Colonizzare costa

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Le immagini e le notizie dall'Afghanistan sono agghiaccianti: questo va detto prima di ogni altra cosa. C'è qualcosa di peggio di un regime integralista e oscurantista? Forse c'è, ed è l'aver alimentato per qualche anno la speranza che un regime del genere non avrebbe prevalso; aver creato una bolla di modernità che non avrebbe mai potuto difendersi da sola e adesso scoppia, e questo ci fa più male. Ci sono al mondo persone che nascono nella sofferenza e nella prevaricazione, ma a Kabul per vent'anni qualcuno era nato e cresciuto nella speranza, e in questo momento l'ha persa: questo ci riesce molto più insopportabile. Come se non ne fosse valsa la pena. 

Sull'Afghanistan abbiamo litigato in tanti e può sembrare meschino, davanti a una situazione del genere, rispolverare vecchie polemiche. Per me si tratta solo di ripassare quel che penso di aver capito (molto poco) (ma nessuno ha mai capito l'Afghanistan, da Alessandro Magno in poi). 

Contrariamente a quello che i più giovani potrebbero aver sentito dire, gli americani non invasero l'Afghanistan per "esportare la democrazia"; nel 2001 il concetto di una democrazia esportata a suon di missili in un territorio conteso da faide tribali suonava ancora molto balzano. La guerra cominciò come una rappresaglia dopo l'11 settembre e fu presentata come la prima tappa di un'inevitabile (e potenzialmente interminabile) "Guerra al Terrore": si trattava di snidare Bin Laden e punire chi lo proteggeva, e poi sì, certo, togliere i burqa, ma con calma. Chi ne parla in questi giorni commette un perdonabile errore di sovrapposizione: di esportazione della democrazia e "nation building" si cominciò a parlare qualche mese dopo, durante quell'estenuante campagna mediatica che precedette l'invasione dell'Iraq e che nelle intenzioni dei promotori e dei finanziatori doveva convincerci tutti che deporre Saddam Hussein era un'ottima cosa. 

In questa fase fece molto parlare di sé un think-tank americano, i cosiddetti neocon, che diventarono molto interessanti (più che popolari) anche per la loro bizzarria: nascevano evidentemente conservatori, non avevano ancora messo via le spillette dei Bush e persino di Reagan, e però, per via di una specie di convergenza evolutiva, avevano sviluppato una specie di variante del trotskismo: la rivoluzione democratica permanente. Una posizione abbastanza infida per noi pacifisti senza-se-senza-ma che osteggiavamo la guerra in quanto guerra: di colpo diventavamo i difensori dello status quo, di tutte le dittature che non avevamo il coraggio di abbattere. George W. Bush il coraggio ce l'aveva e molto presto il Medio Oriente si sarebbe riempito di democrazie. Nel frattempo l'Afghanistan era stato occupato e, anche visto che Bin Laden non vi si trovava, i neocon si dedicarono a dimostrare come l'esportazione della democrazia stesse dando i suoi frutti: a Kabul erano ricomparsi i giornali, qualche donna si era tolta il burqa, eccetera. Come potevamo noi pacifisti duri e puri opporci agli indubbi passi avanti? Personalmente non mi sono mai opposto a niente. Ero scettico, non capivo come avrebbe potuto funzionare. In effetti non ha funzionato, ma questo non significa che avessi ragione; semplicemente non capivo: e si è poi visto che non capivano neanche i neocon, e che in generale nessuno ci ha mai capito molto. 

Per loro la democrazia era un valore in sé, a-storico, che si poteva tranquillamente esportare e che si misurava con parametri abbastanza chiari: numero di testate nelle edicole, quantità di volti femminili non coperti nelle strade della capitale. Per me è il risultato di determinate fasi storiche e addirittura circostanze geografiche: tanto per cominciare occorre che in una nazione prenda coscienza di sé un ceto borghese (in Afghanistan non è successo e non si capisce nemmeno come potrebbe succedere in tempi brevi); poi questo ceto deve ribellarsi alle gerarchie precedenti, clero compreso (ma se in Afghanistan il clero era rappresentato dai talibani, era questa la classe emergente sul tribalismo precedente: certo, era emersa grazie ai finanziamenti dei Sauditi). Sarebbe inoltre stata necessaria una scolarizzazione di massa, una rivoluzione industriale, eccetera. Insomma non è che ritenessi in assoluto impossibile l'esportazione della democrazia: ma credevo che servissero risorse immense, laddove gli stessi americani non ritenevano necessario mantenere che un piccolo contingente.

Un'idea (maliziosa) che mi sono fatto, è che i neocon non capissero la democrazia perché la confondevano con la loro condizione: erano un piccolo think tank generosamente finanziato, e quindi erano portati a considerare la democrazia come l'espansione del concetto: a Kabul non c'è? Sarà sufficiente aprire a Kabul un analogo piccolo think tank, coi quotidiani e il bar con le ragazze senza velo. E in effetti almeno a Kabul la cosa era fattibile. Si poteva anzi finanziare un'intera classe di funzionari, e scambiare l'indotto per la ripresa economica afgana. Probabilmente i sovietici negli anni '70 fecero qualcosa di abbastanza simile (a proposito di convergenze evolutive), e infatti in questi giorni sono rispuntate le foto delle ragazze di Kabul vestite alla moda degli anni Settanta. E però l'Afghanistan non è solo Kabul, anzi alla fine una delle poche costanti della storia afgana è che alla lunga la provincia trionfa sempre sulla capitale. Inoltre: come si chiama quel fenomeno per cui un potere X si conquista il favore della classe Y destinandole soldi a pioggia? 

Si chiama corruzione. 

Gli americani hanno provato a comprarsi un po' di Afghanistan, per un po' di tempo. Non ha funzionato e appena hanno trattato la resa (già durante l'amministrazione Trump), nessuno ha più voluto difendere qualcosa che senza i loro soldi non avrebbe comunque più funzionato. E del resto bisogna riconoscere a Trump, prima ancora che a Biden, che la situazione era insostenibile: gli USA stavano occupando l'Afghanistan da vent'anni. Come si chiama quel fenomeno per cui occupi un altro Paese per decenni interi, cercando di cambiarne un po' la cultura, quel tanto che ti basta per non aver continuamente la sensazione che i maggiordomi ti stiano fregando?

