Breve invito a non speculare sui suicidi

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State tutti parlando di un suicidio e non si fa. Peggio: state cercando di fare politica con un suicidio, ed è una mossa disperata. Cioè non dico che non possa funzionare – talvolta il mondo è stato cambiato anche dalle discussioni scatenate da un suicidio, abbiamo una manciata di esempi, quindi è vagamente possibile – ciò che invece è statisticamente sicuro è che discutendo di suicidi, si provocano altri suicidi: il fattore emulazione è molto forte, lo sappiamo da due secoli e non ci è consentito fingere che no.

Sarebbe cosa giusta, ogni tanto, imparare dai nostri errori: abbiamo ripudiato la guerra, abbiamo smesso di considerare il terrorismo una forma di lotta accettabile, nessuno definisce più il sequestro di persona come una valida alternativa alla pastorizia o alla disoccupazione; sarebbe ora che un mero calcolo costi/benefici ci portasse a censurare anche il suicidio come pratica cento volte più nociva che utile. 

Liquideremo dunque la pratica del suicidio come gesto antisociale, anche quando non lo è: le lettere dei suicidi, per quanto toccanti non le leggeremo (o lo faremo di nascosto), e in società non ne parleremo se non per esprimere superficiali note di biasimo. La depressione è una malattia, merita rispetto e trattamenti sanitari, non morbose attenzioni di romantici fuori tempo massimo. Per combattere chi fa violenza su di sé la faremo anche noi a noi stessi, liquidando Majakovskij come un depresso, Mishima come un fanatico, e Jan Palach avrebbe dovuto risparmiare la benzina per tirarla a un carro sovietico.  Non ascolteremo le canzoni su di loro; considereremo decadente chi le scrive e speculatore chi ci guadagna. Noi canteremo piuttosto come Battiato (e Sgalambro): Questa parvenza di vita ha reso antiquato il suicidio; questa parvenza di vita, signore, non lo merita. Solo una migliore.

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E un re perplesso scrisse l'Alleluja

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29 dicembre, San Davide Re e Profeta¹

Fu una segreta melodia
che suonò Davide al suo Dio,
– ma a te, lo so, la musica già annoia –
dal Do lei sale al Sol maggiore
e sale ancora (ma in minore)²,
e un re perplesso scrisse l’Alleluja:

Alleluja, Alleluja.

Credevi, ma chiedesti un segno:
era sul tetto a farsi un bagno³,
e mai ci fu una notte meno buia...
Ti legò al tavolo in tinello
ruppe il trono, i tuoi capelli
ti strappò, e di bocca un’alleluja!

Alleluja, Alleluja.

Dici che ho preso un nome invano:
non so cosa ci sia di strano.
(Non so neanche quale nome Lui ha).
Ogni parola ha la sua luce,
che importa a quale dai la voce:
sia santa o sia perduta, è un’alleluja.

Alleluja, Alleluja.

Feci il mio meglio, non granché:
non ero pronto a entrare in te;
l’amore non è un tema che si studia.
Ma ad ogni sciocco errore mio
renderò sempre lode a Dio,
e sulle labbra avrò solo: alleluja.

Alleluja, Alleluja.

Io queste stanze le rammento4
ho già spazzato il pavimento:
amarsi, sai, non è un inno alla Gioia.
Che importa se dalla ringhiera
sventola la tua bandiera?
Io sento solo un gelido Alleluja.

Alleluja, Alleluja.

E se mi chiedi se c'è un dio
quel che in amore ho appreso io
è a fare fuori il primo che ti incula5.
Perciò non è un pianto stasera
quel che senti, o una preghiera:
è solo un crudo e gelido Alleluja.

Alleluja, Alleluja6.

1. Non so perché il calendario cattolico festeggi re David il 29 dicembre, però è da anni che mi intestardisco a scrivere un testo italiano cantabile per questa canzone dalla storia bizzarra, che grazie a un cartone animato e al titolo apparentemente liturgico è entrata a far parte del repertorio nuziale in Italia: esatto, c'è gente che la vuole sentir cantare al proprio matrimonio. Benché parli di frustrazione affettiva e sessuale? O proprio per questo motivo? E ho sfidato la prosodia e il ridicolo perché voglio informare questo tipo di gente dell'errore, o perché continuava a girarmi in testa e non ne potevo più? A volte tradurre una canzone è un modo per ammazzarla. Non spesso, ma è probabilmente il mio caso.

2. Naturalmente non è obbligatorio suonarla in Do, io una volta a un matrimonio l'ho suonata in Do ma non vuol dire. Se avete una traduzione migliore fatevi avanti, coraggio.

3. Dopodiché mi sono chiesto: ma sul serio Betsabea, una donna sposata, si faceva il bagno nuda sul tetto a rischio di invaghire un sovrano in grado di inviare il marito in missione suicida? E infatti no, è Davide che sta sul tetto del suo palazzo reale, da dove può vedere ciò che gli altri non sospettano. Apparentemente è un malinteso causato dalla struttura del verso "You saw her bathing on the roof", ma a quanto pare questa brutta diceria su Betsabea dura da secoli (su Internet trovi decine di blog che difendono l'onore di Betsabea) (su Internet trovi di tutto).

4. Queste ultime due strofe Cohen le scrisse ma non le incise; si trovano invece nella versione di Jeff Buckley che è poi quella che scatenò l'hallelujah-mania.

5. Lo so, lo so, ma una volta che mi è venuta in mente non sono più riuscito a non sentirla così nella mia testa. Voi senz'altro avete una traduzione migliore di overthrew ya, non è vero? È il colpo di grazia alla canzone moribonda, mettiamola così. Provate a suonarla a un matrimonio, adesso.

6. [Le tre di un mattino di fine dicembre, ti scrivo per dirti che qui è come sempre. Fa freddo in città però non si sta male, qui fuori c'è musica, è ancora Natale. E tu? Stai in campagna? E fai il solitario? E vivi di niente? Spero almeno tu tenga un diario].
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Vasco Rossi, Andrea Pazienza, un piccolo mistero

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Vergine di servo encomio, e inverecondo eccetera, io in questi giorni ho preferito pregare che tutto finisse bene; e senz'altro mi perdonerete se non sono passato di qui a scrivere che come un po' tutti Vasco l'ho odiato e poi amato e poi odiato e da un certo punto in poi era semplicemente parte del paesaggio.

Potrei anche aggiungere che questo concerto - con tutte le sue assurdità logistiche, traslochi di ospedali, caselli bloccati, vigili in trasferta da tutta la regione - è stato per me perfettamente coerente con quello che Vasco è stato sin dall'inizio: un personaggio un po' fuori, non cattivo no, ma vagamente molesto, imposto di prepotenza dai fratelli maggiori. È così oggi, era così trent'anni fa. Io non ho, in realtà, fratelli maggiori, ma i miei amici sì, ed erano quelli che sul pulmino ci imponevano Vasco nei rari momenti in cui avremmo voluto e potuto condividere qualcosa di culturalmente più rilevante, oh, niente di trascendentale, i Simple Minds o i Cure, ma no: bisognava ascoltare Vasco, perché c'erano le parolacce che facevano ridere, il negro e la troia e la nostra cultura doveva essere quella lì. (Il punto è che dieci anni dopo ci erano riusciti, eravamo intorno a un fuoco e cantavamo il negro e la troia e ridevamo, di Vasco e di noi).

La BBC era la radio di Red Ronnie, credo.
Magari nel frattempo avevamo messo su dei gruppi, cominciavamo a fare musica nostra - ma prima o poi ti toccava suonare Vasco. Perché funzionava, era davvero parte del paesaggio, veramente facile da eseguire e di presa sicurissima, insomma, dopo un po' ci si arrendeva a quella pronuncia strascicata che sui treni deliziava coetanee calabresi e pugliesi (siete di Modena? Ma vicino a Zocca?) Il fenomeno più inquietante però era una specie di rinvaschimento, una cosa delle cose più orribili a cui mi sia capitato di assistere: vedere una persona amica, in seguito a un trauma sentimentale o professionale, smettere di ascoltare, chessò, i Depeche Mode e i Joy Division, cambiare guardaroba e tornare a Vasco (il modo poi in cui Vasco è riuscito a passare da emblema del fattone drughè a cantore della medissima borghesia artigiana meriterebbe uno studio a parte: come un certo tipo di immaginario a un certo punto sia slittato dalla bohème alla birreria).

A tutti.
Di tutto questo probabilmente ho già parlato - colgo invece l'occasione per mettervi a parte di un enigma che mi ha tormentato per anni, e della sua banalissima soluzione. Tra le cose molto più culturalmente rilevanti che gli anni Ottanta emiliani hanno contribuito a produrre, c'era Andrea Pazienza. Ovviamente ai tempi di Colpa d'Alfredo non lo sapevamo - avrebbe dovuto morire perché io me ne accorgessi almeno un po'. Poi ci furono anni di immersione integrale - in un materiale che assomigliava stranamente ai miei ricordi pre-puberali: siringhe dappertutto, scoppiati misteriosi, un senso di crudeltà incombente che nei primi anni Novanta non sentivo più. Ne riaffiorai esausto, con la sensazione di aver ritrovato un tempo perduto e un curioso interrogativo: com'è che Pazienza non ha mai parlato di Vasco Rossi? Neanche in una vignetta - e se qualche fanatico qui ha presente la Prolisseide, sa che Pazienza una vignetta l'ha elargita a tutti. A Vasco no.

Da un punto di vista biografico, i due si dovevano essere incrociati per forza: non è poi così grande Bologna. Rossi (che in un primo momento avrebbe voluto iscriversi al Dams, poi optò per Economia e Commercio) la molla nel '75 perché a Modena i subaffitti costano meno, Pazienza era arrivato da un anno. Da un punto di vista antropologico, per quanto entrambi fuoricorso cronici, erano di due tribù diverse: Vasco è un provinciale di collina, radicato nel territorio; non diventerà nessuno finché non riscoprirà la sua gente, irrorandola con la radiolina locale. Pazienza è un fuorisede, sradicato e apparentemente più cosmopolita: e poi soprattutto non aveva fratelli maggiori che gli imponessero Siamo solo noi mentre lui voleva ascoltare The Torture Never Stops. E però, insomma, parliamo più o meno della stessa città, più o meno degli stessi anni, più o meno delle stesse droghe - possibile che non si siano incontrati mai? Neanche quando erano diventati famosi e Pazienza si era messo a disegnare copertine di 33 giri per Vecchioni, per la PFM, per Caputo, per tutti? O c'era qualcosa dietro, una rimozione? Quale orribile sgarbo avrebbe dovuto commettere VR ad AP, perché lui lo condannasse alla damnatio memoriae? E quale morale dovevamo trarre da una storia che aveva fatto sopravivere VR e morire giovane AP, gradito agli Dei ma sostanzialmente sconosciuto dai duecentomila spettatori di ieri sera?

A un certo punto mi ero anche affezionato all'enigma, una specie di versione emiliana di "perché Freud e Schnitzler, vivendo a Vienna, non andavano a bersi birre insieme?" Mi faceva in un certo senso comodo, per come chiudeva due immaginari potenzialmente sovrapponibili in due compartimenti stagni: '77 bolognese e anni Ottanta in provincia, nessuna comunicazione. Alla fine si trattava di due universi paralleli: in quello di Vasco, Pazienza non aveva mai disegnato Pentothal; in quello di Pazienza, Vasco è uno sballato che mastica nel buio in un angolo di vignetta e poi scompare. Le cose non potevano che stare così, finché qualche anno fa non incappo in un video che aveva tirato fuori Red Ronnie.

Avrei dovuto immaginarlo che l'anello mancante era Red Ronnie. A proposito di rimozioni: si vorrebbe sempre farne a meno di RR, mentre è figura centrale come poche: anche lui come Vasco dj radiofonico improvvisato, ma a Bologna; tutti gli anni che noi abbiamo avuto a disposizione per sottovalutarlo, Pazienza non li ha vissuti. Lui quando disegnava a Bologna ascoltava la diretta di Red Ronnie, e quando da Bologna se ne dovette andare, Red Ronnie andò a trovarlo e lo intervistò, nell'84. Secondo RR, Pazienza aveva proprio in quel giorno appreso che la sua ex compagna stava col migliore amico. Non è che dobbiamo crederci per forza. Sicuramente era molto scosso da una vicenda sentimentale. Quando RR se ne accorge, decide di infilare il dito nella piaga, ottenendo un risultato che per anni decise di non divulgare - forse un soprassalto di pudore, o forse troppo forte lo choc della scoperta: il fumettista cinico che aveva appena pubblicato le storie più crudeli di Zanardi, era un tenero ragazzo che si struggeva perché una ragazza lo aveva lasciato. Sosteneva di avere 28 anni, ne dimostrava meno. A un certo punto - e sembra un modo di cambiare argomento, ma non lo è - Red Ronnie gli domanda di Vasco Rossi e Andrea Pazienza (che nei suoi fumetti citava Zappa, i Sex Pistols, i Residents), risponde che gli piace; con un'intuizione folle, Red Ronnie gli chiede di intonare Albachiara di Vasco Rossi: e Andrea Pazienza, disperato, vergognandosi molto, lo fa.

E all'improvviso tutto è chiaro. Un caso, fin banale, di rinvaschimento. Andrea Pazienza non ha mai parlato di Vasco Rossi perché, probabilmente, gli piaceva davvero: e di questo piacere si vergognava. Per quanti motivi avesse, come noi per non sopportarlo, di fronte a un'Albachiara e a un cuore spezzato tutti i motivi del mondo sparivano. Respiri piano per non far rumore, ti addormenti di sera e ti risvegli col sole. Sei chiara come un'alba, sei fresca come l'aria. Diventi rossa se qualcuno ti guarda e sei fantastica a... 28 anni. Ci ho 28 anni. Non ne avrebbe compiuti 33. Forse gli sarebbe piaciuto rinvaschirsi, trasformare il suo materiale ancora tanto infiammabile in qualcosa di più commerciale, più popolare; gli sarebbe piaciuto invecchiare e diventare un monumento come quello che abbiamo ammirato in tv. Forse: ma qualcosa è andato storto; e non me ne faccio una ragione.
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In soffitta e così siae

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(di Mogol, Bacal, F'nqul)

C'era una volta una gatta
che aveva una macchia nera sul muso,
e una vecchia
soffitta vicino al mare,
con una finestra
a due passi dal cielo,
o no?

Gino Paoli, pittore e compositore.
Se la chitarra suonavo
la gatta faceva le fusa,
e una stellina
scendeva vicina vicina,
poi mi sussurrava:
"Non male, il giro di do".

Ora non abito più là.
Tutto è passato, non abito più là...
Ho una casa bellissima: bellissima, come vuoi tu.

Ma devo tutto a una gatta
che aveva una macchia nera
sul muso, e una vecchia
soffitta vicino al mare,
e un bel giro di do,
e milioni di borderò.

C'era una volta un cartello
di autori e di musicisti. Era molto bello.
Scuciva miliardi per due strofe ed un ritornello.
Bastava un giro di do...

Se dalla radio passava,
il cartello incassava i diritti - poi c'erano i dischi,
ai concerti la gente pagava
(anche per far fischi),
che gran cosa i borderò!

Ora non mi rendono più.
Tutto è passato, le radio non van più.
Ho una casa carissima, da ristrutturare anche un po'...

Gino Paoli, presidente della Siae
Ma quella troia di gatta
ormai non mi rende un euro, puttana vacca.
Sì che ho preso già più di Bach
per un giro di do
copiato a Burt Bacharach.

