E se George W Bush avesse avuto ragione?

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Il nemico perfetto

La guerra, quindi, se giudichiamo dall'esperienza delle guerre passate non è se non una impostura. È come quei combattimenti fra certi animali appartenenti alla specie dei ruminanti, e le cui corna crescono secondo determinati angoli tali da impedire che essi possano effettivamente ferirsi l'un l'altro. Sfrutta in modo totale le eccedenze dei beni di consumo, ed aiuta, nel contempo, a conservare quella particolare atmosfera mentale che si richiede ad una società organizzata gerarchicamente. La guerra, come si vede, non è altro che un affare di politica interna. (E. Goldstein, Teoria e pratica del collettivismo oligarchico).

1. A un certo punto - più o meno a ridosso delle primavere arabe - abbiamo credo in molti percepito un'accelerazione degli eventi che mal si accordava con la nostra disponibilità, sempre più scarsa, a comprenderli. Avevamo tutti i nostri schemini, più o meno gli stessi dai tempi della Guerra al Terrore, e quando abbiamo visto che in Siria o in Libia non funzionavano più, non ci siamo dati troppa pena di abbozzarne altri. Avevamo già un sacco di problemi a casa nostra.
Quest'accelerazione, che magari segna l'inizio di una fase di instabilità mondiale, potrebbe viceversa essere del tutto soggettiva: siamo noi che rallentiamo, invecchiando. Se quel che succede in Palestina continua a interessarci un po' di più. non è perché la situazione sia meno ingarbugliata, ma perché ci abbiamo investito tanto tempo e attenzione che continua a risultarci più familiare. Come se l'Hamas di oggi fosse la stessa di dieci anni fa, come se Abu Mazen avesse mai più vinto un'elezione, eccetera.
La Siria viceversa è un pastrocchio inedito da cui abbiamo cercato di prendere le distanze. Chi non lo ha fatto - chi all'inizio ha parteggiato per gli insorti, o per Assad - adesso si ritrova scottato. Noi possiamo anche sopportare di risvegliarci in un mediterraneo che sfugge alle nostre capacità di comprensione, purché non ci tocchi ammettere che a un certo punto della discussione avevamo avuto torto. Piuttosto ce ne stiamo zitti, il che poi è quasi sempre l'opzione più elegante. Troppe cose ci sfuggono, troppi contendenti danno l'impressione di fare il doppio gioco. Ma a dirlo si passa per complottisti, che è pure peggio. La sensazione di non capire è tutto sommato sopportabile - l'esempio di tanti intellettuali svagati alla vigilia di ogni guerra mondiale ci conforta. L'unica cosa che non sopportiamo è che qualcuno ogni tanto ci voglia fregare. C'è sempre qualcuno che ci prova. È umiliante.

2. Prendi l'ISIS. Sembra davvero una cosa orrenda, anzi sicuramente lo è. Ma perché ce lo stanno vendendo come un'organizzazione terroristica? Le BR erano un'organizzazione terroristica. Settembre Nero era un'organizzazione terroristica. Al Qaida era una rete molto lasca di organizzazioni terroristiche quasi del tutto autonome tra di loro, che hanno organizzato attentati in una vasta porzione del mondo. L'ISIS, per adesso, no. È un'organizzazione o banda armata che ha imposto il suo controllo su un territorio vasto come una nazione, attraverso la violenza e il terrore. Gli osservatori la considerano ben organizzata e ben finanziata. Però attentati - per ora - non ne fa.
Tante altre dittature in tutto il mondo massacrano i propri cittadini e quelli dei paesi confinanti; non li chiamiamo però terroristi, non abbiamo bisogno di chiamarli così per esecrarli. Con l'ISIS è diverso. Non fa attentati (per ora) ma diamo per scontato che vorrebbe farli. Terroristi in potenza, insomma. Dobbiamo crederci per forza?
Tra le righe si intuisce un ragionamento: se l'ISIS per ora non è riuscita a terrorizzarci come vorrebbe, c'è solo da ringraziare lo stato dell'arte dell'antiterrorismo non solo aeroportuale. Tutte quelle leggi che hanno un po' ristretto le nostre libertà individuali; tutte quelle pratiche non sempre illegali che hanno consentito alla NSA di farsi un bel backup delle nostre conversazioni telefoniche; sì, è molto seccante, ma se l'alternativa è precipitare in un aereo di linea o soffocare in una metropolitana, non ci formalizzeremo più di tanto. Insomma, nel grande dibattito sulla libertà della Rete, lo spauracchio dell'ISIS ha una sua indubbia utilità. Che poi l'ISIS stia mostrando, nei fatti, tutta un'altra strategia, è un dettaglio in fondo trascurabile. Anzi, dimostra quanto il terrorismo stragista stia diventando impraticabile in Occidente. Anche se.

3. Anche se tre anni fa Anders Breivik ha fatto esplodere una bomba nella sede del governo a Oslo, e mentre la polizia accorreva si è spostato nell'isola dove campeggiavano i giovani socialdemocratici e ne ha ammazzati 69. Forse la Norvegia è un caso particolare, ma quel che è successo nell'isola di Utoya ci lascia sospettare che lo stragismo non sia poi così impraticabile come sembra. Gli eccidi antisemiti di Tolosa o Bruxelles ce lo confermano. In tutti questi casi però lo stragista sembra un individuo isolato, che magari si richiama a un'ideologia o a un'organizzazione (l'assassino di Tolosa si ispirava ancora ad Al Qaida), ma agiscono in solitudine. È proprio questa solitudine a costituire un vantaggio tattico: il fatto di non dover concertare con nessuno le proprie azioni rende questi assassini meno identificabili e tracciabili.

Ora, se esistesse realmente una grande organizzazione, ben finanziata, determinata a destabilizzare l'Occidente attraverso azioni terroristiche, non tarderebbe a trarre le sue conclusioni e a disseminare Europa e USA di aspiranti kamikaze, tutti assolutamente non coordinati fra di loro, con un unico ordine: ammazzare e distruggere quel che possono, appena possono. Un'infiltrazione di questo tipo, lungo le correnti dell'immigrazione mondiale, non sarebbe così difficile. E magari è quello che sta succedendo; però quel che osserviamo per adesso sembra suggerirci l'esatto contrario. I cosiddetti terroristi del Medio Oriente non stanno infiltrando l'occidente: piuttosto, ci sono migliaia di occidentali (non tutti di origine araba) che se ne stanno andando a combattere nella Siria e nel Levante. Senza che alle frontiere si faccia molto per trattenerli, a quanto pare. Gente che fino a qualche anno fa avrebbe potuto esprimere il suo disagio facendosi esplodere davanti a un macdonald o a una sinagoga (cito due episodi avvenuti in Italia negli anni di Bush), oggi è più facilmente tentata di far la valigia e arruolarsi nell'ISIS. In luogo di rianimare il terrorismo semispento in occidente, l'ISIS per ora sembra quasi che ne stia assorbendo gli ultimi fuochi. Tutto questo sembra quasi dar ragione al condottiero più sottovalutato della Storia, George W. Bush.

4. Bush junior vedeva il terrorismo come "qualcosa che tende a scendere verso il basso, come un liquido; per cui le guerre in Afganistan e in Iraq, lo scavo progressivo e metodico di una profondissima buca in Medio Oriente, si giustificava attraverso la necessità di far convergere nella buca tutti i terroristi jihadisti del mondo. Lo disse decine di volte, col tono texano di chi dice un'ovvietà: meglio combatterli laggiù che qui da noi. È la logica semplice semplice e spietata spietata della guerra moderna, tecnologica ma tutt'altro che chirurgica: armi che fanno decine di vittime civili per ogni obiettivo centrato non possono che utilizzarsi in casa d'altri, a casa nostra sarebbero insostenibili [...] notate che è un buon motivo per continuare la guerra, non per finirla; anzi: c'è quasi da dolersi che in Iraq stia terminando: dove andranno i jihadisti disoccupati? Un po' in Afganistan, va bene, e gli altri? Ehi, aspetta forse è meglio riaprire un buco da qualche parte".

Questa concezione liquida del terrorismo non mi ha mai convinto: io lo trovavo un fenomeno piuttosto volatile, e gli attentati del 2003-2005 (metropolitana di Madrid e di Londra, Sharm el Sheik, e tanti altri ancora) mi sembravano tristi conferme di quanto avesse torto. A dieci anni dall'ultimo attacco terroristico in grande stile, forse è il caso di farsi venire qualche dubbio. Quella che Bush chiamava Guerra Infinita, a dispetto di tutte le pacificazioni, in Iraq non è davvero mai finita: e ora attira da tutto il mondo jihadisti convinti, ma anche occidentali insoddisfatti a caccia di guai. Che possa mai vincere sembra improbabile, ma nel frattempo guardate quanti servizi ci rende: (1) tiene viva in occidente la minaccia islamica, per la gioia dei partiti più o meno nazionalisti o xenofobi; (2) giustifica gli apparati antiterroristici, ben determinati a spiarci per salvarci; (3) catalizza il disagio di tanti giovani cittadini occidentali, non solo tra gli immigrati di seconda o terza generazione; (4) rinsalda la NATO e renderà presto o tardi necessario un intervento delle nostre forze armate, tale da farci ricordare perché le stiamo finanziando. Tanti altri motivi di sicuro non mi sono accessibili, però questi quattro mi sembrano più che sufficienti a rendere ISIS il nemico perfetto. Quello che se ci non ci fosse bisognerebbe inventarselo. Non ce n'è stato bisogno.
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Scherzando col Magog sbagliato

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10 aprile - Sant'Ezechiele, profeta (620-550 aC circa).

[Il prezzo si legge intero e ampliato qui] Si parlava di Maya. A me non fanno nessuna impressione. Invece, sapete cos'è che mi dà qualche brivido? Il profeta Ezechiele. C'è poco da scherzare. Stiamo parlando di uno degli scrittori più influenti della storia. Ebrei, musulmani e cristiani di tutte le confessioni lo venerano come uomo di Dio; persino gli ufologi lo apprezzano molto per quella pagina in cui si ritrova al cospetto della gloria divina su una specie di carro alato che è la cosa più simile a un'astronave aliena che sia possibile trovare nella Bibbia; non solo, ma persino il processo di pace in Medio Oriente (e quindi nel mondo intero) dipende non in minima parte dall'interpretazione di alcuni suoi versetti oscuri - non sto scherzando, e non è il solito complotto rettiliano, è tutto alla luce del sole purtroppo.

È curioso, ma non del tutto inappropriato, che a tanta fama Ezechiele sia arrivato senza essere un grande scrittore: lo schiaccia soprattutto il confronto con gli altri due profeti maggiori della Bibbia, Isaia e Geremia, che lo precedono nel canone biblico. A Ezechiele manca l'afflato lirico del primo, e il pathos rancoroso del secondo; ma forse è proprio per compensare le sue carenze stilistiche che è costretto lavorare con gli effetti speciali, inventando un nuovo stile visionario e teatrale a base di mostri, oggetti volanti, battaglie titaniche, morti che risuscitano... già qualche esegeta ebreo storceva il naso, considerandolo un contadino al cospetto del nobile Isaia, eppure le sue allucinazioni avranno un enorme successo. Postumo, ovviamente, perché i grandi profeti biblici in vita sono quasi sempre inascoltati e sbeffeggiati. Nemmeno l'aver azzeccato la caduta di Gerusalemme e la deportazione nella Babilonia di Nabucodonosor II gli guadagnerà la stima dei contemporanei. Con Ezechiele però comincia la letteratura apocalittica, quella che descrive un futuro imminente o remoto a base di visioni allegoriche e oscure. Alle sue macchine volanti e alle sue battaglie finali si ispireranno gli autori del Libro di Daniele e dell'Apocalisse di San Giovanni. Ma il contributo di Ezechiele alla storia del mondo non si conclude certo lì.