Si chiama colonialismo.

E c'è un motivo per cui a un certo punto è andato in crisi. I grandi imperi colonialisti sono caduti come frutti marci, dopo la seconda guerra mondiale, quando le nazioni che l'avevano combattuta (e vinta, ma a che prezzo) si sono trovate di fronte a banali questioni di budget. Gli inglesi non potevano più permettersi l'India, i francesi non potevano più permettersi mezza Africa. Scolarizzare popoli interi - che invariabilmente si sarebbero ribellati? Militarizzare immense regioni lontanissime dalla madrepatria? Non era più economicamente sostenibile. Anche quando non volevano mollare l'osso - i francesi e i portoghesi soprattutto - a un certo punto hanno dovuto arrendersi. Il colonialismo oggi richiederebbe risorse immense e sono incompatibili con la democrazia interna, ed è successo almeno un paio di volte che invece di esportare cultura e democrazia abbiano importato rivoluzioni o colpi di Stato. Gli americani, che in Vietnam subentrarono ai francesi, questa cosa in teoria dovrebbero saperla. Ma il complesso militare-industriale ha forse qualche interesse a dimenticarla, ciclicamente. Faccio notare che, perlomeno dal loro punto di vista, la missione afgana non è stata così inutile: c'è gente che ci ha fatto carriera, e di armi se ne sono vendute e comprate parecchie.

Ricapitolando: gli americani(*) andarono in Afghanistan perché dopo l'11/9 dovevano fare qualcosa. Ci restarono perché la situazione laggiù tende sempre a ingarbugliarsi, e lasciarono intendere che avrebbero tentato di esportarvi la democrazia. Quel che ragionevolmente potevano fare era alimentare la corruzione di un protettorato, ma anche questo a un certo punto era economicamente insostenibile, e così se ne sono andati. Chi in questi anni è cresciuto laggiù sperando che ci fossero margini per fare qualcosa di più, ora è prigioniero di uno dei regimi più oscurantisti del mondo. Chi invece è rimasto quassù deve ammettere di non avere capito abbastanza l'Afghanistan. Il fatto che nessuno abbia mai veramente capito l'Afghanistan (neanche gli afgani, forse) non è di nessuna consolazione.

(*) Beh sì, per un po' ci siamo stati anche noi, ma credo che l'istinto gregario sia sufficiente a spiegare il fenomeno.

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Il Grande Osama Bianco

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Zero Dark Thirty (Kathryn Bigelow, 2012)

Zero Dark Thirty è un film unico nel suo genere: l'autobiografia di un personaggio vivente che forse non conosceremo mai. Nel film si chiama Maya ed è l'agente della CIA che ha passato quasi dieci anni a cercare Bin Laden, finché non l'ha trovato (forse) e l'ha fatto ammazzare (così dicono, ma perché hanno buttato il corpo in mare immediatamente? E perché non hanno divulgato al pubblico nemmeno una foto? Vabbe', storia vecchia, parliamo del film).

C'è stato un momento - non posso dire quale - in cui guardando il film della Bigelow mi sono accorto che stavo tifando per i cattivi, i malvagi terroristi islamici. È stato un solo momento, comunque imbarazzante. Il punto è che dopo un'oretta nei corridoi della CIA, trascorsa a guardare dei professionisti seri e poco empatici alle prese con procedure standard che prevedono la tortura di alcuni mentecatti, quando finalmente un mentecatto riesce a organizzare un tranello e ammazzarne un po', ti viene spontaneo pensare qualcosa del tipo toh, beccatevi questa yankees, chissà se succede a tutti. Probabilmente no. Zero Dark Thirty è un film ambiguo, il che andrebbe benissimo, se fosse un sistema per disorientare lo spettatore e costringerlo a rivedere le sue opinioni. Da quel che ho letto in giro però non mi pare che le cose siano andate così: ognuno ha semplicemente pescato nell'ambiguità del film quello che serviva a sostenere la propria tesi preconfezionata. Per aver mostrato semplicemente come funzionavano gli interrogatori dei prigionieri (waterboarding, musica ad alto volume ecc.), la Bigelow è stata accusata di apologia di tortura. Per Michael Moore invece il film sarebbe la dimostrazione che la tortura è inefficace, infatti Bin Laden viene trovato soltanto dopo che Obama la proibisce (ma l'inchiesta era partita molto prima, dalla soffiata di un tizio sottoposto a waterboarding...) Per Andrew Sullivan è addirittura un atto di accusa ai criminali che governavano nel 2002 (quando Sullivan li sosteneva), ma in fondo è inutile porsi il problema di quel che pensa Sullivan, tra qualche anno avrà cambiato di nuovo idea. Se però uno spettatore medio entra convinto che la tortura possa essere necessaria per prevenire stragi come quella dell'11/9, non sarà Zero Dark Thirty a fargli cambiare idea: il film a un certo livello di lettura sembra proprio dire che Bin Laden è stato trovato anche grazie al waterboarding.

Se ne parli con un cinefilo puro ti dirà che è un film, soltanto un film: mostra cose che semplicemente sono successe, e lo fa molto bene. La sequenza dell'attacco al compound di Abbottabad è senz'altro lo stato dell'arte del film di guerra nel 2012: tra cinquant'anni guarderemo ancora Zero Dark Thirty se vorremo sapere come era fatta la guerra ai nostri tempi. Purtroppo era una cosa molto noiosa, con elicotteri invisibili e occhiali infrarossi da una parte e kalashnikov impolverati dall'altra, un lunghissimo estenuante match di nervi tra Juventus e Nocerina di cui peraltro conosci già il risultato finale. E i giocatori della Nocerina sono brutti, sporchi, fanatici. Ciononostante, quando fanno almeno un gol... (continua su +eventi!) mi è venuto da alzare il pugno, ma è un problema credo solo mio.