C'era una volta una lobby,
che infine ha spuntato un aumento
su tutti i supporti
sui quali potresti ascoltare, in qualsiasi momento,
la gatta che ho scritto io.

Tu che magari ci hai l'hobby
di fare le foto ai tuoi gatti,
e le metti su un disco
che è rigido oppure no
- quel che vuoi, me ne infischio -
ma devi i diritti a me. 

Ora non me li paghi più,
né ipad né tablet, tu non li compri più.
Li ordini on line all'estero,
ti costan meno, bastardo, perché?

Che cos'hai contro la gatta?
Vuoi proprio vedermi finire i miei giorni in soffitta
da solo a guardare il mare
da una finestra
a due passi dal cielo blu?

Col cazzo, che torno in soffitta.
Io sono un artista famoso, ci ho i miei diritti,
Anche ora canticchi La gatta... beh, io l'ho scritta!
Compilami il borderò.

Sono miei tutti i giri di Do!
Volete pagarli o no?
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Innamorarsi di venerdì (santo)

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Poterti smembrare coi denti e le mani
sapere i tuoi occhi bevuti dai cani,
di morire in croce puoi essere grato
a un brav'uomo di nome Pilato...
6 aprile 2012 - Venerdì Santo. Passione e morte di Nostro Signore

Poi per sei secoli abbiamo preso
lezioni d'amore da questo tipo
Il sei aprile 1327 era un venerdì santo, come oggi. Non è una coincidenza rara, ma nemmeno così frequente. Il sei aprile 1327 non fu un venerdì santo come tutti gli altri, in cui muore Gesù, si legano le campane, e buona notte. Il 6/4/1327 potrebbe essere "il giorno ch’al sol si scoloraro / per la pietà del suo factore i rai, / quando i’ fui preso, et non me ne guardai, / ché i be’ vostr’occhi, donna, mi legaro", insomma il giorno in cui Cecco di ser Petracco, meglio conosciuto col nom de plume di Francesco Petrarca, in una chiesa di Avignone incrocia gli occhi di Madonna Laura e si innamora per tutta la vita. Ma ci dobbiamo credere? Petrarca è un poeta tra medioevo e umanesimo, ragiona in termini di microcosmo e macrocosmo, inoltre ha la segreta ma ferma sensazione di essere il più grande poeta del secolo e ah, che ironia, in qualsiasi altro secolo avrebbe avuto ragione: dunque la sua storia d'amore non è una storiella qualsiasi, ma deve ottemperare a precise caratteristiche cosmiche, deve inchiavardarsi anche lei tra la terra e il cielo delle stelle fisse, tutto deve procedere come una complicata orologeria e se uno ci pensa bene, Francesco Petrarca non poteva che innamorarsi di venerdì santo, mentre Cristo muore e non può dargli un'occhiata "onde i miei guai / nel commune dolor s'incominciaro". Petrarca è uno di quei poeti che sembrano non tornare mai di moda. Ogni tanto qualcuno ci prova - c'è stato un centenario di recente - ma niente da fare, il petrarchismo non tira. Troppo levigato, troppo asessuato, chi lo sa. Però, se posso spezzare la lancia, sul venerdì santo Petrarca aveva avuto una bella intuizione. È il giorno perfetto per innamorarsi: c'è la primavera che spunta dappertutto, i pollini che pizzicano gli occhi ("che di lagrime son fatti uscio et varco"), ma c'è anche la morte, spesso annunciata da rovesci temporaleschi che bagnano le prime magliette a maniche corte, e certi colpi di fulmine a metà pomeriggio. Comunque non è una morte seria, non è come il mercoledì delle ceneri che porta con sé quaranta giorni di astinenze e fioretti; il venerdì santo è una morte per scherzo, l'uovo di Pasqua è già sull'alzata a centrotavola. Per chi è curioso, Francesco e Laura non ebbero nessuna storia. Lei andò forse sposa a un marchese di Sade, non quello famoso, un suo antenato; lui tre anni dopo si fece quasi prete, una cosa che nessuno dice mai, eppure sta su tutti i libri: Petrarca era un chierico. Lo sapevate? Ebbe due figli da due donne diverse, scrisse per tutta la vita caste poesie d'amore a questa Madonna Laura, fu poeta laureato e girava l'Italia in missione di pace, ma per lo più campava di benefici ecclesiastici (oggi si chiama otto per mille). (No, perché poi ci si domanda come campavano gli artisti prima della SIAE: per esempio, facevano i preti).
Ben più della morte che oggi ti vuole,
ti uccide il veleno di queste parole
le voci dei padri di quei neonati,
da Erode, per te, trucidati.
Nel lugubre scherno degli abiti nuovi
misurano a gocce il dolore che provi:
trent'anni hanno atteso col fegato in mano,
i rantoli d'un ciarlatano.
Il venerdì santo è uno di quei giorni che fa veramente la differenza tra chi è cristiano praticante e chi no. Il Natale lo festeggiano anche in Cina, ormai. Santi e profeti e parole di vita eterna ce li hanno un po' tutti, ma un Dio che muore in croce per i loro peccati ce l'hanno solo i cristiani, e ci tengono. Il palinsesto televisivo si adatta come può: un Jesus Christ Superstar qua, una Passion là - a proposito, quale dei due trovate più blasfemo? Io non ho dubbi, il super-dio di Mel Gibson che sopravvive a mazzate che stenderebbero un elefante mi sembra da scomunica. E invece ai tempi l'ufficio stampa lavorò molto bene, riuscirono in qualche modo a scrivere che il Papa lo aveva visto e gli era piaciuto. Wojtyla nel 2004 aveva un anno scarso da vivere ed è triste pensare che davvero abbia buttato via due ore per sorbirsi un film horror in latino ecclesiastico.
Si muovono, curve, le vedove in testa,
per loro non è un pomeriggio di festa;
si serran le vesti sugli occhi e sul cuore,
ma filtra dai veli il dolore.
Fedeli umiliate da un credo inumano,
che le volle schiave già prima di Abramo,
con riconoscenza ora soffron la pena
di chi perdonò a Maddalena;
di chi con un gesto, soltanto fraterno,
una nuova indulgenza insegnò al Padreterno,
e guardano in alto, trafitte dal sole,
gli spasimi d'un redentore.
A proposito del latino, fu una trovata geniale: (continua sul Post...) non importa che la pronuncia classica fosse molto diversa, la gente vedeva i sottotitoli e pensava “questa sì che è una ricostruzione seria, anvedi”. No, non era una ricostruzione seria, erano le fantasie di una mistica allucinata che metteva il demonio nell’orto degli ulivi, ma che importa: la gente crede a qualunque cosa, basta mettere i sottotitoli. Quello è stato veramente un momento in cui i preti mi hanno deluso. Non ce n’è stato uno importante che abbia detto: Guardate che è una ciofeca, filologicamente e dottrinalmente, insomma Dio si è fatto uomo, non un superman dalle vertebre d’acciaio. No, si sono incazzati solo gli ebrei (e giustamente), ma quelli stanno incazzati di default, la cosa più di tanto non fa notizia.

Confusi alla folla ti seguono muti,
sgomenti al pensiero che tu li saluti:
“A redimere il mondo”, gli serve pensare,
“il tuo sangue può certo bastare”.
La semineranno per mare e per terra
tra boschi e città, la tua buona novella,
ma questo domani, con fede migliore,
stasera è più forte il terrore.
Nessuno di loro ti grida un addio
per esser scoperto cugino di Dio:
gli apostoli han chiuso le gole alla voce,
fratello che sanguini in croce.


Questa cosa va in chiaro in prima serata, cioè, parliamone.


Ricordo in particolare un monsignore piuttosto importante, intervistato da Socci, che disse: Massì, Gibson ha commesso alcuni errori, per esempio Gesù cade un sacco di volte mentre nei Vangeli di cadute ce ne sono solo tre… ecco, un monsignore che non leggeva i Vangeli da parecchio tempo, visto che nessuno parla di tre cadute: è una tradizione medievale che si consolida con la via crucis, così come i Magi diventano tre col presepe.


Han volti distesi, già inclini al perdono,
ormai che han veduto il tuo sangue di uomo
fregiarti le membra di rivoli viola,
incapace di nuocere ancora.
Il potere vestito d’umana sembianza,
ormai ti considera morto abbastanza
e già volge lo sguardo a spiar le intenzioni
degli umili, degli straccioni;
ma gli occhi dei poveri, piangono altrove,
non sono venuti a esibire un dolore
che alla via della croce
ha proibito l’ingresso
a chi ti ama come se stesso.
Quella che invece sto citando in sottofondo, qualcuno l’avrà riconosciuta, è la Via della Croce di Fabrizio De Andrè, da quel suo disco-vangelo-apocrifo che lui stesso considerava uno dei suoi album migliori, La buona novella. In effetti è il punto d’arrivo del De Andrè cantastorie e il punto di partenza del De Andrè etnico: c’è già Pagani al flauto, c’è Branduardi alla chitarra, c’è come un senso di Palestina nell’aria. E poi ci sono momenti kitsch e geniali, come appunto Via della Croce, in cui non so se De Andrè o Gian Piero Reverberi colgono un’altra intuizione geniale: la Passione di Gesù come uno spaghetti-western. Se manca qualcosa all’arrangiamento è un’armonica, o piuttosto… no, uno scacciapensieri.


È il 1969, tutti dicono che il disco rifletta la contestazione, ma qui soprattutto riflette tantissimo Morricone, De Andrè non è mai suonato tanto Johnny Cash, tu chiudi gli occhi e vedi volti sanguinosi e sudati e tutto quadra, in modo incredibile, ti rendi conto che un Gesù-spaghetti-western avrebbe avuto molto più senso del Gesù Torture Porn di Gibson, è un vero peccato che nessuno lo abbia proposto a Sergio Leone. Ma probabilmente Paolo VI non avrebbe gradito, erano tempi diversi.

Son pallidi al volto, scavati al torace
non hanno la faccia di chi si compiace
dei gesti che ormai ti propone il dolore
eppure hanno un posto d’onore.
Non hanno negli occhi scintille di pena
non sono stupiti a vederti la schiena
piegata dal legno che a stento trascini
eppure ti stanno vicini.
Perdonali se non ti lasciano solo,
se sanno morir sulla croce anche loro;
a piangerli sotto non han che le madri,
in fondo son solo due ladri.
Due ladri. Clint Eastwood ed Eli Wallach. Perfetti. Cosa ci siamo persi.
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5 cose che nessuno sa di Dalla, forse

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Su Lucio Dalla in questi giorni è stato detto tutto di tutto, vero? No, sbagliato. Ci sono cose che persino nel coccodrillo più accurato non avete letto, per il semplice motivo che nessuno le sa - o chi le sa ha la consegna di tacere. Ve ne allungo qualcuna, senza la pretesa di far luce su nessun mistero: mi limito a far notare che di misteri ce n'è: ed è abbastanza intrigante, se si pensa all'uomo. Se si eccettua qualche strofa di Com'è profondo il mare, Dalla non ha mai coltivato l'ermetismo chic di molti suoi colleghi (vien subito in mente De Gregori, che con gli anni comunque si è molto aperto): era uno che potevi incontrare davanti alla vetrina di un negozio di strumenti musicali o in piscina e nei limiti del possibile se lo salutavi ti salutava; dava l'impressione di sentirsi a suo agio in mezzo alla gente, e la coda che vedete in Piazza Maggiore lo testimonia. In questi giorni si sono rilette diverse interviste e sembra proprio che Dalla avesse sempre da offrire all'interlocutore qualcosa di nuovo, qualcosa di suo: non era il tizio che ribadisce sempre i tre concetti e i due aneddoti e fa il muro su tutto il resto. E però a un certo punto un muro evidentemente c'è, perché noi tante cose di Dalla non le sappiamo e forse non le sapremo mai, per esempio:

1. Come ha fatto a diventare il più grande cantautore italiano nel giro di pochi mesi?
I termini della vicenda sono noti. Fino ai tardi anni Settanta Lucio Dalla ha scritto diverse musiche e almeno il testo, molto curioso, di una canzone (La capra Elisabetta), sepolta in un vecchio LP che non si è comprato nessuno (Terra di Gaibola). Ai più è noto come musicista e interprete; un ruolo simile a quello del diversissimo Lucio Battisti, salvo che quest'ultimo ha un sodalizio ormai stabile con il demenziale Mogol, mentre Dalla le sta provando tutte per rendere cantabili le strofe del poeta Roberto Roversi, in tre dischi che sono forse l'ultimo posto in cui la Musica italiana e la Poesia italiana sono state viste assieme. A un certo punto il sodalizio con Roversi si interrompe e Dalla si improvvisa cantautore, una cosa che praticamente non aveva mai fatto. Il problema, che credo abbia turbato molti suoi colleghi e persino me, è che il modo in cui si improvvisa cantautore è Com'è profondo il mare, cioè l'eccellenza assoluta nella categoria, sin dalla prima strofa che descrive l'insonnia e tante altre cose ma è anche come se dicesse: cari amici cantautori, fin qui abbiamo scherzato, ma se volete venire a prender lezioni io ne ho qui per tutti quanti, prendi questa Francesco, prendi questa Fabrizio, porta a casa Antonello eccetera.

Siamo noi
Siamo in tanti
Ci nascondiamo di notte
Per paura degli automobilisti
Dei linotipisti
Siamo i gatti neri
Siamo i pessimisti
Siamo i cattivi pensieri
E non abbiamo da mangiare
Com'è profondo il mare
Com'è profondo il mare


Non so se avete presente quella scena nei film americani in cui una ragazzina che fino a quel momento non aveva mai provato i pattini / la ginnastica acrobatica / la danza moderna / il softball fa un tentativo e bum! diventa campionessa assoluta del mondo mondiale, queste cose capitano appunto soltanto nei film americani per teenager e nella vita di Lucio Dalla, che ha cominciato a scrivere testi, immaginate, a 35 anni, e ha cominciato direttamente dai capolavori (tutto quel disco sembra scritto da un signore che abbia la lingua italiana a sua immediata e completa disposizione). Non lo so, avete delle ipotesi? Vuoi dire che se le scrivesse già da prima intestandole a dei prestanome perché era timido? O che sono davvero tutti buoni a fare i parolieri, che ci vuole? Non lo sapremo mai. Qualcuno di voi ha 35 anni e non ha mai scritto una canzone in vita sua? Controlli se per caso non è il più grande paroliere degli anni Dieci, magari ci fa un favore a tutti.

2. Chi amava Lucio Dalla?
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Stan giocando alla radio e al telefono

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Di certi si dice: o lo ami o lo odi. Altri sono talmente grandi da toglierti la necessità della scelta, sono parte del paesaggio e il più delle volte li dai per scontati. Alla fine è raro che ti fermi ad ascoltare, sai che comunque sono lì e che ci resteranno. Lucio Dalla è lì, e ci resta. Come tutti i monumenti, ci si passa davanti tutti i giorni ed è già tanto se non ci danno fastidio, coi loro Attenti al Lupo e i loro Caruso. Poi un giorno ti fermi e scopri un dettaglio incredibile, una cosa che è lì da anni e nessuno sembra notare più, Terra di Gaibola o Automobili, un musicarello o una sinfonia.