Siamo nei primi mesi del 2003. L'invasione angloamericana dell'Iraq è ormai data per certa: si tratta soltanto di definire i dettagli, capire chi abbia voglia di dare una mano (Berlusconi, in quel momento, pochissima). Jacques Chirac è all'Eliseo che sbriga le sue faccende quando gli passano il telefono più importante che hanno, non so se all'Eliseo ci siano i telefoni colorati come una volta alla Casa Bianca, ma è un dettaglio che ci possiamo anche inventare e non farà sembrare la storia meno verosimile. Insomma, dall'altra parte del filo c'è George W. Bush. Chirac quando prende in mano la cornetta si immagina già cosa il tizio più potente del mondo vorrebbe da lui: l'appoggio francese alla Coalizione dei Volenterosi. E tuttavia Bush riesce ugualmente a sorprenderlo. Le Président non riesce a capire di cosa stia parlando: non è un problema linguistico, c'è senz'altro un interprete in mezzo, ma i ragionamenti di Bush sono talmente sconnessi che farfuglia anche l'interprete. Ci sono due tizi, Gog e Magog, operativi in Medio Oriente... una profezia biblica si sta per compiere e una nuova era sta per giungere, et toute cette sorte de conneries. Chirac si mantiene sul vago, le faremo sapere, e poi chiama il suo staff: si può sapere chi sono questi Gog e Magog, e perché io non ne sapevo niente? Che figure mi fate fare in società? (Continua sul Post...)
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Dall'Uomo Fico ci guardi Iddio

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Come alcuni affezionati lettori già sanno, la redazione di Leonardo è in comunicazione con un universo parallelo al nostro, praticamente identico, con alcune trascurabili differenze: ad esempio, in quell'universo i mammut non si sono ancora estinti. Un'altra differenza curiosa è che Bin Laden è stato ucciso diversi anni fa, durante la Presidenza Bush, anche se le circostanze dell'episodio sono in verità molto controverse. Riportiamo qui alcuni stralci della conferenza stampa:

Da' retta a un cretino
“...Noi sapevamo, e una fonte autorevole ce lo aveva confermato, che Osama non si sarebbe mai allontanato dal suo mammut di famiglia, che lo seguiva in tutti i suoi spostamenti. Sapevamo anchesì che il bestione era molto anziano, e che aveva bisogno di un trattamento di dialisi. Localizzare un pachiderma dializzato non è stato poi così difficile, in Pakistan non sono molte le istituzioni ospedaliere, pardon, veterinarie in grado di offrire un servizio di questo tipo, e così... per farla breve, questo è il modo in cui lo abbiamo localizzato. E io avrei finito. Se ora voi della stampa volete farmi qualche risposta...”
“Intende 'domanda', Presidente?”
“Sì, quelle cose lì”.
“Presidente, mi pare che la versione che avete dato oggi presenti diverse contraddizioni rispetto a quella di ieri...”
“Beh, me ne rendo conto e mi dispiace... magari quella di domani andrà meglio”. (risate)
“Per esempio, la questione dell'elicottero”.
“Già, già l'elicottero. Brutta storia”.
“A dire il vero non si è capito se sia caduto o no, per quale motivo, e se ci siano state vittime. Ci sono state?”
“Ottima domanda”.
“Già”.
“Non credo di poterle rispondere adesso”.
“Lo immaginavo”.
“Altre risposte? No, scusate, domande. Scusate, sapete che soffro di asfissia”.
“Afasia, Presidente. A proposito: ieri avevate detto che Bin Laden era morto durante un conflitto a fuoco; che aveva anche tentato di usare alcuni suoi famigliari come scudi umani. È vero?”
“Sì. Cioè, è vero che ieri ho detto così”.
“Oggi però una figlia di Bin Laden ha affermato che Osama era disarmato quando fu ucciso. Ci potrebbe dire quale delle due versioni si avvicina di più alla verità?”
“Potrei dirvelo, sì”.
“Ma non lo farà?”
“Magari più tardi. Altre domande?”
“Presidente, ieri si era parlato di alcune foto”.
“Già, beh, le foto”.
“Lei comprende che l'attenzione di tutto il mondo è rivolta a queste foto... come ha dimostrato, nelle ultime ore, la circolazione di tutta una serie di fotomontaggi”.
“Roba da sciacalli, se volete la mia opinione”.
“Ecco, più che la sua opinione, Presidente, vorremmo sapere quando arrivano le foto vere”.
“Già. Beh, ecco, ne abbiamo discusso molto con lo staff, e alla fine abbiamo deciso che è meglio di no”.
“Cioè, non mostrerete le foto?”
“No, nella maniera più assoluta”.
“E come mai?”
“Beh, sono immagini molto forti, che rischiano di... di esporci a serie ritorsioni da parte dei terroristi”.
“Presidente, mi scusi, ma le ritorsioni ci saranno comunque. Se volevate evitare ritorsioni, tanto valeva non dargli la caccia, o non annunciare al mondo la sua morte. È chiaro che a questo punto i suoi seguaci cercheranno di vendicarsi. La divulgazione delle foto cosa cambia, esattamente?”
“Beh, potrebbero cercare di vendicarsi... di più”.
“Perché hanno visto la testa del loro profeta crivellata di colpi?”
“Ecco sì, una cosa del genere. Non vogliamo creare un mito”.
“Presidente, scusi, ma Bin Laden era già un mito. E sa cos'aveva in comune coi personaggi mitologici?"
“Immagino che me lo stia per dire".
“Era elusivo, ubiquo e immortale. Ma se da qualche parte c'è una foto che lo ritrae morto e sconfitto... al di là di ogni considerazione di carattere morale... dovrebbe trattarsi di una foto che mette in discussione il mito, piuttosto che il contrario. Visto e considerato che gran parte del carisma di Bin Laden era dovuto alla sua ubiquità, all'abilità con cui fino a questo momento era riuscito a nascondersi all'esercito più potente del mondo... un'immagine di questo tipo dovrebbe demolirlo, questo tipo di carisma. Non trova?”
“Mi scusi, credo di essermi distratto”.
“Auff. Le sto dicendo che la foto di un mito morto non rafforza il mito: lo uccide. È d'accordo?”
“Non saprei, diciamo di sì”.
“E allora perché non ci mostra le foto?”
“Ho deciso che è meglio di no”.
“Vede, Presidente, l'impressione è che lei questo mito, più che ucciderlo, lo voglia proprio rafforzare”.
“Boh, non saprei. Altre risp... domande?”
“Presidente, riguardo al funerale in mare...”
“No, ancora con quella storia”.
“Ma presidente, deve concedere che è una storia veramente strana, cioè... qui abbiamo il parere di un centinaio di imam che sostengono tutti che seppellire un musulmano in mare non sia esattamente halal”.
“Noi non la pensiamo così, ma dovete avere pazienza, stiamo cercando”.
“Cercando cosa, presidente? Un imam che dia ragione a voi?”
“Qualcosa del genere. Altre domande?”
“Presidente, ma ci vuol dire una buona volta perché vi siete sbarazzati del corpo così rapidamente?”
“L'ho già detto ieri: nessuna nazione islamica voleva accogliere il corpo, e quindi...”
“Presidente, ma quindi davvero voi avete chiesto a tutte le nazioni islamiche del mondo? Per dire, avete chiesto al Brunei? O alla Tanzania?”
“Non posso rispondere. In ogni caso non potevamo assolutamente consentire che la sua tomba diventasse un santuario, anche a Tarzania”.
“Tanzania”.
“Quel che è”.
“Tarzan non c'entra niente”.
“Lo sapevo. È che sono afisico”.
“Afasico”.
“Quel che è, e voi ve ne approfittate. Mi fate passare per un cretino. Beh, sentite questa: sono il cretino che ha fatto fuori Osama Bin Laden”.
“Sì, però, Presidente, lei le prove ce le deve ancora mostrare...”
“Auff, ma ve l'ho spiegato! E poi insomma, quando Roosevelt ha preso Hitler nessuno gli ha chiesto le foto, no? Si sono fidati. Fidatevi anche voi”.
“Non è stato Roosevelt”
“Volevo dire Truman”.
“È stato Stalin”.
“Ecco, appunto”.
“E poi, Presidente, ancora questa storia del santuario...”
“Cosa c'ha che non va, la storia del santuario, a me sembra buona”.
“Francamente, se il problema è tutto lì, piazzate una ventina di videocamere tutto intorno al mausoleo, e se qualche alqaedista vuole davvero venire ad adorare il suo profeta, tanto peggio per lui e tanto meglio per la CIA, no?”
“Abbiamo pensato che è meglio di no”.
“E poi, insomma, il culto delle personalità esiste. Esiste anche senza il corpo e senza l'immagine del volto, basta dare un po' un'occhiata ai vangeli... insomma, non potete continuare a fare i socio-psicologi della domenica, se avete deciso di ammazzarlo è chiaro che avete operato anche sul piano simbolico, e in cambio di una vittoria che su questo piano può fruttarvi molto dovete accettare anche le conseguenze negative. Non trova?”
“Eh?”
“Presidente, ascolti, io non sono un complottista. Non credo alle panzane sulle Twin Tower minate, alle scie chimiche e a tutte le altre menate. Non credo a tutto quello che mi si racconta”.
“Bravo”.
“Ma proprio per questo motivo, non posso nemmeno credere a tutto quello che mi dice lei. Cioè, lei ci sta dicendo che i suoi uomini hanno localizzato e fatto fuori Bin Laden, il che è plausibile e potrebbe benissimo essere vero, ma non ci fornisce una sola evidenza, una sola prova. Per quale motivo dovremmo credere che le cose siano andate esattamente come dice lei?”
“Risponderò alla sua domanda con un'altra domanda: per quale motivo non mi crede?”
“Gliel'ho detto: perché non ci ha fornito nessuna p...”
“Stronzate. Lei non mi crede perché sono un texano figlio di papà con la faccia da scemo, e un lieve ritardo cognitivo che mi porta a dire un sacco di strafalcioni. Non è così?”
“No, non è così. Io...”
“Lei è un razzista, in realtà. Mi guarda in faccia, pensa a mio padre, pensa al mio passato di imboscato nella guardia costiera, e si dice: un tizio così, vuoi che abbia preso Bin Laden? Naaaa. Ora, può anche darsi che mia versione di oggi non sia proprio il massimo, eh?”
“Ecco, in effetti...”
“C'è ancora qualcosa da ritoccare qui e là. Ma sa cosa le dico? Non ha la minima importanza. Se anche io arrivassi qui con le foto di Bin Laden, e i raggi x di Bin Laden, e la provetta col dna di Bin Laden, e la testa di Bin Laden su un piatto d'argento, lei non mi crederebbe comunque. Ma se al mio posto ci fosse un ragazzo fico, con un bel sorriso, uno di quelli che studiano sodo e vanno avanti a furia di borse di studio, magari con un cognome che non suona proprio proprio inglese, beh, sa cosa le dico? Lei si berrebbe tutte le stronzate che ho detto oggi, più quelle che ho detto ieri, più quelle che dirò domani, e se le berrebbe d'un fiato, e non le passerebbe nemmeno per la testa di chiedermi del funerale in mare o dell'elicottero – come se io le potessi dire la verità su un elicottero, andiamo”.
“Presidente, si è fatto tardi...”
“E allora sa che le dico? Ringrazi Dio, e ringrazi il popolo americano che mi ha eletto, più o meno a maggioranza, ringrazi il popolo che ha scelto un presidente non fico. Perché almeno finché ci sono io, coi miei strafalcioni, qualche domanda ve la fate. Non che io vi possa rispondere. Ma almeno vi fate ancora le domande. Mi capisce?”
“No, credo di no”.
“Ma il giorno che vi eleggerete un presidente fico, uomo o donna, bianco o nero, non importa, sarà il giorno in cui smetterete anche di farvi le domande, e vi terrete come verità la prima stronzata che vi raccontano. Si ricordi di queste mie parole”.
“Presidente, il mammut scalpita, è ora di andare”.
“Sì. Buonasera a tutti. Dio benedica questo Paese”.

Le altre storie dal Mondo dei Mammut: Il Silvio Parallelo, Veltroni tra i mammut.
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la Storia si fa coi Se (e coi Ma)

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Il mondo di Junior
HOUSTON – dal nostro inviato
Il premio Nobel 2007 accetta finalmente d’incontrarmi nello splendore neopalladiano della sua villa nel centro del Texas. La stanza in cui ci stringiamo le mani – ironia della sorte – è ovale. Quando glielo faccio notare, abbozza un sorriso di circostanza. Non ha capito il riferimento.
“Ovale, come l’ufficio del Presidente… sa, nella Casa Bianca”.
Ridacchia. Ha capito. “Ah, già… lo sa, ci penso così poco ultimamente. La vita è breve, e se dovessi alzarmi tutte le mattine pensando che stavo per diventare Presidente… E comunque ‘ste ville le fanno tutte uguali, ci ha fatto caso? Anche Washington è tutta così. È uno stile di architettura sudista, penso”.