Forse ha ragione chi sostiene che la Bigelow è diventata una specie di regista embedded. Dopo il successo di The Hurt Locker (premio Oscar alla faccia blu dell'Avatar dell'ex marito Cameron) si è subito rimessa a scrivere un altro film di guerra vera, non videogiocata: all'inizio doveva raccontare la battaglia di Tora Bora (in cui Bin Laden non veniva trovato), poi la scoperta del vero nascondiglio dello sceicco del terrore l'ha portata a riscrivere la sceneggiatura in corsa. Film del genere sono interessanti e persino necessari, però per girarli devi avere dei contatti nell'esercito, forse anche nell'Agenzia - ed è gente preparata, magari non sono bravissimi a trovare Bin Laden, ma è indubbio che ai registi la sappiano raccontare. I giornalisti embedded sono inquadrati nell'esercito senza la possibilità di vedere le cose dal di fuori: non c'è scelta, l'unico modo di vedere la guerra è assumere il punto di vista di chi la fa. Allo stesso modo la Bigelow non può permettersi di mettere in dubbio la sua fonte. Col tempo forse scatta anche una specie di sindrome di Stoccolma: a forza di stare in mezzo ai soldati (o agli agenti CIA) non puoi che sviluppare un po' di simpatia per questi uomini rudi, per queste donne tutte d'un pezzo che lottano contro mille avversità per uno scopo, e se torturano qualche talebano nelle gabbie lo fanno comunque con professionalità e senza partecipazione emotiva, figurati, poi si sfogano vezzeggiando le scimmiette nella gabbia più piccola. Per la verità, da quel poco che sappiamo, i carcerieri sadici (e le carceriere) non sono affatto mancati; però la Bigelow non ce li mostra, non ha tempo. Deve raccontarci la storia di Maya, piccola grande Maya, che sola contro tutti e contro tutto riesce a trovare Bin Laden e poi - siccome ai suoi superiori alla fine sembra che non interessi più di tanto questo Bin Laden - pianta una grana infinita finché Obama non si decide a farlo ammazzare.

Maya, ha osservato qualcuno, a suo modo non è meno fanatica dei tizi che vuole eliminare. Sotto ai capelli rossi di Jessica Chastain (bravissima) è ancora e sempre il capitano Achab che non si darà pace finché la Balena Bianca non sarà catturata, e con la Balena tutto il dolore e tutto il terrorismo del mondo. Non ha un passato e, una volta liquidata la Balena, nemmeno un futuro; non si capisce nemmeno come possa far carriera, visto che l'unica cosa che ammette di saper fare è dare la caccia a Bin Laden, con risultati (per i primi nove anni) piuttosto frustranti. In un qualche modo, comunque, i compagni la rispettano e i superiori la temono, e lei va dritta per la sua strada finché la Storia non le dà ragione. Quella che vuole raccontarci la Bigelow, per sua stessa ammissione, è la success story di una persona che non tradisce la sua fede. "Tutti noi come esseri umani possiamo identificarci con il credere in qualcosa - crederci così tanto che non rimane nient'altro nella nostra vita" (tutti? Sul serio?) La narrazione americana procede per success stories: anche la biografia complessa di Lincoln deve essere bignamizzata da Spielberg in un singolo episodio in cui lui deve avere ragione e tutti gli altri torto, a onta di tante altre situazioni in cui gli altri acceleravano e lui frenava, e del chiaroscuro degli eventi precedenti e successivi. Alla fine della fiera Zero racconta la stessa storia dei film di ballerini da talent: devi credere fortissimo nel tuo successo finché si autoavvera; tutti i falliti che ti scorrono attorno non ci hanno creduto abbastanza forte.

Per una Maya testarda che cerca Bin Laden e alla fine incoccia nella pista giusta, chissà quanti agenti hanno continuato a brancolare per dieci anni nel buio, leggendo e rileggendo verbali di interrogatori tradotti alla carlona, bevendo caffè e mangiando ciambelle a spese del contribuente senza cavarci un ragno dal buco - ma la Bigelow ci mostra solo Maya, quell'una su mille che ce l'ha fatta. E ci mostra il mondo con gli occhi di Maya: un luogo pieno di maschi lenti che non vogliono convincersi che Maya ha ragione. Neanche quando un superiore glielo dice chiaro e tondo: Bin Laden è morto, o comunque chissenefrega di Bin Laden, il terrorismo è ovunque, le cellule si scambiano informazioni via internet... Maya non capisce, non può. Nemmeno per un istante l'attraversa il dubbio di essere una semplice pedina: trova intollerabile che una volta rintracciato il compound i dirigenti esitino a fiocinare la Balena. L'unica spiegazione che riesce a darsi (ed è l'unica che ci offre la Bigelow) e che vogliano essere assolutamente sicuri che quello sia proprio Bin Laden e non, poniamo, un trafficante di droga: sono rimasti traumatizzati dalla figuraccia di Colin Powell che mostrava delle foto di camion alle Nazioni Unite spergiurando di aver trovato le Armi di Distruzione di Massa in Iraq. Nemmeno il dubbio che ai piani alti non preferissero tenersi un Bin Laden anziano, stanco, tracciato, piuttosto di farlo fuori a rischio di scatenare rappresaglie e una prevedibile gara tra i successori per conquistarsi sul campo la carica di "Numero uno di Al Qaida". Nemmeno il sospetto che l'ordine finale non sia dovuto all'esasperazione di un direttore che non ne può più di vedersi Maya tutte le mattine che tiene il conto dei giorni col pennarello, ma a un presidente che magari comincia a pensare alla campagna per la rielezione. Niente. Un pezzo grosso saudita offre un'informazione fondamentale? Sarà senz'altro perché gli hanno offerto una Lamborghini, i sauditi sono tutti bambinoni viziati. Così almeno le fonti governative devono averla raccontata alla Bigelow, ma potrebbe anche essere andata diversamente: qualche pezzo grosso saudita potrebbe aver deciso che era il momento politico adatto per mollare l'osso, e la Lamborghini potrebbe essere stato un semplice lubrificante di una trattativa più complessa. Non è che ci voglia molto per farsi venire il dubbio, ma la Bigelow non sembra nutrirne, né ha l'aria di credere che ne debbano nutrire i suoi spettatori.

