato Truffaut. Eppure i libri sono in via d'estinzione; nella famiglia borghese adorata da Claude c'è giusto spazio per riviste d'arredamento. Ti domandi se un bel film come Dans la maison sarà comprensibile quando tutti leggeranno soltanto e-book... (continua su +eventi!) Ma i libri non sono la carta su cui sono scritti, né la nuvola su cui li archivieremo: i libri sono case che si aprono davanti a noi, grazie alle astuzie di uno scrittore che conosce il modo per farsi aprire tutte le porte. Finché avremo persone così candide e malvagie, avremo libri. Magari non avremo più né armadi né pareti, non importa. Ci basterà una panchina e non ci sentiremo né poveri né soli. Ozon riadatta il testo teatrale di Juan Mayorga (Il ragazzo dell’ultimo banco, pubblicato in Italia da Ubulibri), spostando l’azione in uno di quei classici licei francesi dove tutti si lamentano che l’Educazione non è più quella di una volta… e intanto l’insegnante medio italiano in sala sta piangendo in silenzio perché è tutto bellissimo, pulitissimo, sembrano sexy anche gli armadietti della sala insegnanti.

Non è la prima volta che il regista francese ci racconta una storia sul raccontare storie, ma il ritmo è più brioso del solito e ricorda in certi punti Woody Allen (esplicitamente citato), in particolare Pallottole su Broadway: anche qui la differenza tra chi sa scrivere una storia e chi sa solo criticarla ha a che vedere con il senso morale. Il vero narratore né è totalmente privo, è un gangster, un ladro di identità, un topo d’appartamenti che fruga tra le tue cose e vuole farsi tua madre. Verso la fine in realtà qualcosa si inceppa, ma è giusto così: è anche un film sulla difficoltà di finir bene una storia. Finalmente mi capita di vedere il simpaticissimo Fabrice Luchini in un film che mi piace. Il quasi esordiente Ernst Umhauer oscilla con disinvoltura dal candido al demoniaco. Emmanuelle Seigner è la milf che tiene vivo il nostro interesse di lettori e critici guardoni (se abbiamo altri interessi il narratore è anche disposto ad allestire sottotrame omoerotiche) ma anche Kristin Scott Thomas si difende bene, nel suo ruolo di moglie di Germaine e titolare di una fallimentare galleria d’arte – un’altra cosa che resterà di questo film sono le frecciate all’arte contemporanea, alla pessima letteratura dei cataloghi. È veramente un bel film. Non so se in Italia si facciano film così. Del resto non abbiamo neanche scuole così. Se volete ci possiamo mettere a piangere assieme, su questa panchina.
Andate a vedere Nella casa al cinema Fiamma di Cuneo, svelti, prima che lo tolgano. Comincia alle 21.
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L'estate che non c'è

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[Questo pezzo si legge completo qui].

11 novembre - San Martino da Tours (316-397), soldato, vescovo, fenomeno meteorologico

L'estate di San Martino dura tre giorni e pochino, e nessuno sa spiegarmi il perché. Pensavo si trattasse di un piccolo anticiclone stagionale, ma salta fuori che esiste in tutte le fasce temperate del mondo; addirittura anche in Australia, anche se là ovviamente arriva tra aprile e maggio. E quindi non la chiamano estate di San Martino ma, come un po' dovunque ormai, Indian Summer. L'estate indiana, già, ma di che indiani si parla?

È parere unanime che si tratti di nativi nordamericani. Il primo a segnalare l'espressione fu uno scrittore francese immigrato a New York, nel 1778; cinquant'anni più tardi, una colona anglo-canadese si burla della leggenda metropolitana per cui l'aumento effimero della temperatura sarebbe causato dai grandi falò rituali accesi dalle nazioni indiane. Già allora nessuno sapeva esattamente spiegare cosa ci fosse di indiano nella piccola estate che nella Madre Patria continuava a essere attribuita a San Martino. Forse era un periodo particolarmente indicato per per la raccolta di determinati frutti della terra, o per le razzie e il saccheggio. Oppure, semplicemente, l'aggettivo "indiano" veniva usato in senso dispregiativo, come sinonimo di "falso". Quest'ultima spiegazione, per quanto un po' razzista, risulta più semplice e risolverebbe anche la coincidenza per cui dall'altra parte del mondo, in Bulgaria, la stessa estate è chiamata "zingara". In molti altri Paesi slavi è "l'estate delle vecchie" o "delle donne" (in russo Babye Leto): anche in questo caso le interpretazioni si sprecano, le donne potrebbero essere le Norne della mitologia norrena, ma anche le madri di famiglia che in questo periodo dell'anno potevano rilassarsi un po'; ma alla fine anche in questo caso viene il sospetto che le "donne" siano l'"indiano" di turno, qualcuno a cui attribuire un fenomeno irrisorio, depotenziato. Un'estate di tre giorni, come dire un'estate da donne (continua sul Post...)
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Fa ch'io t'ami sempre +

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16 ottobre - Santa Marguerite-Marie Alacoque, veneratrice del Sacro Cuore di Gesù.

Nell'autunno del 1870 Parigi è assediata, la Francia è fottuta. Appena nominato comandante di una delle legioni di volontari formate nel tentativo, ormai disperato, di spezzare l'assedio prussiano, il colonnello Athanase de Charette riceve la visita di un Monsieur Dupont qualsiasi, che viene da Tours a portargli il dono più prezioso: uno stendardo con il Sacro Cuore di Gesù, recante il motto Cuore di Gesù, salvate la Francia. Era stato l'abate di Musy a concepirlo, e a farlo cucire dalle suore di Paray-le-Monial. In origine era previsto che Dupont lo portasse al comandante della piazza di Parigi, ma la città era ormai irraggiungibile. Mentre cercava un sistema per passare, Dupont incocciò nei volontari di de Charette, e l'incontro gli parve provvidenziale. Tra loro vi erano 300 zuavi che avevano appena difeso (male) Roma dall'attacco sabaudo: fuggiti dopo la breccia a Porta Pia, nel giro di un mese erano già sul fronte francoprussiano, pronti per una nuova sconfitta. Prima però accettarono di farsi consacrare al Sacro Cuore di Gesù, "l'unico vero re di Francia". La Francia per la verità era appena ridiventata una Repubblica (la terza), dopo la fuga di Napoleone III e l'ingloriosa fine dell'Impero (il secondo). Ma la situazione era un caos, a Parigi incubava lo spettro della prima rivoluzione comunista, che sarebbe scoppiata di lì a pochi mesi, tutt'intorno i prussiani dilagavano, e più indietro ancora i legionari accanto al tricolore sventolavano il Sacro Cuore. Di Gesù. Un muscolo cardiaco raffigurato solitamente con un certo realismo, avvolto in un rovo spinoso, e sormontato da una croce. Che razza di brand. Chi lo aveva inventato? (continua sul Post...)
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Sono tutti obbligati a tollerarci?