Sto per interromperlo spiegandogli che il suo ‘stile sudista’ in realtà è neoclassico settecentesco di derivazione veneta… ma per fortuna riesco a controllarmi. Non sono venuto a dare lezioni di storia dell’arte, sono venuto a intervistare l’Uomo che ha Salvato il Mondo, secondo il Time dello scorso dicembre – e a quanto pare anche secondo i giurati di Stoccolma. E ho già commesso un imperdonabile errore. Eppure il suo staff me lo ha spiegato bene: quando si parla con Junior, meglio evitare le allusioni. Fa una certa fatica ad afferrarle. Non è un problema di intelligenza, ma la conseguenza di quella lieve forma di dislessia che gli è stata diagnosticata soltanto in età adulta. Un difetto congenito che non gli ha impedito di farsi eleggere governatore del Texas e di arrivare a un passo dalla poltrona più ambita del mondo: quella di Presidente degli Stati Uniti. Evidentemente i bei discorsi non sono tutto. Soprattutto se puoi contare sulla famiglia giusta.
“Mi sento ancora spesso con mio padre”, ammette Junior; “i suoi consigli sono stati molto preziosi. Quando Gore voleva invadere l’Iraq a tutti i costi, il suo parere ha contato più di qualsiasi cosa, per me”.
“Ma poi la ha diseredata, o sbaglio?”
“Stronzate. Tutte stronzate. Al tempo della campagna per l’autonomia i giornalisti hanno voluto dipingerci come nemici a tutti i costi… bastardi”.
“Eh-ehm”.
“Beh, sì, intendo i giornalisti yankees. Quelli che stanno a NY, o a Washington, a imbrattare la carta, ha presente?”
“Ma adesso stanno parlando molto bene di lei. Non ha letto…”
“Nooo. Io non leggo la carta. C’è il cavo, c’è internet, chi ha bisogno di tutta questa carta? È quel che rimane di un mondo vecchio”.
Mi guardo intorno – e improvvisamente, con un tuffo al cuore, realizzo che non ho visto un solo libro in tutta la villa. Non uno. George Bush Junior, premio Nobel per la Pace 2007, non ne ha bisogno. Ecco un’altra cosa dura da mandare giù.
Del resto, questa è la vita dell’Uomo che ha Salvato il Mondo. Una paradosso infinito, una continua sfida ai luoghi comuni. Il petroliere che ha chiuso col petrolio; il cow-boy che ha portato la pace nel mondo; il repubblicano amico dei palestinesi: l’ultima notizia che gli porto dai Territori è la proposta di intitolargli il corridoio autostradale Gaza-Gerusalemme. Lui finge di non averlo già letto su internet, e ci scherza sopra:
“Un’autostrada? Buffo, qui in Texas non intitoliamo le autostrade. Hanno solo dei numeri. In ogni caso mi sembra prematuro… voglio dire, sono ancora vivo. Dalle mie parti cominciano a dedicarti le cose soltanto quando sei sotto sei piedi di terra… beh, ma immagino che Barghouti sappia quel che fa. È un tipo a modo, lo ammiro molto”.
“Avrebbe mai pensato di dire una cosa del genere, otto anni fa?”
“No, perché? Otto anni fa non lo conoscevo. Per la verità tutta la faccenda degli ebrei e dei palestinesi a quei tempi non m’interessava molto. Guardavo soprattutto all’America, ai problemi interni. Sarei stato un presidente alla Monroe, l’america agli americani e via dicendo”.
“Fino all’11 settembre…”
Sospira. Conosce bene questa domanda – gli è stata posta da migliaia di giornalisti, negli ultimi sette anni.
“Senz’altro l’11 settembre mi avrebbe cambiato. Voglio dire, l’11 settembre mi ha cambiato, proprio come ha cambiato il presidente Gore. È come se ci fossimo svegliati tutti su una mina. Credevamo di essere i Numeri Uno. Credevamo che tutto il mondo ci amasse, che volesse diventare come eravamo noi. Invece è saltato fuori che il mondo ci odiava. Era invidia, era rabbia, era un ammasso di cose che non avevamo pensato. Comunque, cosa vuole sapere esattamente? Se io al posto di Gore avrei bombardato l’Afganistan? Senz’altro l’avrei fatto. Chiunque l’avrebbe fatto. Anche il reverendo Martin Luther King l’avrebbe fatto. Siamo americani, prima di ogni altra cosa. Se ci attaccano rispondiamo, è normale”.
“Magari lei avrebbe attaccato in un modo diverso”.
“Forse. Mah. Queste cose le decidono i generali, vede. Mi viene sempre da ridere quando sento che chiamano Gore il comandante in capo. Lui sì e no sa indicare l’Afganistan sulla cartina. Per mesi è andato dicendo che dall’Afganistan avrebbe attaccato l’Iraq, finché non gli hanno spiegato che i due Paesi non confinano”.
“Via, adesso esagera”.
“Non lo so. Posso dire che avrei dato più soldi all’intelligence: in fin dei conti ho sempre pensato che se ci serviva la testa di Bin Laden non era necessario destabilizzare mezza Asia per ottenerla. In realtà dopo l’11 settembre i talebani erano terrorizzati. Bastava bombardarli un po’, e poi fare un’offerta. Mio padre le guerre le faceva così: bastone e carota. E a volte gli andava bene. Non sempre, eh… Ma Gore… lo sa anche lei com’è fatto Gore. È… un democratico. Non gli bastava arrestare i terroristi, lui voleva scaraventare tutto il fottuto Afganistan dal medioevo tribale alla democrazia, trasformare quel paese di montanari musulmani in una Svizzera. In fondo ragionava come i Sovietici, e infatti le ha prese per un bel po’, proprio come i sovietici”.
Non è la prima volta che sento paragonare la politica di esportazione della democrazia di Al Gore all’imperialismo sovietico. “Lo sa”, replico “in Europa prima dell’11 settembre molti pensavano che i i veri guerrafondai in America fossero i repubblicani”.
“Che stronzata”, sbotta lui. “Pensi a Roosvelt. O a quello della Prima Guerra, come si chiamava?”
“Woodrow Wilson”.
“Esatto. Tutti democratici”.
“Ma hanno salvato il mondo”.
“Sì, e questo gli ha dato un po’ alla testa. Pensi al Vietnam. Kennedy ci ha portato nel Vietnam, e Nixon ha fatto quel che ha potuto per portarci via. Noi repubblicani non abbiamo mai amato la guerra. Ovvio che la facciamo, se ci trascinano. Ma chi è così pazzo da amare la guerra? Io ho fatto carte false per non andare in Vietnam, e non me ne vergogno. Tutti questi reduci democratici che mostrano le cicatrici per un seggio al congresso mi fanno vomitare. Dicono di odiare la guerra, e a momenti ci riportavano in Iraq”.
Per essere un Nobel per la Pace, Bush Jr sceglie le parole con ben poca diplomazia. Ci vuole molto fiuto per annusare dietro il cafone texano in camicia a quadri l’aristocratico wasp, nato e cresciuto dalle parti di Yale. In fondo Bush è l’esatto contrario del sogno americano: invece di farsi da solo, sembra aver voluto disfare (da solo) tutta l’eredità culturale che la sua ricca famiglia gli deve pure aver trasmesso. Da laureato in Storia a cow-boy dislessico, da petroliere ad ambientalista. Il vero giro di boa fu probabilmente lo scandalo Enron. “Un vero disastro. L’11 settembre ci ha fatto arrabbiare col mondo, ma Enron e Kathrina ci hanno fatto arrabbiare con noi stessi. Non c’era un Bin Laden a portata di mano su cui scaricare le colpe”.
Per certi osservatori è sorprendente come Bush Jr sia uscito pulito dallo scandalo Enron, all’inizio del 2002. L’azienda che mandò sul lastrico migliaia di risparmiatori americani aveva finanziato pesantemente la sua campagna presidenziale. “Cosa posso dire? Quando corri per la Casa Bianca accetti soldi da tutti. Anche Gore fece lo stesso. È uno dei problemi di questo Paese: bisogna essere maledettamente ricchi per fare i presidenti, e ancora non basta. Devi fare i debiti. Poi ti ritrovi seduto in cima al mondo con un sacco di debiti da pagare, di favori da ricambiare. Non è sano, neanche un po’. Anche se volesse sbaraccare da Kabul, in questo momento Gore è legato mani e piedi all’Halliburton e alla Blackwater. E anch’io probabilmente sarei stato un pupazzo nelle loro mani, se avessi vinto”. Ma ‘per fortuna’ aveva perso: la temporanea assenza dalla vita politica gli permise di rifarsi una verginità che gli elettori texani avrebbero molto apprezzato. Di lì a pochi mesi avrebbe stravinto le elezioni di mid-term, con una campagna imperniata sulla questione morale, approdando al Congresso come speaker della maggioranza repubblicana. A questo punto, quando tutti i principali commentatori politici americani davano ormai per scontata la ripetizione del duello presidenziale del 2000, Bush stupì tutti con la prima proposta di legge sull’autonomia energetica e l’opposizione alla guerra in Iraq. Due grossi colpi alla sua popolarità presso i repubblicani, che alla fine preferirono candidare Rudolph Giuliani. “Ho la massima simpatia per Rudie”, dice Bush, “e non ho mai pensato di ricandidarmi una seconda volta. Non m’interessava battere Gore, ed ereditare i suoi problemi. Lui era impastoiato con la sua guerra in quelle sabbie mobili afgane, non so nemmeno se ci siano le sabbie mobili laggiù, ma ho reso l’idea, no? L’impressione è che i talebani fossero invincibili sul campo. Avremmo potuto mandare laggiù il doppio di marines e il doppio di tank, e avremmo soltanto sprecato tutto quanto. Io ho cominciato a domandarmi se la guerra non si potesse risolvere in un altro modo. Perché i musulmani continuavano ad arrivare da tutto il mondo per combattere in quel buco… in quel Paese dimenticato? Chi li riforniva? Per dirla in parole povere: Where’s the money? Chi finanzia tutto quanto?”
Rampollo di una dinastia di petrolieri, Bush non doveva faticare molto a trovare una risposta. “È chiaro che dietro a tutta la jihad c’erano i petrodollari. Gli emirati del Golfo, quegli inferni ad aria condizionata… sanno di essere seduti su una mina peggiore della nostra. Hanno la disperazione di chi sta per finire la benzina e restare al buio. In più hanno una paura matta della rivoluzione islamica. Così finanziano gli sceicchi alla Bin Laden, che almeno la rivoluzione la fanno all’estero. D’improvviso tutto mi è parso così sciocco e inutile… da una parte mandavamo i nostri ragazzi a morire, dall’altra continuavamo a comprare benzina per i nostri Suv e a finanziare i terroristi che li avrebbero uccisi… dovevamo uscirne, e alla svelta. Così feci quella prima proposta sull’autonomia: l’America doveva bloccare le importazioni e re-imparare a vivere delle proprie risorse energetiche”. All’inizio Bush fu accusato di voler semplicemente favorire il petrolio texano per questioni di lobby. Ma le aperture sulla propulsione a idrogeno e sul biodiesel brasiliano spiazzarono anche i suoi più accesi detrattori. “Anche i nostri pozzi stanno finendo, è tempo di ammetterlo e cominciare a diversificare. Guardi quello che è riuscito a fare Lula in Brasile col biodiesel… una cosa fantastica. E i pannelli solari, perché no? Il giorno che in Texas non riusciremo a pompare più petrolio, resterà ancora sole in abbondanza per tutti. So che mio padre non la pensa così, ma io continuo a credere che il petrolio non sia il destino dell’America”.
“Invece sull’Iraq andavate d’accordo”.
“Le faccio vedere una cosa”. Mi mostra un quadro. A ben vedere si tratta di una mappa. Di solito si appendono ai muri mappe antiche: questa invece è ingiallita, sgualcita, ma moderna. “È una delle cartine di lavoro di mio padre. Se guarda bene, ci trova le ditate del generale Schwarzkopf. Ora: la vede questa macchia verde scuro? Sono le zone a maggioranza sciita. Lei lo sa cosa sono gli sciiti?”
“Una setta musulmana, direi”.
“Ecco, bravo, lei è uno preparato. Sa cosa sono gli sciiti. Magari sa anche che in Iraq e in Iran sono la maggioranza. Beh, posso garantirle che nel 2003 a Washington ancora nessuno sapeva chi fossero. E volevano andare a Bagdad! Esportare la democrazia! Se fossimo andati a Bagdad, gli sciiti sarebbero venuti a gettare fiori sui nostri carri armati, e il giorno dopo avrebbero sgozzato tutti i sunniti, e votato l’annessione all’Iran. A quel punto gli ayatollah iraniani avrebbero avuto libero accesso ai laboratori atomici di Saddam Hussein, e magari anche al suo uranio – ammesso che Saddam Hussein fosse davvero in grado di procurarsi dell’uranio”.
“Tony Blair ne è convinto”.
“Tony Blair è un socialista. Hanno tutti questa mania di cambiare il mondo, con l’amore o con la forza. Sono molto fiero di aver fatto il possibile per evitare quel disastro. Ho preso questa fottuta carta di mio padre e ho convinto tutti i pezzi grossi repubblicani: se andiamo in Iraq, tempo un anno e gli iraniani fanno una buca radioattiva in Israele: sul serio volete passare alla storia per questo? io non sono molto bravo a fare i discorsi, ma si vede che Dio mi ha aiutato, perché li ho convinti”.
“E così alla fine si è preso la sua rivincita morale su Gore”.
“Non la vedo in questo modo. In realtà dovrebbe soltanto ringraziarmi. A quest’ora avrebbe già perso due guerre – non un bel bilancio. Invece tutto sommato ormai l’Afganistan è pacificato, anche se non assomiglia ancora molto alla Svizzera, devo dire”. Sorride sornione. “Ma il progetto oppio per cibo sta dando buoni risultati. E in sovrappiù abbiamo avuto anche la testa di Bin Laden”.
Un bel trofeo per la Bush Foundation. Ma c’è chi dice che sia un falso. Su internet continuano a circolare nuovi video dello sceicco del terrore.
“Non so cosa dire. Abbiamo il Dna, le impronte dentali, abbiamo tutto. Ma ci sarà sempre qualcuno convinto che è una montatura. C’è anche chi dice che le torri gemelle le ho fatte buttare giù io. Non è che posso replicare a tutte queste stronzate”.
Nel 2004 l’astro di Bush sembra già appannato. Alcune sue iniziative – la partecipazione a un summit informale tra israeliani e palestinesi – non sono comprese dai suoi compagni di partito. Nel frattempo Giuliani sfida Gore giocando la carta del patriottismo dell’11 settembre, ma gli americani gli preferiscono il Commander in Chief. “Rudie si è difeso bene, ma ha pagato il fatto di non avere una posizione netta sulla guerra”. L’anno successivo, il secondo grande shock della recente Storia americana: l’uragano Kathrina. Stavolta Bush è implacabile nell’accusare tutti i responsabili del disastro, dal sindaco di New Orleans fino al Presidente. “I democratici hanno chiacchierato per anni di riscaldamento globale”, dice, “e al primo uragano tropicale hanno reagito come dei boy scout di città. Il vero uragano che ha distrutto New Orleans non è stato Kathrina, ma l’incompetenza”. Da Kathrina in poi Bush è riuscito ad accreditarsi come il leader del nuovo ambientalismo. In pochi ricordano che ai tempi della campagna 2000 era Bush, e non Gore, a respingere il protocollo di Kyoto. “In effetti Kyoto non mi ha mai convinto”, ammette, “perché è troppo poco. Una misura omeopatica. Occorre darsi molto più da fare. Tagliare le emissioni di gas serra del 90% entro il 2009. Possiamo farcela. È alla nostra portata”. Fino al 2005 Bush non escludeva la necessità di cercare nuovi pozzi “autarchici” nell’incontaminata Alaska. Oggi non ne parla più. “Solo gli stupidi non cambiano mai idea. Fino a qualche anno fa non ero sicuro che il riscaldamento globale fosse colpa dell’uomo. A dire il vero non ne sono sicuro nemmeno oggi, ma chi se ne frega? Forse non siamo stati noi a scaldare il mondo, ma possiamo pur sempre dare una mano a raffreddarlo. Questo è come la penso io”.
Prima di abbandonare il Congresso nel 2006, Junior ha avuto la soddisfazione di vedere trasformata in legge federale la sua seconda proposta sull’“autonomia sostenibile”. I fatti dei mesi successivi gli hanno dato ragione in modo spettacolare. L’intensità della guerriglia afgana è calata drasticamente. In Egitto e in Iran gli scioperi di massa hanno costretto i governi a indire nuove elezioni. In Iraq la nuova giunta militare sta negoziando l’estradizione di Saddam Hussein. Qualche effetto positivo c’è stato anche per l’Europa, quando il blocco delle importazioni di petrolio negli USA ha abbattuto i prezzi al barile. L’altra faccia della medaglia sono gli attentati: l’esplosione del Boeing dirottato nei cieli di Philadelphia lo scorso settembre (intercettato da un missile prima che puntasse su Washington , secondo alcuni) e le fiale di gas nervino rinvenute nella subway di New York, fortunatamente senza conseguenze. “So che è terribile quello che sto per dire. Ma gli attentati sono una prova che avevamo ragione. Sono colpi di coda. Bisogna andare avanti a domare il bronco”.
Negli ultimi due anni, Bush è diventato un battitore libero. Ufficialmente è ancora iscritto al Partito Repubblicano, anche se ha preferito non candidarsi al Congresso. “Mi sono stancato di parlare per gli altri. Troppi compromessi. Oggi preferisco parlare per me”. In effetti le sue ultime uscite su Cina e Russia sono state particolarmente ruvide anche per un tipo come lui. “Io la vedo molto semplice: quelle non sono democrazie. Non basta aprire i mercati per creare una democrazia. Sono ancora due regimi a partito unico, dove gli oppositori vengono perseguitati e uccisi. Gli americani non dovrebbero avere nulla a che fare con questa gente. Ma i cinesi ci tengono per… i cinesi hanno queste enorme riserve di dollari, che m’impensieriscono molto. Non è giusto che ci possano ricattare in questo modo. Il solo pensiero è umiliante. Fossi ancora un politico, chiederei a gran voce il boicottaggio delle Olimpiadi. Fortuna che non lo sono”.
Cos’è, oggi, George W. Bush? Tante cose. Per esempio, il coproduttore dell’ultimo chiacchieratissimo film di Michael Moore sulla riforma sanitaria. “Lo sa che Moore era di sinistra? È uno dei tanti radicali che sono rimasti stomacati dalla gestione del conflitto in Afganistan. Ma le sue idee sulla riforma sanitaria o sul porto d’armi non sono né di destra né di sinistra, sono ragionevoli e basta. Quando parlavo di conservatorismo compassionevole, molti storcevano il naso. Ma continuo a pensare che ‘compassione’ sia una bellissima parola. Sa cosa significa?”
“Soffrire insieme”.
“Ehi, lei conosce l’inglese in un modo fantastico per essere un… un…”.
“Un italiano. Grazie”.
“Voi italiani conoscete l’importanza della sofferenza. Non vi vergognate a piangere. Vede, il problema di noi americani è che ci siamo costruiti un’immagine di noi stessi come… come il primo della classe che non piange mai, il terzino di football che non cede un metro. E poi davanti all’11 settembre siamo crollati. Abbiamo iniziato a soffrire e ci siamo vergognati della nostra sofferenza. Non dovevamo vergognarci. Solo attraverso la sofferenza possiamo capire gli altri. In fondo Dio si è fatto uomo per questo, no? per cercare di soffrire con gli uomini. Quando sono andato in Palestina, la prima volta, non ci capivo un fottuto accidente. Non riuscivo a capire perché si litigassero quelle colline spelacchiate. Ho chiesto in giro, ho provato a farmi spiegare. E ho sofferto. Ho provato a soffrire con loro. Ho capito che una guerra di sessant’anni è una cosa che non si può cancellare in un giorno.”. Junior è anche l’uomo che al termine di un’estenuante trattativa ha fissato i confini del nuovo Stato Federale di Israele in Palestina. “Ci siamo ispirati a quello che ha fatto Clinton con la Bosnia. Come dire: un gran pasticcio, sempre meglio della guerra, però. Gli israeliani possono continuare a chiamarlo Israele, i palestinesi hanno finalmente un pezzo di terra che si chiama Stato. E Gerusalemme è la capitale bilingue, come Bruxelles. Durerà? E che ne so io? Anche la Bosnia, del resto, sta in piedi per miracolo. Mi piace pensare che il tempo giochi a favore della pace”.
Dopo la missione di Bush in Israele, Bush è stato nominato Uomo dell’Anno dal Time, anzi “L’Uomo che ha salvato il Mondo”. “Beh, mi piacerebbe provarci, non dico di no. Ma in realtà i tempi erano maturi per la pace. Ho sempre pensato che una volta risolta la questione palestinese, il Medio Oriente si sarebbe calmato da sé. Resta molto da fare, certo. Iraq e Siria non sono ancora democrazie. Neanche Roma è stata fatta in un giorno. Ma sono felice di poter dire che oggi è un giorno migliore dell’11 settembre 2001. E ne sono fiero”.
“È sicuro di non avere rimpianti?”
“Rimpianti? No, per cosa?”
“Vede, lei si è dato molto da fare in questi anni. Eppure ogni volta che lei fa qualcosa, c’è sempre qualcuno come me che si chiede… che le chiede… perché non ha vinto nel 2000? Oggi il mondo sarebbe molto migliore se lei avesse vinto nel 2000, non trova?”
Sorride. “La Storia non si fa con i Se. Ma le voglio mostrare un’altra cosa”. Apre un cassetto della scrivania. Tiro un sospiro di sollievo: quello che ha tra le mani è un libro. Di carta.
“È un memorandum scritto da Al Gore quando era vicepresidente. Lo sa di cosa parla? Del riscaldamento globale. In quel periodo Gore era un maniaco dell’argomento, lo sapeva?”
“Mi pare di averne sentito parlare, ma…”
“Aveva fatto delle ricerche, si era consultato con gli esperti. Le sue conclusioni erano già piuttosto catastrofiche. Poi ha vinto le elezioni e… puf, tutto scomparso. Troppo impegnato a dar la caccia a Bin Laden. Lo sa una cosa? Molta gente pensa che Gore sia uno stupido. Io lo conosco un po’. È senz’altro un fighetto di città, ma non è uno stupido. È quella sala di Washington che ti rende stupido. La gente non ci crede quando ripeto che preferisco non esserci mai stato. Ma è così”.
“E quindi non si candiderà”.
“No, assolutamente. Non ha visto la spilletta?”
“Ma davvero pensa che Moore abbia qualche chance?”
“Perché no? Abbiamo già avuto un attore alla Casa Bianca, e se l’è cavata piuttosto bene. Certo, non ha il fisico di Schwarzenegger. Ma è 100% americano. Sarà un ottimo presidente”.
“E non diventerà anche lui più… stupido?”
“Più di così? Naaah, difficile”.
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Tutti vogliamo cambiare il mondo...