Alcuni, se sono fortunati, riescono a morire prima di passare di moda. Con Dalla non si poneva il problema. Gran parte di quello che aveva fatto nei suoi primi 35 anni suonava già desueto e misterioso nel 1983. Tra qualche settimana, quando nell'etere radiotelevisivo si saranno depositati i Balla ballerino e i Disperato erotico stomp di circostanza, rivedremo alla finestra quell'enorme paesaggio da scoprire. Canzoni che ci siamo dimenticati o, nella migliore delle ipotesi, non abbiamo mai ascoltato. Magari sarà la volta buona.
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Anche se non mi vuoi bene telefonami

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Io poi non vorrei che tutto questo fatuo chiacchiericcio agostano c'impedisse di concentrarci sulle vere emergenze, sui veri problemi che sono quelli che interessano la gente, tipo, le medicine che sta assumendo Vasco.


Neanche Vasco si sente tanto bene (H1t#86) è sull'Unita.it e si commenta laggiù.

Nota: non è un pezzo serio sui problemi di Vasco. Per quello forse vale la pena leggere Madeddu (no, non è serissimo neanche lui, comunque).

Che resta da dire? Ah, sì, l'immagine è tratta da quel gioiellino di tumblr che è Il grande umarell di Zocca.

Con gli utili che calano, l'aliquota che scende, la pensione che diventa un miraggio, il tfr che scompare anche in quanto miraggio, signori, io vi invidio.

Coi mercati che crollano, poi recuperano, poi ricrollano, poi uno si stanca e butta tutto sul conto corrente, poi sente parlare di prelievo forzoso e li infila nel materasso; poi arriva equitalia e ti preleva anche quello; con tutto questo; Dio che invidia che mi fate.

Col governo precettato ad agosto, coi ministri impazziti che ancora non si rendono conto di come sia possibile che invece di essere sulla spiaggia di Bali sono lì davanti ai riflettori a dirci che aboliranno trentotto province, millanta comuni, e a grondarci il sangue addosso, poverini, io mi rodo. Col governo che prende ordini dalla banca centrale che prende ordini dalle agenzie di rating che si basano sulle analisi di analisti che non hanno previsto gli ultimi dieci anni di crisi, io mi rodo, sì, mi rodo d'invidia per voi.

Con l'Italia sull'orlo della Grecia, la Grecia sull'orlo dell'Africa, L'Africa in piena carestia; con l'Egitto che si rimangia la rivoluzione e la Libia che abbiamo dimenticato come un fornello acceso sotto quel mediterraneo che inghiotte barconi di gente che si ammazza per l'onore di arrivare viva nei nostri prestigiosi campi di concentramento; coi pirati somali, i teppisti inglesi, i nazisti norvegesi; con le strade del centro mai così piene ad agosto, di gente che chiacchiera triste e ignora i negozi che urlano SALDI SALDI, SAAAALDI, OH HAI CAPITO CHE CI SONO I SALDI? Con tutto questo io vi invidio, vi invidio così tanto.

Perché con l'afa e gli uragani, gli incendi e i tifoni, il riscaldamento globale e un'altra scossa a Fukushima, l'inquinamento e la sovrappopolazione, voi siete lì che vi preoccupate perché Vasco assume farmaci, finalmente, con la ricetta medica. E forza Vasco, e povero Vasco, e tieni duro Vasco, e come stai stamane Vasco.

Ma come volete che stia Vasco, alla sua età, col lavoro che fa? E siete sicuri che stia peggio di voi, vi siete visti allo specchio ultimamente?  http://leonardo.blogspot.com
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Nel frattempo ho scritto altre canzoni

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Di lui parlano raramente

- C'è amore e amore. Con alcuni rimani in buoni contatti. Con altri no, è difficile anche spiegare il perché, ad esempio, io Francesco De Gregori cerchi il più possibile di evitarlo: cambio stazione, cambio canale, cambierei pure marciapiede se me lo trovassi di nuovo davanti in viale Indipendenza (mi sembrò un gigante). C'è qualcosa che non gli perdono, ma è stato tanto tempo fa, non ricordo nemmeno cosa. Di certo ha distrutto tante canzoni che mi piacevano, scartavetrandole con una voce che non riesco più a sopportare, ma è colpa sua? Lui ha preso la sua strada, io la mia, da qualche parte c'è una casa più calda, sicuramente esiste un uomo migliore. Francesco De Gregori in ogni caso mi ha cambiato un po' la vita. Sì, lo so, son cose che si dicono. Voglio precisare che questo accadeva in tempi diversi, quando la mia vita cambiava un poco tutti i giorni, come le costellazioni sempre nuove dei brufoli sulla mia faccia prima che mi prescrivessero un farmaco in seguito proibito perché gli adolescenti si suicidavano. Io non mi sono suicidato. Pensavo tanto alla morte, questo sì, ascoltavo i dischi emo del giovane De Gregori. Ma non voglio parlarvi di questo.

Voglio fare una confessione, di quelle pesanti. Io sono stato antiabortista.

Sì, esatto. È successo. Ero giovane. Troppo giovane per votare a qualsiasi referendum o picchettare un consultorio, ma promettevo bene. Ero convinto che l'aborto fosse un omicidio e punto. Tuttora, non escludo che lo sia: voglio dire che non ho sostituito una fede a un'altra; semplicemente si è fatto strada il dubbio. È stato un processo lento. Ogni tanto però la mia coscienza si dava una scrollata, ogni tanto cascava qualche calcinaccio di ortodossia. Non è che mi ricordi tutte le fasi del processo, non tenevo mica un blog. Però un momento me lo ricordo bene, e fu mentre ascoltavo un pezzo di De Gregori con il foglietto del testo in mano – quei foglietti che facevano copertina alle musicassette, avete presente. La canzone non è un granché, da un punto di vista musicale appartiene di striscio a quei tardi anni Ottanta che furono micidiali per le sonorità dei cantautori italiani, e in particolare a quel sottogenere che battezzerei: “fàmolo reggae”, perché dopo la calata di Marley a San Siro ci fu una fase in cui tutti i cantautori dovevano avere un pezzo reggae in scaletta, come se glielo avesse ordinato il dottore; e meno male che c'era Fossati a tirar su la media, ma devo dire che a me piacciono tutti, questi fintissimi reggae italiani anni Ottanta, perfino Nisida di Bennato, sì, persino Voglio andare al mare, tutte le volte che li riascolto mi fanno sentire a Pinarella. Anche il pezzo “fàmolo reggae” di De Gregori sta su un disco che si chiama Miramare, e che non credo che riascolterò mai più. Si intitola Dottor Dobermann, ed è la brevissima storia di un chirurgo obiettore di coscienza, con una bella clinica dove lavora al pomeriggio. E dunque qual è il prezzo, qual è il prezzo, dottor Dobermann? Qual è il prezzo che va pagato? per le cose che ti secca fare in pubblico, ma ti rendono bene in privato? Tanti soldi, niente tasse, e non c'è scandalo: non è nemmeno peccato...

Tutto qui? Tutto qui. Ero giovane, e può darsi che di medici ipocriti, obiettori di coscienza al mattino che ammazzavano a pagamento nel pomeriggio, avessi già sentito parlare. Però De Gregori questa storiella me la rimise davanti, e qualcosa in me cambiò. Non è che il grande cantautore abbia fatto, nell'occasione, nulla di eccezionale: ha preso una storia risaputa e ci ha messo sotto quattro accordi in levare. Non è per questo che lo celebreranno musicologi e critici letterari.

D'altro canto, per me è esattamente quello che deve fare un artista, o un poeta. È anche quello che devo fare io. Devo prendere piccole storie, già sapute, sbatterle in faccia al lettore e provare a fargli cambiare idea. È un progetto folle e dissennato, più ci penso più mi rendo conto. La gente non cambia quasi mai idea, specie dopo i trent'anni. Io però continuo a cercare qua e là le mie storielline, a intonare le mie canzoncine, per chi lo faccio? Il mio target probabilmente è un ragazzetto brufoloso disposto a cambiare idea come si cambiano i gusti musicali, di punto in bianco, quando qualcuno ti propone uno spunto diverso e interessante. Insomma, se è successo a me di cambiare idea ascoltando una canzone, potrà ben succedere a qualcun altro, e io voglio provarci. Non so se sia il motivo per cui De Gregori cantava nell'89 e si ostina a farlo oggi. Però è il motivo per cui io provo a scrivere qualcosa di nuovo tutti i giorni. E lo so che non scriverò mai la Donna cannone, nemmeno ci provo. Sono più che contento se ogni tanto mi esce un Dottor Dobermann. Così buon compleanno, signor De Gregori. Lei è stato molto importante per me.
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La banda dei Luca

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Gli incubi del prof. Esso, 2
(Delirio)

Che strano. Mi trovo nel corridoio della scuola, ma è notte. Mi domando chi mi avrà fatto entrare.
“Buongiorno prof. Esso”.
Toh, ma chi si vede. Rossi Luca! Ma che ci fai tu qui, le lezioni cominciano martedì, e inoltre...
“Buongiorno prof. Esso”.
“Verdi Luca, che sorpresa! Ma tu ti sei diplomato tre anni fa, se non mi sbaglio, oppure...”
“Buongiorno prof. Esso”.
“E tu chi accidenti saresti... aspetta, ce l'ho sulla punta della lingua... mi rigasti una fiancata nel duemilaetré se non sbaglio...”
“Bianchi”.
“Bianchi, certo, e di nome...”
“Luca”.
“Luca, ma quella volta, scusa, perché non me la rigasti fino in fondo! L'assicurazione non me la rimborsò perché non superava la franchigia, insomma, se volete fare le cose almeno fatele bene, dico sempre io...”
“Ma non tace mai?”
“Prova ad alzare la mano, a volte funziona”.
“Professore, si starà domandando perché la evochiamo”.
“Come sarebbe a dire che mi state evocando? Al massimo sono io che sto evocando voi”.
“È un punto di vista. In ogni caso si tratta di questo: lei è uno dei pochi esponenti del mondo adulto di cui ci fidiamo...”
“Oh, grazie, questo è molto commovente, ecco uno di quei momenti che mi ripagano delle frustrazioni di una...”
“E quindi ci dovrebbe aiutare a occultare un cadavere”.
Eh?”
“Naturalmente non è che glielo chiediamo a gratis, insomma, se lei ci fa questa cosa per noi, noi poi ci sdebitiamo, abbiamo già trovato un modo...”
“Ma come sarebbe a dire un cadavere, scusate? Intendo dire, non è per caso che fino a qualche ora fa fosse ancora vivo e poi qualcuno di voi si sia adoperato in tal senso...”
“Lei è molto perspicace".
"In effetti ci siamo adoperati concretamente in tal senso tutti e tre”.
“Molto concretamente”.
“O mio Dio”.
“Tuttavia un conto è trasformare una persona in cadavere – questo era alla portata delle nostre capacità di teenager coglioni – un altro paio di maniche è farlo sparire, per queste cose serve come minimo il baule di una macchina e quindi, in definitiva, un adulto facilmente manipolab...”
“Ma perché, perché? Tutte queste cose brutte, l'odio, la violenza, il bullismo...”
“Ecco, ha detto bene, il bullismo”.
“È diventata una vera piaga negli ultimi anni, prof, lo ha notato?”
“Dico, uno fa tutto il possibile per restare calmo, non rispondere alle provocazioni... ma non serve a niente”.
“Si attaccano a tutto per prenderti in giro. Se sei biondo ti danno del biondo, se sei scuro ti danno dello scuro...”
“Non dico poi se i tuoi genitori ti hanno dato un nome appena appena stravagante... è la fine”.
“Ma i vostri genitori non vi hanno lasciato nomi stravaganti”.
“Certo che no”.
“Ci volevano bene, i nostri genitori”.
“Hanno fatto tutto il possibile per non farci spuntare dal mucchio”.
“Sin da piccoli ci hanno sempre infilato in tutte le code possibili... ci hanno sempre raccomandato di guardarsi intorno e poi fare quello che fa la maggioranza... i nostri genitori non hanno nessuna colpa”.
“Pensi solo a come ci hanno chiamato: Luca”.
“Capirei “Filippo”. Capirei “Giuseppe”. Ma come si fa a prendere in giro un Luca? È il nome più neutro che c'è. Fino all'anno scorso nessuno ti prendeva in giro se ti chiamavi Luca”.
“Fino all'anno scorso? E poi?”
“E poi è successo quello che è successo”.
“Il disastro”.
“La catastrofe”.
“L'armagheddon”.
“Complimenti per i sinonimi, si vede che avete avuto un buon insegnante, ma insomma, stringendo...”
“Luca, credo sia venuto il momento di mostrarglielo”.
“Va bene Luca, apro l'armadietto”.
“Che buffo, nella scuole dei sogni ci sono gli armadietti. Si vede proprio che il nostro immaginario è americano, e inoltre... O. Mio. Dio. Ma quello è...
“Proprio lui”.
“...il celebre cantante Povia!”
“Si riconosce ancora molto bene, maledizione”.
“Abbiamo provato anche a staccargli la testa, ma col coltellino non è mica facile”.
“Ma poverino, cosa vi aveva fatto di male?”
“Cosa ci aveva fatto? Ci sta veramente chiedendo cosa ci ha fatto di male?”
“Ci ha distrutto!”
“Ma lo sa che ci sono ragazzi che non escono di casa da mesi, per colpa sua?”
“Per colpa sua? Non capisco”.
“Sua e della sua maledetta canzone! Quella dei gay”.
“No, aspettate. Capisco che il testo potesse essere discutibile e anche un pelo omofobico, ma da qui a ritenere Povia responsabile dell'ondata di omofobia degli ultimi mesi...”
“Ma che sta dicendo?”
“Crede che noi ce l'abbiamo con Povia perché siamo gay”.
“Anche lui? Ma allora non c'è speranza”.
“Professore, ma con rispetto parlando, chi se ne frega dei gay. Noi non ce l'abbiamo con Povia perché siamo gay”.
“E allora perché, non capisco...”
“Ma perché ci chiamiamo Luca, ecco perché! Da quando ha portato a Sanremo quella maledetta canzone, tutti i nostri compagni ci prendono in giro”.
“Aaaah, ora mi è chiaro. Luca era gay”.
“Tutti a dire: Ti chiami Luca? Ihihih! Allora eri gay”.
“Ma noi non siamo gay”.
“Non vogliamo che la gente dice che siamo gay”.
“O anche che lo eravamo”.
“Uno passa i migliori anni della sua vita a disegnare piselli nei bagni della scuola per costruirsi un'immagine di macho, e poi arriva 'sto cantante col suo ritornello del c...”
“Abbiamo cercato di spiegarglielo a tutti, ma più glielo spieghiamo più loro insistono, più loro insistono più noi ci arrabbiamo, è un vero fenomeno a livello nazionale”.
“Così ci siamo organizzati. Abbiamo fondato un'associazione”.
“Un'associazione per i diritti dei Luca?”
“No, un'associazione per spaccare la faccia a Povia. Poi però forse abbiamo trasceso”.
“È colpa di Luca, glielo avevo detto di lasciare a casa il tirapugni chiodato”.
“Luca, Luca, Luca, sentite, tutto questo non può essere vero. Voglio dire, era solo una canzone che parlava di uno che a un certo punto della vita era gay. Sono cose che succedono”.
“Sì, ma perché l'ha chiamato proprio Luca?”
“Perché, mah, perché è un nome semplice, molto comune, perché sta in metrica... ma non sarebbe stata la stessa cosa se avesse usato, che ne so, Giovanni?”
“Ah, perché Giovanni era gay?”
“Ma certo che era gay, l'ho sempre detto io”.
“Ma no... Sentite, non so come spiegarvelo... quello che avete fatto è molto sbagliato. Molto molto molto sbagliato. Forse vi sentivate presi di mira, ma questo non vi autorizzava a... l'odio non è mai la risposta, la violenza è brutta, e inoltre...”
“Luca, questo è capace di andare avanti tutta notte così”.
“Lo so, Luca, è meglio che apriamo subito il secondo armadietto”.
“Oh, e va bene. Prof, senta, noi lo sapevamo che lei non avrebbe preso la cosa molto bene, e quindi abbiamo pensato di addolcire la pillola un po'”.
“In che modo?”
“Già che siamo in tema di ammazzare cantanti, ci siamo chiesti se non c'era un cantante che le avrebbe fatto piacere trovare legato e incaprettato nel suo armadietto...”
“A disposizione della sua troppo giusta ira”.
“Ma siete veramente folli. Io ammazzare un cantante? E perché mai? Io non ce l'ho con nessuno, e in particolare con nessun cantante”.
“Neanche uno?”
“Ma ci mancherebbe, al massimo se sono in coda in autostrada e Isoradio mette su Gianni Togni o Sandro Giacobbe mi adonto un po', ma so che non è colpa loro e quindi...”
“Va bene, Luca, apri l'armadietto”.