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Sono molto affezionato a Charlie Hebdo, un foglio satirico che forse mi ha insegnato più cose sulla Francia del serissimo Le Monde. Ammiro il coraggio dei suoi redattori, che a differenza di tanti anti-islamici da bar si sono sempre presi la responsabilità delle loro provocazioni, pagandone conseguenze molto concrete, quando un anno fa la loro sede andò a fuoco. E anche stavolta, come un anno fa, il loro Maometto mi ha fatto ridere.

Detto questo, vorrei cercare di spiegare perché ritengo che la scelta di Charlie Hebdo di continuare a pubblicare vignette sul profeta - per quanto legittima, e coraggiosa - sia inopportuna. Quando Charb, il direttore, ammonisce che  "Se si comincia a dire che non si può disegnare Maometto, in seguito non si potranno più disegnare i musulmani", indica un orizzonte che è semplicemente implausibile. Le manifestazioni di protesta inscenate nei giorni scorsi nei Paesi musulmani hanno coinvolto 'solo' alcune migliaia di persone: poche, confrontate con il miliardo di musulmani che ha semplicemente ignorato la cosa, e che in certi casi ha manifestato per motivi assai più seri - nel disinteresse dei nostri organi di stampa, che per un presidio anti-vignette si scomodano e per un corteo antigovernativo in Yemen no. In ogni caso, anche nei Paesi dove si è manifestato contro le satire maomettane, nessun governo ha appoggiato le proteste, e molti le hanno soffocate: in Pakistan la polizia ha sparato sui manifestanti e ne ha ucciso una decina o più. Se stavano protestando contro il nostro diritto occidentale di disegnare Maometto e burlarci di lui, possiamo dire che la polizia pakistana ha difeso il nostro diritto. Qualcuno ha voglia di festeggiare? (continua sull'Unita.it, H1t#145) (ora di là si commenta solo con facebook, o se preferite potete commentare qua).

Siamo liberi di disegnare qualsiasi cosa. Ma proprio questa libertà – teoricamente illimitata – mette in crisi una nozione fondamentale, senza la quale forse non riusciamo più a conoscere il mondo: il concetto di limite. Noi pretendiamo che non ci siano limiti alla nostra libertà: se qualcuno da qualche parte nel mondo non ci tollera, occorre costringerlo. Viceversa, noi non possiamo tollerare nessuna limitazione della nostra libertà. La satira deve ridere di tutto: se all’improvviso a quel “tutto” viene sottratta una sola unità (Maometto), il tutto frana all’improvviso e ci ritroviamo nella situazione opposta: non si può più raffigurare niente, non si può più ridere di niente.  Per Charb almeno le cose stanno così: si passa nel giro di una frase dal divieto di disegnare il profeta a quello di disegnare i suoi fedeli, “E poi non si potrà più disegnare cosa? I cani, i maiali? E poi? Gli esseri umani?” Eppure nessuno ha posto la questione in questi termini. Nessuno per ora ha proibito a nessuno di disegnare un musulmano, o un cane, o un maiale. Questa apocalisse della raffigurazione è l’angoscia che riempie il vuoto della nostra fantasia, che non sa più concepire un limite alla nostra libertà.
Torniamo a terra.  Nessuna libertà è illimitata. Ci sono sempre dei limiti storici e culturali, che ci sono imposti o che ci auto-imponiamo. Anche la televisione francese, una delle più libere del mondo, non trasmette film porno in chiaro. Magari in futuro succederà: ogni limite è tale perché è condiviso da una maggioranza che col tempo può dissolversi, o cambiare idea. Queste periodiche crisi delle vignette, che sarebbero ridicole se non facessero danni e morti, sono un banco di prova per l’umanità, che da qualche anno grazie a internet si ritrova a dover condividere una piazza comune, e ancora non sa bene come regolarsi. In una parte della piazza sono abituati a ridere di qualsiasi dio; in un’altra parte non la stanno prendendo bene, ma in ogni caso è chiaro che da qui in poi la piazza sarà una e una sola. Dovremo arrivare prima o poi a stabilire un minimo codice di comportamento. L’idea che va per la maggiore da noi è che tutti gli altri debbano tollerare la nostra libertà, anche a prezzo della loro vita. Mi dispiace, ma non mi sembra un’idea sostenibile.
Mi sembra più praticabile un sistema di tolleranze reciproche, in cui si accetta che ogni gruppo presente nella piazza abbia un margine di suscettibilità, un piccolo recinto sacro intorno ad alcune cose su cui sia inopportuno scherzare. Credo che sia anche l’unico sistema che ci tuteli, visto che in questa piazza non siamo la maggioranza – non lo siamo mai stati, e continuiamo a diminuire.http://leonardo.blogspot.com
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Il peggior scrittore del secolo

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e ADESSO chi è la più bella del reame, eh?
Come? Non ti sento bene, scusa.
[Versione aggiornata qui].

Non di questo, del secolo VI. Un secolo in cui probabilmente in Europa sapevano leggere in cinquecento e scrivere in quindici - comunque si aggiudica il trofeo San Gregorio da Tours, di cui si leggono mirabilie sul Post. Quella nell'immagine invece è una bis-bis-bis-nonna di Cenerentola, giuro.


17 novembre - San Gregorio di Tours (538-594).

Uno dei motivi per cui la gente guarda i talent show, secondo me, è che sono pieni di incapaci che fanno ridere, all'inizio; e in seguito di mediocri che possono sbagliare nota o figura da un momento all'altro. E a quel punto lo spettatore si sente come Nerone sul palco del Colosseo pronto a invertire il pollice e far entrare i leoni, no? No, esagero, tra l'altro ai suoi tempi il Colosseo non c'era, e comunque a Nerone non piacevano gli spettacoli sanguinosi. Forse i mediocri ci fanno stare bene perché sono gente come noi, sbagliano come noi, se diventano ministri fanno le stesse cazzate che faremmo noi, se non peggiori.