Solo in un fotogramma l'arcigna Maya si scioglie in un sorriso: quando un soldato, in attimo di relax alla vigilia della battaglia, ammette con un commilitone di essere convinto che Bin Laden c'è, soltanto perché ci crede lei, Maya, e in Maya lui confida. Lì tutto il femminismo della Bigelow si stacca come una concrezione calcarea, e sotto riusciamo a vedere ancora la fanciulla medievale che gode nel vedere il cavaliere pronto a morire per lei. Perlomeno io l'ho vista, ma forse è solo un problema mio eccetera.

Zero Dark Thirty è al Cinelandia di Borgo San Dalmazzo (ore 21). Buona visione.
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Ce ne vogliamo almeno andare dall'Afganistan?

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Ok, sembra proprio che quei diciotto miliardi in cacciabombardieri ci tocchi spenderli. Però non è vero che non si possa fare proprio nessun taglio. L'Afganistan, per esempio.
Loro a un certo punto se ne sono andati. Dovremmo esserne capaci anche noi. Sull'Unità (h1t#102), anzi, comunita.it, vi imploro non fate troppo caso alla foto del pirla.

Sarà una crisi di crescita: se non economica perlomeno morale. Diventeremo tutti un po’ più adulti, ci sta già succedendo. Per esempio, siamo già passati nel giro di poche settimane da popolo di Commissari Tecnici della Nazionale a popolo di Ministri dell’Economia: abbiamo tutti qualche rilievo da fare alla manovra Monti, abbiamo tutti critiche costruttive e competenti. Mi piace pensare che sia un progresso; un anno fa passavamo il tempo a chiacchierare delle Olgettine. Ora invece su Facebook scopriamo che il governo potrebbe far cassa semplicemente sospendendo l’acquisto di 131 cacciabombardieri per un totale di diciotto (o tredici) miliardi di euro: più o meno mezza manovra, quanto basta per rimettere in sicurezza i pensionati. A un certo punto l’appello è stato raccolto da Massimo Donadi, capogruppo alla Camera dell’IdV – a proposito, secondo me non è così che dovrebbe funzionare, la politica sui social network. Piuttosto il contrario: i leader politici dovrebbero cercare di servirsi dei social network per far conoscere e diffondere le proprie idee: invece in questo caso l’idea ce l’ha messa facebook, Donadi l’ha presa da lì ed è andata a diffonderla in parlamento. C’è da stupire che poi i conti non tornino?
Comunque è sempre meglio che parlare di Ruby Rubacuori: adesso sappiamo (anche grazie alla discussione che è nata in rete, soprattutto sul blog Noise From Amerika, a cui ha contribuito con molta franchezza lo stesso Donadi) che sì, quei 131 cacciabombardieri li compreremo davvero, e ci costeranno davvero almeno 13 miliardi… ma spalmati in un intervallo di tempo che va dal 2013 al 2026. Se anche decidessimo di annullare la commessa (i nostri Tornado sono comunque ormai mezzi obsoleti), il risparmio sarebbe dunque relativo. Il discorso a questo punto dovrebbe spostarsi sulla nostra spesa militare: ha un senso che una nazione senza nemici dichiarati, inserita stabilmente in un sistema di alleanze militari e politiche, continui ad armarsi così? Ma quanto si sta armando l’Italia? È veramente difficile da calcolare:però almeno se ne può parlare serenamente, ora che non siamo più distratti dalle scenette dell’ex ministro La Russa.
Io devo dire che sono un po’ in affanno: fino a due settimane fa bastava abbaiare un po’ contro Berlusconi e il pezzo era pronto. Invece adesso bisogna fare conti, interpretare tabelle, non credo di essere la persona adatta. Ho solo una modestissima proposta: non mi azzardo assolutamente a quantificare il risparmio che ne deriverebbe, ma per me varrebbe la pena in ogni caso. Quand’è che ce ne andiamo dall’Afganistan?
Siamo arrivati lì nel 2003, senza davvero volerlo (fu una delle decisioni meno popolari del secondo governo Berlusconi). La guerra, appena dichiarata finita e vinta dal commander in chief Bush, in realtà è proseguita a bassa intensità per tutti questi anni, più o meno come ai vecchi tempi delle “pacificazioni” coloniali. Abbiamo fatto il nostro dovere, abbiamo fugato col nostro atto di presenza la sensazione che l’occupazione dell’Afganistan fosse un gesto unilaterale del gigante americano ferito dall’11 settembre. Abbiamo avuto una quarantina di perdite. Ci siamo invischiati in una situazione tutt’altro che chiara: tra Pakistan e Nato in questi anni sono successe cose che soltanto gli storici della prossima generazione riusciranno a vedere con chiarezza. Magari nel frattempo avremo anche fatto qualcosa di buono, non lo so, non è di questo che si parla adesso. Ora dobbiamo semplicemente chiederci: vale la pena di restare?Possiamo davvero permetterci di aiutare gli afgani, mentre in Europa a chiedere aiuto siamo noi?
Alla conferenza internazionale sull’Afganistan, che si è appena tenuta a Bonn, il ministro Terzi ha riaffermato che nei prossimi dieci anni non lasceremo l’Asia centrale. Ridurremo soltanto il nostro contingente, che in questo momento ammonta a 4200 unità, man mano i reparti locali che addestriamo diventeranno operativi. Speriamo soltanto che non diventino operativi contro di noi (non sarebbe la prima volta). Terzi ci ha anche spiegato che negli ultimi dieci anni (in realtà un po’ meno) abbiamo “impegnato 570 milioni di dollari in cooperazione allo sviluppo e interventi umanitari”: forse il margine per risparmiare qualcosa c’è. Più che lamentarsi con Terzi, che nella democratizzazione dell’Afganistan mostra di crederci ancora seriamente, bisogna rivolgersi con franchezza ai leader del PD: nei primi mesi del nuovo anno si voterà, presumibilmente, il rifinanziamento della missione. In tutti questi anni il PD, sia quand’era al governo sia quando preferiva l’opposizione, ha sempre votato responsabilmente. Adesso si tratta semplicemente di individuare qual è la scelta più responsabile: continuare a sostenere il regime di Karzai, o salutare, ringraziare americani e altri alleati per la bella occasione che ci è stata offerta di aiutarli a salvare il mondo, e riportare i ragazzi a casa? http://leonardo.blogspot.com
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Il segno di una resa indelebile

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La democrazia macchia

Ma se ci raccontassero che tanto tempo fa, in un Paese lontano, le tribù per contarsi (e dimostrare di essere più potenti delle altre tribù) costringevano i loro membri, maschi e femmine, a lasciare un'impronta del dito su un brandello di tessuto finissimo, con un un pigmento che rimaneva indelebile sulla pelle per giorni e giorni; e che poi questi brandelli venivano pazientemente raccolti, e contati, e che la tribù che alla fine riusciva a portare più impronte aveva il diritto di spadroneggiare sulle altre per cinque inverni, noi la chiameremmo democrazia?