"Hmmm-mmm!"
“Ma questo... questo non è un cantante”.
“In senso stretto forse no...”
“Questo è...”
“Tricarico. Quello schifoso pezzo di...”
“Immaginavamo che avesse, come dire, una certa animosità nei suoi confronti”.
“Animosità? Questo, come definirlo, questo tra virgolette uomo, che ha fatto successo vendendo ai bambini un disco che diceva Puttana la maestra. Che se mi fossi capitato tra le mani, io...”
“Prof, guardi che è così. Le è capitato tra le mani”.
“Già”.

Hmmm-mmmm!

“Luca, passami il tirapugni chiodato”.
“Prof, ma è sicuro? In fondo era solo una canzone”.
“Una canzone? Ma mia mamma faceva la maestra! E la mamma, la mamma non si tocca”.
“Ma non parlava della sua mamma, era una maestra in generale”
“Non importa! Ricordo quell'anno, i bambini ai giardinetti che cantavano Puttana Puttana, e tutto questo per arricchire un cantante-sacco-di...”
“Ma se rammento bene, la canzone descriveva un trauma vissuto nell'età evolutiva”.
“Dammi qua, glielo do io il trauma a Tricarico. Toh!”

HMMM!

“E toh! Cioè, questi arrivano a scuola orfani ed è sempre colpa delle maestre, sempre colpa del servizio pubblico, toh! ma non ti vergogni a speculare sui traumi infantili anche tuoi, ma sai che ti dico, il tema su tuo padre morto te lo doveva far scrivere in ginocchio sui ceci! E prendi questa! E questa!”
“Be', ma guarda che roba”.
“Abbiamo liberato una belva, mi sa”
“E questa! e questa! e...”
“Professore, basta così, è morto già da cinque minuti”.
“Ah sì? Strano, non mi sento per niente in colpa”.
“Adesso però deve liberarsi del corpo”.
“Ah, già, mi servono dei sacchi di nylon... una paletta... e devo andare a prendere la macchina”.
“Allora già che c'è può sbarazzarsi anche del nostro, cosa dice?”
“Beh, se insistete”.
“Grazie prof, sa che le dico? Io credo che stanotte noi non abbiamo solamente sfogato i nostri istinti bestiali”.
“Ah no?”
“No, noi stanotte abbiamo fatto qualcosa d'importante per la musica italiana”.
“Di solito a questo punto però mi sveglio sudato”.
“E perché prof? Non è mica un incubo questo”.
“Ah no?”
“Ma no, è un sogno come un altro. Più piacevole di altri”.

....

“Dormito bene stanotte?”
“Fatto un sogno strano... c'erano Qui Quo Qua che però erano tre miei studenti un po' bulli che ammazzavano Povia... e allora io per non essere da meno dovevo far fuori Tricarico, e poi...”
“Quand'è che ricominci a lavorare?”
“Dici che ne ho bisogno?”
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Angela credimi, io non volevo

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Di un amore, ormai troppo lontano

#1. Mentre i ventennali e i quarantennali di solito funzionano bene, i trentennali hanno un che di bolso. Saranno i capelli grigi e radi, o i chili superflui, ma insomma, è così. Io non ho veramente voglia di sentire Lucia Annunziata che parla del ’77. Piuttosto rimettete su Tenco, lui sì che si è conservato in forma.

#2. Come fa a non piacerti Tenco? E d’altro canto: chi può dire di amarlo davvero? Quanto resiste una raccolta di Tenco sul tuo lettore? Se è ancora un amore, è comunque molto impegnativo. Con quella voce così educata. Un po' troppo perfetta.

#3. Nessuno canta come Tenco. Ieri sera Baglioni in tv è uscito a pezzi da Lontano lontano. Non c’è verso di cantarla senza sgolarsi. Tenco (almeno in studio) non si sgolava mai. Arrivava a tutte le note che voleva, col timbro giusto e l’espressione adatta. Ma è una perfezione un po’ fredda, ecco.

#4. Di Tenco conosciamo tutti solo una manciata di canzoni, eppure è stato un artista prolifico e, a suo modo, versatile. Ha svariato in tutti i generi a disposizione in quel momento: rock’n’roll alla Celentano, jazz, spiritual, canzone di protesta. Ha fatto in tempo a scoprire lo yé-yé (non fu una grandissima scoperta). Ma sotto tante maschere la voce era sempre la stessa, scolpita e inconfondibile.
Su alcuni esperimenti è calato un omertoso silenzio: per esempio, è molto difficile trovare la sua versione beat di Blowing in the wind in italiano. Ripeto: esiste una versione beat di Blowing in the wind in italiano. Cantata da Luigi Tenco. Funziona? Mica tanto. A Tenco venivano bene le canzoni confidenziali. Ma a lui stavano strette. Era uno sperimentatore, mettiamola così. La leggenda dell’artista maledetto fa a pugni con un repertorio molto più paraculo: uno che il successo lo ha corteggiato in tanti modi, senza mai trovarci la soddisfazione che cercava.

#5. (Ma le hai mai sentite le versioni jazz di Tiziana Ghiglioni, magari con Fresu alla tromba? Io le preferisco spesso agli originali. Ma conosco gente che non le sopporta). Qui c'è Mi sono innamorato di te.

#6. Di solito una canzone mette in versi una storia, o un sentimento. Ma Tenco a volte quando canta lascia l’impressione di dire le cose come stanno, senza neanche un grammo di poesia. “Tu non hai capito niente”. “Quando la sera ritorno a casa non ho neanche la voglia di parlare”. Questa non è poesia, è prosa. Vedi una strofa come questa:
Io sono uno che sorride di rado, questo è vero, ma in giro ce ne sono già tanti che ridono e sorridono sempre però poi non ti dicono mai cosa pensano dentro.

Non mancano solo le rime: manca qualsiasi figura retorica, anche minima; qualunque velleità di far poesia. Mondo Marcio è molto, molto più formale. Luigi Tenco, il Grado Zero della canzone.

#7. La retorica dell’uomo di poche parole che dice solo la verità col tempo stucca. Ma alcune di queste canzoni a grado zero sono davvero capolavori di chiarezza e di sintesi: strofe che puoi scolpire sulle lapidi. Tra trenta o novant’anni sarà difficile capire quel che avevano da dire De Gregori o Frankie Hi-NRG. Troppi riferimenti culturali, che col tempo scadono.
Invece Ciao Amore Ciao vorrà sempre dire Ciao Amore Ciao. Per anni in quella canzone non ho trovato niente di speciale, niente per cui valesse la pena spararsi in testa. Poi forse ho capito: è un inno scritto col lessico di una lista della spesa. Le parole del ’67 suonano uguali nel ’07, e i nostri nipoti le riascolteranno tali e quali nel ’47.

#8. Anche Tenco sapeva raccontare una storia, quando voleva. La mia preferita è Angela, una delle poche canzoni italiane ‘teatrali’ che reggono il confronto con Jacques Brel. Guarda il bel tenebroso trasfigurarsi in un libertino senza cuore…
Volevo farti piangere
vedere le tue lacrime
sentire che il tuo cuore
è nelle miiie mani.

(Senti quanto freddo in quelle suuue mani).
…finché il sipario non si strappa e non rivela altro che un vitellone sfigato! Ti prego, Angela, no, non andartene, non puoi lasciarmi quaggiù da solo… E tutto in meno di tre minuti! Avesse inciso solo questa canzone, sarebbe già il grande Luigi Tenco. Ed era una delle sue prime canzoni.

#9. Invece la canzone più brutta di Tenco (secondo me) si chiama No, non è vero. È un esperimento strano, ispirato al call-and-response degli spiritual americani: c’è un coro che martella, e Tenco in mezzo vocalizza. Il problema è che il coro esordisce con amenità del tipo “La tua donna se n’è andata e mai più ritornerà”, mentre Tenco continua a sgolarsi cantando “No, non è possibile, vi prego, no, no, no”. Tre minuti di sgozzamento emotivo.

#10. Il rovescio di Angela è Lontano lontano, una fantasia di morte da adolescenti. Sindrome di onnipotenza: per quanto tu possa andare lontano, ti porterai sempre con te il mio fantasma. Sempre.
Crescendo scopriamo che non è così: che le persone amate si dimenticano, eccome. Si dimenticano anche i morti. Si dimentica tutto, per sopravvivere. C’è gente al mondo, neanche troppo lontano da qui, che non mi ricorda più: a cui non capita più di parlare di me con nessuno, né per caso né per scelta. E anch’io faccio lo stesso.

Ma questo forse non vale per Tenco. Ancora adesso, senza un perché, mi capita di pensare a lui.
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- domani all'amore si fa

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Menica, menica
(scaricala in lo-fi)

Scarpe nuove mi son messo,
il cappello nero in testa:
devo andare alla Gran Messa
col vestito della festa.

Per sembrare intelligente
curo molto l'espressione,
mentre passo tra la gente
che cammina in processione…

Menica menica, oggi è domenica:
tutti a passeggio si va.
Menica menica, oggi è domenica
Ognun mi saluterà
.

Dopo avere ben mangiato
salto sulla mia Gilera
e mi lancio a perdifiato
verso l'unica Balera.

Ecco là sullo stradone,
con le scarpe di coppale,
tutte fragole e lampone
due ragazze mica male…

Menica menica, oggi è domenica
Festa in paese si fa
Menica menica, oggi è domenica
Tutti a ballare si va


Ecco attacca l'orchestrina
la mazurca indiavolata:
io rimango in magliettina,
lei è già tutta sudata.

A me pare appetitosa,
pur se sa di brillantina;
le sussurro qualche cosa,
lei mi fa una risatina…

Menica menica, oggi è domenica
Oggi all'amore si fa
Menica menica, oggi è domenica
Tutto doman finirà
Finirà
Finirà

***

Come molti, io non sono mai riuscito a trovare l’anima al liscio. Che i miei vecchi trascorressero le rare ore di svago a scimmiottare i valzer della corte di Vienna era un fatto: ma, ecco, era un fatto poco interessante e abbastanza triste, tutto qui. Quale folclore, quale cultura? tre quarti con bassi pompati e arpeggi facili: il nonno del tecno era superficiale quanto il nipote. Si trattava solo di una superficialità diversa: la scimmia ammaestrata che imita i padroni contro la nuova scimmia postmoderna che ritrova la jungla al cocoricò. Io invece ci tenevo ad avere una storia, delle radici, bla, bla.

A proposito delle mie radici: i miei genitori mi hanno lasciato in eredità una sola cassettina: tre pezzi di De Andrè, tre di Paoli, tre di Lauzi. Ritornerai e il Poeta le conoscono tutti. La terza è Menica Menica, e non ho mai trovato qualcuno che la conoscesse – solo qualche rara traccia su e-mule.

Per me è bellissima, e spietata. La provincia è radiografata in tutta la sua nullezza, con un’economia di parole che fa spavento. “Per sembrare intelligente / curo molto l’espressione”… Lauzi non ha nemmeno bisogno di dirlo, che la “gente che cammina in processione” è fatta di tante maschere nude come lui. “Dopo avere ben mangiato”… e lo stomaco ti si riempie come alle due e mezza di un giorno di festa. E basta la parola “Gilera” per annusare il polverone di una strada sterrata, che a un tratto si dirada e nel nulla compare la prima e ultima spiaggia, l’Unica Balera.

Spietato come Flaubert, laconico come Ungaretti. Lui rimane in magliettina, lei è già tutta sudata, e poi via, si fa all’amore. Presto, che domani (non c’è neanche bisogno di dirlo!) è lunedì. E qui improvvisamente la voce si fa più fievole, e ti scarica addosso generazioni intere di pietà e malinconia. Che cosa ti aspettavi? Gratti la brillantina e senti il fieno. Questa è gente che per essere ipocrita e superficiale aveva un solo giorno alla settimana.

De Andrè ci avrebbe messo due strofe in più (Guccini il doppio). Tenco si sarebbe perso per strada a litigare col destino. Lauzi ci mette esattamente tre strofe, tre giri di valzer. Io non sono mai riuscito a trovare un’anima al liscio, finché non ho sentito Menica, Menica. Bruno Lauzi era un poeta, e se n’è andato. Voi passate un buon week end.
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- toh, chi si vede, l'illuso di sempre

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Quando non hai talento né tecnica, puoi sempre tirar fuori una Vocina.

Mi riferisco alla banale arte delle cover. Per esempio c’è un gruppo italiano, non voglio neanche dire il nome, che non avendo né molta tecnica né talento, si riduce ogni tot anni a rispolverare un classico italiano, e a metterlo in bocca a una Vocina. Perché funziona sempre, la Vocina. Gradevole, non impegnativa, abbinata con elettronica soft impersonale quanto basta. E il gioco è fatto (continua su Grazia.blog)
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Sprangate Mario

"Leonardo, la tua missione di stasera è la seguente:
in 6000 battute devi infilare Eugenio Scalfari, Quentin Tarantino, la Gialappa's Band, Stan Lee, Umberto Eco, Renzo Arbore, Silvio Berlusconi e Liala, usare al meno una volta la parola "generazione", le prime righe dell'Inno di Mameli e una citazione dall'Antico Testamento a scelta.
Il brano deve inoltre riassumere l'evoluzione dei gusti e dei costumi degli italiani negli ultimi 15 anni, e terminare con un invito alla speranza.
Questo cappello introduttivo si autodistruggerà in 90 sec… – puf.


Ora (e poi magari cambiamo argomento), se dovessi riassumere in due parole gli anni '90, per prima userei "autoindulgenza". Questo è lo spirito profondo del Bar Mario: un posto dove tutti possiamo continuare a essere quelli che siamo, con le nostre discussioni sul campionato, le partitine, il flipper, eccetera. Senza bisogno di uscire, perché fuori non c'è nulla di meglio, anzi: sono gli altri che spingono per venire al nostro bar (e noi li fermiamo alla frontiera).
L'altra parola che userei è "sdoganare", che ha assunto un significato nuovo proprio in quel decennio, in un contesto che davvero più significativo non si può. I più anziani se lo ricorderanno: la usò il fondatore del gruppo L'Espresso/Repubblica (Eugenio Scalfari) per riferirla al fondatore del gruppo Mediaset/Mondadori (Silvio Berlusconi). L'oggetto "sdoganato" in questione era il Movimento Sociale di Gianfranco Fini, uno dei tanti oggetti trash degli anni '80 che nel decennio seguente è diventato qualcosa di importante, con cui fare i conti, un fenomeno sociale, di costume, una pagina di Storia, fratelli d'Italia l'Italia s'è desta (la simpatica marcetta che negli ultimi anni si sente cantare con sempre minore ironia). Ma tra mondo-Mediaset e mondo-Espresso c'è veramente poco che in quegli anni non sia stato "sdoganato", rivalutato, riabilitato, elevato a fatto di costume e quindi di cultura.