Ma c'è di più: a volte solo contemplando un mediocre noi riusciamo a farci un'idea della grandezza. Per esempio. Io la danza classica non sono mai riuscito a guardarla, alla prima ruota impeccabile sbadiglio, sono sempre tutte incommensurabilmente brave e mi annoio. Invece se guardo un'amica di Maria col collo del piede inadeguato riesco a capire le sue mancanze, le correggo con l'immaginazione e all'improvviso mi rendo conto della fatica, della grazia che deve metterci una ballerina vera; è come se la mediocrità mi aiutasse a misurare il valore di chi è bravo davvero, è come quando fotografi un piccione spennato in cima a un monumento e finalmente riesci a capire quanto il monumento è grosso. Dico tutto questo perché oggi è San Gregorio di Tours, che non è patrono di Tours (con San Martino non c'era gioco) e quindi non si sa esattamente di cosa sia patrono, e allora io avrei una proposta: nominiamolo patrono di tutti gli scrittori mediocri (sì, me compreso).

Gregorio in effetti è un po' l'amico di Maria della scrittura. Il mio Dizionario dei Santi (“Da Abacuc a Zosimo tutti i protagonisti della fede”) spiega che la sua Historia Francorum “non si può dire un'opera d'arte”, mirabile eufemismo per nascondere ai non esperti la terribile verità: Gregorio come scrittore è un disastro. Ma è uno di quei disastri molto interessanti da studiare, come il Big Bang. Non è che non sappia mettere la punteggiatura: ai suoi tempi nemmeno esisteva la punteggiatura, forse non costumava nemmeno più spaziare tra una parola e l'altra, siscrivevatuttoattaccatoperevitarecheilpenninofacesselagocciamacchiandolapergamena (con quel che costava, la pergamena: per qualche secolo si è andato avanti riciclando testi antichi, se volevi raccontare gli ultimi gossip sulla regina Cunegonda prendevi un rarissimo volume della Poetica di Aristotele, lo raschiavi, e iniziavi ascriverefittofittoqualsiasistoriellativenisseinmente). Niente punteggiatura, insomma, niente spazi: quindi diventano importantissimi i nessi logici, quelle paroline come “Perciò, Quindi, Infatti, Siccome”... ecco, quelle. Gregorio non sa bene come usarle, è come uno di quegli studenti che cominciano sempre con Infatti e con Perché ma non stanno spiegando niente, è solo un modo per prendere parola e iniziare a raccontare fattoidi senza continuità finché qualcuno spazientito non ti toglie il microfono.

Gregorio del resto non è che capisca il come e il perché, la sua Historia non è che un groviglio senza capo né coda di Merovingi che si accoppano e poi fanno la pace e poi si riaccoppano, con un vescovo (a volte Gregorio stesso) che ogni tanto ne prende due sottobraccio e dice “Va bene adesso basta ammazzarsi tra cugini di terzo grado, dite un Pater Ave Gloria e da qui in poi tutti amici, oc?” [Non è vero che si diceva “oc”, a Tours non si parlava la Langue-d'Oc, ma mi piaceva la scena di un vescovo che dice “Oc”]. E il bello è che nella pagina seguente i due sono davvero amiconi e fanno bisboccia insieme, poi quando è ora di pagare il conto uno dice Paga il mio amico che ha appena ereditato, è diventato ricco da quando ho fatto uno spiedo di tutti i suoi parenti, eh eh, Cramnesindo, dovresti solo ringraziarmi... e Cramnesindo a quel punto si adonta, gli taglia la testa e la infilza su un palo, ecco, questi erano i tempi di Gregorio di Tours (continua...)


Gallia, sesto secolo. L'Impero Romano è finito dai tempi dei nonni dei bisnonni, e al suo posto ci sono questi sovrani burgundi visigoti e merovingi che però non conoscono la differenza tra nazione e proprietà privata, sicché qualsiasi regno lo dividono tra numerosi figli maschi, i quali ovviamente non perdono tempo e cominciano ad ammazzarsi a volte quando il padre è ancora vivo, spalleggiati da mogli e concubine efferate: i confini cambiano continuamente, le nazioni hanno nomi stranissimi (Neustria, Austrasia), e in mezzo a tutto questo Gregorio cerca di fare l'uomo saggio, l'uomo di fede e soprattutto di lettere. La volontà non gli mancava, ma cominciava a scarseggiare il materiale, dico proprio le pergamene: in tutta la sua vita Gregorio si nutrirà soprattutto di cronache tardo-antiche, un po' di Eneide, poca patristica, Cicerone solo attraverso San Girolamo, le Scritture compreso qualche apocrifo, tutto lì. Per i tempi era comunque una biblioteca degnissima, che gli valse una fama di intellettuale, non del tutto immeritata, perché son tutti buoni oggi di fare i sapientini con google. Gregorio non aveva nemmeno a disposizione un vocabolario decente della lingua in cui cercava di scrivere (il latino).

Quanto alle fonti, è tutto un sentito-dire. Gregorio è contemporaneo di alcuni dei personaggi più incredibili della sua Historia; donne fatali e criminali, come Brunechilde e Fredegonda. Quest'ultima, nata schiava, seduce il re Chilperico e lo convince a ripudiare la prima moglie Audovera e a trovarsene una degna di lui. Chilperico obbedisce ma, come capita sovente ai Merovingi, fraintende e sposa Galsuinda, sorella di Brunechilde regina di Austrasia. Fredegonda abbozza ma appena Chilperico si stanca della sposa novella riesce a convincerlo a farla sgozzare: la cognata non apprezza, e da qui un'infinita guerra tra Austrasia e Neustria in cui inutilmente gli studiosi moderni cercherebbero quei moventi, quegli indicatori socio-economici per cui si fanno le guerre, perché ce la racconta Gregorio da Tours, e per Gregorio alla fine è tutto molto semplice: quelle due tipe, Fredegonda e Brunechilde, non si sopportavano, per trent'anni continuarono a scagliarsi contro re principi  e pretendenti come pezzi bianchi e neri sulla scacchiera.

Nel frattempo Fredegonda aveva anche il suo daffare ad eliminare i figliastri, avvelenandoli o facendoli sgozzare o screditandoli presso il marito. Persino i suoi figli naturali dovevano stare attenti alla testa, letteralmente. Alla vezzosa Rigonda promise di regalare ogni vestito e prezioso che sarebbe riuscita a trovare in un baule; ovviamente era solo un pretesto per chiuderle la testa nel baule stesso, ma le sue guardie sventarono il crimine e... e niente, il mattino dopo tutti a colazione come prima, che gente i Merovingi.

