L'uomo che batteva i nazisti (e i cavalli)

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Race (Stephan Hopkins, 2016).

Il trucco è che il colpo di pistola spaventava un po' il cavallo,
e intanto Owens era partito.
Qualche anno dopo aver vinto le famose quattro medaglie d’oro davanti a Hitler, Owens per campare sfidava sul rettilineo i cavalli da corsa. Avversari umani di livello non ne aveva più: era stato radiato subito dopo Berlino, per essersi rifiutato di seguire la squadra olimpica americana in un tour in Scandinavia. Aveva avuto voglia di tornare subito a casa, abbracciare la famiglia, assaporare il trionfo, quel tipo di cose. A New York in effetti diedero un grande ricevimento in suo onore al Waldorf Astoria - ma lo fecero entrare dalla porta sul retro. Il presidente Roosvelt, molto impegnato nella campagna per la sua rielezione, non lo incontrò mai. Owens del resto era un repubblicano, appoggiò ufficialmente il suo rivale. Quando gli chiedevano come mai Hitler non gli avesse stretto la mano, lui faceva presente che neppure Roosvelt gli aveva mai mandato nemmeno un telegramma. Poi per un po’ lo sport passò in secondo piano, Owens continuava a far figli e si arrabattava come poteva. Fu tra i fondatori di una lega di football americano per soli neri (le altre federazioni li escludevano), che fallì in pochi mesi. Aprì un lavasecco, dichiarò bancarotta, fu condannato per evasione fiscale. Ci sarebbero voluti diversi anni per ritrovarlo sulla panchina da allenatore degli Harlem Globetrotters. Quando a Città del Messico i vincitori americani dei 200 metri fecero scandalo alzando il pugno chiuso, Owens li criticò, per poi pentirsene pubblicamente. Prima di lasciare questo mondo, nel 1980, fece in tempo a protestare contro la decisione di Reagan di boicottare le olimpiadi di Mosca. Di tutto questo Race non parla - soltanto la scena in cui lo fanno passare dal retro del Waldorf Astoria, con la moglie, funziona da finale dolceamaro, mentre scorrono i sottotitoli: sembra tutto sommato un’offesa da poco, qualcosa da lasciarsi alle spalle.
Il ralenti sarà banale, ma con l'atletica funziona sempre.
Hopkins non lo usa, sembra che abbia fretta di mostrarti
le gare per passare ad altro.

(Quando capisci che un biopic non funziona? Per esempio, quando è meno avvincente della pagina di Wikipedia).

Come si fa a sbagliare un film su Jesse Owens? Da una parte un afroamericano che resta a ottant’anni di distanza uno dei più grandi atleti di tutti i tempi: dall’altra hai i nazisti e i razzisti dell’Ohio. Per trasformare l’atletica in tragedia e in spettacolo, puoi ripassare Chariots of Fire; per capire come parlare di razzismo e di sport, puoi rifarti ad Ali di Michael Mann. Quanto alle olimpiadi di Berlino, prendi la Riefenstahl e vai sul sicuro. Ma se tutte queste lezioni le ignori, se i dilemmi etici degli atleti li risolvi in discussioni di tre minuti, se il razzismo lo dai per scontato, se i tuoi nazisti sembrano cattivi da melodramma (sul serio, ogni volta che parla Goebbels partono i violini), se la Riefenstahl ti interessa solo come personaggio, il risultato finale si avvicinerà pericolosamente al livello di una fiction italiana, con un budget più alto, ma con meno personalità addirittura.

Il reverendo che sposò gli Owens aveva
i baffetti alla Hitler, il che mi fa impazzire.
Sbagliare un film su Jesse Owens è un’impresa incredibile, ma Stephan Hopkins ce l’ha fatta (continua su +eventi!).