Ma c'è poi differenza con i due innamorati postmoderni di Eco (ne parlavamo qui), quelli della frase "per dirla con Liala, ti amo disperatamente?" Sì: la differenza è che quei due 'citavano' Liala (e la citazione non poteva non andare senza ironia); i loro fratelli minori post-post-moderni la 'sdoganano': niente più ironia, Liala diventa un'autentica maestra di vita. Ed ecco che in libreria arrivano nuove scrittrici (e scrittori) che a Liala si rifanno senza pudore, anche con un certo orgoglio.
Ecco il limite di postmoderno e parodia: per funzionare, hanno bisogno di una comunità di fruitori che condivida tutta una serie di conoscenze: ergo, non possono durare molto più di una generazione. Poi, fatalmente, vengono fraintesi, presi sul serio, 'sdoganati'. La parodia diventa copia conforme all'originale, l'ironia sempre più rarefatta, fino a scomparire del tutto, in una nuvoletta di autindulganza. Uno rimasto in pieni anni '90 è Tarantino: lui non si prende gioco della 'pulp fiction' che ha nutrito il suo immaginario: l'ha sdoganata da un pezzo e adesso la rimette in scena, semplicemente. Mette una dozzina di boss giapponesi intorno a un tavolo, ci scappa una testa mozzata e lui spiega: la scena si rifà ai Yakuza movies. Tutto qui? Sì, tutto qui. Dobbiamo ridere? No, non fa ridere. Dobbiamo semplicemente passarci il tempo, siamo al Bar Mario e stiamo riguardando per l'ennesima volta quel film con Bruslì. O i cartoni dell'Uomo Ragno, riveduti e riadattati al 2004, ma filologicamente fedeli agli albi originali di Stan Lee. Allora vien voglia di andarseli a rileggere davvero, gli albi di Lee, per scoprire una cosa piuttosto curiosa: era più ironico lui, nei confronti di un modello narrativo ormai troppo rodato e ridicolo (Superman, di cui l'imbranato e caustico uomo ragno era già parodia), che Sam Raimi, nel 2004, con la sua pretesa di dare evidenza plastica e drammatica a un Doctor Octopus che quarant'anni prima era solo uno spauracchio per bambini. Stan Lee era postmoderno! Noi, al confronto, poveri primitivi. Ecco, non c'è nulla di nuovo sotto il sole.

Un altro esempio, prima di morir di noia. Due decenni riassunti in due programmi tv: Indietro Tutta e Mai dire Gol.
Cosa hanno in comune? Sono due trasmissioni caciarone e, in modo diverso, innovative (vogliamo usare la parola? Rivoluzionarie). Entrambe arrivano a rivoluzionare la tv attraverso l'improvvisazione. Entrambe fanno tv al quadrato: Indietro Tutta è una parodia del quiz nazional-popolare, Mai dire Gol comincia a parodiare le interviste dei calciatori e poi dal calcio finisce a invadere tutto il palinsesto, fino alla recente reincarnazione in Mai dire Grande Fratello.
E cosa hanno di diverso? Per prima cosa, la durata. Arbore mise fine bruscamente all'esperimento Indietro Tutta dopo neanche una stagione: niente repliche. Aveva capito quando fermarsi. Non si può improvvisare in eterno: prima o poi si finisce per fossilizzarsi negli stessi riff. Ma non poteva rendersi conto nel 1987 di quanto le ragazze coccodè o il cacao meravigliao non fossero una presa in giro di una tv che non c'era ancora, bensì l'anticipazione della tv che ci sarebbe stata, tutta tette e televendite, sempre più sorrisi e sempre meno ironia. O forse sì? Si era reso conto che, invece di ridere della pessima tv, l'aveva 'sdoganata'? Può darsi: in seguito ha lasciato il Paese e si è dato alla missione di sdoganare le orchestre di liscio nel mondo.
La Gialappa, per contro, sta per riuscire in quello che non è riuscito a Pippo Baudo o Corrado: sopravvivere a Mike Bongiorno, diventare i conduttori più longevi della tv italiana. A differenza di Arbore, che ha rotto il giocattolo appena ha capito che stava diventando qualcosa di serio, Mai dire Gol è diventato negli anni lo sdoganatore per eccellenza. I calciatori hanno imparato a dare risposte buffe per guadagnarsi un passaggio televisivo in più: le bellone hanno imparato a ridere a bocca spalancata. Dai e dai, con due o tre battute fuoricampo si sono sdoganate pure le ballerine. E i reality show. A 15 anni di distanza, la domenica sera di Italia 1 è diventato un festival dell'autoindulgenza: tette e culi come al drive-in, ma si ride meno. Si ride, più che altro, per inerzia, perché abbiamo sempre riso e la regola del Bar Mario è che si fanno le stesse cose, sabato briscola e domenica gialappa.

Per chi ha resistito fin qui, ho una buona notizia: i '90 sono finiti. Non c'è più niente da sdoganare: è tutto perfettamente regolare, ora, tutto meravigliosamente borghese.
E quindi, ora, possiamo ricominciare a spaccare tutto con rinnovato rigore. Spegnere la tv e sprangare il bar, con quel pezzo di merda di Mario che ha messo la piadina a tre euro e ottanta. Non c'è nulla di nuovo sotto il sole: al tramonto segue l'alba, infallibilmente. Ci vediamo di là.
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2 bar
Dietro al banco c'è un mutuo / che il cliente non sa
Lomas, banchi del bar

Al mio paese, che non esiste, ci sono due bar, che per comodità chiameremo.

Il primo è a due isolati da qui, ma per andarci occorre comunque una macchina. Insegna al neon, bancone luminoso, ampia scelta di superalcolici. Molto fumo in giro, fumano tutti, nessun divieto. Niente televisione. La manopola della radio si è ossidata col tempo su un'unica stazione, che manda classici fuori dal tempo cantati da eroi sbattuti con la voce molto roca – in pratica manda solo Tom Waits, tutto il tempo. Il bar si chiama, non potrebbe non chiamarsi, Roxy.
Sotto 35 anni non si entra al Roxy Bar, né serve esibire la patente, le cicatrici bastano. E poi bisogna essere maschi, il Roxy è una fantasia maschile. È il posto dove ci si rilassa verso il tramonto della propria vita spericolata: si raccontano le vecchie storie, i casini da cui siamo saltati fuori, insomma le solite cazzate. Il Roxy è, per dirla tutta, il punto di arrivo: è a due isolati da qui, ma per arrivarci occorre avere fatto il giro del mondo, il periplo delle terre conosciute e no.

In una vecchia storia dei Simpson, Bart sogna una cosa che abbiamo sognato tutti: diventare una rockstar. Ma nel sogno non si sofferma troppo sulla sua ascesi musicale, sulle folle in delirio e sulla vita da backstage: gli preme arrivare subito al dunque. In pratica dopo pochi secondi Bart si vede già in crisi d'astinenza, riverso seminudo su un divano con la bava alla bocca, mentre un Milhaus cappellone lo rimprovera: "Una volta ti facevi solo di musica!" Una volta, già. In quel momento la nuvoletta del sogno scoppia, e Bart esclama: Fico! Questo è il vero sogno dell'aspirante rockstar: non l'ascesa, non il trionfo, ma quel che viene dopo: un viale del tramonto imboccato a duecento all'ora, e poi una strana sopravvivenza. Le rockstar vere sono tutti esseri sovrumani, reduci da stravizi di ogni tipo. Hanno fatto il giro del mondo in lungo e in largo, e ora bevono whisky al roxy bar. Ogni tanto mettono in giro un disco nuovo, rigorosamente simile ai vecchi, giusto per far notare che ce l'hanno fatta, sono sopravissuti, sono eterni.

Ora, la cosa interessante non è che Vasco ci stia speculando più o meno da 15 anni, su questa estetica del sopravvissuto; ma che tutto sommato avesse previsto tutto molto prima, e per giunta a Sanremo, cantando Vita spericolata. Come a dire che in realtà l'hanno fondato dei giovinetti, il Roxy Bar. Scientemente hanno deciso: ora vado, mi sbatto, mi faccio questo e quello, e tra vent'anni se sopravvivo vi offro da bere. Questa, se volete, è un'altra interpretazione degli '80: non ci si distruggeva più per sfondare le porte della percezione ('67) o per autodistruggersi semplicemente ('77), ma per il gusto di diventare protagonisti di una narrazione: ascesi, trionfo, caduta, sopravvivenza. In fondo, il vero gruppo rock del periodo sono stati gli Aerosmith.

L'altro bar sta sotto casa, ci passo più spesso. C'è un flipper, un biliardo, quattro pensionati a un tavolino di briscola, la Gazzetta dello Sport e il Resto del Carlino spiegazzati sul congelatore pieno di ghiaccioli e coppe del nonno. La birra è acquosa, il caffè è buono. Il gestore si chiama Mario. Immaginatevelo come il barista dello spot della Peroni – in realtà si tratta proprio di quel bar, coi suoi personaggi, la vecchina, il vitellone, la coppietta, la cassiera imperiosa, eccetera. Il Bar Mario è un po' come la tv generalista, non ha barriere di ceto o di genere; perlomeno non vorrebbe averne.

Il generalismo è un'utopia molto italiana: nel resto d'Europa i ricchi non entrano nel locale dei poveri, le donne non siedono al bancone degli uomini (lasciate stare le capitali, andate a vedere in provincia). Ma anche qui da noi, mi chiedo fino a che punto il Bar Mario esista davvero, se pure è mai esistito. Forse abbiamo cominciato a sognarlo, nelle canzoni e negli spot, quando è scomparso, quando i giovani hanno preferito i luoghi per giovani e gli anziani il circolo anziani. Salvo sentire gli uni la mancanza degli altri. Il Bar Mario sembra eterno: in realtà è più nuovo del Roxy, è un'idea di 15 anni fa. È il ritorno del quartiere, dopo un periodo in cui non ci si rivolgeva più la parola tra vicini. E il ritorno del dialetto.

Il dialetto, da noi, non era mai scomparso, ma tra '70 e '80 ha vissuto un brutto momento. I genitori lo usavano tra loro, ma ai figli parlavano soltanto in italiano. L'italiano fiammante della tv. E dopo l'italiano sarebbero venute le altre lingue importanti: l'inglese per girare il mondo, il tedesco per fare affari.
Il dialetto è arrivato dopo. È una lingua che non è ammessa al Roxy Bar: i clienti del Roxy sono gli sradicati per eccellenza. Ma i ragazzini degli anni '90 sono andati al bar di Mario a impararlo. È una lingua che non serve a girare il mondo, e in fondo neanche a comunicare: il suo fine principale è farti sentire a casa tua. Questo soprattutto è il Bar Mario: la tua casa. Coi suoi personaggi, sempre più o meno gli stessi.

Roxy Bar e Bar Mario sono due idee della provincia, da due decenni l'un contro l'altro armati, Vasco contro Ligabue, e ora tocca pronunciarsi, scegliere dove vorremmo essere stasera. Forse in nessuno dei due.
Il Roxy, è vero, è più cosmopolita: per arrivarci occorre viaggiare, vivere, stravivere, pentirsi ed eccetera. Mario, per contro, è un ormeggio ideale per un cordone ombelicale: a dodici anni verrai a prendere i ghiaccioli, a venti la birra, a venticinque ci porterai la morosa, a trenta la lascerai a casa e vincerai il primo torneo di pinnacolo, e così via, fino alla pensione.
È un posto più umano, senza dubbio. Mentre il Roxy in fondo è un covo di solitari che la raccontano a sé stessi, da Mario l'atmosfera è più comunitaria. Sennonché alla lunga ti viene a noia quell'aria di casa, quella mutua società di sorveglianza. È una delle cose che mi è piaciute di più di Lavorare con lentezza: il modo in cui un luogo mitico come il bar di periferia si trasforma lentamente in qualcosa di sinistro, i vecchietti con la pipa e il Resto del Carlino smettono di sembrare saggi e inoffensivi, e tutti i personaggi capiscono che è ora di cambiare aria. Quel che m'indispone di Mario è quella parvenza di eternità, quel suo voler abolire la storia, pretendere che tutto andrà sempre così, tanto Mario riapre prima o poi. E sì, verrà un giorno che il vitellone perderà al flipper, "ma per fortuna non oggi".

Alla fine, non vedo perché dovrei vergognarmi a dirlo: entrambi i bar mi hanno un po' stancato. Mi ha stancato l'epica del rocker, quel modo di conquistarsi la gloria a mazzate sul fegato, mi ha rotto Tom Waits, forse anche Capossela, da quando ho un blog grazie al cielo bevo un po' meno. E mi ha stancato anche il circolo di quartiere, la piccola comunità con la sua piccola antropologia, i suoi usi e i suoi costumi. Forse è l'età, forse sono di quelli che invecchiando si trovano un hobby e non escono più di casa. No.
(No, scherzo. In realtà mi troverai in qualsiasi posto tu voglia offrirmi da bere).
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Dicono che col tempo arriverò

Biagio Antonacci resterà, per molti versi, un enigma, la cui soluzione magari sarebbe a portata di mano, ma è troppo banale… gli conviene restare un enigma.
Per esempio: da dove viene? Da Rozzano (periferia dell'anima). Quanti album? Otto, mi dicono. Quante copie vendute? Mah. Quando ha sfondato? Boh? Quelli degli anni '80 risponderanno: "Nei '90!", quelli più giovani sbigottiti replicheranno: "Come! Non è roba vostra?". Antonacci ha sfondato in un momento in cui erano tutti distratti: poi è rimasto lì, e tutti gli hanno fatto un po' di posto.
Le canzoni di Antonacci parlano d'amore e dei problemi della vita di tutti i giorni. La vita di tutti i giorni, nel 2004, è una gran palla, e non è colpa di Antonacci – anche se –

In una vecchia striscia di Net To Be di Grassilli (che è ripartita), la voce di un autoradio annuncia qualcosa come "e ora, dopo un breve cenno al traffico, ascoltiamo assieme 22 successi di Biagio Antonacci". C'è un motivo per cui le sue canzoni sembrano fatte apposta per Isoradio? E di lunghe file di anabbaglianti nella nebbia o sotto la pioggia. Siamo tutti anonimi in una coda in valpadana, e siamo anonimi anche nelle sue canzoni. La sua voce sembra poter uscire solo da lunotti e portiere, è una voce che sa di arbre magique, di camogli all'autogrill, è una voce nel deserto di attese infinite, col tergicristalli per metronomo. A chi può piacere una canzone di Antonacci? E perché la gente si ostina nelle stesse code, ai caselli, agli ipermercati, ai multisala? Ci ha fatto paura, rabbia, e poi tenerezza, il consumo di massa: ora, solo una gran stanchezza, con qualche soprassalto di malinconia.

Un po' colpa mia, un po' colpa tua.