La premessa è sempre quella: abbasso i dittatori (e i militari) e viva la libertà. In tutto il mondo. Amen.

Detto questo, ammetto che l’idea di vestirmi di rosso (o di zafferano), mi costa qualcosa, e che in questo giorni mi riesce difficile reincarnarmi nel ragazzino che andava in piazza per i giovani di Tienammen. Voi potreste dire che è l’età, la borghesia che si fa strada lungo le rughe. Ma non è solo questo. L’orizzonte che si apre sulla Birmania in questi giorni è oggettivamente più angusto di quello che si scoperchiava in Europa e in Asia nel 1989.

Il mondo del 1989, sotto i resti screpolati della guerra fredda, era un mondo vergine, senza un destino scritto. Nessuno sapeva come sarebbe andato a finire: non c’era più nessun equilibrio internazionale con cui fare i conti. Si andava in piazza perché si aveva la sensazione che il blocco orientale potesse crollare, e trasformarsi all’improvviso in qualcosa di nuovo. Oggi sembra ingenuo, ma in quel momento l’ingenuità era l’unica opzione.

Oggi, viceversa, è un lusso che non dovremmo permetterci. Possiamo vestirci di rosso (o di zafferano), ma dobbiamo ricordarci che la Birmania è un feudo della Cina, e che la Cina ha il suo veto nel Consiglio di Sicurezza; possiamo tifare per i monaci, ma nessuno ha ancora proposto di boicottare le olimpiadi di Pechino del prossimo anno; possiamo farci belli coi nostri accorati inviti alla libertà, ma nel frattempo sappiamo che la Cina entrata nel WTO, con le sue riserve di dollari e la sua manodopera che resterà a basso costo per generazioni, non è obbligata ad ascoltarci.
Accanto alla Cina c’è l’altra ex potenza in crisi, la Russia, molto più potente oggi di quanto non lo fosse nel 1988. Considerate semplicemente questo: Putin può farci passare l’inverno al freddo. È in grado di farlo. Nel 1988, Gorbaciov non poteva. Il mercato globale dell’energia ha reso inutili le testate nucleari: la paura del freddo è uno spettro molto più concreto di quello dei missili. E noi davvero pensiamo di poter fare pressione sull’asse Cina-Russia perché ci stanno a cuore i poveri monaci birmani?
E se un giorno – e mi auguro domani – la libertà arrivasse, la Birmania cosa diventerebbe? Un Paese civile e democratico o un altro fornitore di lavoro sottopagato? Oltre che, naturalmente, una meta per il turismo sessuale? È oggettivamente più difficile, oggi, fantasticare sulla libertà. Abbiamo visto troppe incarnazioni scadenti.

A far finta di niente, a tifare libertà sempre e comunque, si rischia di diventare stucchevoli come i neoconi, che a ogni rivolta vanno in brodo di giuggiole, e subito s’inventano il marchio (rivoluzione arancione, rivoluzione dei cedri, mancava soltanto la rivoluzione zafferano, appunto). È un’esibizione modaiola e a volte fastidiosa, visto che quel che possiamo fare per quelle persone è oggettivamente poco. Lo si è visto qualche anno fa, quando a seguire certi link sembrava che la rivoluzione progressista fosse imminente in Iran. E certo se bastasse un link, per aiutare i rivoluzionari, oggi l’Iran sarebbe una democrazia occidentale. Ma non lo è. Un’altra rivoluzione recente – quella arancione in Ucraina – forse sta per tramontare in queste ore, ed è difficile pensare che nelle cabine elettorali di Kiev non abbia inciso lo spettro di un altro inverno al freddo. E contro il freddo ben poco può l’agitar di bandierine.