Proprio lui che col suo biopic su Sellers aveva dimostrato di saper sfidare le regole del genere - quella però era un’icona che supplicava di essere profanata; con Owens, con la leggenda olimpica, non si scherza, e il risultato è anche che non se ne riesce nemmeno a discutere seriamente. Più che personaggi in scena ci sono delle figurine: hanno tutti obiettivi lineari (l’atleta nero vuole vincere, l’allenatore bianco vuole riscattare i suoi insuccessi, il dirigente olimpico vuole sconfiggere i nazi) e quando qualcuno o qualcosa si mette di traverso, s’ingrugnano, finché qualcuno non li sblocca, di solito con un bel discorso. Anche Hopkins è succube di questa moda del discorso taumaturgico, che tanti danni ha fatto negli ultimi anni (vedi il Lincoln di Spielberg). Ma nel suo caso l’ossessione rasenta il comico, perché molto spesso i discorsi non c’entrano nulla col conflitto in atto: ad esempio, quando Owens è incerto se boicottare o no i Giochi come gli ha chiesto un’associazione afroamericana, l’allenatore lo commuove spiegandogli che una volta si è schiantato con un aeroplano. Non c’entra tantissimo, ma nel frattempo è partita la base languida e pare che adesso funzioni così, ogni volta che un personaggio è frustrato e deve prendere una decisione tu inserisci un blocco di testo qualsiasi nel copione, un attore lo legge, i violini partono, voilà, la decisione è presa. Pazienza se il protagonista sembra non aver personalità, e oscillare a seconda dei discorsi che ascolta.



Luz Long è un gran personaggio, ok,
ma arriva dopo un'ora e mezza di film.

Il film tutto sommato tratta meglio Avery Brundage (un Jeremy Irons poco convinto), dirigente sportivo americano dalla carriera prestigiosa e controversa (dopo la guerra divenne segretario del CIO fino al 1972, quando si prese la responsabilità di far proseguire i giochi olimpici dopo che Settembre Nero aveva massacrato undici membri della squadra olimpica israeliana). Con una mossa che tradisce non si sa se più superficialità o provincialismo, Hopkins trasforma Brundage nell’eroe del mondo libero che persuade la compagine olimpica americana a non boicottare le olimpiadi, costringe i nazisti a non perseguitare gli ebrei (almeno durante i Giochi) e minaccia Goebbels: o Hitler stringe la mano a Owens, o non la stringe a nessuno. Poi però i due membri ebrei della staffetta americana, a malincuore, deve escluderli dalla finale, perché c’è un limite a quanto si può infiocchettare la storia. In realtà Brundage aveva opinioni moderatamente antisemite, come molti americani che prima di Pearl Harbor non guardavano a Hitler con troppa antipatia.

Lo sport è spesso ingrato coi suoi protagonisti: li piazza alla ribalta e poi cala il sipario all’improvviso. Il caso di Owens è esemplare anche perché ha sempre rappresentato quello che gli Stati Uniti vorrebbero essere - la patria multietnica che piglia Hitler a calci in culo. Se la storia finisse lì, se Owens non avesse poi dovuto interrompere subito la carriera e fare i conti col razzismo in patria, sarebbe una storia fin troppo edificante - probabilmente quella che aveva in mente Hopkins. Race torna sul grande schermo giovedì (ore 22) a Bra, frazione San Matteo, in occasione della rassegna Cinema d’estate in periferia

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Muhammad Ali non è andato in Vietnam perché analfabeta, dice Riotta che se ne intende (di analfabeti)

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Se per caso vi stavate chiedendo: è possibile scrivere un brutto pezzo su Muhammad Ali? Un combattente incredibile, un attore nato, uno che sembra non aver mai lasciato un microfono senza aver detto qualcosa di buffo o interessante? Uno che ha perso un titolo mondiale a tavolino per una questione di principio, uno che il suo pezzo di secolo se l'è vissuto da protagonista? Se per caso vi stavate chiedendo: può un giornalista italiano sbagliare persino un coccodrillo su Muhammad Ali?, ebbene, sono ovviamente domande retoriche. Ecco il buon Gianni Riotta.