Nel 1982 Giuni Russo fu rivoluzionaria, sfondando una porta aperta con un desiderio banale: voleva andare al mare per le vacanze. Biagio Antonacci fa qualcosa di simile nel 2004, con una proposta che più banale non si può: ci sposiamo? Eppure anche lui cavalca un'onda lunga: c'è un gran desiderio di sistemarsi, in giro. (Perfino Tim ha congedato il mastino marpioncello per imbastire una campagna intorno alla stessa domanda: mi sposi? E anche nei film, ormai, l'adulterio è fuori moda).

Allo stesso tempo, questa voglia di accasarsi è già pesante, insostenibile, come una coda in autostrada, come una strofa di Antonacci. Che parte già come un'ammissione di colpa: (Un po' colpa mia). Anzi: un concorso di colpa (un po' colpa tua). Si capisce che hanno litigato e stanno facendo la pace. Il litigio rimane in controluce, non è il caso di indagare: assomiglierà a tutti i bisticci tra innamorati che vanno in tv al pomeriggio. Quando Antonacci canta "Dicono che per stare insieme a te / Bisognerebbe darti e mai privarti…", quel "dicono" potrebbe provenire dal coro di una qualche trasmissione di Maria De Filippi. Una commissione di esperti di relazioni di coppia, ragazzini modelli psicologi e magari un prete, gente che sviscera il torto dalla ragione, e argomenta, e s'accapiglia, eccheppalle.

Passati i tempi in cui Giuni sulla spiaggia chiedeva al partner "slacciami il bikini". Quanto sono diventati pesanti, i rapporti di coppia, ci avete fatto caso? Anche tra ragazzini, a sedici anni hanno già storie lunghe e tormentate, Giurami che, ti giuro che, lunghe colonne di torti subiti (è un po' colpa tua) e cazzate da farsi perdonare (è un po' colpa mia). Quante esigenze del partner da mettere in conto, quante tentazioni a cui resistere. Tanto che è nato un vero e proprio genere: la canzone per chiedere scusa, magistralmente lanciata da Tiziano Ferro con Xdono, e poi clonata un po' da tutti. Se ha tanto successo, è perché funziona. Soprattutto da un punto di vista commerciale: se vuoi una canzone perché ti piace, ti basterà scaricarla da internet. Ma se vuoi regalarla alla tua ragazza per farti perdonare, ti conviene svenarti al megastore, e farti fare un pacchettino. Stessa cosa se vuoi chiederle di sposarti: anellino e CD di Antonacci. Funzionerà? Non lo so, ma al giorno d'oggi il cantante pop si trova a un bivio. O si mette a produrre semplici veicoli per suonerie (e c'è già chi ci prova), o insiste sui sentimenti impegnativi, quelli che fanno muovere il culo dell'utente fino al rivenditore più vicino.

Delle due, Antonacci ha deciso la seconda: canterà le gioie dell'amore coniugale. Convivendo è un vero manifesto. Il ritornello dice tutto: Io ci voglio credere. Non ha detto che ci crede: ha detto che ci vuole credere. Perché in una bugia c'è la verità di vivere. Voi, a quei due, quanto gli date? Onestamente. Tre mesi, sei, un anno? Ma voi siete i soliti ascoltatori disincantati. Non andrete al megastore sabato pomeriggio a cercare il cd di Antonacci, magari lo evitate proprio il megastore, c'è sempre fila alle casse. Anche in autostrada evitate le file, quando potete. Antonacci non canta per voi. Canta per quelli fermi in corsia da un'ora, quelli che stanno andando a comprare un letto in kit all'ikea, quelli che ci vogliono credere.
Quelli che non hanno alternative, insomma.
Voi ne avete?

Sull'altra corsia, quella tutta vuota, mi piace immaginare Giuni che sfreccia a tutto gas (niente limiti, neanche cinture), salutando i ragazzini fermi sui ponti, che non hanno ancora pensato a tirare sassi ingiù. Lei sta andando al mare per le vacanze: noi stiamo tornando indietro, a passo d'uomo, e abbiamo deciso che vogliamo crederci, convivendo.
Niente nostalgia, s'intende: stiamo molto meglio di noi. Abbiamo macchine migliori, superaccessoriate e iperveloci (anche se andiamo a passo d'uomo); abbiamo modi più sofisticati di divertirci. Forse siamo persino più intelligenti, almeno, abbiamo un sacco di esperienza in più, conosciamo già un sacco di errori che sono stati fatti prima di noi, un sacco di strade che non hanno portato a niente.
Così noi restiamo su questa, massiccia, affollata, e non svoltiamo più: finito il tempo in cui si poteva ancora svoltare. Dal momento che siamo qui, non ci resta che crederci, e noi ci vogliamo credere, infatti.
Convivendo.

[fine, oh!]
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Per farsi un'idea:

Un po’ colpa mia, un po’ colpa tua, sposiamoci
In una bugia c’è la verità di vivere
Prima che io, prima che tu, si cambi idea
E le nostre pagine più belle
vengano distratte dagli amanti che
Fanno di me, fanno di te, la fantasia
Che io (come te) ho ancora paura di perdere
Le distratte corse libere nei cuori
A volte fanno meglio delle grandi cose.

Dicono che col tempo arriverò
A far convivere io e te l’amore
Dicono che per stare insieme a te
Bisognerebbe darti e mai privarti…

Io ci voglio credere – e tu?
Io ci voglio credere, convivendo
Io ti voglio vivere – e tu?
Io ti voglio vivere, convivendo

Un po’ colpa mia, un po’ colpa tua, tocchiamoci
Nel nostro letto preso e montato di sabato
Passiamo ore a fare e disfare e a miagolare
Giurami che, ti giuro che, non finirà

Perché quello che noi abbiamo dentro è grande
(O perlomeno pari all’impossibile)

Dicono che col tempo arriverò
A far convivere io e te l’amore
Dicono che per stare insieme a te
Bisognerebbe darti e mai privarti…

Io ci voglio credere (e tu?)
Io ci voglio credere, convivendo
Io ti voglio vivere (e tu?)
Io ti voglio vivere, convivendo
Convivendo – convivendo – convivendo

Biagio Antonacci, 2004, Convivendo

Segue dibattito.
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Cosa resterà?
Ci sono stati periodi della storia dell'uomo, in cui i capolavori piombavano sulla testa del pubblico fatti e finiti: gli anni Ottanta non sono stati così. Tutto quello che si è salvato, si è salvato sulla distanza.

Prendi un caso ormai indiscutibile: gli Smiths. Negli '80 erano 'abbastanza' famosi. Nei '90, gradualmente, a furia di titoli di romanzi anglosassoni e sondaggi des Inrockuptibles, sono diventati classici. Esagero a dire che si tratta – per il 75% di una gloria retroattiva? E infatti solo oggi Morrissey riesce a fare qualcosa che da sei-sette anni non faceva più, cioè vendere un suo disco da solista.

(Siccome poi la generazione dei rivalutatori degli Smiths è ancora giovane, ha ancora a disposizione notevoli margini di rincoglionimento, il che significa che la fama degli Smiths potrebbe anche continuare a crescere, nei prossimi anni – del resto si comincia a parlare una reunion, e il tempismo mi pare perfetto. Dateci ancora quindici anni, e Morrissey & Marr andranno a cantare davanti al Colosseo, con tutti i romani che si abracciano e dicono: li aspettiamo dai tempi del liceo! Balle, naturalmente: al liceo si ascoltavano solo Vasco e i Duran, ma probabilmente è stato così anche con Simon & Garfunkel: un sacco di gente che all'epoca ascoltava Morandi e Celentano si è autoconvinta di avere sempre conosciuto i dolci cantautori californiani. La memoria tira scherzi pesissimi).

Inghiottiti dalle crepe

C'era un gruppo che nessuno si ricorda, non si chiamavano Simon & Simon (quello era un telefilm), bensì David & David. Scrissero una canzone struggente sul vuoto edonismo californiano, si chiamava Welcome to the Boomtown, il titolo di sicuro non vi dice niente. Ma forse il primo verso:

Miss Cristina drives a nine-four-four…

Quello fu il loro primo successo. Il loro secondo successo fu un titolo che mi ricordo solo nella traduzione italiana, dice, "Inghiottiti dalle crepe". Il testo parla di tre amici che sognano di diventare famosi in qualche modo, poi, per un motivo o per un altro, smettono di vedersi, spariscono nell'oblio, "inghiottiti dalle crepe". Questo, per inciso, è stato il destino dei David & David, di cui in seguito nessuno ha più sentito parlare, e oggi se mi tornano in mente rischio di confonderli con un telefilm. Inghiottiti dalle crepe. Eppure non mi dimenticherò mai di Miss Cristina e della sua Porsche 944.

Anche di Giuni Russo avrò sentito al massimo quattro canzoni, pure non la dimenticherò mai. Questa è una particolarità degli Ottanta: le meteore. Molti pezzi che sono sopravvissuti, sono legati ai nomi di simpatici sconosciuti. Piccolo gioco: Orchestra Manouvres in The Dark, Knack, Eighty Wonder, Industry, Dead Or Alive. Due, tre pezzi, più spesso uno solo. Eppure sulla distanza sono sopravvissuti. Gli anni '80 hanno dato una possibilità a un sacco di gente.
Questo meteorismo, al tempo, ci sembrava un sintomo di futilità. Oggi è una delle cose che rivaluterei. Sì, perché dopo sono arrivati i '90, gli anni in cui qualsiasi personaggio che imbrocca una canzone, per cinque-dieci anni non te lo levi più di torno.

Ma pensa solo. Pensa se tutti i divetti di oggi fossero rimasti inghiottiti da una crepa dopo il loro album di esordio. Pensa Britney Spears che dopo Hit me baby one more time cade in disgrazia e si mette a fare la parrucchiera: non sarebbe stato fantastico, cinque anni dopo, mettere su in radio Hit me baby one more time? E invece no, una ragazzina che azzecca un singolo, negli anni 90, deve come minimo diventare un simbolo generazionale, un idolo, un marchio di fabbrica, una bomba sexy, una multinazionale.

È vero che anche gli '80 hanno avuto le loro leggende: la differenza sta nel sottobosco. Il sottobosco '80 era pieno di meravigliosi debuttanti, pronti al loro quarto d'ora di popolarità e a essere inghiottiti da una crepa: al confronto, il sottobosco '90 è terra bruciata. O diventi famoso e ci appioppi almeno quattro dischi, o non diventi proprio nessuno.

Non so, metti uno come Biagio Antonacci. Quanti CD ha fatto, quanti ancora ne farà?
[continua]
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Stile balneare

Quest'estate voglio andare al mare / per le vacanze
è una frase molto banale, che descrive un desiderio altrettanto banale. Tanta banalità può essere fortemente sospetta, ma anche no. Dipenderà da come intendiamo gli anni Ottanta: età dell'oro o del fango, da un punto di vista infantile o senile. Da quello infantile, non c'è dubbio che quell'estate volessimo andare al mare per le vacanze (e "sopra i ponti delle autostrade c'è qualcuno fermo che ci saluta").

Da un punto di vista senile, non dimentichiamoci che il 1982 era un anno già saturo di messaggi. Canzoni sulla spiaggia se ne cantavano da trent'anni (con alcuni capolavori inarrivabili: sei diventata nera come il carbon, sapore di sale sapore di te, un bacio a labbra salate, un fuoco quattro risate a far l’amore giù al faro). Giuni Russo si trova sul palcoscenico in un momento in cui già sembra impossibile aggiungere qualcosa di nuovo. Si aggiunga che la Storia era finita più o meno in quegli anni: negli arsenali c'era già abbastanza potenziale da spazzare l'intero genere umano in mezz'ora (appena di 3 miliardi e mezzo di persone). La contestazione, gli anni di piombo, l'eroina. Ma quest'estate voglio andare al mare, per le vacanze.

(Gli anni Ottanta come una vacanza, un piccolo break della Storia, tra un massacro e l'altro).

La frase è un esempio di grado zero dell'ironia: c'è solo se vuoi trovarcela. Ma se non vuoi, se non t'interessa, se non sei abbastanza colto o raffinato o smaliziato per capirla, essa semplicemente non c'è, e la canzone resta ugualmente godibile. Il genio del Battiato tra '79 e '83 è tutto qui: si potevano fare canzoni sciocche che sembrassero incredibilmente smaliziate, ma che vendessero come canzoncine sciocche, semplicemente montando rammenti da altre canzoni, altri successi per l'estate. Quando neanche il montaggio funziona, si può essere semplicemente sé stessi, o una versione un po' più banale di sé stessi. Giuni, che ti va di fare quest'estate? Mah, quest'estate voglio andare al mare.

Il successo di Battiato / Russo è del 1982: un anno in cui tutti gli italiani hanno avuto almeno un'occasione per riflettere sull'aspetto terribilmente banale che può assumere la felicità. (Campioni del Mondo! Campioni del Mondo! Campioni del Mondo!) L'anno dopo Umberto Eco pubblica su "Alfabeta" le Postille a "Il nome della Rosa", in cui definisce pulitamente la sua idea di postmoderno. Innanzitutto "il post-moderno non è una categoria circoscrivibile cronologicamente, ma una categoria spirituale […] un modo di operare. Potremmo dire che ogni epoca ha il proprio post-moderno". Ogni volta che la coda della storia si fa troppo pesante ("Il passato ci condiziona, ci sta addosso, ci ricatta"), e la tentazione di tagliarla di netto (il moderno, l'avanguardia) si rivela fallimentare, ecco che "la risposta post-moderna al moderno consiste nel riconoscere che il passato, visto che non può essere distrutto perché la sua distruzione porta al silenzio, deve essere rivisitato: con ironia, in modo non innocente".

Nella pratica, Eco pensa di riutilizzare Liala

Penso all'atteggiamento post-moderno come a quello di chi ami una donna, molto colta, e che sappia che non può dirle "ti amo disperatamente", perché lui sa che lei sa (e che lei sa che lui sa) che queste frasi le ha già scritte Liala. Tuttavia c'è una soluzione. Potrà dire: "come direbbe Liala, ti amo disperatamente". A questo punto, avendo evitata la falsa innocenza, avendo detto chiaramente che non si può più parlare in modo innocente, costui avrà però detto alla donna ciò che voleva dirle: che la ama, ma che la ama in un'epoca di innocenza perduta. Se la donna sta al gioco, avrà ricevuto una dichiarazione d'amore, ugualmente. Nessuno dei due interlocutori si sentirà innocente, entrambi avranno accettato la sfida del passato, del già detto che non si può eliminare, entrambi giocheranno coscientemente e con piacere al gioco dell'ironia… Ma entrambi saranno riusciti ancora una volta a parlare d'amore.

Implicita, nell'esempio di Eco, una meditazione su cultura e… come chiamarlo, "amore"? Mah, chiamiamolo "bisogno". Mentre la cultura si avvita su sé stessa e genera gusti sempre più complessi (ma è un progresso verso il silenzio, perché ogni scrittore, da Liala in poi, non aggiunge parole, ma le toglie all'innamorato 'moderno' che non può dirle perché sono già state scritte da qualche parte), i nostri bisogni rimangono tutto sommato gli stessi: amarsi, parlare d'amore. Negli '80 la "donna molto colta" (e il suo uomo) non possono più ripetere le frasi di Liala, eppure hanno gli stessi bisogni dei lettori di Liala di 30-40 anni prima. Il post-moderno ovvia a questa divaricazione tra gusto (sempre più sofisticato) e bisogno (più o meno sempre lo stesso, e banale). Dando per scontato qualcosa di fondamentale: che dei nostri bisogni, anche in assenza di un'educazione cattolica, noi ci vergogniamo. Non fosse altro che per la loro banalità. Ci vergogniamo, sì, ma in qualche modo dobbiamo venire a patti con loro. Anche a costo di saccheggiare Liala.
Allo stesso modo, quell'estate, quaranta milioni d'italiani avrebbero avuto voglia di andare al mare, "come direbbe Giuni Russo". Desiderio banale, ma l'importante è che si possa ancora comunicare. La canzone, quella popolare, serve a questo. Battiato lo aveva capito. (In seguito se l'è dimenticato, poi gli è tornato in mente, poi se lo è dimenticato di nuovo, ecc., un po' come tutti).