I neoconi però insistono: il loro mondo è ancora quello del 1989, la rivoluzione liberale sembra sempre alle porte, se l’ONU continua a opporre dei veti si può anche sciogliere l’ONU, eccetera. Oltre a glissare sulla sostanza economica dei problemi, continuano a dare per scontato un fattore che oggi è in discussione: la forza dell’America, faro delle libertà mondiali... Ma è un faro molto più fioco e intermittente di qualche anno fa. E non è stato certo l’11 settembre a indebolirla. Il responsabile è Bush: doppiamente responsabile, perché non solo ha incastrato l’esercito più potente del mondo in una guerra di logoramento in Iraq, ma in quattro anni non è ancora riuscito a vincerla. In Iraq Bush ha scoperto le carte di quello che doveva essere la principale forza deterrente in mano alle democrazie occidentali: e gli è andata male. Peggio per lui e per noi. Non solo rischia la sconfitta militare, ma ora non può più bluffare; oltre al fatto che il gas russo e le riserve di valuta cinesi fanno comodo anche a lui. E al suo successore, che più di tanto non potrà cambiare le carte in tavola.

Ci sarà forse più libertà, nel mondo d’oggi; probabilmente in molti Paesi la vita è migliore rispetto al 1988. In compenso c’è meno speranza, in generale, al punto che è lecito chiedersi se il cambio sia stato un buon affare. È una sensazione non solo mia, che toglie l’aria e il gusto per la rivolta. Al tg1 l’han capito, e alla Birmania non dedicano nemmeno più l’apertura. Al vecchio panino di Mimun (Berlusconi-Fassino-Berlusconi) hanno sostituito quello nuovo di Riotta: un’esile fettina di Birmania tra due spesse fette di Garlasco. Corsi e ricorsi storici: dopo gli entusiasmi politici, subentrano i peli grigi e ci si butta sui romanzi noir. Ma sono io che invecchio, o il mondo?

Spero di essere io. In fondo mi fa rabbia dover sempre assistere in tv alle rivoluzioni degli altri. Il fatto è che non ho smesso di considerare la libertà come una lotta quotidiana: perciò in un monaco che fa lo sciopero della fame vedo più libertà che nel dibattito sulla finanziaria. Forse non saranno mai più liberi come oggi, mentre marciano e tirano sassi: tifare per loro è scontato, ma io li invidio proprio.
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fioretti per l'anno nuovo, 1

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Un sano colpo alla botte

Numero uno, non si sfottono più i Neoconi. Basta. Finito.
Aveva un senso nel Duemilaetré. Continuava a essere divertente nel Duemilaequattro. Nel Cinque era trito, ma funzionava. Ma nel Sette basta, ormai è roba da Vanzina.

Eppure la tentazione c’è, voglio dire, come si fa? Basta un clic, e ti trovi davanti Camillo stizzito perché si sono permessi di mettere in dubbio l’intelligenza di George W, uno che si è laureato in STORIA a Yale. Scritto proprio così, tutto maiuscolo, perché si capisca che è Yale, mica un corso di ricamo. No, dico, provatevi voi a laurearvi in STORIA a Yale. E "con voti migliori di John Kerry” (John chi?)

Sì, sì, certo, ma è facile adesso. Ben altra cosa quattro anni fa. A quel tempo tutto sommato i neoconi erano il massimo. Viaggiavano col vento il poppa, avevano l’aria di chi risistema la Storia con una giocata. Era un bluff, ma è così facile, visto dal fosso del senno del poi. In realtà uno come Camillo è da apprezzare per la coerenza. È lì sulla linea da sei anni, e non si muove di un centimetro. Vi ricordate quando lanciò l’islamofascismo? Beh, lui è ancora lì: Con gli islamofascisti non si discute! Averne, di uomini come lui.

Io dico che con l’anno nuovo bisogna iniziare a preoccuparsi di una razza diversa. È tempo di dare un sano colpo alla botte.
Perché a furia di dire che gli americani hanno sbagliato tutto, qui si perde il lume. Tutti questi festeggiamenti per la tremillesima bara a stelle e strisce sono repellenti. Tutta questa intelligenza col nemico – ehi, guardate che è pur sempre un nemico. Un fanatico. Il migliore c’ha la rogna.

Prendete al Sistani. Ce l’abbiamo col Papa perché non vuole i Pacs; provate a chiederli ad al Sistani, che proibisce di parlare alle donne non sposate. No, giusto per mantenere le proporzioni. Perché tra un po’ rischiamo di farne un santino, di questo al Sistani. C’è persino un giornalista italiano che lo ha già nominato Uomo del 2007 – al Sistani, non so se ci siamo spiegati.
Che giornalista? Mah, uno di quelli dal dialogo facile con l'islam... uno senza permalink, maledizione. Aspettate, eccolo qui.
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- cambiare regime budget

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La guerra è finita (se lo vuoi)

Alla fine lo hanno ucciso, il capo-terrorista noto come Al Zarkawi. Come prima di lui Bin Laden. E hanno preso Saddam Hussein, e in Afganistan hanno spodestato i talebani. Insomma, il bilancio di questa guerra al terrore non è proprio da buttar via.
E invece nessuno riesce a fare festa. Qualche graduato comincia anche a dirlo alla stampa: la guerra in Iraq è persa (via Asphalto). Persa? Sul serio?

La guerra in Iraq si può vincere, invece. Tra due anni, o uno, o anche meno. Non c'è nessun reale impedimento. La mesopotamia non è la jungla vietnamita, gran parte è sabbia e sassi e si fa presto a rastrellare. Dietro i vietkong c'era l'Urss; dietro i guerriglieri iracheni c'è senz'altro una scaltrita opera di fundraising che fa appello alla frustrazione di un miliardo di fratelli islamici – alcuni dei quali petrolieri – ma anche quei rubinetti non sono infiniti. La supremazia tecnologica e militare americana è un fatto: hanno ucciso Al Zarqawi, uccideranno anche il successore. Possono ucciderli tutti, pacificare l'Iraq e passare al prossimo Stato canaglia, se vogliono.
Il problema è tutto lì: lo vogliono davvero?

A sentire la cronaca, si direbbe di no: agguati, rapimenti di massa, eccidi di sciiti. Il contingente angloamericano sembra impotente. In effetti lo è. Ma è anche un contingente numericamente inadeguato, che non riesce a difendere non dico gli iracheni, ma sé stesso. Come si diceva quest'estate, George W. Bush sta cercando di controllare due grandi Paesi con due piccoli eserciti da guerricciola coloniale. Tutto sommato è sorprendente che non abbia ancora del tutto fallito.

È anche sorprendente che i neocon di tutti i Paesi e i colori cerchino ancora di venderci la sòla del regime change. Che per carità, è un'idea interessante. Anche il ponte sullo stretto di Messina, se è per questo. Personalmente non ho chiusure ideologiche nei confronti né dell'uno né dell'altro. Chiedo solo di andare a vedere il preventivo, perché secondo me sono operazioni molto rischiose e – soprattutto – costosissime. Mentre George W, fin qui, non mi è sembrato uno spendaccione.

Invece è un gran cristiano, George W, e probabilmente conosce la parabola che dice: il regno dei cieli è come un uomo che trova un tesoro in un campo: sai che fa? Vende tutti i suoi averi e col ricavo compra quel campo. Il regno dei cieli è così. Anche il regime change è un po' così. Può funzionare, ma solo se ci credi fino in fondo, se vendi tutto quel che hai. Non puoi crederci al risparmio.

Se George W volesse crederci, avrebbe già vinto. Potrebbe raddoppiare il contingente – quadruplicarlo. Costringere gli alleati a partecipare al conflitto seriamente, pena sanzioni commerciali. Ah, ma per farlo dovrebbe reintrodurre la leva militare e aumentare le tasse – in pratica, dovrebbe smettere di essere trotskista in politica estera e neoliberale in economia. E allora vincerebbe la guerra in Iraq – forse ne scoppierebbe una in Arizona – ma i problemi si risolvono uno alla volta.

E allora perché non lo fa? È al secondo mandato, di che si preoccupa? Il regime change è o non è una priorità? Perché continua a trattare Iraq e Afganistan come fronti coloniali di terz'ordine? Io naturalmente non lo so, ma ho comunque preparato tre ipotesi: una grezza, una media e una sottile.

BUSH MANTIENE IN IRAQ E AFGANISTAN UN CONTINGENTE INADEGUATO PERCHÉ:

1) Teoria grezza: è un deficiente, circondato da deficienti.
2) Teoria media: È un "idealista al risparmio" (secondo la calzante definizione del Braccini), seriamente convinto che esportare la democrazia e cambiare i regimi sia una buona cosa, fintanto che riesce a farlo senza aumentare le tasse. Un atteggiamento compromissorio che spesso la Storia punisce (si perde la guerra e poi alla fine le tasse aumentano lo stesso).
3) Teoria sottile, anche troppo: È il degno reggitore dell'Impero Mondiale, che ha fatto proprio il diabolico motto dei predecessori latini: divide et impera. Non ha nessuna intenzione di vincere la guerra al terrore: vuole solo combatterla. Il suo orizzonte non è la liberazione dell'Iraq, ma la trasformazione di Iraq e Afganistan in sfiatatoi per il terrorismo mondiale, i luoghi dove sfogare le frustrazioni della comunità islamica e le ambizioni del complesso militare-industriale. La guerra al Terrore sarà infinita, come il Terrore. Morto un Bin Laden si fa un Al Zarqawi, morto Al Zarqawi si farà un altro.

A me – e credo anche a voi – la numero 3 suona sinistramente familiare. Come si chiama quella situazione in cui invece di risolvere un problema lo si amministra? Si può chiamare in tanti nomi, come Satana. Da noi si chiama spesso mafia. Saddam Hussein, Al Zarqawi: non hanno fatto un po' la fine di certi boss, spremuti fino all'osso e poi rivenduti allo Stato quando non servivano più a nulla? (Però anche la numero 1 non è da sottovalutare).
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- com'eravamo

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Torto marcio

"Ma pensa che c'è gente che ancora si vanta di essere andata a Genova nel 2001!"
"Intendi al G8?"
"Tu guarda st'ignoranti..."
"Saputelli".
"Cacasotto".
"Picchiatori"
"Pacifisti".
"Terrioristi. Ma per cosa lottavano, poi, te lo ricordi?"
"Ma quelle cose lì, contro il governo e il commercio globale, non vogliamo un mercato del lavoro troppo competitivo, eccetera. Le solite cazzate da figli di papà"
"Pezzenti".
"Superficiali"
"Pesanti".
"Inconsistenti"
"Testardi. E naturalmente ce l'avevano con Bush".
"Di già? Ma che gli aveva fatto?"
"E che ne so. Il protocollo di Kyoto… Le cazzate sull'inquinamento e il risparmio energetico… La verità è che non si fidavano di un petroliere. I soliti dietrologi".
"Ingenui".
"Catastrofisti".
"Immaturi"
"Veterocomunisti".
"E Bush cosa gli disse?"
"Ma niente, lui era blindato nel porto, manco li vide. Deve aver detto: chi ci contesta ha torto marcio".
"Torto marcio? Come si dice in inglese?"
"E che ne so, lo lessi in italiano. Comunque rende l'idea".
"Aveva ragione. Erano solo dei velleitari".
"Dei nichilisti"
"Anarchici"
"Fascisti. E mi sembra d'aver detto tutto".
"E già".
"Ma cosa stai leggendo?"
"Io? Ah, è il libro di Tremonti. Avvincente. Te lo consiglio".
"Tremonti?"
"Interessante, molto interessante. Non la solita politica italiana da riunione di condominio. È un'analisi geopolitica di largo respiro".
"In poche parole…"
"In poche parole spiega che la società italiana sta correndo dei terribili rischi a causa del Wto, l'Organizzazione del Commercio Mondiale. Specie da quando è entrata la Cina, che non rispetta i diritti civili ed è molto competitiva sul mercato del lavoro".
"Forte Tremonti, eh?"
"Fortissimo. A proposito, hai sentito l'ultima di Bush?"
"Se ne va dall'Iraq?"
"No, no. Al discorso sullo Stato dell'Unione ha detto che gli USA sono dipendenti dal petrolio".
"Ha detto così?"
"Ha detto così: prima o poi dobbiamo ammetterlo, the United States Is Addicted to Oil. Che coraggio, eh?"
"Certo che quando ha ragione ha ragione".
"Cercheranno di importare meno petrolio dall'estero. E investiranno più soldi nei combustibili alternativi".
"Chiamali scemi. Adesso come adesso i soldi del petrolio arabo vanno agli emiri, gli emiri pagano la decima a Hamas, e alla fine col rifornimento di un gippone americano ci si finanzia il terrorista di Hamas. L'unico boicottaggio serio è smettere di comprargli il petrolio".
"Ed è anche una buona idea per l'ambiente. Con tutti 'sti uragani…"
"Quell'uomo è sempre pieno di buon senso".
"Peccato che in giro ci sia così poca gente ad ammetterlo. Specie da noi".
"Eh, ma cosa vuoi. Son tutti dei pecoroni".
"Bastian contrari".
"Carichi di pregiudizi".
"Segaioli".
"Selvaggi".
"Signori «so tutto io»"
"Incompetenti".
"Buoni a nulla e capaci di tutto".
"Smidollati".
"Paranoidi".
"Schizzati".
"..."
(Repeat and fade)
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A less dangerous mind

Ancora quella vecchia storia. Vabbè, come si dice, posso spiegarvi tutto.
Naturalmente non mi feci esplodere, quella sera; la ragione ufficiale, verbalizzata da Arci nel rapporto al comitato centrale, fu "troppa poca gente". In realtà mi ero cagato in mano un'altra volta.
Come a Napoli due settimane prima – l'idea di farsi esplodere durante la simulazione di un attentato, per aumentare il caos, fu un parto geniale di Arci; cui purtroppo non corrispose una realizzazione efficace da parte mia. Ora, due cilecche su due sono una media disastrosa per un kamikaze; per cui non fui molto sorpreso di sentirmi scaricare dal comitato. E siccome altri volontari per ora non si trovavano, la strategia della tensione fu aggiornata a data da definirsi. Sì, mi rendo conto che suona tutto molto dilettantesco, ma a quel tempo eravamo solo una giovane organizzazione segreta ancora ignara del suo destino di fondatrice del Teopop.
Per darvi un'idea del grado di dilettantesimo, considerate che era nato tutto da un blog.
Il mio blog, già.