Il Clay patriottico lascia il posto, sei anni dopo, all’Ali obiettore di coscienza contro la guerra in Vietnam (era stato esentato per aver fallito i test attitudinali, l’esercito gli assegnava un Quoziente Intelligenza di soli 73 punti, sapeva a stento leggere e scrivere e ammise di non avere mai finito un libro, neppure quelli che firmava o il Corano «ne ho solo imparato brani a memoria»).
Persuaso che l’abbiano incastrato per punirlo della conversione all’Islam, Ali detta ai giornalisti «Non ho nulla contro quei Vietcong là», viene incriminato e squalificato, finché la Corte Suprema non riconosce la sua obiezione di coscienza e lo riabilita.

Ora: secondo voi Riotta lo sa che gli obiettori di coscienza e i riformati sono due categorie diverse? Che se davvero fosse stato "esentato per aver fallito i test", Muhammad Ali non avrebbe avuto bisogno di obiettare, farsi arrestare, farsi condannare, perdere la licenza di pugile, perdere il titolo mondiale, appellarsi alla Corte Suprema? E non c'è nessuno alla Stampa che lo sappia, che possa avvertirlo, correggerlo, e magari già che c'è spostare quelle due o tre virgole, cambiare quei due o tre verbi che non si comportano in italiano come Riotta pretenderebbe (punire qualcuno di qualcosa?)

Di tutti gli aneddoti citati da Riotta, quello dei test falliti e dell'IQ basso è di gran lunga il meno noto: in un pezzo di mille parole, cinquanta servono a ricordare che Ali non era una cima. In effetti no, non ci teneva nemmeno troppo a sembrarlo (tra le sue frasi celebri: "Ho detto che sono il migliore, non che sono il più intelligente". In sociologia il fenomeno per cui le persone tendono a definirsi "migliori" ma non "più intelligenti" è chiamato Muhammad Ali Effect). Però cercare di desumere la sua intelligenza dal test della visita di leva è abbastanza ingeneroso - forse Riotta ignora quante risposte sballate davano i suoi coetanei al test dei Tre Giorni. Ali, di cui tanti hanno lodato l'intelligenza tattica sul ring e fuori, potrebbe anche aver tentato nel 1964 di falsare i test di scrittura e spelling per non andare in guerra e continuare a pugilare. Perché magari davvero non era una cima: ma nemmeno così scemo da preferire il Vietnam al titolo mondiale dei pesi massimi.

Quello che Riotta non dice, o forse non ha capito (o è stato tagliato in fase di pubblicazione), è che nel 1965 l'esercito abbassò gli standard minimi, e Muhammed Ali ridivenne arruolabile: a quel punto si rifiutò pubblicamente di obbedire agli ordini e diventò quello che tuttora chiamiamo obiettore di coscienza - il più famoso del mondo. Un esempio straordinario non solo per gli afroamericani, non solo per gli statunitensi. Se un uomo che si guadagnava da vivere pestando a sangue Sonny Liston si rifiutava di andare in guerra, l'obiezione non era più un atto di viltà. Diventava l'esatto opposto: una prova di coraggio. Va bene. Invece secondo Riotta non c'è andato perché ha fallito i test, scriveva a stento, firmava libri che non sapeva leggere e si arrangiava imparando un po' di versetti a memoria. Le cose non stanno esattamente così, ma si capisce quanto fascino deve avere questo Ali dislessico e disgrafico per Gianni Riotta: o non è vero che nei monumenti dei grandi uomini ognuno cerca di intravedere il proprio riflesso? Non sarà una coincidenza che tra le mille cose che poteva dire di Ali, gli sia venuto in mente che aveva difficoltà di scrittura, e firmava libri lo stesso?