Il momento in cui ce ne andremo dall'Afganistan – presto, tardi, dipende dalla fibrillazione mediatica di un governo distratto e di un Paese che si ricorda di una guerra solo quando ammazzano i suoi soldati – sarà il momento in cui ci saremo rassegnati a considerare “democrazia” una cosa del genere. Per alcuni andare via sarà come perdere l'onore; io che l'onore non so bene cos'è mi preoccupo piuttosto di perdere il senso di una parola. Siamo in Afganistan per difendere la “democrazia”; la “democrazia” afgana consiste nel mandare contadini analfabeti a macchiarsi le dita con una scheda in cui devono identificare il referente della loro tribù. Il feudalesimo coi plebisciti: questa è la “democrazia” che stiamo difendendo.

Forse il primo esempio compiuto di democrazia postmoderna; nel senso che combina liberamente e creativamente citazioni di civiltà e millenni diversi: il suffragio universale, il colore indelebile, la tribù, il partito, la legge del taglione (nell'Helland se ti trovano col dito sporco te lo mozzano), tutto assieme in un calderone che per gli ottimisti è solo il brodo primordiale, l'inizio di una civiltà; e per i pessimisti è la negazione stessa del concetto di progresso. Per quale motivo al mondo l'Afganistan dovrebbe migliorare? Quando mai è migliorato? E per quale concatenazione di cause la democrazia tribale afgana dovrebbe evolversi in qualcosa di più occidentale? Se fosse invece l'Afganistan il futuro dell'Occidente?

La guerra afgana non è stata costruita su una bugia, come la campagna d'Iraq. Ma a ben vedere poggiava su un fondamento ideologico altrettanto catastrofico. L'idea di “democrazia” come valore in sé, a-storico, a-geografico, una specie di diritto naturale comune agli uomini di ogni età e latitudine. Mancava solo che lo trovassero inciso in un filamento di Dna, e non è detto. Non so neanche esattamente chi abbia concepito un'idea così – i neocon americani? – di certo smentiva persino il pensiero corrente fino al 10 settembre 2001, il mito dello scontro di civiltà. No, macché scontro: per i neocon in fin dei conti esisteva una sola vera civiltà, un solo sistema, una sola fede: la democrazia. Non solo, ma era anche facilmente trasportabile, una specie di kit, la democrazia da campo. Ti bastava sfondare con un paio di divisioni, puntare alla capitale, aprire un Parlamento, et voilà, democrazia. Con tutto quello che ha di bello: pluralismo, libertà di stampa (che gioia a quei tempi, per i primi fogli usciti a Bagdad o Kabul), e poi via il burqa e tutti in discoteca: tutto facile, tutto immediatamente desiderabile, perché chi è che non ama la democrazia? Bisogna essere fessi.
Chi in quel periodo osava ricordare che la democrazia non è un Monolite piovuto dal cielo, ma il risultato ultimo di un processo storico (alfabetizzazione, industrializzazione, affermazione dei ceti medi, crisi della famiglia patriarcale, emancipazione femminile) veniva bollato come un razzista, quindi un nazista, uno che “è convinto che la democrazia sia solo cosa nostra” mentre invece piace a tutti, un apologeta della superiorità dell'occidente, uno snob, quindi anche un comunista, però un po' filoislamico, e naturalmente antisemita – e qualche etichetta devo averla persa per strada, ma quelle qui sopra me le hanno appiccicate tutte. Erano i giorni in cui si metteva in copertina la foto della ragazza afgana col dito macchiato – che coraggio nel macchiarsi il dito, che fierezza, lei sì che è orgogliosa della sua democrazia, una lezione per tutti noi che tra un'elezione e un'altra perdiamo regolarmente il tesserino.

Nessuno sembrava insospettito dall'immagine di una democrazia che macchia. Una democrazia fondata sull'analfabetismo e sui gruppi tribali. L'idea è che il processo storico si potesse pacificamente invertire: la democrazia doveva favorire l'emancipazione femminile, mettere in crisi la famiglia patriarcale, segnare l'affermazione dei ceti medi, e perché no, provocare l'industrializzazione e l'alfabetizzazione. Così, tutto a rovescio, senza neanche stanziare troppi fondi per le scuole: dategli il diritto di voto e vedrai che si alfabetizzeranno da soli. Il neoconservatore postmoderno è convinto che causa ed effetto siano polarità che si possano invertire a piacimento: Newton scopre la gravità e dà una testata alla mela che si impicca all'albero. Non solo, ma bisogna riformare la termodinamica: tutto non tende più all'entropia, ma alla democrazia. È il destino ultimo: tutte le nazioni diventeranno democrazie, è autoevidente. Non vedi come scalpitano tutti per ribellarsi ai tiranni? La rivoluzione arancione, la rivoluzione zafferano, la rivoluzione dei cedri, tutto un arcobaleno di rivoluzioni che ci porta direttamente verso l'Organizzazione Mondiale delle Democrazie (niente a che vedere con quel consesso di dittatori che era l'Onu).

Ah, e nel frattempo avevano anche la faccia tosta di parlare di fine delle ideologie. Io a dire il vero una sbornia ideologica così pesante non la ricordo: al confronto i famosi sessantottini avevano qualche piede piantato per terra. È di questa sbornia che stiamo ancora pagando i postumi.