Uno dei primi in Italia. Niente di speciale, pensierini in libertà, qualche esca per le femmine, un po' di politica. Ecco. Fu la politica a fottermi.

Era il 2001, e SB aveva appena vinto le elezioni. Tirava una brutta aria, e di lì a poco George II doveva venire a Genova per un summit. Lo sapevano anche i sassi che ci sarebbe stato un enorme casino. Ma i sassi non avevano ancora aperto un blog (nel 2001). Io sì.
Feci in modo di trovarmi là, affettando una coscienza politica che, beh, tutto sommato, chissà se avevo davvero. Ma la politica è come la squadra del cuore, non è vero? Più hai paura di non crederci, più ci devi credere. I blog lo sanno. I blog sono i gabinetti dove ognuno scoreggia e annusa le proprie opinioni – e quelle dei compagni di latrina. Io avevo scelto il cesso pubblico in fondo a sinistra, e da lì in poi ci dovevo credere; e più cresceva la puzza intorno, più forte doveva essere la mia fede. Sì, mi rendo conto, siamo a un basso livello di metafore stasera, ma tant'è.

Nei tempi lunghi la mia scelta si rivelò perdente. Pare infatti che i blog fossero roba di destra. A sinistra, la gente preferiva esprimersi sui forum, i newswire, i quotidiani, i dvd allegati alle riviste di geopolitica, e persino le riviste medesime, a s-celofanarle. Insomma, un blog di sinistra in sé non lo cagava nessuno, la sola idea di farsi notare con un mezzo simile era demenziale, e dubito di averla nutrita consapevolmente mai. Ma che altro mai avrei dovuto scrivere? Critica televisiva? Gossip? Esegesi biblica? Ancora ganci per ragazze? Troppo tardi, ero stato agganciato io.

La politica, invece, mi veniva spontanea. La politica è una droga. Che bisogno avevo di parlar male di neoconi, ex-socialisti, israeliani, radicali, in pratica di tutte le lobby più vendicative di questo mondo? Che bisogno avevo di atteggiarmi a estremista extraparlamentare, quando nella realtà quotidiana ero solo un timido maestrino rispettoso della legge e dell'ordine? Nessun motivo, a parte l'istinto di autodistruzione che sta nel fondo di ogni cuore tossicomane. Io anelavo a finire bruciato vivo in un flame, coi troll che mi rosicavano le carni, ecco cosa.

Era un periodo di grandi frustrazioni non solo per i blog di sinistra, ma per la sinistra in generale. La botta peggiore fu la clamorosa seconda vittoria elettorale di Bush II, nel novembre del Quattro. Alla coscienza di un europeo standard sembrava incredibile che quella bertuccia, arrivata alla Casa Bianca per un inghippo di schede, venisse riconfermata a stragrande maggioranza per altri quattro anni. Il tutto grazie a Bin Laden, naturalmente. C'era da impazzire, e quale luogo migliore di Internet per impazzire? Io organizzai una riunione permanente coi miei lettori sull'annoso tema: "perché la sinistra perde sempre?" Poteva sembrare la trovata di uno che ha ormai esaurito gli argomenti. Ma da quei colloqui nacque un gruppetto di azione, che poi confluì in un movimento, che poi si scisse in vari tronconi, uno dei quali si fuse con altre corporazioni che presero il nome di Teopop. Nel gruppetto originale c'era Defarge – di cui dopo il processo fu cancellata quasi ogni testimonianza digitale. E c'era Arci, ricercatore in sociologia, che era entrato nel movimento per studiare quelli che lui chiamava i "rapporti sessuali verticali" – e non ne era più uscito. I casi della vita.

Ora non ricordo esattamente chi fu a concepire per primo l'idea dei kamikaze, se Arci o Defarge. Ma so che entrambi caldeggiarono fortemente la mia candidatura.
È vero che io attraversavo un periodo difficile, più o meno da quando passando in clandestinità avevo chiuso il blog. Avevo creduto di diventare una persona migliore, passando dalla scrittura all'Azione. Avevo creduto di essermi liberato del blog, uh, illuso. Come guarire un alcolizzato dissanguandolo. In realtà avevo attraversato tutto il 2005 esangue, senza più opinioni da regalare al prossimo, un morto ambulante. La mia donna aveva smesso di stimarmi ed era tornata al suo paese. Il lavoro non mi dava più nessuna soddisfazione. In quella situazione, farsi saltare in aria in un gesto di guerriglia psicologica non doveva sembrarmi una cattiva idea. Per non parlare delle 72 vergini, che, a priori, non mi sentivo di escludere.

E poi, certo, è un brutto momento quando ti rendi conto che neppure questo, sei in grado di fare. Non eri Einstein, non eri Paolo Rossi, e non eri nemmeno il kamikaze che avrebbe fatto scoppiare la guerra di religione in Italia. Non è stato facile, ma ok, ci sono passato. E quindi?
Cosa ci si aspetta da me, adesso?
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Il risveglio del Capitano (3)

Caro Leonardo,
quando alla fine sono arrivato all'ospedale, fradicio, il Cap era già sveglio, e mi guardava furente e imbavagliato dal vetro della corsia.
In quell'istante, ti dirò, non mi ha fatto una bella impressione. Era ammanettato ai due piedi posteriori della sedia su cui sedeva. Si tratta di una postura odiosa che conosco molto bene. Quando penso alla Rieducazione, mi vengono sempre due fitte ai fianchi.
"Ah, Immacolato, giusto te".
"Buonasera dottor Damaso. Non è che avete delle aspirine, qui".
"Senti, mettiamo in chiaro una cosa. Io ti pago. Anche piuttosto bene. Ti pago per un lavoro ed esigo puntualità".
Noto che ha già smesso di darmi del lei.

"Me la sono fatta a piedi da Porta San Felice. Con la neve si sono fermati i filobus…"
"Appunto perché nevica abbiamo dovuto togliere la corrente ai congelatori. Ordinanza comunale. Però vedi, Immacolato, nel mio congelatore non ci sono cento chili di macinato che posso congelare e scongelare quando voglio".
"Questo è meglio non farlo neanche col macinato…"
"Non interrompere. Lì dentro c'è un cervello, e io non posso continuare a tirarlo dentro e fuori senza aspettarmi dei seri danni cerebrali. Per essere franchi: questa è l'ultima volta che lo scongelo. O inizia a collaborare da stasera, o ciccia".
"Ciccia?"
"Nel cui caso, non avrò più bisogno dei tuoi servizi".
"E dovrò restituirti l'acconto".
"È chiaro. Stavolta è più calmo del solito, sai perché?"
"Tranquillanti?"
"Se ne avessi non li userei su di lui. Siamo riusciti a tenerlo un po' calmo promettendogli che stava arrivando uno importante, uno che conosce la risposta a tutte le sue domande. Spero vivam che tu le conosca".
"Al massimo me le invento".
"No. Quando non sai qualcosa, di' che risponderai più tardi, quando lui sarà pronto. A parte questo, meglio dirgli la verità. Le bugie sono più difficili da gestire".
"Ci sono delle verità che è meglio non sappia?"
"In che senso?"
"Per esempio: è il caso di dirgli subito che anno è, e che ha dormito per più o meno vent'anni?"
"Non lo so. Tu prova".
"Come 'prova', scusa, il neurologo sei tu".
"Se io sarei un neurologo vero non lavorerei qui, coglione. Entra adesso, e datti un contegno. Ti ha già visto".
"Mi ha visto? Ma io credevo che questo fosse uno di quei vetri a specchio che…"
"Ma per chi ci hai preso, la spectre? Vai, vai dentro".

"Ciao. Mi chiamo Immacolato, e tu probabilm sei Abramo Taddei, detto Bar. Mi hanno detto che hai domande da farmi".
Quando sei ammanettato ai piedi posteriori di una sedia, quello che ti fa incazzare è che non ti senti veram immobilizzato. Non lo sei. Sei sempre sicuro che ci sia un qualche sistema per liberarsi. Così inizi a contorcerti. Anche il Cap, appena ho aperto la porta, ha inarcato la schiena.
"Ti prego, no, non farlo. Rischi di…"

La sedia è di ferro e ha uno schienale ruvido e appuntito. Invariabilm, dopo due-tre minuti cadi a terra di pancia, con lo schienale puntato contro le vertebre, ed è tutta colpa tua, solo tua.
"Ecco, vedi. Aspetta, ti aiuto. Non urlare".
Gli tolgo il bavaglio, per sentirgli dire:
"Ma che fottuta tortura del cazzo è questa!"
"È una tortura stupida e artigianale. Tortura Teopop".
"E cos'è questo fottuto Teopop di cui tutti parlano".
Socchiudo le palpebre. "Il-Teopop-sei-tu".
"Ma che cazzo dici".
Spalanco le palpebre. "Scusa, è la forza dell'abitudine. Il Teopop è il… è il sistema nel quale viviamo".
"Ma siamo in Italia, sì?"
"Parzialm".
"Eeeeeh?"
"Intendevo dire: parzial-mente. Siamo un po' in Italia e un po' no".
"Ma possibile che in questo ospedale di merda non ci sia nessuno che ti sa rispondere a una fottuta domanda? Che cazzo vuol dire parzialmente? Siamo in Italia o no?"
"Noi non usiamo volentieri quella parola, Italia. È una cosa del passato. A noi il passato non piace".
"Perché non vi piace?"
"Perché non esiste. Così ogni tanto cambiamo i nomi alle cose. È un modo per abituarci ai cambiamenti. Inoltre, non esistono più le nazioni sovrane come le intendi tu".
"A-no?"
"No, esistono i sistemi. È una cosa un po' complessa. Se hai pazienza, posso spiegar…"
"Non ho nessuna fottuta pazienza. Liberatemi!"

Armeggia ancora con le manette. È molto energico. Guardo al vetro: dall'altra parte c'è Damaso con un bicchiere di cicoria in mano, che mi fa no con un dito.

"Non ti posso liberare, mi spiace. Non ho le chiavi".
"Credevo che tu fossi il capo ".
"No. Sono solo la persona che risponde alle domande".
"Oh, e va bene, fanculo. In che anno siamo? Duemilaetrecento? Cinquecento?"
"Vedo che sei cosciente di essere stato ibernato".
"Ma senti questo. Uno va a dormire e si sveglia in un fottuto congelatore in mezzo a un branco di sconosciuti in camice bianco che non sanno nemmeno chi ha vinto le elezioni del '04. Tu che fottuta spiegazione ti daresti?"
"Ricordi quando sei stato ibernato?"
"Col c… ricordo che ero sul divano che mi guardavo la notte delle elezioni, e un salatino fottuto mi è andato di traverso. Tutto qui. Mi sai almeno dire chi ha vinto?"
"Chi ha vinto cosa?"
"Le elezioni più importanti del mondo! Ma in che fottuto anno siamo? Ci sarà almeno scritto nei vostri libri di storia…"
"Senti, prima te lo dico meglio è. Siamo nel 2025".