"Ali fu The Greatest davvero, eroe imperfetto della virtù più rara nei nostri giorni del rancore: crescere, maturare, sbagliare, correggersi, cambiar idea, restando se stessi nel cuore". Sì, prof Riotta, appunto: crescere, maturare, sbagliare, ma anche correggersi. Correggersi. O al limite farsi correggere da qualcuno; ci sarà bene qualcuno nei pressi che può dare una mano. Continuo a trovare incredibile che non ci sia.
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L'anno che Valentino ha perso contro uno, boh, con una moto.

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Fatevi passar la rabbia, perché meglio di così davvero non poteva andare. Valentino Rossi ha vinto nella sua carriera non so quanti mondiali di cui a me, e a milioni di persone come me, non è fregato niente.

Oggi invece ha perso, partendo in fondo allo schieramento a causa di una penalizzazione di cui si è parlato molto ma di cui non mi era fregato niente fino a oggi, quando ho visto Valentino Rossi risalire dieci posizioni senza farsi prendere dalla rabbia.

Quando poi l'ho visto perdere lo stesso ho sentito qualcosa; mi sono sorpreso a sperare che in questo periodo Valentino Rossi abbia risolto le sue pendenze col fisco, non solo perché per la prima volta nella vita ho tifato Valentino Rossi - non sarebbe la prima volta che tifo uno sportivo non irreprensibile - ma perché nei prossimi giorni mi potrebbe capitare di tirarlo fuori coi ragazzini, Valentino Rossi, come esempio di vita o perlomeno di carattere, come esempio di come certe volte si vince anche quando non si vince, e viceversa. Del resto domattina sarà difficile parlare d'altro.

Ma ho la sensazione che ne parleremo anche tra un anno, e tra dieci, e quando ormai nessuno si ricorderà più bene quanti motomondiali ha vinto Rossi, ma ci ricorderemo di quello in cui è stato in testa alla classifica fino all'ultima gara, e ha perso contro uno di cui nessuno si rammenta più il nome.

Io perlomeno me lo sono già dimenticato, e anche voi dovreste.
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L'uomo che comprò la lotta libera

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Foxcatcher (Bennett Miller, 2014)


Tutto quello che puoi vedere fino all'orizzonte è del signor Du Pont. Filantropo, filatelista, ornitologo. Al tempo in cui nostri antenati morivano per la loro libertà, i suoi antenati facevano affari coi cannoni, e ora tutto questa terra è sua, ed è suo tutto ciò che ci cammina sopra e che ci vola. Gli uccelli da catalogare, i cavalli della madre da detestare, i trenini giocattolo, i fucili automatici, i lottatori da allenare e le medaglie che vinceranno. Nessuno può dire di no al signor Du Pont. Finanzia la polizia di stato e il comitato olimpico. Ma quel che desidera davvero, nessuno lo ha ancora capito.

Foxcatcher arriva nelle sale qualche settimana dopo Whiplash. È difficile immaginare due film più diversi sugli stessi argomenti: eppure il Mark Schultz intepretato da Channing Tatum sembra animato dalla stessa ambizione divorante e fine a sé stessa del batterista di Chazelle. Anche sulla sua strada c'è il maestro sbagliato. Ma gli allievi e i maestri di Whiplash sono musicisti iperattivi e sopra le righe; i lottatori di Miller lottano per prima cosa contro un muro di impassibilità che li isola dal mondo. Mark guarda in basso, prende tempo, cerca la risposta giusta, ha sempre paura di sbagliare. Il suo sport consiste nell'afferrare a mani nude un altro uomo e tenerlo a terra finché un arbitro non fischia, eppure anche quegli avversari è come se Mark non li toccasse davvero. Non sono che un'estensione di sé stesso, la conseguenza tangibile dei suoi sforzi: se si è ben allenato vanno giù a comando, se ha sbagliato tutto lo afferrano e lo portano via con sé. Come il protagonista di Whipash, Mark non ha amici. Ha però un fratello lottatore e allenatore (Mark Ruffalo) dalla cui stretta non riesce a liberarsi, un mentore inquietante che pagherà la sua amicizia a peso d'oro, e un unico vero nemico, che prende a pugni allo specchio fino a infrangerlo.

