Dall’ultima battaglia dell’Artigliere all’auto distruzione dell’incrociatore San Giorgio: intervista alla figlia di Giosuè Nuscis, il marinaio sopravvissuto a due affondamenti

La figlia Marinella ricorda la figura di suo padre, riscoperta proprio grazie ad un articolo su Liguria Nautica

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Una immagine d'epoca del cacciatorpediniere Artigliere con la foto del marinaio Giosuè Nuscis

“Mio padre era là, tra le fiamme e le esplosioni di quella nave di cui lei ha raccontato la storia. Era un marinaio e tante volte, nelle serate famigliari che trascorrevamo nella nostra casa di Terralba, ha raccontato a noi bambini le tragiche ore dell’
ultima battaglia dell’Artigliere. Ne era ossessionato. Capitava spesso che di notte urlasse il nome del suo capitano, Carlo Margottini e degli amici morti ed inghiottiti dal mare davanti ai suoi occhi”. Marinella Nuscis è una gentilissima signora di 66 anni. E’ nata a Terralba, nell’oristanese, che è anche il paese di origine del padre marinaio, Giosuè Nuscis, di cui racconteremo la storia.
Marinella ha vissuto per molti anni a Torino, gestendo assieme al marito uno studio commercialista. Chiusa l’attività, è ritornata nella natia Sardegna ed è da qua che ci ha scritto per ringraziarci dell’articolo che abbiamo dedicato all’Artigliere su Liguria Nautica. “Quando papà mi raccontava quella storia io, glielo confesso, non lo stavo ad ascoltare troppo. Non era una storia che potesse far piacere ad una bambina! Parlava solo di guerra e di morte. Leggendo il suo articolo, ho capito tante cose che non sapevo, collegandole con i racconti di papà che all’epoca dell’affondamento aveva soltanto 24 anni. Soltanto adesso mi sono resa conto di quanto fosse stata tragica la sua vita”.
Cosa le raccontava suo padre? “Parlava del suo capitano Carlo Margottini e di come fosse stato uno dei primi ad essere uccisi, lasciando senza guida l’equipaggio. Poi raccontava di una fuga tra fiamme e bombe, di come la nave fosse stata attaccata dai nemici da terra a dal cielo, sino ai momenti confusi dell’affondamento. Gli stessi nemici poi avevano gettato in acqua delle zattere ai superstiti e lui era riuscito ad arrampicarsi dentro una di queste. Ma molti non ce la facevano perché non c’era posto o perché erano feriti. Papà ripeteva continuamente i nomi dei suoi amici marinai che ha visto morire senza poterli aiutare. E poi le lunghe ore, 25 almeno, trascorse in mare, senza cibo né acqua, in attesa dei soccorsi mentre i suoi commilitoni attorno a lui continuavano a morire senza possibilità di assistenza”.

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Il marinaio sardo Giosuè Nuscis

Dopo questa battaglia, suo padre, Giosuè Nuscis, ha avuto altre esperienza di guerra?
“Sì, anche se l’affondamento dell’Artigliere fu quella che lo segnò maggiormente. Da quanto mi ricordo, fu imbarcato in un’altra nave, lui la chiamava incrociatore – che noi bambini non sapevamo neppure cosa significasse questa parola – che aveva nome San Giorgio. E poi parlava sempre di Tobruk e di come la nave fosse stata fatta affondare dal suo stesso capitano. Deve essere stata un’operazione confusa perché il capitano dovette salire due volte sulla nave prima di farla esplodere e, anche in questa occasione, tre suoi amici morirono. Papà ripeteva i nomi di tutti, anche se io ora non me li ricordo”.
Il San Giorgio era un incrociatore che combatté a difesa della città di Tobruk contro l’ottava armata britannica. Il suo comandante, Stefano Pugliese, fece affondare la nave prima dell’arrivo degli inglesi il 21 gennaio del ’41, ma l’equipaggio fu quasi tutto catturato. Anche suo padre finì in prigionia? “Sì. Lo portarono a Massaua (in Eritrea ndr). Ripeteva sempre il nome di questa città. Deve essere stata una prigionia terribile. Papà racconta che lavavano le bucce delle patate per cucinarle e mangiarle. Poi, con tre amici riuscì a fuggire anche se non sapevano dove andare. Si nascosero in una cantina che scoprirono piena di salumi e di vino. Mangiarono tanto da scoppiare e finirono tutti ubriachi. Questo è l’unico episodio divertente che raccontava”.
Come è stata la vita di suo padre, dopo la guerra? “Papà lasciò il mare e andò a lavorare come minatore. Trascorse sedici anni nelle miniere d’argento di Ingurtosu, nella Sardegna meridionale. Alla fine, come tanti altri minatori, si ammalò di silicosi. Morì a soli 69 anni. Mio fratello ed io ci davamo il cambio all’ospedale. Toccò a me assisterlo durante la morte. Fu un momento che non dimenticherò mai. Sul letto d’ospedale, papà continuava ad urlare il nome del suo capitano Margottini che lo venisse a salvare”.