Il giorno che ce ne andremo da Kabul, sarà il giorno che ci sveglieremo in un mondo più cattivo: senza destino, senza sacre missioni, senza progresso. Parola un po' abusata, anche da me: forse non c'è nessuna direzione verso cui tendere, forse progredire significa semplicemente adattarsi all'ambiente. Il tirannosauro era già perfettamente progredito, dal suo punto di vista; poi è cambiato l'ambiente. L'Afganistan è una gola tra il Karakorum e deserto, e ci cresce bene l'oppio; forse il tribalismo non è un retaggio del passato, ma il sistema di governo più adatto all'ambiente. E non è neanche vero che non progredisce: smette le lance e passa ai razzi terra-aria, sostituisce i messi coi telefoni cellulari, e si trasforma nella versione più evoluta di sé stesso: la narcomafia.

Il giorno che ce ne andremo da Kabul, temo, ci porteremo un po' di Kabul con noi. Sarà la fine di un'ideologia sbrigativa e facilona, roba da fighetti americani decisamente, ma comunque ultima incarnazione di un'idea lunga tre secoli: il progresso. Torneremo con l'idea che in certi casi il medioevo è inevitabile, che bisogna venirci a patti; e se si fa a Kabul, perché no a Scampia.

Il giorno che ce ne andremo – ma perché ci siamo andati, poi? D'accordo, ci sentivamo responsabili, ma eravamo già una piccola nazione in crisi d'identità. Questa idea di andare in capo al mondo a fare i missionari armati – ma davvero siamo così bravi? Quanto ci costa ammettere che il mondo non poggia sulle nostre spalle?
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po po po po po po po

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A cena con la Segretaria

Il fatto è che in diplomazia siamo fortissimi.
Non molto spettacolari, ma otteniamo tutto quel che ci serve. Proprio come ai mondiali.

E quindi lo abbiamo fatto: abbiamo scambiato un giornalista italiano con cinque pericolosissimi talebani che ci siamo fatti dare da Karzai – il tutto sotto il naso degli americani – che, in teoria, sarebbero la superpotenza che ha il controllo militare dell’Afganistan. Non solo: mentre combinavamo questo capolavoro, D’Alema era a cena con la Rice, che ufficialmente non s’è accorta di niente. Alla fine si è perfino “compiaciuta per l’esito della vicenda”. In seguito qualcuno (forse Blair) le avrà spiegato che la vicenda consisteva in uno scambio di ostaggi. Una cosa che gli americani non avrebbero mai permesso di fare (l'ultima volta che abbiamo provato a fare qualcosa del genere in Iraq, hanno preso a schioppettate il nostro agente) ma noi lo facciamo lo stesso, perché siamo una squadra fortissimi. Po, po po po po, po.

Due considerazioni brevi, ma non serie:

1) La Rice è un bluff. Non basta essere il secondo Segretario di Stato donna (dopo l’Albright), non basta essere il secondo Segretario di Stato nero (dopo Powell), non basta essere il primo Segretario donna e nero. Chi l’ha poi detto che una donna nera debba esser brava per forza? Non potrebbe semplicemente essere scarsa? Dopo sette anni di pasticci in politica estera non possiamo sempre e solo dar la colpa al Texano con gli Occhi da Macaco. Ti sei fatta abbindolare dai baffetti di un tizio che in Italia di solito fa lo sparring partner di Berlusconi. Può l’esercito più potente del mondo perdere una guerra? Se lo metti in mano a gente così, chissà, vediamo.

2) Forse, dopo decenni di prove e riprove e sforzi di un’intera nazione, ce l’abbiamo fatta: abbiamo trovato un lavoro per Massimo D’Alema. Qualcosa che riesce a fare bene: la diplomazia d’alto bordo. Qui da noi non ce la racconta più da un pezzo, ma là fuori c’è tutto un mondo di diplomatici e segretarie che ci cascano ancora. E allora vai. Ministro degli Esteri a vita. Un altro peso in meno.
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la classe talebana non piace all'insegnante

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Primavera dei papaveri

Ma è solo Fassino, o stiamo diventando tutti scemi?

Probabilmente il peccato originale è stato chiamarla “missione di pace”. Ma a questo punto dovremmo saperlo tutti che si sparacchia un po’, in Afganistan. Che la vita, insomma, costa poco.

Però, come dire, siamo italiani. Siam convinti che non ci sia argomento abbastanza duro per noi. Parla e parla, e vedrai che ammorbidiamo anche i Talebani. Con un po’ di pazienza, un paio di salotti in tv, due giorni di dibattito, tre giri alla frittata, e vedrete che dopo Sircana e il trans riusciremo a cucinarci anche il Tavolo di Pace in Afganistan. Onorevole Fassino: il Tavolo di Pace in Afganistan? Coi talebani? Ma ha presente la situazione?

Mettiamola così. I talebani stanno a sud, ma anche a est. A nord, guerra tagiko-uzbeka permettendo, ci stanno i talebani. Ah, pare che siano anche a ovest. Insomma, alla nostra alleanza, c’è rimasta solo Kabul e periferia. È un assedio, per così dire. Per di più da un paio di mesi gli americani – che queste cose le studiano – se la stanno menando con la prossima offensiva di Primavera. Può anche essere una scusa per le future irradiazioni di uranio e fosforo, ma per quanto ne sappiamo le cose stanno così: ci hanno circondato e adesso ci attaccano. Come i Sioux a Little Big Horn.

Ma noi siamo più furbi di Custer, perché ci abbiamo Piero Fassino, noi! Che ha deciso che li invita al Tavolo della Pace! "Qualsiasi persona di buonsenso non può che essere d'accordo", ha detto. Eh, beh, certo, controllano due terzi del Paese e stanno per attaccare, vuoi che non accettino la proposta di Piero Fassino? Non sarebbe buonsenso.

E poi ci sono quelli che non sono d’accordo con Fassino, quelli che i talebani, al Tavolo della Pace, non ce li vogliono. Perché sono brutti e sporchi e cattivi, dei veri tagliagole. Eh, beh, certo, se la butti sui diritti umani, effettivamente... Luca Sofri si augura che i sequestratori di Mastrogiacomo siano arrestati. E anche questo, in fondo, è buonsenso. Voglio dire, non fa una grinza, no? Controllano due terzi del Paese? Chiamiamo la polizia che li arresti, così imparano.
Perché, non c'è una polizia, in Afganistan?
Ah, saremmo noi?
Ah.