Tra i ritmi sincopati di Chazelle e quelli rallentati di Miller ognuno sceglierà secondo il suo gusto... (continua su +eventi) Se il primo film mi ha tenuto, come si dice, inchiodato per un'ora e mezza, il secondo è stato una delle esperienze più angosciose degli ultimi anni, al punto da farmi desiderare più volte di alzarmi e prendere qualche minuto di pausa, non perché non fosse un bel film - ma per stemperare il senso di tragedia ineluttabile che grava sui personaggi senza abbandonarli per 120 minuti. Capote in confronto era una commedia: in quel caso l'istrionismo di Philip Seymour Hoffman ti faceva tirare il fiato. Stavolta non c'è requie: il lottatore frustrato e il milionario paranoico che cerca di adottarlo sono due corde tese che potrebbero spezzarsi in qualsiasi momento. Ci si sente a disagio come quando ti invitava a casa il compagno di classe ricco ma senza amici, vorresti trovarlo simpatico - ti converrebbe anche - ma c'è qualcosa che suona terribilmente stonato e tapparsi le orecchie non serve a niente.

Ai tre attori della sua tragedia, Miller chiede qualcosa di molto particolare: devono recitare male, o meglio interpretare personaggi che non riescono a reggere la parte. L'irriconoscibile Steve Carell è un milionario che non riesce a indossare gli abiti eroici che si è fabbricato. Ciondola per il set con l'aria di un'aquila smarrita, ti aspetti che si tolga la maschera da un momento all'altro. Channing Tatum sa di essere di fronte all'occasione della vita: film drammatici su atleti dal collo taurino non è che se ne producano tutti gli anni. E però il suo ruolo è proprio quello di un atleta che di fronte all'occasione della vita è terrorizzato dalla possibilità di fallire. Entrambi, per quanto notevoli, vengono surclassati da Mark Ruffalo. Il suo Dave Schultz, fratello e allenatore di Mark, è l'unico soffio d'aria fresca che tira per tutto il film. Qualsiasi cosa che fa tradisce dolcezza, compreso afferrarti da dietro la schiena e mandarti al tappeto. Ma anche a Dave tocca recitare una parte, a un certo punto - e proprio davanti alla cinepresa Dave si blocca, non ce la fa.

Come tutti i biopic degli ultimi anniFoxcatcher pretende di raccontare una storia vera ma non riesce a raccontarla giusta. Tra le varie forzature, degna di nota è quella scena semibuia in cui si lascia intendere qualcosa di più di una tensione omoerotica tra Mark e il milionario suo ospite. Al Mark vero quella scena non è andata giù, tanto da ispirargli una serie di tweet molto ingiuriosi nei confronti del regista - poi cancellati. È in effetti una scena che sembra congegnata più per far discutere che per farci capire cosa sta succedendo tra i due.

Foxcatcher è al Cinelandia di Borgo San Dalmazzo alle 20:00 e alle 22:45. Portatevi qualcosa di caldo.
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Lauda/Fonzie, un film di Ron Howard

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Rush (Ron Howard, 2013)

Disse un giorno lo Studio alla Sregolatezza: non pensare che io ti invidi, o che sia stanco di incassare i tuoi colpi e batterti sempre ai punti. Ma se ci potessimo scambiare i ruoli un solo giorno della vita, giusto per capire l'effetto che fa giocarsi tutto a ogni curva... "Lascia perdere", rispose la Sregolatezza, "quel giorno pioverebbe e perderesti la faccia". Sai che perdita, replicò l'amico. E poi la faccia a che mi serve, fin tanto che posso infilarmi un casco.