Il fatto è che il miracolo di "Quest'estate al mare" non era così semplice da replicare. Dall'intro fino al libitum finale, tutta la canzone strizza l'occhio all'ascoltatore: io sono più intelligente di così, con la voce che ho potrei cantare meglio (ma "per regalo voglio un harmonizer con quel trucco che ti sdoppia la voce"). Un tocco di erotismo ambiguo, quel che basta ad ammiccare senza sparire dalla fascia protetta ("per le strade mercenarie del sesso, che procurano fantastiche illusioni…"). Persino un bambino (io) di fronte alla glossolalia esibita degli "ombrelloni oni oni" non può non cedere al sospetto che ci sia qualcosa sotto: qualcosa, ovvio, di più intelligente di così. Anche se tutto sommato non c'era bisogno davvero di produrre qualcosa di intelligente: l'allusione, l'ammiccamento, sono più che sufficienti. L'astuzia dello stile balneare: facciamo i bambini per dimostrare che non siamo più bambini. Oppure: facciamo i piccolo-borghesi per dimostrare che, etc.. Vincente, anche e soprattutto da un punto di vista commerciale: perché queste canzoni mettono d'accordo adulti e bambini, borghesi e snob. Ognuno ha la sua interpretazione, anzi, ancora meglio: ognuno può slittare da un'interpretazione a un'altra, senza che nessuno se ne accorga. Quand'è che abbiamo smesso di cantare "Cuccuruccuccù" perché era un ritornello scemo e ci siamo messi a cantare "Cuccuruccuccù" perché era una canzone malinconica e struggente? In ogni caso, un bambino che canta "Cuccuruccuccù" sembra già più intelligente; un adulto che canta "Cuccuruccuccù" sembra altrettanto scanzonato e intelligente, senza fare niente di particolarmente impegnativo che non sia cantare "Cuccuruccuccù".

Il metodo vantava, ovviamente, ripetuti tentativi di imitazione. "Un'estate al mare" è la matrigna di una serie di canzoni che hanno illuminato le estati '80: ironiche e stupide a scelta. L'estate sta finendo, Maracaibo, mare forza nove, etc.. Queste canzoni tuttora continuano a far ballare i trentenni sulle spiagge: sulla distanza sono sopravvissute al revival delle sigle dei cartoni giapponesi: segno che anche la nostalgia col tempo si fa un po' più sofisticata?
Il ritornello più esemplare mi sembra "Cocco bello / cocco fresco / non è che mi diverta", di Orietta Berti (ma c'è ancora lo zampino di Battiato, sotto pseudonimo). Anche in questo caso, sono possibili infinite letture: non che io mi diverta a cantare queste scemenze; e invece sì, mi diverto un mondo a stare in spiaggia e ascoltare i venditori di cocco in lontananza; oppure, mi diverto un sacco (a cantare e a prendere il sole) ma non ho il coraggio di ammetterlo, etc.. Piccoli pudori dei primi anni '80. Si praticava il banalotto (che non era ancora trash), ma si confessava (o si affettava) un certo imbarazzo. Non si grufolava ancora nel truogolo: quello è venuto dopo.

La stessa Giuni Russo si sentiva probabilmente prigioniera del genere: due anni dopo tentò di imporre un 45 giri con una bella canzone d'atmosfera, poetica, Mediterranea: ma i dj delle radio le preferirono il lato B, Limonata Cha Cha Cha ("Cha Cha Cha / della limonata / Cha Cha Cha / seduti in riva al mar"). Ancora due anni, e poi la resa: nel 1986 Giuni dichiarava di voler fuggire ad Alghero in compagnia dello straniero. Più che giusto che la genitrice non sapesse come si buttava via il talento della figlia.
[continua]
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Se il narcisismo è la pretesa che il proprio autoritratto in quanto tale risulti di grande interesse per chiunque, l’autoreferenzialità estende il quadro all’album di famiglia e alla cerchia delle frequentazioni. Il riferimento funziona come referenza, cioè come riga di curriculum, quando evoca un padre nobile in qualità di garante delle ambizioni artistiche”

Enrico Terrone, Architettura di un luogo comune
(in realtà l'ho trovato su Dillinger).

Vasco – Resto del Mondo

Magari è un bellissimo film, Le chiavi di casa, io non lo so. Non l'ho visto.
Mettiamo che non abbia nemmeno letto niente: ho solo visto il trailer. Be', per capire che non può farcela a Venezia, con una giuria internazionale, basta il trailer. Basta Vasco Rossi, insomma.

Magari è pure una bella canzone, non lo so, ho sentito dieci secondi – che è quello che basta, a un italiano della mia età, a capire che si tratta di una canzone di Vasco (magari bella). E ad appuntarla nella mia memoria, giusto nel cassetto che contiene tutti i ricordi associati a lui. Con Vasco, da vent'anni, non è più questione di odio o amore, è questione di rumore di fondo, di paesaggio urbano. Riconosci la sua voce come riconosceresti un cartello stradale, o un'insegna di un tabaccaio, o la facciata del Duomo di Milano. La forza della voce di Vasco: qualcosa di identificabile immediatamente.

Questo cassetto, piuttosto fondo e disordinato, ce l'hanno tutti gli italiani della mia e di altre età. Anche quelli che Vasco non l'hanno mai particolarmente amato od odiato, come me, appunto.
Il mio cassetto poi non è che contenga un granché, alla fine. Partendo dall'infanzia: lo stereotipo del vitellone scoppiato di provincia, il fratello maggiore cattivo che vivaddio non ho avuto (quello che ti frega le merendine e ti finisce il vinavil a sniffate); Colpa d'Alfredo sul pulmino delle medie; il giro di chitarra di Colpa d'Alfredo (uguale a Siamo solo noi, a Brava, a Baba O'Riley, tutte canzoni di presa sicura intorno a un fuoco); lunghe serate passate in giro per le provinciali nei sedili didietro, da una pizzeria a una birreria, con l'autoradio che mi pettina con qualche versione live (il tutto prima che sopraggiungesse Ligabue a cantarci delle sue eroiche serate passate in giro per le provinciali nei sedili didietro da una pizzeria a una birreria); poi, un ricordo abbacinante: un valico alpino in Valtellina, il profilo terribile del Monte Disgrazia, e da dietro il monte una voce, anzi un coro, un coro di angeli che intona un'arcana melodia a tratti percepibile, che alla fine si rivela

Ti vesti svogliatamente
Non metti mai niente
Che possa attirare
Attenzione


Finché a un certo punto l'immagine di Vasco si cristallizza definitivamente nella figura dell'anziano vitellone too old to rock'n'roll, to young to die. Che poi tra il rock and roll e la morte ce ne passa di spazio, fortunatamente, ma è quasi tutto occupato dal Rimpianto. Così, da Liberi liberi in poi, la canzone-tipo-di-Vasco è una lagna intorno al male di vivere, e di convivere coi propri errori, e domani è un altro giorno, però ieri ho fatto un sacco di cazzate, ma magari le rifarei, a qualcosa sarà pur servito, etc.. Molto più simpatico le rare volte che si riscuote e si rende conto che è un organismo ancora perfettamente funzionante, e magari si masturba reggendo il telecomando del vhs con la sinistra. Per finire con lo spot di un cellulare pieno di gente in barca che si distingue dall'uomo comune, cioè io, che stavo in casa a sudare perché avevo da finire un lavoro. Ecco, è tutto qui il mio dossier mentale su Vasco.
Mica male, però, per un cantante che non ho mai né amato né odiato. Gli bastano dieci secondi, lo spazio di un trailer, e mi apre un cassetto con vent'anni di ricordi. Per forza lo chiamano a fare le colonne sonore.
Quest'anno ha fatto una canzone anche per il film di Castellitto-Mazzantini. Quella canzone – posso dirlo perché l'ho ascoltata per intero – è orribile, ai limiti dell'autoparodia. Il testo è tutto così:

Voglio trovare un senso
A questa situazione
Anche se questa situazione
Un senso non ce l'haaaaaa

(eeeeeeeeeeh)


Tutto nel solito birignao da modenese sfattone, che già ci faceva ridere sul pulmino delle medie, figurati da laureati. Nel frattempo Castellitto correva per i corridoi di un ospedale per salvare il cranio della figlia, o l'utero dell'amante, non ricordo, comunque qualcosa di tristissimo e solenne. E dagli altoparlanti Vasco proseguiva

Voglio trovare un senso
A questa condizione
Anche se questa condizione
Un senso non ce l'ha

(eeeeeeeeeeh)


Davanti a noi una coppia di sessantenni, educata, ascoltava la performance del rocker di Zocca mentre seguiva i disperati sforzi di Castellitto per rianimare il rianimabile. In quel momento ho capito un paio di cose.
Prima cosa: Vasco era diventato nazionalpopolare. Incolore. Non più appassionante o detestabile, ma parte del rumore di fondo, come gli spot pubblicitari o i cartelloni stradali. Negli '80, un sessantenne al cinema in quelle condizioni sarebbe uscito sdegnato: ma i tempi cambiano. Il programma di liscio romagnolo su TeleEmilia ha cambiato palinsesto, tra Castellina Pasi e Casadei mette su Doors e Steppenwolf. E Vasco Rossi è diventato adatto a un film per la grande distribuzione nazionalpopolare. Lo metti su, e a più di metà del pubblico gli si scoperchia un cassetto nella testa. Non stanno neanche ad ascoltare le parole (che son ridicole): la voce basta. La voce degli anni Ottanta, eravamo tutti più giovani e felici. Ma anche la voce del Rimpianto, la voce dei Quarant'anni: voglio trovare un senso a tutte le stronzate che ho fatto, un mantra che ti penetra e ti consola.

Seconda cosa: Malgrado le previsioni del saggio, Castellitto non avrebbe avuto la nomination. Ma neanche di striscio. Come il Leone ad Amelio: come si fa? Vasco Rossi in colonna sonora può funzionare più o meno dalla Valtellina a Lampedusa: niente male per uno di Zocca, Mo, ma non un centimetro di più. Appena metti il naso fuori dai confini, la sua voce evocativa non ti evoca più niente. Resta solo un signore di mezza età che sembra faccia apposta a stonare, su basi rock che ormai han fatto il loro tempo anche in Polonia. Come i cartelli stradali, che da una nazione all'altra possono cambiare di forma e di significato; come la facciata del Duomo di Milano, che oltre confine resta confusa tra le facciate di cento altre cattedrali; come l'insegna di un tabaccaio, che a uno straniero non può dire proprio niente: così la voce di Vasco Rossi. Inesportabile, incomprensibile: e quindi imbarazzante, sgradevole. Tutta l'ironia con cui l'abbiamo sdoganata per vent'anni, tutta quell'ironia lì, alla frontiera non ce la fanno passare.

Poi, chissà, magari il film di Amelio è un capolavoro. Ma la voce di Vasco è una spia importante, segnale di un provincialismo definitivo, almeno in fase di postproduzione. Tra la voce di Vasco e il resto del Mondo passa una frontiera linguistica, culturale. Noi vorremmo esportare il nostro cinema, vorremmo avere capolavori da mostrare a una giuria di esperti mondiali, ma non ci rendiamo nemmeno conto di dove passano le frontiere che vorremmo oltrepassare. E poi ci ritroviamo tutti qua, a riaprire i vecchi cassetti, a lucidare i vecchi giocattoli, a raccontarci le solite storie che sappiamo solo noi, che interessano solo noi. Come in un bar, un dignitoso bar di provincia. In attesa del Tarantino che verrà a rivalutarci, tra vent'anni però (se nel frattempo non svalutano lui).
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Mi hanno condannato a vent'anni di noia
per una rivoluzione in pantofole.
Ma ora sto venendo a ringraziarli:
prima, passo a Manhattan:
poi vengo a Berlino.

Mi guida un segno dall'Alto dei cieli,
e la data di nascita sulla mia pelle.
Mi guida la bellezza della mie armi.
Prima, passiamo a Manhattan:
poi veniamo a Berlino.

Mi piacerebbe vivere al tuo fianco, stella
Amo il tuo corpo, e il tuo spirito, e i tuoi vestiti.
Ma hai visto quella gente alla stazione –
Te l'ho detto, no?
Io sono uno di loro.


Mi amavi, perché ero un perdente:
ma adesso hai paura che potrei anche vincere.
E tu sai il modo di fermarmi,
ma ti manca la disciplina.
Quante notti ho pregato per questo,
che la mia opera avesse inizio:
prima tocca a Manhattan,
poi viene Berlino.

No, non mi piace l'alta moda, grazie,
e la roba che prendi per restare magra.
Non mi piace quel che hanno fatto a mia sorella.
Prima prendiamo Manhattan:
poi veniamo a Berlino

Mi piacerebbe vivere al tuo fianco, stella
Amo il tuo corpo, e il tuo spirito, e i tuoi vestiti.
Ma l'hai vista, quella gente alla stazione?
Te l'ho detto,
te l'ho detto,
te l'ho detto:
io sono uno di loro.


Ma grazie per le cose che mi hai spedito:
(hah hah)
la scimmietta e il violino di cartone.
Mi esercito da anni – oggi sono pronto:
prima prendiamo Manhattan:
poi prendiamo Berlino.

Ti ricordi di me? Una volta vivevo per la musica
Ti ricordi di me? Ti aiutavo con le sporte della spesa
Oggi è la festa del Papà, c'è tanta confusione
Prima abbiamo preso Manhattan:
adesso prendiamo Berlino.