L'episodio è interessante perché riaffiora dieci secoli dopo nell'ultimo posto dove uno se lo potrebbe aspettare, e cioè nella fiaba di Zezolla, che è poi la versione napoletana di Cenerentola, narrata nel Cunto de li Cunti da Giambattista Basile. Qui in una versione italiana:
Ma [il padre di Zezolla], essendosi sposato da poco il padre e pigliata una focosa malvagia e indiavolata, questa maledetta femmina cominciò ad avere in disgusto la figliastra, facendole cere brusche, facce storte, occhiate accigliate da spaventarla, tanto che la povera ragazza si lamentava sempre con la maestra dei maltrattamenti che le faceva la matrigna, dicendole: "O dio, e non potessi essere tu la mammarella mia, che mi fai tanti vezzi e carezze?" E tanto continuò a ripetere questa cantilena che, messole un vespone nell'orecchio, accecata dal diavolo, una volta la maestra le disse: "Se farai come ti dice questa testa pazza, io ti sarò mamma e tu mi sarai cara come le ciliegine di questi occhi". Voleva continuare a parlare, quando Zezolla (che così si chiamava la ragazza) disse: "Perdonami, se ti spezzo la parola in bocca. Io so che mi vuoi bene, perciò zitto e sufficit: insegnami l'arte, perché io vengo dalla campagna, tu scrivi io firmo" "Orsù" replicò la maestra, "senti bene, apri le orecchie e il pane ti verrà bianco come i fiori. Appena tuo padre esce, di' alla tua matrigna che vuoi un vestito di quelli vecchi che stanno dentro la grande cassapanca nel ripostiglio, per risparmiare questo che porti addosso. Lei, che ti vuol vedere tutta pezze e stracci, aprirà il cassone e dirà: 'Tieni il coperchio' E tu, tenendolo, mentre andrà rovistando dentro, lascialo cadere di colpo, così si romperà l'osso del collo. Fatto ciò, tu sai che tuo padre farebbe monete false per accontentarti e tu, quando ti accarezza, pregalo di prendermi per moglie, perché (beata a te!) sarai la padrona della vita mia".



Sì, lo so, di queste cose Walt Disney non parla, ma la Cenerentola originale napoletana spezza il collo della matrigna in un baule. Le va comunque male, perché il papà sposa la maestra che diventa una matrigna peggiore della prima, ed è quella che poi la relega definitivamente alle pulizie. Secoli prima lo stesso crimine era stato imputato a quella granculo di Fredegonda, che con Cenerentola del resto condivide il salto improvviso da domestica a principessa. Insomma dietro alla fiaba della scarpetta di cristallo (che con molte variazioni è attestata nell'antico Egitto, in Cina e tra i nativi americani) potrebbe esserci una delle più malvagie regine della storia, una di fronte alla quale Lucrezia Borgia è una Teresina del bambin Gesù. E alla fine un dettaglio della fiaba potrebbe averlo messo su pergamena proprio il mediocre Gregorio da Tours, con la sua passione per le scene un po' truculente, ma vivide. Se lo amiamo, con tutto l'affetto fraterno che riserviamo ai mediocri, è grazie a Erich Auerbach, che in Mimesis ci ha fatto conoscere la sua prosa sgrammaticata, e ci ha insegnato a riconoscere l'alba nell'imbrunire degli antichi nessi logico-sintattici. Perché è vero, Gregorio scrive male, ma senza di lui forse non avremmo il realismo moderno.
Gregorio non dispone che del suo latino grammaticalmente corrotto, sintatticamente povero e di conseguenza quasi di scolaretto, egli non ha registri da manovrare e non ha un pubblico sul quale possa influire con un gusto inconsueto o con una variante stilistica; ha però i fatti concreti che accadono intorno a lui, che si svolgono davanti ai suoi occhi o che gli sono riferiti “caldi caldi”[...] Quello che racconta è il suo proprio, il suo unico mondo; non ne ha altri, e in esso vive. Dall'opera di Gregorio in verità apprendiamo assai confusamente la connessione dei fatti politici, ma arriva per così dire alle nostre narici l'aria del primo secolo della dominazione dei Franchi nelle Gallie. Vi dominano costumi tornati spaventosamente rozzi, non soltanto perché la violenza prorompe nei singoli territori, e i governi non hanno più la forza d'intervenire, ma anche l'astuzia e la politica hanno perduto ogni forma e sono diventate primitive e rozze. [...] [Gregorio] aveva di poco passati i trent'anni quando divenne vescovo di Tours; se è lecito giudicare l'uomo dallo scrittore, deve aver posseduto coraggio e forza di carattere, e certamente nulla di quanto vide poté distoglierlo dalla sua via. Egli è uno dei primi esempi di quella attività pratica nel senso della Chiesa che ha fatto della dottrina cristiana uno strumento che agisce entro la vita terrene, e che si può sotto molti aspetti ammirare nella Chiesa cattolica. A Gregorio nulla dell'uomo è estraneo, fa luce in tutti gli abissi, chiama le cose col loro nome, e conserva tuttavia la sua dignità e una certa unzione di tono, e non si fa nemmeno nessun ritegno d'impiegare mezzi temporali accanto a quelli spirituali; sa che la Chiesa deve essere forte e potente se vuol raggiungere in questo mondo qualcosa di durevole nel campo morale e che bisogna legare a sé anche con interessi pratici coloro di cui si vuol conquistare durevolmente il cuore. [...] Di certo il suo talento e il suo temperamento conducono il vescovo Gregorio molto al di là della semplice cura spirituale e della pratica ecclesiastica; quasi senza avvedersene diventa uno scrittore che afferra e foggia la vita. Non ogni prete avrebbe potuto diventar quello che è diventato lui, ma in quel tempo soltanto un prete poteva diventarlo.
È passato molto tempo da quando studiavo Auerbach e il realismo in generale, ma ancora oggi quando correggo qualche tema di tredicenne, e sbatto inevitabilmente contro sintassi traballanti, punteggiature insensate o inesistenti, “perché” che non spiegano e “ma” che non avversano, proprio mentre sto per accartocciare il foglio protocollo... mi torna in mente Gregorio di Tours, grande e sgrammaticato scrittore che coi cocci del latino s'inventò una lingua nuova e un realismo nuovo, patrono di tutti noi cattivi e incompresi scrittori sempre in guerra con punteggiatura e logica. Magari il mio peggior studente sarà il cronista dei prossimi barbari; possa San Gregorio illuminargli il desktop, mentre raschia dalla memoria fissa qualche e-book inutile e comincia a scrivere le gesta del popolo tamarro.
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La Bovary sarai tu!