Questo non è il film, vi rendete conto.
Rush è il film con i modellini che avete da qualche parte in solaio, salvo che sono 1:1 e fanno brumbrum per davvero. Proprio quelli di metà anni Settanta che sembravano davvero pacchetti di sigarette un po' ammaccati, e probabilmente non ne costruirono mai di più brutti, ma chi se ne frega, sono proprio loro. C'è la Tyrrell a sei ruote? Giusto in un paio di fotogrammi: ma c'è. La Lotus nera col bordino dorato c'è? Non poteva mancare. La Ferrari Atlas Ufo Robot con quell'aspiratore da disco volante? È in prima fila. E ce li hanno quei meravigliosi nomi scritti sulle fiancate? Regazzoni, Fittipaldi, Ickx, Andretti? I nomi dei piloti di Formula 1 non suonano come i nomi normali. Un nome normale ("Fisichella", "Schumacher") smette di sembrare normale quando lo porta un pilota di Formula 1. Non suonano italiani né inglesi né nulla, sono un popolo a parte, e quello che suonava meglio di tutti era: Lauda.

Un latinismo assurdo e necessario, un'invocazione, un ringraziamento. Niki Lauda, sin da quando riesco a ricordarmelo, per me è sempre stato un freak. Non faceva paura, il suo volto era solo un'ulteriore pellicola tra il cervello e il casco. A farmi impressione erano le vecchie foto, di quando era ancora un essere umano tra gli altri.  Prima che morisse tra le fiamme e risorgesse come il cattivo di una storia di supereroi, freddo, crudele, inestinguibile. Ma come si chiamava il supereroe biondo? Non se lo ricorda più nessuno. Hunt. Strano, non suona come un nome da pilota (continua su +eventi!)

Rush è un film di Ron Howard, che in 30 anni ne ha fatti tanti, e molti ve li ricordate benissimo. Splash. Cocoon. Willow. Apollo 13. A beautiful mind. Il codice da Vinci. Frost/Nixon. E tanti altri che spesso vi sono piaciuti. Ma forse non ricordate che sono suoi. È bravo, ha la mano sicura, non fa passi falsi, gli sono capitati film sbagliati ma non a causa della sua regia: difetti strutturali, poco carburante, gomme sbagliate, incidenti di percorso. Lui finché può un film in pista riesce a tenerlo. Ma non appassiona i critici, non lascia segni riconoscibili che li stuzzichino. Può compiere mosse spericolate, se ritiene che ne valga la pena; ma non ha affatto paura di prendere la strada più banale, se è la più efficace per portare il film al traguardo. Dissolvere una scena di sesso in un pistone che sbatte nel cilindro, si può ancora fare? E perché no, vecchia metafora fa buon brodo. Come fai a mostrare che le macchine vanno davvero forte? Foglie secche che svolazzano, in tutte le stagioni, viva le foglie secche, non ce n’è mai abbastanza. Austriaci inglesi e italiani che parlano sempre la stessa lingua, come nei vecchi film di guerra dove al massimo il nazista calcava un po’ le consonanti? Personaggi che passano il tempo a riassumere la loro vita alla prima bella sconosciuta che incontrano? O a rammentarsi a vicenda le regole della disciplina che praticano insieme da anni? Non è realistico, i biopic seri non fanno più così da un pezzo. Però funziona ancora benissimo, la trama fila che è un piacere, e non c’è nemmeno bisogno di inventarsi snodi assurdi, perché il Campionato Formula 1 del 1976 fu veramente così: nessuno scrittore oserebbe più inventarsi una storia con tanti colpi di scena e tanto inverosimili.

Ron Howard ha fatto decine di film, ma è come se non li avesse firmati. Non li associamo alla sua faccia. Quella continua a farci pensare a Richie Cunningham, il ruolo di ragazzone-medio americano, per il quale aveva studiato sin da bambino, e che avrebbe dovuto fare di lui l’attore tv più popolare d’America e del mondo. Se un giorno sul set non fosse capitato un tizio qualunque, nemmeno troppo bravo a recitare, un personaggio secondario, ma irresistibile. Si chiamava Henry Winkler, doveva fare il bullo italamericano: non era nemmeno di origine italiana, ma con quel giubbotto indosso era irresistibile: era Fonzie. Si mangiò il telefilm, ne divenne il protagonista, e Ron Howard se ne fece una ragione. Studiò da regista, e il primo lungometraggio glielo finanziò proprio l’amico e rivale. Giorni felici, ma nulla di veramente indimenticabile, che senso ha rivangare? Niente. È solo che.