Karaoke esistenziale, ciak! 20
Leonard Cohen, First we take Manhattan, da I'm your man, 1988

(Così, tra un ultimatum e l'altro).
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Ribadito che sono un pirla, rendo omaggio a tutte le persone sincere, oneste, che in questi mesi hanno speso un po' del loro tempo prezioso a edificarmi. Le vostre lezioni di vita sono sempre qui, in un angolo del mio cuore

(Karaoke esistenziale, ciak! 18)

Camminan di bolina
al freddo di prima mattina
legnosi nei pastrani
come talpe dentro
brache di fustagno
Vi ricordate la cattura di Saddam? Gli rodeva eccome, a quelli che un giorno sì e l'altro pure ripetevano la litania: avete fatto la guerra - dite voi - per cacciare un dittatore ed ecco, non siete stati neppure capaci di prenderlo. Vedrete che non lo prenderanno mai. O se lo prenderanno, lo ammazzeranno subito per non farlo parlare. E invece toh: l'hanno preso vivo. Ma niente paura: subito in rete è apparsa la materia prima su cui costruire le solite teorie complottarde. Ma siete sicuri che sia proprio Saddam? E poi: ma sono stati proprio gli americani a prenderlo? Non saranno stati i curdi, magari per far loro un dispetto? Trascurando il fatto che i curdi sono alleati degli americani.
occhi crepati, vene aguzze
maculati
denti neri di tabacco
barbe di setola e allumina
anche l'alba che li coglie
livida di bardolino
porta rispetto e fa un inchino
ah, un'altra cosa: adesso che hanno restituito il corpo di Fabrizio Quattrocchi tu e i tuoi amichetti potreste esibirvi con un nuovo show e fargli una bella anestesia per rivelare al mondo che a) è stato ucciso dalla CIA; b) è ancora vivo; c) non è mai esistito alcun Fabrizio Quattrocchi. Dura è dura, ma è una vita che ti stai allenando per questo, no ? Come no, non mi dire che tutte le gratuite assurdità che hai scritto su Nick Berg le hai scritte solo per tuo sollazzo personale ? Sarebbe perverso.
Accolita di rancorosi
settimini cuspidi e tignosi
persi nella vita
come dentro una corrida
intrappolati
tra melassa e baraonda 
Perchè indignarsi e sorprendersi, Mixumb? Non sai che la frustrazione può portare a stati di alterazione mentale. 
C scrive su quotidiani, pubblica libri, viaggia spesso all'estero per lavoro e ha anche aperto un blog. L ha aperto un blog. Se tu fossi L. (o una parte di L), Mixumb, non saresti un pò astioso nei confronti di C ? Non dedicheresti qualche ora della tua giornata a chiederti:"perchè lui si ed io no ?" Non decideresti di assumere posizioni, anche ideologiche, differenti e contrastanti con quelle di C ? E forse non lo faresti nel tentativo di farti notare come suo antagonista e raccogliere qualche briciola della sua popolarità?
Accolita di rancorosi
gelosi, avvelenati, sospettosi
incazzosi dentro casa
compagnoni fuori in strada
ci intendiam solo tra noi!
ringhiosi che rimangon sempre soli
gli ingrati se ne vanno
noi restiamo e ci teniamo la ragione 
Cucù! Bugia! Questi sono post seguenti a quella tua affermazione, caro al Sadr. Nada! Riprova! Affermasti che non si potevano mettere su Blogspot, e infatti pooi ti sbugiardarono dicendoti che invece si, si poteva, e tu, scivoloso come sempre, te le rigirasti farfugliando che si, certo, ma poi si bloccano e danno problemi. e insomma--. Come tuo solito. E io continuavo da mesi a replicare su blogspot dove i titolari tenevano tranquillamente i commenti.
Il resto dei tuoi link è successivo e sono arzigogoli tuoi di cui non mi frega una cippa. La tua prima affermazione sui commenti era un'altra. Lo sai. sei in malafede. Sì, è un'accusa.
La baraonda s'alza allegra come l'onda
e tutto sprofonda
nel nettare del vin brulè
alla morte fan la corte
ebbri di guai
inguaiati dalle femmine
inchiodati sulla croce
e ruggiscon di Rancor
RANCOR! anche perchè io sono calmo e buono, ma se incontra qualcuno un po' più fumino di me e gli fa un pezzo del genere quello lo prende e gliela insegna lui, l'educazione. a forza di schiaffi. e prima o poi capita, se continua a fare quei pezzi.
RANCOR! Chissà quanto è orgoglioso delle sue parole questo campione della disonestà intellettuale coniugata con una spocchiosa maleducazione. Facesse il carpentiere, con tutto il rispetto per i carpentieri, i danni sarebbero limitati. Il guaio è che di mestiere insegna ai ragazzini, che sono con tutta probabilità le vere vittime di questo scempio, a meno di non essere di fronte ad un Dr. Jekyll e Mr. Hyde della bassa modenese.
Musso, Musso
liscio e busso
passa appresso
carica a bastoni
cala l'asso
piglia, strozzo
Non cadrò nella trappola di dimostrarti quanto sarei capace di comportarmi come tu mi accusi di essermi comportato
smazza il mazzo Cavallaro
fuman trinciato forte
Joe Zarlingo fa le carte
bestemmia in mezzo ai denti
tira a fottere i compari
Tiè il lecca lecca, faccio finta di niente e ti lascio le tue bugiette da quattro soldi
Comunque io ragioni, se proprio vuoi metterla su questo piano, ti sotterro; sia per commenti che per accessi.
cirrotici, diabetici
nemici dei dottori
sputan sulla terra
dove andranno?
Il sonno della ragione produce weblog.
Piscialetto e ignoranti, però.
accolita di rancorosi
settimini cuspidi e tignosi
persi nelle vita
come dentro una corrida
intrappolati tra melassa e baraonda
Zero. Il silenzio dei blog
matitina rossa e manganello sul caso delle foto false all’Espresso dà la cifra esatta della coerenza e della credibilità dei loro tenutari. Siate seri. Datevi al varietà.
Accolita di rancorosi
camerati ruvidi e grinzosi
accaniti nel lavoro
sparagnini col web hosting,
spendaccioni col provider,
demoni rapaci
sputan sulla terra
dove andranno?
qui stiamo parlando delle tue accuse fasulle a Israele di aver usato armi chimiche nei Territori, accuse a cui non crede
nemmeno l'Autorità Nazionale Palestinese. E tu non saresti antisraeliano, o forse sì ma solo un pochino? Leo, guardiamo in faccia la dura realtà:
tu sei più antisraeliano di Arafat. E pure più bugiardo di lui, che è tutto dire.
E quel che è peggio, tu che vorresti dare del 'nazista' agli altri, per sostenere le tue calunnie antisraeliane ti servi di una fonte antisemita. Una volta messo di fronte all'evidenza, da quel piccolo bugiardo che sei, continui a negare

:
(Vinicio Capossela, Accolita di rancorosi,
da Il ballo di San Vito, 1996)
(Un nutrito stuolo di celebrati web-writers che ha meglio da fare che prendersela con me, che non mi fila per niente).
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La porta si aprì lenta:
mio padre venne a prendermi,
io avevo nove anni.



Stava innanzi a me, così alto:
i suoi occhi azzurri ardevano,
la sua voce era di ghiaccio.

Disse: “Ho avuto una visione,
e la mia fede, sai, è forte:
devo fare quello che mi è stato detto”.

Così ci avviammo al monte,
io di corsa, lui al passo,
con la scure d’oro al fianco.

Gli alberi si fecero radi,
il lago uno specchietto,
ci fermammo a bere vino:

Buttò via la bottiglia,
(si infranse in un minuto)
e mise le sue mani sulle mie.

Io forse vidi un’aquila,
oppure un avvoltoio,
non l'ho deciso mai.

Mio padre alzò un altare,
non mi guardava neanche,
sapeva che non sarei fuggito.



E voi, che alzate altri altari
per altri figli ancora,
non dovete farlo più.

Un piano non è una visione,
nessuno vi ha tentato,
né un dèmone, ne un Dio:

Voi che state innanzi a loro
con lame consumate,
non c’eravate ancora,

quando giacqui sul monte,
e la sua mano tremava
per la bellezza di una Parola.



Tu che ora mi dici fratello,
perdonami se chiedo:
chi ti ha detto che lo sono?

Se tutto torna cenere
ti ucciderò, se devo,
ti aiuterò, se posso.

Se tutto torna cenere
ti aiuterò, se devo,
ti ucciderò, se posso.

E pietà per le nostre uniformi:
uomini di pace, o uomini di guerra,
ogni pavone ha la sua ruota.


Karaoke esistenziale, Ciak! 17
Leonard Cohen, Story of Isaac, da Songs from a room, 1969.
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Una buona festa dei lavoratori
(Karaoke esistenziale, ciak! 16).



Guardami bene, diritto negli occhi,
ché il mio mestiere non è il soldato.
Guardami bene, diritto negli occhi
ché il mio mestiere non è.
Né di spada, né di cannone:
quello che ero io l’ho scordato
(se fosse spada, se fosse cannone,
il mio mestiere saprei qual è).

Adesso guardami le mani:
ti sembrano mani da padrone?
Coraggio, e toccami le mani,
ché la mia vita non è
né col denaro né col potere
– oppure l’avrò dimenticato –
se fosse denaro, e ci fosse ragione,
il mio cammino saprei qual è;

ma il mio mestiere non è.

Guarda la punta delle mie scarpe:
quello che faccio non è la spia.
Né informatore né polizia,
che il mio mestiere non è,
di sicuro non è.

Quello che faccio è cercare il tuo amore
fino nel cuore delle montagne;
quello che ho fatto è scordare il tuo amore
sotto il peso delle montagne.

Guarda i vestiti che porto addosso:
non sono quelli di un sacerdote.
Per i vestiti che porto addosso,
il mio mestiere non è
né rosario né estrema unzione:
quello che ero io l’ho scordato
(se fosse rosario, se fosse olio santo
il mio mestiere saprei qual è…)

E vedi che il bianco fra i miei capelli
non porta il titolo di dottore,
e la sveltezza delle mie dita
la mia vita non è:
né di taglio né di dolore,
né di carne ricucita;
né di taglio né di dolore,
anche questo non è,

il mio mestiere non è.

Il mio mestiere fu cercare il tuo amore
fino nel fuoco delle montagne
Il mio destino, scordare il mio amore
sotto il peso delle montagne.

Guardami bene, diritto negli occhi:
ti sembrano gli occhi di un soldato?
Leggimi bene in fondo negli occhi,
che la mia vita non è,
il mio mestiere non è.

Ivano Fossati, Il canto dei mestieri, da Macramè, 1996.
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(Karaoke esistenziale, ciac! 15)

Una regina come te… in questa casa!

Ma che succede,
ma siamo tutti pazzi?
Ma io adesso, sai che faccio – che ore sono, le undici?
Io fra… guarda,
fra cinque ore sono qua,
e c’è una casa con quattordici stanze,
te lo faccio vedere chi sono io
te lo faccio vedere chi sono io.

E che sono quei cenci che hai addosso,
ma che,
ma fammi capire,
ma se… ma io… ma come,
tu sei la, sei la mia…
e stiamo in questa stamberga coi cenci addosso?
Ma io adesso esco, sai che cosa faccio? Ma io ti…
Ti porto una pelliccia...
di leone,
con l’innesto di una tigre,
te lo faccio vedere chi sono io.

Senti,
intanto però c’è un problema:
siccome devo uscire,
mi puoi dare mille lire per il tassì,
in modo che arrivo più in fretta
a risolvere questo problema volgare
che abbiamo?
– te lo faccio vedere chi sono io.
Lascia fare a me
lascia fare a me
lascia fare a me, perché…
ti devi fidare.

Ma che cosa ti avevo detto,
una casa?
ma io sai che cosa faccio?
Ma io ti compro un sottomarino, perché
se qui davanti a casa nostra
quelli c’hanno la barca e rompono le scatole,
io ti compro un sot-to-ma-ri-no,
così sai,
li fai ridere tutti, questi,
haicapito?

Intanto
facciamo una cosa,
io tra cinque ore sono qua.
Tu metti la pentola sul fuoco,
ci facciamo un bel piatto
di spaghetti al burro
(mentre
aspettiamo il trasloco),
poi ci ficchiamo a letto e…
te lo faccio vedere chi sono io,
ti sganghero!
Te lo faccio vedere chi sono io.

Te lo faccio vedere chi sono io,
sono un uomo asociale,
ma sono un uomo che ti… io non ti compro il sottomarino,
ti compro un traslatlantico
basta che tu non scappi,
stai attenta,
perché se scappi col transatlantico ti affogo nel…
nell’Oceano Pacifico.
Dai, dai, coricati,
dai, che ti sganghero.

Te lo faccio vedere chi sono io

Piero Ciampi, Te lo faccio vedere chi sono io, da Andare, Camminare, Lavorare e altri discorsi, 1975.
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Frammenti di Karaoke esistenziale, ciak! (8)

La Signora è in lacrime, e si ferma ad ascoltare:
attraversa e si blocca a metà della strada,
un colpo di vento la fa continuare.
La Signora, quando tace, sembra una volpe:
va al cinema da sola, ma ha paura ad entrare.

La Signora ha molti figli, molti figli da educare.
Qualcuno lo va a trovare, ma tanti,
li lascia sulla strada senza mangiare.
La Signora non ha padre, è figlia d’un figlio
d’un terremoto o d’uno sbadiglio.

La Signora la mattina sta male, si sente svenire,
il pomeriggio sparisce, ma la notte, la notte, mi viene a cercare.
È un amore bocciato che non può continuare,
come un cane in una stanza d’albergo mi sento solo.
Provo a far tutto quanto in orario, ma mi accorgo che è un gioco:
stan giocando alla radio e al telefono, qualcuno mi uccide a poco a poco.
La Signora è mio padre e mia madre quando alza la voce,
è una mano coi guanti che mi spegne la luce,
è una montagna di carte in un ufficio postale,
è un amico diventato nemico che mi ruba la voce.

La Signora è una fila di macchine da qui fino al mare,
la Signora ci stampa il giornale e ce lo fa comperare.
La Signora ha tanti nomi, tanti nomi,
così da nascondersi e non farsi trovare:
ma a volte si veste di luci e bandiere per farsi notare.
La Signora è mio padre e mia madre quando alza la voce,
è una mano coi guanti che mi spegne la luce,
è una montagna di carte in un ufficio postale,
è un amico che diventa un nemico e mi ruba la voce.

Lucio Dalla, La Signora, 1978.

dedicato a lei (uno scambio di favori e permalink degno della peggio massoneria blog).
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Maestri di vita (4) – Giorgio Gaber (1939-2003)

Margherita,
lo sai che tu sei tutta la mia vita?
Lo sai che ormai il mio cuore ti appartiene?
Ti voglio tanto bene, e invece tu…

E oggi un anno nuovo ci regala il calendario
si accendono le luci e si tira su il sipario
ognuno fa la sua parte e incomincia il blablabla
alla moda
alla moda
alla moda del varietà

E alle 8 e mezza mi presento puntuale
lavoro tutto il giorno e non mi trattano mica male
si spera nell'aumento che la vita risolverà
alla moda
alla moda
alla moda del varietà

Margherita,
lo sai che tu sei tutta la mia vita?
Lo sai che ormai il mio cuore ti appartiene?
Ti voglio tanto bene…

…e invece tu mi guardi storto
e mi dici una parolaccia
poi mi carichi a corpo morto
e mi tiri due pugni in faccia
ahi ahi ahi ahi

Se io non so di un fatto la versione originale
ci sono i quotidiani, c'è la radio e il telegiornale
mi basta seguire un momento e ho già chiara la verità
alla moda
alla moda
alla moda del varietà

non può risolver tutto neanche la democrazia
ma è l'unico strumento che ci dà una garanzia
viviamo finalmente con una certa dignità
alla moda
alla moda
alla moda del varietà

Margherita,
lo sai che tu sei tutta la mia vita?
Lo sai che ormai il mio cuore ti appartiene?
Ti voglio tanto bene…

…e invece tu non sei clemente
e mi picchi in un ginocchio
io mi piego perché sofferente
tu mi morsichi in un orecchio
ahi ahi ahi ahi

a scuola ai buoni un premio, ai cattivi la punizione
ma in seguito nella vita è meno chiara la divisione
si parla di giustizia, di uguaglianza e blablabla
alla moda
alla moda
alla moda del varietà

e quando sarò morto mi faranno il funerale
per una volta ancora sarò l'interprete principale
finita la triste funzione poi la vita continuerà

alla moda
alla moda
alla moda del varietà

(A la moda del varietà, 196?)

Un buon proposito per il 2003 potrebbe essere: basta coccodrilli, almeno per un po', eh?
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