Succede qualcosa. Il Capitano, che fino a quel momento continuava a saltellare nervoso sulla sua sedia, si lascia cadere di peso. Mi guarda negli occhi. Nei suoi begli occhi azzurri c'è scritto: dimmi che non è vero.
Io mi frugo nella tasca. Da qualche parte devo avere… ecco. La tessera annonaria. Una cartapecora sottile con la scritta "2025" bene in evidenza. È un po' stropicciata, ma visibilm nuova. Gliela mostro. Aggrotta la fonte.
"Per stasera non ho altre prove con me; ma nei prossimi giorni, se sarai un po' più calmo, convincerò Damaso a farti uscire. Gireremo per la città e ti convincerai che non sto mentendo. Non ho alcun interesse a mentirti. Questo è il febbraio del 2025. Tu hai un buco di vent'anni abbondanti. Ma in questi vent'anni sono successe molte cose".
Lui sembra aver perso ogni curiosità.ora guarda un punto del pavimento.
"Mia moglie".
"Proveremo a rintracciarla. Ti dico subito che non sarà facile. Può anche darsi che non sia membra del Teopop, ma di un altro sistema. In quel caso sarà quasi impossibile".
"Devo andare su Internet".
"Non puoi, mi dispiace".
"Perché? È proibito?"
"No, noi non proibiamo nulla. Ma Internet non si usa più".
"Che cosa?"
"Ti prego, cerca di capire. Tu hai un buco di vent'anni, non è uno scherzo. Vent'anni fa Internet era una tecnologia all'avanguardia; oggi è desueta e non la usa più nessuno. Come i dischi in vinile o… i CD".
"Non avete più nemmeno i CD?"
"Buon Dio, no! Tu vent'anni fa ascoltavi ancora CD?"
"Va be', chi se ne frega. Se non c'è internet, ci sarà qualcosa di molto più avanzato, no?"
"Certo, certo che c'è".
"E allora voglio andare su quella cosa molto più avanzata, e trovare dove sta mia moglie".
"Non è possibile neanche questo, mi spiace. La cosa molto più avanzata non consente agli utenti ricerche di persone e oggetti per uso personale ".
"Ma è mia moglie!"
"Guarda, se è per quello non esistono più nemmeno i matrimoni".
"Eh?"
"Sono stati cancellati. E in ogni caso tua moglie oggi è bisbattezzata, quindi…"
"Bisbattezzata?"
"Ha cambiato nome. Abbiamo tutti cambiato nome. Sempre per il motivo che ti dicevo: abituarsi al cambiamento. Anche tu, forse è meglio se ti ci abitui. Per esempio: tu quanti anni hai?"
"Trenta".
"Ne hai trentuno. Tua moglie?"
"Ventinove. No. Trenta".
"No, Bar, non Trenta. Cinquanta".
"Ma certo, è naturale".
"Sei sicuro di trovarlo naturale?"
"Ma sì, sì. Ma lei magari è in pensiero per me".
"Bar, sono passati vent'anni. Hai capito? Vent'anni".
"Sì, sì, certo"

Scuote la testa, mansueto come un agnellino. Mi volto un attimo per gustarmi la faccia di Damaso. Sembra impassibile, ma ha ancora il bicchiere di cicoria pieno. Si è dimenticato di averlo in mano.
"Bar, ascolta. Nessuno ti vuole male, qui. Anzi, noi abbiamo bisogno di te. E tu hai bisogno di noi. Etcì".
"Salute".
"Grazie. Senti, adesso si è fatto tardi e io mi sto prendendo un accidente. Ma pensavo di tornare domani. Tu fa così: preparami una lista di domande. Dieci domande. Io le leggo e ti rispondo, così non perdiamo tempo. D'accordo?"
"Io… d'accordo. Ma dimmi almeno chi ha vinto quelle fottute elezioni".
"Italiane?"
"Americane!"
"Dammi un aiutino. I candidati erano…"
"Bush e Kerry".
"Ma sì, certo, Bush, il padre di quell'altro che…"
"Mi prendi in giro? Nel 2004 era Bush figlio!"
"Il figlio? Nel 2004? Sei sicuro".
"Come se fosse ieri. Anzi, è ieri per me".
"Sarà. Comunq credo che abbia vinto l'altro, come si chiamava…"
"Kerry?"
"Sì, direi di sì. Cioè, credo".
"E tu saresti quello che ha tutte le risposte?"
"Senti, è roba antica, in vent'anni ci sono stati tanti presidenti e non puoi pretendere che…"
"Ma quelle erano elezioni decisive!"
"Ma sì, certo, come no. Adesso scusa, devo andare.
Etcì".
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Resta in luce (Karaoke esistenziale, ciak! 11)

Nato sotto i pugni (e il calore cresce)

Date un’occhiata alle sue mani
Su, guardategli le mani.
La Sua Mano parla. È la mano di un Uomo di Governo.
Sì, sono un acrobata. Nato sotto i pugni.
E sono così sottile

Tutto quello che voglio è respirare
(Sono così sottile)
Vieni a respirare con me?
Ci serve un po’ di spazio dove transitare
Appena un passo oltre noi stessi


Mai visto qualcosa del genere
corpi che si schiantano al suolo

(è che sono un acrobata)
Quando arrivi dove volevi arrivare
(Grazie! Grazie!)
Quando arrivi dove volevi arrivare
(Ma non c’è neanche bisogno di dirlo!)

Non perdetevelo! Non perdetevelo!
Qualcuno di voi rischia proprio di perderselo!
Questa è l’ultima opportunità
Io sono l’acrobata – Nato sotto i pugni
Sono un Uomo di Governo.

Non sono un uomo che affonda nell’acqua!
Non sono una casa che brucia nel fuoco!
L’acqua che sale non può ferire l’Uomo,
Il fuoco che brucia non può ferire l’Uomo,
l’Uomo del Governo.

Tutto quello che voglio è respirare
(Grazie, grazie)
Vieni a respirare con me?
Ci serve un po’ di spazio dove transitare
(sono così snello)
Appena un passo oltre noi stessi
(Sto raggiungendo la forma!)

E il calore cresce, e il calore cresce
dove posò la Mano, dove posò la Mano.

Tutto quello che voglio è respirare
Vieni a respirare con me?

(Le mani di un uomo del Governo)
Ci serve un po’ di spazio dove transitare
appena un passo oltre noi stessi

(Non perdetevelo! Non perdetevelo!)

E il calore cresce, e il calore cresce
dove posò la Mano, dove posò la Mano
e il calore cresce, e il calore cresce
dove posò la Mano, dove posò la Mano


Ora che l’ho fatto, mi sento ancora più stupido. Tradurre i Talking Heads è impossibile.
(“Ma se è per questo, anche George W. Bush: e allora, tantovale…”)

Anche in questo caso, sono le frasi più elementari a creare le maggiori difficoltà. Voi cosa fareste con l’ipnotico “Goes on / And the heat goes on”? Per un po’ ho accarezzato l’idea di tradurre: “più su, sale sempre più”, come un coro di impasticcati in una discoteca di Rimini. Che a David Byrne non sarebbe dispiaciuto. Ai tempi del punk David Byrne andava in giro a dire che gli piaceva la Disco: intanto sbobinava e trascriveva le audizioni del caso Watergate, e li rimontava in testi caotici, ipnotici e intraducibili. E aveva il dono della profezia.

Remain in Light è intraducibile, ma forse è anche l’unica cosa che valga la pena ascoltare in Occidente nel febbraio 2004, anno III di quel che vi pare. Tranquilli, non è noioso, è una specie di Apocalisse di San Giovanni in versione discomusic. David Byrne sapeva che sarebbe venuta l’ora dei Presidenti dislessici, dei Presidenti acrobati, dei Presidenti così sottili. Il fuoco che brucia la casa non li può bruciare. L’acqua che annega gli uomini non li può annegare. Quando ho sentito che Bush si era definito un Presidente di guerra, dentro di me qualcosa ha cantato: “I’m a Government Man(and the Heat goes on)” . Ogni volta che vedo il Giovane Berlusconi annunciare l’inizio, la fine lo svolgimento di una Verifica (Verifica di che?), qualcosa dentro di me ripete: “I’m a tumbler. Born under punches”.

E non crediate che lo faccia volentieri, anzi. Tutto quel che vorrei è respirare. Ma esiste ancora un posto dove possiamo transitare? E abbiamo ancora il diritto di fare un passo più lungo della gamba?
Il punto più enigmatico resta quell’urlo di David Byrne: I’m catching up with myself. È come se dicesse: mi sto compiendo, mi sto realizzando, sono una profezia umana che si avvera in sé. O è Berlusconi che s’incarna nel sogno di un Berlusconi più giovane? O è un George W Bush che s’incarna nel fumettone imperiale che gli hanno disegnato intorno? And the heat goes on.

Ma date un’occhiata a quelle mani, a quegli occhi, a quei volti. Le mani parlano. I volti parlano. Sono degli acrobati. Nati sotto i pugni. E sono così leggeri. (Eh, la leggerezza di Calvino).
È l’ultima occasione per fare dei piani. Qualcuno di voi, gente, se la sta perdendo. Grazie, grazie. Non parliamone neppure.
And the heat goes on.
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So thanks for allowing me to not feel like a complete polyanna when I tentatively tell people here that many people in the United States do not support the policies of our government, and that we are learning from global examples how to resist... (Rachel Corrie)

Perché in questa foto ha un sorriso gentile, simile a quello che abbiamo visto in altre ragazze che abbiamo salutato, e a cui abbiamo consigliato prudenza, che non sempre si può sfidare i carri armati a mani nude e spuntarla; perché in definitiva il suo volto assomiglia al nostro, è un volto pulito, senza rabbia e senza povertà, ci pesa troppo la morte di Rachel Corrie, ricoperta di sabbia e schiacciata da un bulldozer.
Ci pesa più della morte degli altri due palestinesi di oggi: ma quella è routine, e poi quella gente sembra predestinata alla miseria e alla violenza.
Rachel Corrie no. Veniva da Olimpia, Washington, USA, e qualcuno ben informato avrà già concluso che poteva benissimo starsene a casa sua, invece di ostacolare i democratici bulldozer d’Israele.

Da una lettera scopriamo che era bionda, ma nei campi preferiva teneva i capelli coperti per non urtare nessuno; che era vegetariana, ma che le era stata promessa una pastasciutta, uno di questi giorni. E che di solito parlava lentamente, con ricercata tranquillità. In questa foto però la troviamo sorpresa in un accesso d’ira, mentre brucia una rudimentale bandiera israeliana: un gesto che a un palestinese costerebbe probabilmente il carcere, ma che un cittadino occidentale pensa ancora di poter fare, nei Territori. Un gesto che qualcuno disapproverà, che qualcuno giudicherà antisemita, ma in tutta franchezza, signori: per voi Rachel Corrie era una pericolosa agitatrice? Merita di essere morta così?

Voi liberi pensatori, che difendete Israele perché è una democrazia e non un califfato, probabilmente siete dispiaciuti quanto me di questa ragazza forse un po’ troppo idealista, e pensate che ci dev’essere stato un errore, un incidente, una svista del conducente, e che un’inchiesta chiarirà le colpe e le responsabilità.
Posso rispondervi con un nome? Raffaele Ciriello.
Vi ricordate chi era Raffaele Ciriello? Un reporter italiano senza contratto fisso, che mentre fotografava l’avanzata dell’esercito a Ramallah fu colpito in petto da una democratica pallottola, partita da un democratico carro armato. È successo appena un anno fa, il tredici marzo.
Nei giorni successivi si sollevò un polverone, poi in Italia fu ucciso Marco Biagi e i giornali si misero a parlare d’altro. Nel frattempo i responsabili dell’esercito israeliano avevano dichiarato che la responsabilità era del reporter, che si trovava là dove l’esercito aveva consigliato di non restare. Perché c’è pur sempre una guerra, in Palestina, e in guerra, evidentemente, l’esercito democratico d’Israele si considera autorizzato a far fuoco sui giornalisti stranieri, se si trovano dove non dovrebbero trovarsi.

Ed eccoci qui, alla vigilia di una guerra. Una guerra che, come tutti sanno, si combatte per portare più democrazia nel Medio Oriente, dove ce n’è poca. E io, che sono italiano, occidentale, etnicamente affine a Rachel Corrie, anche se molto meno testardo e coraggioso, mi permetto di dire che a me non interessa affatto estendere la democrazia nel Medio Oriente; che anzi, se dipendesse da me la ridurrei. Vorrei che l’unica democrazia del Medio Oriente, che occupa da più di quarant’anni territori non suoi, opprimendone gli abitanti, fosse commissariata; che le fosse impedito di nuocere ancora a sé stessa e agli altri. Perché i crimini non sono meno odiosi quando sono commessi da un regime democratico, anzi.

La democrazia non è Baywatch, signori, la democrazia non è quel simpatico teatrino, riedizione televisiva dei panem e circenses, che piace tanto qui da noi: la democrazia è una cosa seria, nasce nel sangue e nel sacrificio, cresce lentamente e a volte degenera all’improvviso. La democrazia è una condivisione del potere e delle responsabilità. La responsabilità della morte di Rachel Corrie ricade sul governo che ha autorizzato la demolizione di quel villaggio, e sul popolo che l’ha votato.