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Traffico di senso: la parola bovarismo

Io ho sempre pensato che un giorno avrei avuto una casa, non grande, magari non bella, ma con una libreria interessante. Finché un giorno ho capito che non sarebbe successo mai, per più di un motivo. Non ho così tanti libri, in fondo, e quelli che ho non sono così decorativi. Invecchiano senza diventare nobili; non restituiscono l'immagine di una persona studiosa, piuttosto di uno che ha frequentato troppe edicole e bancarelle e non si vergognava a portarsi a casa un newton compton rosso fuoco (del resto quel Tutto Dante a 9900 lire non era un affare?) Non riescono nemmeno a restare in ordine, non capisco bene il perché; non li consulto quasi mai (sto quasi sempre su internet). Ma sono i miei libri, mi assomigliano. Non è che mi piacciano tanto, però non riuscirei a disfarmene nemmeno volendo. Li ho messi in una stanza a parte, quando vengono ospiti chiudiamo la porta. Perché vi racconto questa cosa.

Perché l'altro giorno ho letto questo pezzo del Corriere, in cui si cercava di ammucchiare nei confronti di Nicla Tarantini tutto il disprezzo possibile (si capisce che il giornalista si è recato a Bari apposta e ha condotto indagini estese), e il risultato è condensato appunto in quel titolo: "Brillanti e niente libri". Il massimo dell'ignominia, per un giornalista del Corriere (ma poteva essere la Repubblica, la Stampa, e tanti altri) è non avere una libreria in casa. Il che non è nemmeno sicuro, non è che Goffredo Buccini sia stato in casa di Nicla e abbia verificato l'arredamento. Ha solo raccolto le chiacchiere di amiche e conoscenti, e di una in particolare. Notate come la presenta:

«Però manco mezza libreria: loro stavano ai libri come io sto a una suora», ridacchia una delle fate della scuderia, la più spiritosa e, probabilmente, la meno ignorante.

E' "spiritosa" perché sa istituire il rapporto Tarantini:libri=io:suora. E' (probabilmente) "meno ignorante" perché intuisce la vacuità di una vita senza mezza libreria in casa. E va bene. Non è che io voglia fare lo snob al contrario, anche a me capita di entrare in case d'altri ed elaborare pregiudizi in base ai libri che vedo e al modo in cui sono accatastati. Una libreria non rende certo una persona colta o intelligente; però aiuta. La cosa veramente curiosa è che due paragrafi più su Buccini aveva definito la parabola dei Tarantini una "piccola storia di bovarismo del Terzo Millennio". Il che potrebbe anche starci, in fondo questi due trentacinquenni "perfino più immaturi della loro età", come li definiva Lavitola, qualcosa in comune con Emma Bovary ce l'hanno: il consumo compulsivo di beni voluttuari, l'esigenza di vivere al di sopra delle proprie possibilità (la difficoltà anche a capire quali siano effettivamente, queste possibilità).

Il bovarismo, però, come lo aveva isolato Flaubert, si verificava in presenza di determinati agenti patogeni: i libri. Emma, mi par di ricordare, ne leggeva troppi. Nicla (forse) neanche uno. Anche il bovarismo, insomma, non è più quello di una volta, e in realtà è proprio questo che m'interessa: notare come le parole cambiano continuamente di significato, ogni volta che le usiamo: e sì che le usiamo proprio perché vorremmo far forza su un bagaglio di nozioni date per scontate, un retroterra culturale solido, qualcosa dove metter radice, una bella libreria immobile, lucchettata: niente da fare. Le parole ci cambiano in mano, afferriamo un martello e ci troviamo in mano un cacciavite che c pone dei problemi: perché pensavate di usarmi come un martello? Cosa vi faceva pensare che io potessi pestare un chiodo? Cosa vuol dire oggi la parola "bovarismo"? Non lo so, probabilmente Buccini ha una sua idea che non è la mia. Ma non è così interessante. Quello che è interessante è cosa dice la parola "bovarismo" di noi che pretendiamo di usarla oggi.

Ci dice che siamo molto diversi da Flaubert, al punto che non lo capiamo quasi più. Lo si capisce anche solo dal modo in cui trattiamo i libri: ne apriamo molti meno, ma nel frattempo abbiamo sviluppato un'enorme fede in loro. La loro sola presenza, la semplice ostensione dei libri in una teca, avrebbe il potere di salvare la nostra vita, riscattarla sia dalla banalità della provincia, sia dai luccicori dei "coca-party". Se uno legge libri, se uno possiede librerie o perlomeno nota la loro assenza in un salotto, è "meno ignorante".

Ai tempi di Flaubert probabilmente non era così. I libri erano oggetti perfino pericolosi, che potevano portare alla perdizione: da assumere con prescrizione medica. Lo stesso Flaubert, se ricordo bene, a momenti ci crepava, sulla Tentazione di Sant'Antonio: e Madame Bovary lo scrisse anche per disintossicarsi, scegliendo la storia più banale e terra-terra, meno letteraria che riuscisse a trovare.

Tanti anni fa, ormai è quasi una vita precedente, visitai la casa di Balzac, che in realtà non era nemmeno la casa di Balzac, perché quel formidabile cialtrone riusciva a mettere il suo nome (falso) su tantissime cose che non possedeva: era una casa di amici e ammiratori in cui lui poteva arrivare quando voleva, entrare nella sua stanzetta e mettersi a letto e/o scrivere. Tra le incisioni alle pareti ne ricordo una che mostrava "il lettore" (dunque il cliente-tipo di Balzac). Voi subito immaginate un signore distinto che seduto su una poltrona aggrotta la fronte, magari per tener fermo il monocolo. Perché siete uomini del XXI sec., per voi leggere è cosa da nobili, e che nobilita. Invece "il lettore" dei tempi di Balzac è un vecchietto spiritato che siede a tavola col piatto pieno di cibo freddo (non riesce a staccare gli occhi dalla pagina) e che si versa il vino fuori dal bicchiere. Un poveretto, il "lettore". Totalmente succube di un'ossessione-compulsione che è simile a quella che noi lamentiamo nei ragazzini con playstation. Il "lettore" era un malato, un tossicodipendente. La lettura non lo nobilitava: lo estraniava dalla società. Naturalmente lo stesso Balzac si sarebbe ribellato a una tesi del genere, e avrebbe sostenuto che c'erano libri e libri: immondi feuilletons e accurati ""études philosophiques". Oggi no: oggi qualsiasi libro è comunque meglio di qualsiasi altro impiego del tempo libero: basta aprire un libro, qualsiasi libro, per sembrare più intelligente di qualcun altro che nello stesso momento sta guardando la tv,  o videogiocando, o cercando prove della propria esistenza su un social network, o cicalando su un cellulare. L'unica cosa vagamente paragonabile sono i film, ma qui conserviamo ancora qualche distinguo sul contenuto: la frase "in casa ha tanti dvd" in sé non vuol dir niente, resta da stabilire se siano Tarkovskij o Neri Parenti. Invece la libreria è indizio di cultura a prescindere. La persona che ha fatto una soffiata sui Tarantini, magari a casa ne ha una piena di Moccia o Fabio Volo; ma sono libri - parallelepipedi di fogli di carta rilegati su un lato, e quindi comunque la rendono "meno ignorante". Magari, per dire, ha tutti i pamphlet antislamici di Oriana Fallaci...

