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Mea Shearim

La mia guida, se mi ricordo bene, ne parlava così: probably the most reluctant tourist attraction in the world, "forse la più riluttante attrazione turistica del mondo". Girava infatti voce che li accogliessero a pietrate, i turisti, a Mea Shearim. Io non ero sicuro di volerci dare un'occhiata. Eravamo stati tutto il giorno nel quartiere arabo della città vecchia, dove dopo una settimana ormai la gente ci conosceva e ci voleva bene. Non che smettessero di volerci rifilare kefie di cotone leggero stampate ad Honk Kong; la mattina una bimba di otto anni davanti alla Città di David aveva provato a sfilarmi il portafoglio; questo non significa che non ci volessero bene, ma la fame è brutta, la città sotto assedio da più di un anno, e noi gli unici turisti utili da mesi (e poi ovunque andavamo, in pullman, la gente sorrideva e ci salutava col segno della Vittoria). Non mi ero mai sentito così amato e non mi ero mai sentito così ricco, per cui, ovviamente, non mi ero mai sentito così in colpa: e tutto questo senza nemmeno dare un'occhiata alla faccia innocente del nemico, a Mea Shearim.

Alla fine ci siamo andati, dopo il tramonto, giusto per vedere. All'inizio non ci fidavamo nemmeno a chiedere la direzione: dopo un po' abbiamo sentito un bambino che diceva qualcosa, un balcone che sbatteva, e abbiamo pensato: "ci hanno avvistato"; dopo un altro po' abbiamo visto lo striscione sospeso sulla strada e abbiamo capito di essere lì.

Gli striscioni stanno forse dove una volta stavano le porte del quartiere: Mea Shearim penso significhi "cento porte". Una porta può essere aperta o chiusa, Mea Shearim potrebbe essere il nome di un quartiere ospitale. Invece è "la più riluttante attrazione turistica del mondo". Ora, è vero che in molti casi i turisti non sono che dei rompicoglioni che, oltre alla pretesa di vedere il mondo, hanno anche quella di trovarlo sempre comodo come lo vogliono loro. In fondo, sugli striscioni c'è soltanto scritto (in quello stile piuttosto brusco che mi sembra tipico degli israeliani, o è già un pregiudizio?) di non vestire in maniera indecorosa per la loro religione. Se avessimo letto la stessa scritta nel suq non avremmo trovato niente da ridire, perbacco, siamo in casa loro. Ma nel suq ormai ci sentivamo un po' a casa anche noi (e non era vero): qui invece ci sentivamo in pericolo, non fosse perché tutti vestivano in nero, tranne noi. E non era solo il problema. Le donne coi pantaloni, per esempio, avrebbero potuto giustificare una sassaiola? Lo striscione sembrava ammettere la possibilità, e io prestai la mia eterna giacca arancione alla signora che ci accompagnava, che tirò su il cappuccio e si mise a camminare come un rapper (certe signore non finiscono nelle Tute Bianche per niente).

Tra le persone in nero c'erano, forse, quelli che ci avevano accolto alla prima manifestazione con dei cartelli di questo tenore: "Palestinians in Jordan", "Stop fascist arab occupation of Israel", e gridandoci "You are terrorist". O forse no. L'impressione è che gli abitanti di Mea Shearim vivano nel loro mondo e si facciano i fatti loro. Mi piacerebbe sapere se è addirittura vero quello che ho sentito dire (se ne sentono tante), che in un Paese dove tutti, senza distinzione di sesso, sono chiamati al servizio militare (che comporta il quotidiano rischio della vita), loro ne siano esentati. Troppo puri per le armi.

Questo mi fa ricordare un'altra cosa: che anche se il loro eterno gingillarsi col grilletto del mitragliatore mi dava ai nervi, anche se ai posti di blocco ci hanno fatto dannare, anche se tirano giù le case dei palestinesi con le granate, io non sono mai riuscito a odiare i militari israeliani. Di solito sono ragazzini, sono nati nell'odio e nell'odio vivono e muoiono tutti i giorni, ma qualcuno gli ha mai chiesto cosa ne pensano di Sharon?
Ma con gli ortodossi è diverso.
Sin dall'aeroporto, ammettiamolo, detestavamo gli ortodossi. Saranno gli abiti? Ma gli abiti dei palestinesi, o di qualunque altro popolo, non ci danno la stessa sensazione. Il problema è che un ortodosso assomiglia terribilmente (anche nel modo di vestire) a un occidentale. E quello che noi perdoniamo a ogni popolo esotico, non lo tolleriamo in chi sotto sotto consideriamo uguale a noi. Anche quella sera giocavamo a "Vai avanti tu, che sembri ebreo", e ognuno aveva la sua idea sul perché lui non assomigliasse a un ebreo, mentre un altro sì. Come si fa a distinguere un ebreo? Semplice, e insieme difficile: l'ebreo è quello che ci somiglia.

Signora, le piace la foto del ragazzino palestinese che tira sassi contro un carro armato (a causa della foto magari il ragazzo è stato in galera due anni)? Sì? Lo vedrebbe suo figlio con lo stesso sasso in mano, a una manifestazione? Eh, ma che domande. No. Ecco, pensi a suo figlio vestito di nero con una bombetta e due buffi ricciolini, che mi tira un sasso perché passo in maniche corte e con la telecamera a tracolla. Non lo trova spaventoso? Questa è la sensazione che ti dà Mea Shearim.

Chi ha avuto la pazienza di leggere fin qua si sta chiedendo: insomma, ti dispiace o no di dieci nove morti (compresa una bambina) che non avevano fatto niente di male, uscivano dalla sinagoga? Sì, mi dispiace. Purtroppo il numero delle vittime di oggi è ancora maggiore, anche se sono tutti palestinesi (e quasi tutti civili, e 4 bambini). Forse fare il turista in guerra serve a questo: a dare un luogo, un nome, un ricordo, a quello che senti ogni giorno al telegiornale. Anche se ormai non alzo più il volume quando sento che parlano di Ramallah, Hebron, Gaza: ma le immagini le riconosco, quei paesaggi, quei volti li ho conosciuti, ora posso stare in pena per loro, anche se non capisco in che modo questo possa essere d'aiuto.

Mi dispiace per il popolo palestinese, che ormai ha scelto la strada del sacrificio, e non so quanto noi occidentali saremo in grado di dissuaderli (visto che le nostre grandi trovate occidentali, i caschi blu, gli interventi umanitari, questa volta non si possono usare).
Mi dispiace per il popolo israeliano, che in questa guerra non perde solo la vita, ma anche la propria Storia. Un popolo nato dai ghetti che lasciato libero si rinchiude, per sua spontanea volontà, in un ghetto al centro del mondo, che noi dovremmo difendere. Ma da chi? Io credo che Israele dovrebbe essere difeso da sé stesso. La pazzia in cui sta cadendo, noi occidentali la conosciamo bene, e proprio per questo non la dovremmo più tollerare, anzi, dovremmo lottare affinché non contagiasse di nuovo il mondo.

Una volta entrati a Mea Shearim, non riuscivamo più a uscirne. Un tassista a cui demmo il nome dell'hotel scosse la testa: lui nel nostro quartiere non ci andava, probabilmente non ci era mai stato in vita sua. Un altro che alla fine ci prese su era scuro di carnagione, e lungo tutto il tragitto ci chiedemmo (in dialetto) se fosse palestinese o israeliano. La targa, l'accento dell'inglese, la musica alla radio, nessun elemento sembrava sufficiente. Ma all'arrivo ci chiese i soldi e ci diede il resto contato, e tutti i dubbi si dissiparono: israeliano.
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