Quanto ai crimini dei terroristi palestinesi, essi sono odiosi, e non possono essere giustificati. Ma non sono stati autorizzati dall’assemblea di un popolo. Sono opera di gruppi fondamentalisti che prosperano nel vuoto di potere e nella miseria dei Territori. Invece di favorire la nascita di una leadership palestinese, Israele ha fatto di tutto per ostacolarla, imprigionando ed eliminando i leader emergenti, lasciando il vecchio e screditato Arafat praticamente solo.

Oggi sentiamo che il liberatore del Medio Oriente, George W. Bush, promette la nascita di un nuovo Stato Palestinese. A tale scopo, ha chiesto ad Ariel Sharon che non siano più costruiti insediamenti nei Territori. Gli israeliani hanno avuto a disposizione un paio di anni per costruire nuovi insediamenti e fare tabula rasa dei villaggi palestinesi scomodi: ma ora basta, perdiana. Queste ruspe che ancora demoliscono case (e occasionalmente schiacciano qualche uomo o donna o attivista) sono le ultime. Poi si traccerà un nuovo confine, e i palestinesi dovranno accontentarsi di quello che gli israeliani non hanno già preso: il deserto e un paio di bidonvilles. L’acqua e la benzina, dovranno comprarla dagli israeliani.
Naturalmente diranno di no, perché non basta mettere un cartello davanti a un campo profughi per trasformarlo in uno Stato Palestinese. E ancora una volta, i signori bene informati di tutto il mondo scuoteranno la testa: ma come sono testardi questi palestinesi, ma cos’è che vogliono ancora? Quante guerre devono perdere per rassegnarsi a scomparire?

E ci saranno ancora ragazze ingenue o testarde come Rachel Corrie, o giornalisti inegnui e imprudenti come Raffaele Ciriello? Io ho paura di sì, che ci saranno. Anche se preferirei di no. Se questo è il prezzo della democrazia, io propongo di farne a meno, per ora.
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naso da pugile piace alle ragazze

Tra i vari effetti negativi che ha indubbiamente il tenere un blog (sindrome di Celentano, stress da contatore, paranoia da referrer, cazzeggio compulsivo…), ce n’è uno positivo, e cioè: scrivere in pubblico ti costringe a fare i conti coi tuoi limiti. E questo è importante.
Se guardo dietro di me, vedo un signorino che si credeva assai informato e intelligente, appena un anno fa. Oggi non sono più così sicuro sul mio grado di intelligenza o di informazione. Mi accorgo sempre più che vado avanti per istinto. E mi accorgo anche che va benissimo così.

Un anno fa avevo teorie da spiegare al mondo. Oggi va grassa se mi riesce di metter su un pezzo divertente ogni tanto. Nel frattempo le cose diventano sempre più intricate e incomprensibili. Siccome non posso bermele tutte (da Bush che si strozza con un salatino ai complotti delle toghe rosse alla gloriosa missione italiana in Afghanistan, a Berlusconi grande mediatore europeo), non mi resta che andare a naso, e pazienza se a volte lo sbatterò contro il muro. Che poi la verginità l’ho persa molti anni fa, e non la rimpiango neanche.

Così, a naso, direi che Borrelli ha ragione a protestare e Taormina deve aver imparato da certi suoi clienti l’arte della minaccia. Così, a naso direi che, piuttosto che per un banale match di football, è più facile strozzarsi davanti a un rapporto sullo scandalo Enron. Così, a naso, direi che i Dieci Piccoli Italiani in Afghanistan ci stanno coprendo di ridicolo, e che a questo punto gli italiani dovrebbero farsi tutti pacifisti gandhiani per un semplice questione di decoro. Così, a naso direi che l’articolo 18 è una trincea più simbolica che reale, una specie di Linea Rossa, perché tanto i nuovi imprenditori aprono una ditta nuova ogni dieci dipendenti.

Così, a naso, direi che Israele sta vivendo un incubo dal quale lui solo può decidere di svegliarsi. Dopo mesi di blocchi in tutti i territori, come può un 'martire di Al Aqsa' entrare in un locale di Tel Aviv e fare fuoco? E allora a che serve tenere sotto sequestro tutto il popolo palestinese? Togliere i blocchi. Riprendere il dialogo con Arafat. L’incubo non finirà, ci saranno ancora morti inutili, il tunnel della pace è lungo e stretto, ma ha una via di uscita. Il tunnel dell’odio è cieco.

Queste cose io le dico a naso. E magari dico un sacco di cazzate, e i posteri rideranno di me (tanto sarò morto). Oppure io stesso riderò di me, quando tra qualche anno, dopo aver studiato con attenzione ogni questione, concluderò che Berlusconi, Bush e Sharon sono stati tre formidabili statisti, e io ero il solito giovane accecato dalle ideologie. A quel punto, però, spero che mi offriranno qualcosa, una sottosegreteria, una rubrica sul Foglio, una striscia in tv, perché nessuno si converte gratis, neanche San Paolo.

Nel frattempo, io, a naso, decido volta per volta da che parte stare, e se mi sbaglio, tanto peggio per me. E tanto meglio per chi sta dall’altra parte. Quelli li posso anche capire.
Faccio più fatica a capire, invece, quelli che si tirano fuori da gioco, come se non li riguardasse. Come se fossero i giudici – non alla maniera di Borrelli, no, infatti loro giudicano anche Borrelli, che “dovrebbe fare il suo mestiere”.

Gli italiani sono fatti così. Hanno una soglia d’indignazione molto bassa, che scatta subito, dopodiché può succedere qualsiasi porcheria, loro ormai sono indignati. E a quel punto non c’è più niente da fare. Un po’ come i cani, che se gli punti il dito loro guardano il dito, il meccanismo indignatore scatta sempre di fronte al messaggero piuttosto che al messaggio. Non scandalizza che esista una rete pedofila in Italia, scandalizza che Gad Lerner ne parli in prima serata. Non scandalizza che Berlusconi cambi legge per salvare i suoi amici inquisiti: scandalizzano i magistrati che denunciano la situazione.

Voi, che finché non si processa (e si condanna, evidentemente) un D’Alema o un Rutelli non ha senso processare Berlusconi. Così, per par condicio. Quanto siete garantisti. Quanto siete equilibrati. Voi il naso di sicuro non ve lo rompete da nessuna parte. Lo tenete ben alto a fiutare da che parte tira il vento, e così, impalati sull’attenti, ci fate anche la figura di uomini tutti d’un pezzo. Beh, che posso dire, bravi. Qualcosa però ve lo perdete. Che cosa esattamente non lo so, però qualcosa. Il naso da pugile, forse. A certe ragazze piace.
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Le scuse dei cinesi
(ancora e sempre contro il concetto di differenza culturale)

…Noi però ci domandiamo come mai la Cina pretenda con tanta cocciutaggine delle scuse formali e non si accontenti del dispiacere espresso dagli Stati Uniti. Pensiamo allora che scusarsi abbia, nell'ottica cinese, lo stesso significato del nostro "chiedere perdono" e poniamo quindi la questione a partire da noi, cioè dall'Occidente.
Ed ecco che abbiamo, in scala per fortuna ridotta e soltanto sul piano culturale, almeno fino a questo momento, un tipico esempio di scontro tra civiltà. Se chiedere perdono e scusarsi avessero la stessa valenza, si capirebbe immediatamente perché l'America non accetta e sembrerebbe per lo meno temerario da parte cinese pretenderlo: chiedere perdono implica ammettere la propria colpa e nella nostra civiltà, che è quella della "colpa" - mentre quella cinese sarebbe invece la civiltà della "vergogna" - scusarsi e chiedere perdono hanno lo stesso significato, ovvero rimandano alle stesse categorie morali.
Renata Pisu, "Repubblica" di oggi.

Quanto siamo diversi. Quanto facciamo fatica a capirci. Già fra di noi che ci conosciamo la comunicazione non è che un reciproco patto di fraintendimento. Figurarsi poi quelli che non condividono la nostra lingua, la nostra "cultura"… I cinesi, per esempio. Scrivono con gli ideogrammi. Mangiano con le bacchette. Non bevono latte animale. E chiedono scuse formali quando gli americani violano il loro spazio aereo e fanno schiantare un loro pilota. Che gente strana. Che concetti misteriosi. "Scuse formali". Tradotto in occidentale cosa vorrà dire?

L'altro giorno ho lavorato con una traduttrice cinese. Lei leggeva delle frasi da turista ("Dov'è il bagno", "Mi sono perso", ecc.) e io incidevo. È stata un'emozione, perché il cinese (il mandarino, credo), è una lingua veramente diversa dalle nostre. Ma anche perché ci sono alcune cose che, malgrado millenni di sviluppo linguistico autonomo, malgrado gli ideogrammi, malgrado tanta cultura e tanta civiltà, ho capito al primo colpo. Le parole "mamma" e "papà", per esempio. E poi un tipo d'intonazione veramente universale, che fanno tutti i traduttori del mondo quando leggono una lista: ad esempio, quando arrivano alla penultima voce della lista, che siano persiani, cinesi o modenesi, fanno sempre la stessa nota, una specie di segnale: "e adesso sto per finire" (provate a leggere una lista a voce alta e capirete cosa intendo).
La cosa mi ha messo di buon umore. Va bene, siamo diversi, ma non così tanto. Probabilmente possiamo emozionarci e indignarci per le medesime cose. Purtroppo non avevo ancora letto l'interessante approfondimento culturale di Renata Pisu sulla Repubblica di oggi. No, i cinesi sono veramente diversi da noi, e non li capiremo mai – almeno finché non ce li spiega la Pisu o qualche altro giornalista con velleità antropologicoculturali.

Per esempio: se qualcuno li offende, pretendono che gli si chieda scusa. Ma pensa un po'. In Cina, questo "altro polo dell'esperienza umana", scusarsi, non implica a priori nessun riconoscimento di colpa, è un atto dovuto e senza drammatiche conseguenze, una ritualità da compiere, un'esigenza da rendere presente e da riproporre ogni qual volta se ne presenti l'occasione. Non si riconosce il valore catartico del perdono che per questo non si chiede e, di conseguenza, non viene concesso. Il fatto è che noi viviamo nella civiltà della "colpa", mentre i cinesi vivrebbero nella civiltà della "vergogna". La differenza non mi è molto chiara. I cinesi si scusano anche se non hanno colpa? Gli occidentali costretti a scusarsi non si vergognano? Mi pare di capire che per i cinesi "scusarsi" e "chiedere perdono" sono due concetti diversi. Sarà. Ma mi sembra una finezza, nel caso in questione.

Ecco, parliamo del caso in questione. Un aereo americano intercettato nel mar cinese. Per i trattati internazionali, si tratta di un luogo extraterritoriale. Per i cinesi no, perché è il mare che separa la Cina da Taiwan, e l'indipendenza di Taiwan non è mai stata riconosciuta. Per cui i cinesi si sentono violati, vanno a contrastarlo, succede un po' di confusione e ci scappa il morto. I cinesi sequestrano l'aereo americano, controllano se c'è qualche innovazione tecnologica da far propria, e intanto chiedono scuse formali agli americani, un po' per prendere tempo, un po' per non perdere la faccia con l'opinione pubblica (considerate che due anni fa la Nato gli ha bombardato un'ambasciata per sbaglio, a Belgrado). Gli americani non vogliono scusarsi, perché equivarrebbe a riconoscere che stavano violando lo spazio aereo cinese, cioè a riconoscere la sovranità cinese sull'omonimo mare. Mi sembra che questo sia tutto. Perché scomodare inedite categorie culturali, il confucianesimo, il cristianesimo? Non siamo mica dei barbari che si capiscono a gesti. E, se è per questo, non siamo più neanche tanto cristiani. (Né, sospetto, confuciani).

Il problema è che fino a oggi gli americani non avevano chiesto scusa: il massimo a cui si era arrivati era un "ci dispiace". Come a dire: "Sono cose che capitano". Non bisogna davvero immergersi nella cultura cinese per capire la differenza: un fatto "spiacevole" può avvenire senza la nostra responsabilità. Chiedere scusa invece significa ammettere la propria responsabilità. Quindi chiedere perdono. Forse i cinesi la vedono in maniera differente (da come si sono comportati in questo caso, mi sembra di no). Ma soprattutto: ammettere le proprie responsabilità significa ammettere che si violava lo spazio aereo cinese. Guerriglia diplomatica, altro che scontro culturale.
A meno che… ma che non sia questo il motivo per cui i top gun americani che si divertono a volare sotto le teleferiche nel territorio italiano, provocando decine di morti, non devono chiedere scusa a nessuno? Perché la nostra è la "cultura del perdono"? E allora come mai questa sensazione di… io sento come una specie di… ma sì, di rabbia, d'indignazione. Come mai? Devo avere un lontano parente a Pechino, o a Shanghai.

Ps.
Ho cercato "Sorry" nel bellissimo dizionario inglese-cinese www.zhongwen.com... e non l'ho trovato! E se non esistesse proprio la parola? Alla faccia della Pisu. Mi è andata meglio con "excuse":
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