A proposito. Il giorno dopo lo stesso quotidiano, il Corriere, è uscito con una buffa versione "da collezione" per il decennale dell'11 settembre, il giorno che secondo loro ha cambiato tutto. Il che tra l'altro è sempre più discutibile: a distanza di dieci anni non c'è una sola notizia importante, in questi giorni (crisi europea, fine del berlusconismo, guerra in Libia, incidenti nucleari, riscaldamento globale) che sia facilmente riconducibile con un rapporto di effetto-causa agli attentati di dieci anni fa. Probabilmente se Mohammed Atta se ne fosse rimasto a casa oggi i nostri telegiornali ci racconterebbero le stesse cose. Però è ugualmente vero che per il Corriere dieci anni fa è cambiato tutto. E' stato il momento in cui i suoi lettori, un tempo maggioranza silenziosa, hanno tirato fuori dagli scantinati il loro razzismo fino a quel momento muto e un po' vergognoso, e hanno cominciato a vantarsene, a trovarlo giusto e interessante, sacrosanto addirittura, e a sfoggiarlo addirittura su una mensola in bell'evidenza, sotto forma di cartonato di Oriana Fallaci. La vecchietta, si è poi saputo (ma si poteva benissimo intuire), non era più molto padrona di sé, ma De Bortoli e RCS non si posero evidentemente il problema, spremendo il limone fino all'ultima goccia (acida). Una cosa del genere non sarebbe stata possibile fino al 10/9/01: dopo sì. Quindi, effettivamente, l'11 settembre ha cambiato qualcosa. Nelle nostre librerie, perlomeno. Che ci assomigliano. E a me non è che piacciano tanto. Agli ospiti non le mostrerei.
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What a room service

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E quindi, chi lo avrebbe mai detto, ma in un albergo con suite a 3000 dollari a notte circolano inservienti compiacenti che potrebbero consentire a rapporti sessuali in cambio di mance adeguate, salvo poi denunciare il proprio utilizzatore finale e rovinargli la corsa all'Eliseo. In altre parole: DSK non ha fatto niente di male. Ma proprio niente? Cioè: lo vorreste alla Présidence della vostra République, un tizio così?
Io forse no.


Scusate, era un rigurgito di moralismo. Sull'Unita.it (H1t#81). Si commenta laggiù.

Al Sofitel di Times Square, per una cifra intorno ai tremila dollari, puoi passare una notte nella suite imperiale. È probabilmente possibile, con un piccolo sovrappiù, convincere una componente del personale di servizio a un rapporto orale, e magari anche a farsi strattonare un po', per una cifra probabilmente inferiore a quella che guadagna Strauss-Kahn in dieci minuti, e un'inserviente in un anno. È andata così? 

Non lo sappiamo ancora, non è detto che lo sapremo mai: un conto è la verità processuale e un conto è quel che accade in una stanza, senza testimoni, tra una 32enne analfabeta venuta dalla Guinea e il direttore del Fondo Monetario Internazionale. Però non è così improbabile. E allora mettiamo da parte l'accusa di violenza, che forse non regge più. Ammettiamo anche che “Ophelia” abbia cercato, maldestramente, di ricattare l'uomo potente. Riconosciamo, con una certo stupore, l'ingenuità degli inquirenti newyorkesi, che pensavamo ben più professionali, ma forse abbiamo guardato troppi telefilm. Quel che ci resta è un mix amarognolo di moralismo e incredulità: sul serio DSK farebbe ancora in tempo a candidarsi all'Eliseo? Sul serio i francesi potrebbero pensare di votare un signore col passatempo di strattonare donne di servizio, ancorché consenzienti?

In fondo perché no, dopotutto ieri il neosegretario del PdL ha confermato che nel 2013 gli italiani avranno ancora la possibilità di votare l'uomo del bunga bunga. Sì, però l'Italia è la famosa repubblica delle banane che non dovrebbe fare testo. In Francia non risultano tg minzoliniani pronti a negare l'evidenza e a ritagliare un santino intorno a DSK. Ma forse manca pure quel moralismo bacchettone che mi pervade in questo momento, mentre penso che sì, forse il direttore del del FMI non ha fatto nulla di penalmente rilevante, forse è vittima di un complotto, ma non mi piacerebbe ugualmente essere governato da un uomo come lui. È un pregiudizio? Un uomo che confessa ai suoi collaboratori più stretti di temere macchinazioni nei suoi confronti, e poi nella suite di un albergo paga la prima sconosciuta che trova? L'uomo responsabile di decisioni su scala planetaria appare, come minimo, poco avveduto: incapace di mettere a freno pulsioni che alla sua età dovrebbe essersi lasciato alle spalle. Ma sono pur sempre pulsioni maschili, nelle quali riconosco (elevate alla massima potenza) le stesse mie, e in parte alla base della mia riprovazione morale potrebbe esserci semplicemente questo.