È due giorni che ne parlano: tavolo-della-pace sì, tavolo-della-pace no. Quanto buonsenso, gente. Nessuno ancora ha provato a chiedersi cosa ne pensino i Talebani. Probabilmente se lo sapessero ghignerebbero alla grande, i Talebani, con quei denti che Mastrogiacomo ha trovato curati e bianchissimi. C’è un piccolo Paese a ovest della Turchia, dove i cani infedeli litigano se invitarci o no a un tavolo! Il 54% vuole e il 51% 41% non vuole. Non fa ridere?

No, non è solo Fassino: 54 + 41 = 95% di italiani un po' confusi. Siamo in armi in Afganistan da 4 anni e non riusciamo ad accettare che laggiù ci sia un nemico. Uno che al tavolo, con noi, non ha mai detto di volersi sedere. Probabilmente pensiamo che ci sia un bottone, da qualche parte. Lo premi e puf! Il nemico non c’è più. È diventato un simpatico signore che ha voglia di sedersi con noi. Che ci abbiamo tanto buonsenso.

***
Vien da dire: meno male che i giovani non vi ascoltano. E invece no. Qualcosa è arrivato anche ai ragazzini.
Stamattina in classe dovevo spiegare cos’è un Soviet. Non è molto difficile: è un’assemblea dove tutti parlano, e chi ha la voce più grossa spesso vince. La rappresentante ne ha approfittato per chiedere cinque minuti di discussione sull’Annuario. Devono decidere se fare la foto in costume. Bello, sì, ma che costume?

Qualcuno propone: personaggi famosi. Onde prevenire una gara a chi somiglia più a Paris Hilton, intervengo col vocione: guardate che Garelli resta Garelli anche se lo vestite da Brèdpitt. No, nemmeno un cartello con su scritto Brèdpritt lo farà sembrare meno Garelli.

“E allora ci vestiamo tutti da Talebani”.
“Non se ne parla nemmeno, no”.
“Ma prof, perchè?”
“Perché? Mi state chiedendo perché?”
“Sì, perchèèè?”

Perché no.
Perché se vi fate una foto conciati da Talebani finite in prima pagina sulla gazzetta, e ci finisco anch’io.
Perché non è uno scherzo, stavolta: c’è una guerra, e ci siamo anche noi.
Io non posso avere opinioni, ma questa non è un'opinione: è un fatto e basta.
Loro sparano ai nostri soldati.
Arrestano i nostri giornalisti e li scambiano coi loro parenti che noi abbiamo fatto prigionieri, perché loro sono i nostri nemici. Come posso spiegarlo più chiaro di così. Nemici.
Si finanziano col papavero, e voi avete studiato cosa si estrae dal papavero. Hanno fatto saltare la borsa mondiale degli oppiacei. Tra due ore sarete a casa e al tg vi diranno che hanno sequestrato un quintale di eroina afgana in Toscana. Un q u i n t a l e.

Ci sparano, ci sequestrano, ci bombardano di droga. Non vogliono fare la pace con noi. Non hanno mai detto di voler fare la pace con noi. Ci hanno circondato e forse in primavera ci attaccano.
“Ma prof, primavera è oggi”.
“Appunto”.
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ci vorrebbe un Nemico

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(Avvertenza: questo pezzo contiene molte informazioni imprecise, perché questo è un pezzo sulle informazioni imprecise. Non ci tiene a dire "la verità" su Iraq o Afganistan: tiene solo a far notare quanto poco sappiamo su Iraq o Afganistan).

Adesso tutti, sull’Afganistan, dovranno farsi un’opinione. Facciamo la guerra? Dialoghiamo coi talebani? Ce ne torniamo a casa e facciam finta di nulla? Ecc ecc.
Il problema è che dell’Afganistan nessuno sa niente.

Qui non è questione di informazione superficiale: l’informazione, semplicemente, non c’è. Non ci sono giornalisti, né da una parte né dall’altra. Possiamo avere mille, centomila opinioni, possiamo aggiornare i nostri blog o guardarci un bel programma di approfondimento: il problema è che non c’è nulla da approfondire, perché al mulino manca l’acqua, e l’acqua la portano soltanto i reporter. Nel giorno in cui siamo tutti felici perché Mastrogiacomo è tornato, vale la pena di notare questa cosa: ora laggiù non c’è nemmeno lui, ed è difficile pensare che qualcuno segua le sue tracce per parecchio tempo.

È un discorso che va esteso anche all’Iraq. Ogni giornalista, ogni cooperatore che è tornato felicemente a casa, è un giornalista o un cooperatore in meno sul territorio. Da quattro anni a questa parte le informazioni che abbiamo su questi due Paesi sono diventate sempre più confuse e frammentarie – il problema è che siamo troppo indaffarati, distratti o partisan per accorgercene. Del resto diamo per scontato di vivere in una piccola sfera dove le informazioni sono ovunque immediatamente accessibili. Sbagliato: Iraq e Afganistan sono due buchi nel medioevo. Non passano più notizie. Nemmeno ai tempi del Vietnam era successo qualcosa del genere: due grandi nazioni scomparse dalla rete mondiale dell’informazione.

Pensate a questa semplice evidenza: non sappiamo contro chi stiamo combattendo. Per dire, gli americani in Vietnam lo sapevano. I russi in Afganistan lo sapevano. Oggi non lo sappiamo. Perché non vogliono dircelo? Oppure non lo sanno proprio?

Proviamo a ragionare da agit-prop: dobbiamo convincere il crasso Occidente a picchiare duro in Iraq e in Afganistan. Ci serve per prima cosa un Nemico. Osama Bin Laden andava benissimo, salvo che da qualche anno in qua comincia un po’ a puzzare, il cinquantenne ex-dializzato nascosto in una caverna. Continuare a insistere sul fatto che sia vivo, a 2-3 anni dall’ultimo filmato, è quasi un boomerang. E infatti sulla carta stampata si comincia timidamente a darlo per morto. Ma se muore, bisognerà trovare un altro Nemico, ugualmente cattivo ed emblematico, e non è semplice.