È solo che nel film c’è stato un momento, uno solo, in cui il bravissimo Daniel Brühl infilandosi il cappuccio coi fori degli occhi non mi è sembrato più né Lauda né Brühl. Per un attimo ho visto il volto sempre diverso e uguale di Ron Howard, finalmente tornato sulla scena: Ron Howard, archetipo del wasp noioso, che si decide a mettere la sua faccia su un suo film. Un ritratto di Ron Howard nei panni di Niki Lauda, il pilota più regolare e noioso del mondo, un ragioniere nel circo itinerante dei matti suicidi: Niki Lauda, davanti al quale la Morte e la Gloria, quando hanno voluto farsi capire, hanno dovuto esprimersi in percentuali. Ron Howard che ci mostra il dito e ci suggerisce dove ficcare i nostri discorsi sull’autorialità: non sarò mai il vostro Fonzie, non mi è mai interessato. L’ho invidiato? Può darsi, ma alla lunga ho sempre vinto io. Vincerò anche stavolta. Ma applaudite e premiate pure i film degli altri, il vostro amore non mi interessa, le vostre coppe non saprei dove appoggiarle. C’è una sola cosa che vi chiedo, e non è la stima, non è la gloria, né le foto sul tappeto rosso. Una cosa soltanto.

Otto euro.

E in certe sale mi arriva anche una percentuale sui popcorn.

Ma voi innamoratevi pure del Fonzie di turno. Sbrigatevi anzi. Che quelli invecchiano più in fretta. È l’unica pista in cui riescono a sorpassarmi.

Rush si lascia guardare che è un piacere, al Cityplex di Alba (21:00), al Cinelandia di Borgo San Dalmazzo (20:00, 21:00, 22:40), al Multisala Impero di Bra (20:10, 22:30), al Cinema Italia di Saluzzo (20:00, 22:15), al Cinecittà di Savigliano (20:20, 22:30). All’uscita, fate guidare la ragazza: voi non sapete il perché, ma lei sì.
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17 anni in cima al mondo

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Chiedo scusa per non riuscire a pensare o a scrivere qualcosa su Pietro Mennea che non suoni retorico già alle mie orecchie, figurarsi a quelle di chi passa di qui. Posso benissimo starmene zitto che quasi sempre è la cosa migliore. Solo una cosa: finché sul tetto del mondo c'è stato lui (e c'è stato per tantissimo), a quelli un po' più giovani sembrava che dicesse: non c'è nulla che non possiamo fare. Dove il soggetto sottointeso era: noi italiani. Possiamo fare di tutto - certo, magari in determinati settori faremo più fatica, dovremo allenarci molto, e sacrifici su sacrifici, però alla fine che si fotta la genetica, che si fottano due millenni di piagnistei: possiamo essere tutto quello che vogliamo essere, almeno per un po'. Per 17 anni Pietro Mennea è stato il duecentometrista più veloce del mondo.

Crescendo abbiamo smesso di crederci, dove il soggetto sottointeso è sempre: noi italiani. Della mia generazione, almeno. Magari qualcuno ha provato la stessa cosa quando vinceva la Pellegrini, non lo so. Nel frattempo ci siamo inventati spiegazioni per qualsiasi mediocrità e anche per quegli occasionali lampi di eccellenza; forse battere un record a Città del Messico era più facile che altrove, forse, chissà. E oggi anche solo a parlarne mi vergogno. Ma c'è stato un momento in cui pensavo che avrei, che avremmo potuto fare, qualunque cosa.

Ma forse ero solo un bambino.
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