Se io trovo ancora osceno un mondo in cui un uomo ricco è libero di sbattersi un'inserviente per una cifra ridicola, è per un'antica educazione egalitaria o semplicemente perché il mio gradino sulla scala sociale è rimasto troppo vicino a quello dell'inserviente, troppo remoto da quello di DSK? In una parola: non è la mia semplice invidia? Sì, può darsi, tra l'altro è uno dei carburanti della società. È anche la misura della mia distanza da quei potenti che probabilmente non si rendono nemmeno conto della differenza tra sesso consensuale, prostituzione o stupro: visto dalle altezze dei loro superattici il confine morale che alcuni di noi inservienti mettono ancora intorno ai loro genitali deve sembrare uno steccatino ridicolo – come quel Berlusconi che qualche anno fa disse solennemente “non ho mai pagato una donna” e probabilmente era una frase sincera, da parte di un uomo che non va in giro col portafogli in tasca e probabilmente da trent'anni non ha mai nemmeno fisicamente pagato un caffè. Ecco, forse mi sbaglio anche su DSK, forse quella notte non era in preda a nessuna incontrollabile pulsione, forse dopo l'idromassaggio ha chiesto alla donna delle pulizie una fellatio o una sodomia con lo stesso riflesso stanco con cui io posso chiedere a un cameriere un caffè dopo la pizza. Dobbiamo fargliene una colpa? Non merita come Bill Clinton di essere giudicato non per le sue distrazioni occasionali, ma per quello che fa nel suo mestiere di banchiere mondiale, oggi, e magari tra un anno di presidente? E se il prezzo da pagare per avere un buon professionista in un ruolo di assoluta responsabilità è qualche inserviente coi graffi ogni tanto, non varrebbe comunque la pena?

Non lo so. Meglio così, visto che la decisione spetta ai francesi. Ho invidiato loro molti candidati in questi anni: Jospin, la Royal, perfino il vecchio Chirac mi pareva, con tutti i suoi processi sospesi, più rispettabile di qualsiasi rappresentante della destra italiana. Invece non invidio Dominique Strauss-Kahn, che forse ha soprattutto il torto di esibire ai riflettori quello che sapevamo già, ma preferivamo borbottare nei nostri cinici dopocena: in questo mondo libero i ricchi sono liberi di sbattersi i poveri, i poveri sono liberi di chiedere la mancia. Ma senza esagerare, senza tirare troppo la corda, come probabilmente ha fatto Ophelia.http://leonardo.blogspot.com
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Parlez-moi de la pluie

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Si-       Mi-
Che delizia la pioggia! che orrore il sereno!
             La7
Non c'è cosa più triste dell'arcobaleno.
Re
Il cielo blu mi fa star male,
              Fa#
perché il più grande amore che mai mi fu dato
        Si-                     Do#7             Fa#     Si-
io lo devo ad un cielo cupo ed imbronciato:
            Mi-            Sol Fa# Si-
ad un furioso temporale.

Una notte d'autunno, sopra la mia magione,
una folgore, con terribile esplosione
s'era venuta a scaricare.
Giù dal letto schizzata, ancora semisvestita,
la mia bella vicina, tremante ed impaurita,
all'uscio mio venne a bussare:

"Sono sola ho paura! Aprite vi prego,
mio marito è lontano a causa del suo impiego
(o direi meglio del suo guaio),
che lo obbliga a uscire sotto l'acqua sferzante
per la buona ragione che fa il rappresentante
dei parafulmini d'acciaio".

Lode a Benjamin Franklin per la bella invenzione!
Abbracciandola a me le diedi protezione,
e poi... l'amore fece il resto.
Tu, di punte di acciaio, venditore provetto,
Non pensasti a piazzarne neanche una sul tuo tetto!
Error non fu mai più funesto.

Quando Pluvio andò oltre nel suo vagabondaggio
la mia bella, ripreso un poco di coraggio,
tornò nel proprio appartamento;
ad attender lo sposo con coperte e cordiale,
e alle prossime piogge, a un nuovo temporale,
già ci fissammo appuntamento.

Con un'ansia crescente io mi misi da allora
a scrutare fremente i cieli ad ogni ora,
giorno e notte, notte e giorno;
a spiar nembi e cirri, sempre più preoccupato,
a fare gli occhi dolci anche a un cumulostrato,
ma lei non fece più ritorno.

Seppi poi che il marito, in quella notte famosa,
parafulmini aveva seminato a iosa;
e milionario divenuto,
se l'era portata in quei luoghi laggiù,
dove non piove mai, e il cielo è sempre blu,
laddove il tuono è sconosciuto.

Ma voglia Dio che il mio pianto a tamburo battente
la raggiunga e le parli del tempo inclemente
che ci portò su in paradiso;
e le dica che un fulmine un po' mascalzone
m'ha lasciato nel cuore una piccola incisione
con i contorni del suo viso.

A questo punto dell'agosto, non so voi, ma io ho solo voglia di cieli grigi e nuvole radenti su pianure verdi e gialle, di Francia insomma. Cerco di farmela passare su internet; per esempio ho trovato il Pornografo, che non è quello che pensate voi, bensì un sito che raccoglie le versioni di Brassens cantabili in italiano. Sono tutte un po' infedeli, come è giusto che sia. Questa per esempio è più o meno L'orage tradotta da Nanni Svampa ed Enrico Médail. Questo, invece, è un serio tentativo di far piovere. Il juke-box finisce qui, l'estate non ci metterà ancora molto; spero che vi abbia lasciato qualche bella canzone.
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Ils ont pris tout

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Prima o poi doveva succedere:


il cielo ci è caduto sulla testa.
Un Big Mac per Obelix si legge sull'Unità.it, e si commenta qui.

Nel 2010 dopo Cristo tutta la Gallia, pardon, la Francia, è stabilmente integrata nel mercato globale. Tutta? No! Un villaggio dell'Armorica, abitato da irriducibili Galli, resiste ancora e sempre all'invasore... Perlomeno, resisteva. Fino a qualche settimana fa. Quando anche il villaggio di Asterix ha ceduto alla globalizzazione, e nel modo più plateale possibile: vendendo la sua immagine al prodotto meno francese e più globalizzato che si possa immaginare.

Immaginatevi un Topolino convertitosi al nazismo, o uno zio Paperone che scopra il Capitale di Marx e trasformi il suo deposito in una Cassa Operaia di Mutuo Soccorso. Il cartellone pubblicitario che raffigura un banchetto degli Irriducibili non più sotto le stelle, ma sotto il tetto a pagoda di un McDonald's, è uno choc del genere. Sin dal loro arrivo nelle edicole francesi, 51 anni fa, i Galli di Goscinny e Uderzo hanno incarnato l'orgoglio dei francesi, la loro “irriducibilità” nei confronti dei costumi e delle mode che arrivavano da fuori – in primis, dall'America.