Qualche anno fa ci fu l’ondata dei Numeri Due. Il Numero Due era un modo abbastanza elegante per scalare dal concetto di “Bin Laden è il Male” a quello di “Il Capo di Al Quaeda in carica è il male”. Io ho onestamente perso il conto di quanti Numeri Due di Al Quaeda gli americani abbiano catturato e processato. Verso il 2004 la carica di Numero Due si è cristallizzata su Al Zarqawi, un tale che ai tempi non lavorava nemmeno nella stessa organizzazione di Bin Laden, ma era comunque il personaggio più sporco e cattivo in circolazione. Tagliava le teste occidentali, metteva gli snuff in rete, aveva ormai le dimensioni del mito.

Intorno ad Al Zarqawi si è detto di tutto. Proprio come Bin Laden, che fino a un certo punto si dava per dializzato, e poi miracolosamente è guarito, anche Al Zarkawi all’inizio sembrava uscisse e rientrasse dall’Iraq con una gamba finta (generoso regalo di Saddam Hussein) – finché a un certo punto non gli è ricresciuta. Viene in mente il personaggio di Gambadilegno: lo sapete perché si chiamava così? Nelle prime strisce americane aveva una gamba di legno, ma i disegnatori perdevano troppo tempo a disegnarla, e soprattutto non si erano mai messi d'accordo su quale gamba fosse. Finché Walt Disney o chi per lui decise di montargli un “modello nuovissimo” di gamba in tutto e per tutto uguale a quella vera: problema risolto. I Nemici degli americani hanno un po’ la consistenza dei cattivi da fumetti, o delle action figures smontabili.

A dicembre del 2004 Al Zarqawi a furia di decapitare occidentali si era fatto una fama talmente cattiva che Bin Laden in persona è resuscitato da qualche grotta di Tora Bora per nominarlo suo luogotenente in Iraq. Bene. Anzi no, perché a differenza di Bin Laden, Al aveva un difetto: era vivo e operante in Iraq. E se sei vivo e operante, prima o poi qualcuno ti cattura (lo stesso Zarqawi pare non fosse molto popolare nemmeno tra gli iracheni, che del resto ha massacrato a centinaia). E quando ti cattura, poi tocca inventarsi un nuovo Numero Due. Ma a questo punto i lettori occidentali cominciano a spazientirsi: sono abituati a trame di telefilm più verosimili (maledetto intrattenimento di qualità).

Dalla cattura in poi di Al Zarqawi non s’è più capito niente – non che prima si capisse molto. A un certo punto nell’autunno del 2005 Falluja è diventata la roccaforte dei sunniti. C’è stata una battaglia terribile, con armi al fosforo, Falluja è stata espugnata, e poi? E poi evidentemente non era la roccaforte, visto che la guerra coi sunniti è proseguita. O no? Giuro, ho provato a informarmi, ma non ci si capisce nulla. I giornalisti a Bagdad e Kabul e tirano i pastoni con quel che possono. Un’espressione ricorrente, nell’identificare il Nemico, è “un mosaico di formazioni”. Quando non è un mosaico è una mescolanza o un caleidoscopio o un ammasso o una pletora o qualunque cosa. Mai un nome. Mai un progetto politico o nazionale. Mai la faccia di un vero Nemico.

Ci servirebbe. Abbiamo bisogno di una faccia. E abbiamo bisogno di sapere se è una faccia nemica o no. Prendiamo quegli altri simpaticoni degli sciiti. Sono nostri alleati o no? Non si sa. Quante volte s’è visto il faccione di Muqtada-al-Sadr. È un nemico? O un amico? L’impressione è che l’ufficio propaganda se lo tenga come jolly, a seconda del momento. Ci sono fasi filo-sciite e fasi in cui gli sciiti ci stressano, evidentemente, e a seconda del momento il gattone sciita diventa un nemico o un alleato di riguardo.

Gli effetti sono paradossali: in gennaio in Occidente abbiamo assistito all’esecuzione di Saddam Hussein per mano di un tribunale legittimo, giusto? Ma in Medio Oriente hanno assistito all’esecuzione di Saddam Hussein per mano di un boia sciita, e circola voce che l’abbiano appeso davanti a Muqtada-al-Sadr. Ognuno ha la sua verità. Persino Camillo, che tra tanti difetti non aveva l’incoerenza, a fine anno si è messo a parlar bene dell’ayatollah Al Sistani. Per carità, ognuno dosi come vuole le sue idealità col realismo: ma partire dall’esportazione della democrazia per arrivare, in capo a tre anni, agli ayatollah, mi sembra abbastanza triste.

Quanto a me: io qualche anno fa avevo una certa idea, su Iraq e Afganistan. Da lì in poi non l’ho cambiata; non per coerenza, ma perché non ci ho più capito nulla. Se mi dimostrassero con dati alla mano che a questo punto è meglio restare là, sarei disponibile a cambiare idea. Penso che le idee abbiano una loro durata, come la biancheria; ogni tanto cambiarle è doveroso.

Il problema è che le informazioni, semplicemente, non arrivano: nessuno si attenta più ad andarle a prendere. Onore a Mastrogiacomo. Tutto il poco che sarà riuscito a portare indietro da questa esperienza, è oro puro per noi.

Il resto è fuffa, teatrino delle ideologie. “Stiamo combattendo contro i talebani”. “Dobbiamo dialogare coi talebani”. Entrambe sono opinioni rispettabili, il problema è che non hanno senso. La parola “talebano” non ha senso. I talebani del 2000 erano diversi da quelli del 2007. Quelli, per dire, pare avessero vietato la coltivazione del papavero da oppio per motivi religiosi - con conseguente crisi mondiale dell'offerta di eroina. Questi invece con l’oppio ci comprano le armi. Ne producono talmente tanto che la quotazione dell’eroina è ai minimi storici. Tra un po’ ai nostri ragazzi cominceranno a offrire schizzi gratis che nemmeno nel ’78. Un buon motivo per restare laggiù? O per andarsene? E chi lo sa? Non ne sappiamo nulla.

Verrebbe voglia di dire “Sì, restiamo”, giusto per ricordarci che l’Afganistan esiste. Bisognava che sequestrassero Mastrogiacomo perché in tv e sulla carta stampata tornassero notizie di attentati, stragi, combattimenti. Se ce ne andiamo, c’è il rischio oggettivo di dimenticarcene. Ma è solo un’opinione come un’altra. Ci scambiamo opinioni, in mancanza di informazioni.
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