In realtà Asterix deve moltissimo al sogno americano del suo inventore, René Goscinny, emigrato a 19 anni nella patria delle comic strips. Americano è il suo fratello maggiore, il pellerossa Umpa-pà, primo personaggio creato da Goscinny. Prima di essere localizzato in Armorica, il primo villaggio che Goscinny immagina assediato dai 'civilizzatori' è un proprio un accampamento di tepee. Certo, la decisione di creare un eroe gallico era un tentativo di smarcarsi da un immaginario già profondamente colonizzato dagli eroi anglosassoni: cow-boys, gangster, pirati, erano già il pane quotidiano dei giovani lettori francesi degli anni Cinquanta. Eppure anche nel momento in cui creava il suo personaggio francese al 100%, Goscinny in fondo stava mettendo in pratica le sue lezioni americane. Così come Disney aveva voluto concentrare le doti dell'americano medio in un piccolo, simpatico roditore, Asterix sarebbe stato un concentrato delle qualità francesi. I due personaggi mantengono tratti comuni: la bassa statura (che suscita nei piccoli lettori un'istintiva solidarietà), l'astuzia priva di malizie, la disponibilità all'avventura, il naso pronunciato e, sul capo, due grosse appendici che accentuano l'espressività del viso: due enormi orecchie nere per Mickey, due ali bianche per Asterix. Anche le due spalle comiche presentano caratteristiche simili: come Pippo, Obelix è un bambino che non teme di crescere, perché sa che questo non potrà succedergli mai: la marmitta di pozione magica in cui è caduto da bambino lo ha reso irriducibile anche alle preoccupazioni dell'età adulta.

Asterix e Obelix dovrebbero dunque offrirci l'immagine che i francesi hanno di loro stessi: ed è un'immagine piuttosto sorprendente, per come si discosta da quella che noi non-francesi abbiamo di loro. Mancano del tutto, nel popolatissimo universo di Asterix, gli stereotipi che più spesso rappresentano i francesi all'estero: la femme fatale disinibita e chic o l'intellettuale snob parigino. Del resto ai tempi di Asterix Parigi, anzi Lutezia, pur essendo già “la città più bella del mondo” è poco più di un affollato villaggio su un'isolotto della Senna, e i suoi abitanti non sono che paesani rifatti.

La Francia di Asterix e Obelix è sorprendente perché è quella che non si vede quasi mai nei film: la provincia profonda. Per noi la Francia è la patria dell'eleganza e della cucina raffinata: gli eroi di Goscinny disdegnano qualsiasi cibo che non sia il cinghiale arrostito, da sbafare con le mani o con lo stesso spadino con cui si affrontano gli avversari. A ben vedere, nella Gallia di Asterix e Obelix i raffinati sono i nemici, i Romani. Sono loro a cucinare piatti insopportabilmente chic, a ostentare modi effeminati, a costruire dappertutto città di marmo eleganti ma anonime, dotate di modernissime terme. A questo processo di globalizzazione Asterix e Obelix si ribellano con l'astuzia e il buon senso dei provinciali (e una buona dose di barbarica forza bruta). Dopo le prime trionfali avventure contro i Romani, nel corso degli anni '70 le sceneggiature di Goscinny diventano più complesse e profonde, lasciando intendere sempre più chiaramente che il vero invasore a cui resiste il villaggio non sono i poveri legionari Romani, ma il progresso. Nel tentativo di "civilizzare" gli irriducibili, i Romani le proveranno tutte: abbatteranno la foresta per trasformarla in un villaggio residenziale; in una delle ultime e più amare storie di Goscinny, un sosia del giovane Chirac riuscirà addirittura a corrompere Obelix, trasformando la sua attività di intagliatore di menhir in un'impresa industriale che, fortunatamente, avrà una vita breve. La voglia di menare le mani avrà il sopravvento, e la foresta ricoprirà ancora una volta i progetti imperialisti dei civilizzatori. È questo che rende la resa a McDonald insopportabile ai lettori. Asterix avrebbe potuto farsi gladiatore o legionario, visitare l'America o crescere un figlio: tutto questo nel corso degli anni è effettivamente successo, senza che nessun lettore si sentisse tradito. Ma vendersi a McDonald è davvero troppo.

Da parte loro, gli addetti marketing McDonald non possono che essere entusiasti. Sostituendo all'inquietante clown Ronald il piccolo Gallo, sanno di poter sfruttare la visibilità di un personaggio amato da generazioni di lettori. Nel gergo dell'ambiente, Asterix oggi è quello che si chiama un franchise: un personaggio già affermato che può fruttare milioni di euro grazie ai film (animazione e live action), al merchandising, e a operazioni pubblicitarie come questa. I veri asterixologi si potevano consolare, fino a qualche tempo fa, col pensiero che tutto questo avesse poco a che fare con il vero Asterix: quello, orgogliosamente artigianale, sceneggiato e disegnato da Uderzo, unico autore delle storie dopo la scomparsa prematura del grande Goscinny. Questo significava accettare che le avventure di Asterix fossero ormai giunte molto vicine al loro termine naturale: del resto Asterix e Obelix hanno ormai viaggiato in tutte le terre conosciute e sconosciute, solidarizzando lungo la strada con tanti piccoli villaggi disposti a resistere "ora e sempre" all'invasore. Ultimamente però Uderzo si è scelto i suoi successori. Asterix quindi sopravvivrà al suo autore; magari tornerà a occupare con materiale inedito quelle edicole dalle quali era praticamente sparito negli ultimi 15 anni: ma per farlo dovrà necessariamente tradire un po' sé stesso. L'universo in cui ha vissuto il suo mezzo secolo di avventure dovrà essere svecchiato e aggiornato ai gusti dei nuovi giovani lettori, che probabilmente lo hanno conosciuto prima nelle sue versioni cinematografiche: e cosa c'è di meglio, per avvicinare Asterix e co. alle nuove generazioni, di un happy meal da McDonald, stampato e riprodotto su milioni di manifesti?

Insomma il patto tra Asterix e il Big Mac conviene a entrambi, e non dovrebbe scandalizzarci troppo. In fondo Asterix e Obelix non hanno mai voluto sconfiggere il loro nemico. In molti casi si sono trovati addirittura a collaborare con Giulio Cesare. Tutte le loro energie si sono spese nel tentativo di preservare lo status quo, la loro condizione di eterni bambini: il villaggio di Irriducibili circondato da una foresta che è un giardino di delizie, ricca com'è di cinghiali da sbafare e legionari da pestare. Gli Irriducibili hanno un senso perché esiste, oltre la finestra, la modernità, che la cinge in un blando stato d'assedio.  Purché tutto rimanga com'era nelle prime tavole schizzate da Uderzo: un piccolo villaggio che resiste, ora e sempre. I francesi amano immaginarsi così. E per difendere questa loro fantasia, sono disposti a venire a patti anche con Cesare. O con Ronald McDonald, in questo caso.
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Passano gli anni, ma non mi ci abituo mai.



Dio, è veramente inspiegabile.
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