Diciamo "No" agli inestetismi della dittatura

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Ssssst, sta creando.
No - i giorni dell'arcobaleno (Pablo Larraín, 2012)

È giusto vendere la democrazia come una cocacola? Se un dittatore ti propone un plebiscito e ti offre un quarto d'ora in tv, lo userai per lamentarti degli amici che ti ha sgozzato o per lanciare slogan rassicuranti a casalinghe e adolescenti? Il fine giustifica gli spot? René è un giovane pubblicitario che nel Cile del tardo Pinochet non se la passa poi male. Quando gli offrono di curare il prodotto più difficile e pericoloso - il "No" a Pinochet nel referendum che tutti immaginano truccato - l'orgoglio del professionista ha la meglio sulla prudenza. Venderà il No alla maggioranza dei cileni, anche a costo di svuotarlo di significato. Ma la vittoria non è un valore in sé? No arriva a Cuneo con un certo ritardo: era a Cannes l'anno scorso, è in lizza per l'Oscar al miglior film non USA, e ha ottime chances: racconta una storia che agli americani interessa, in quel genere a metà tra fiction e documentario che sta attirando sempre più interesse. Larraín non può contare sui production values nordamericani, ma il suo No non risulta affatto meno coinvolgente di un Lincoln, uno Zero Dark Thirty o un Argo. L'effetto vintage lo ottiene con l'espediente di girare con vecchie cineprese anni '80, che rendono quasi inavvertibile l'inserzione di documenti di repertorio: tanto che alla fine rimane la curiosità di sapere quali spot siano autentici e quali no. Lo stesso René da quel che ho capito è un personaggio di finzione, anche se non si direbbe (Gael García Bernal sempre molto bravo). Il film racconta una versione stilizzata dei fatti, e naturalmente in patria si è preso la sua parte di critiche da parte di testimoni che se li ricordano un po' diversi, un po' più complicati. La realtà è sempre più complicata.

Larraín di suo ci mette l’ambiguità politica (continua su +eventi!)è pur sempre figlio di due registi schierati con Pinochet; lui ne ha preso le distanze, ma il suo film sembra liquidare la vecchia generazione degli oppositori al regime come ruderi rancorosi che non hanno capito che la campagna elettorale è marketing, e che un jingle affollato di gente sorridente vende meglio di un tetro reportage sui morti e i torturati. Il film in realtà è molto più sottile di così, ma in Italia è arrivato nel momento giusto per subire una certa lettura: all’indomani del disastro del PD, preannunciato da un memorabile intervento Servizio pubblico di Roberto Saviano che ha spiegato quanto sia importante parlare del futuro e non fossilizzarsi sul passato; hanno tutti applaudito, e poi si sono rimessi a parlare della Trattativa Stato-Mafia. A me non dispiacerebbe concordare con Saviano quando esorta a lasciarsi alle spalle il passato – purché non si rispolveri quel vecchio slogan per cui le elezioni si vincono soltanto con contenuti positivi. Magari fosse così. È senz’altro così in momenti di crescita, come quello che stava attraversando il Cile negli anni Ottanta. René vive nell’euforia di quegli anni, è entusiasta del forno a microonde ma ha ancora un po’ paura che emetta radiazioni. Si sposta in skate e ha capito che il Cile è pronto per scrollarsi di dosso i generali come un rettile si libera di una pelle vecchia e inutile: ma non sa che animale c’è sotto, e non è affatto sicuro che gli piacerà, che valga la pena di festeggiare.

Ma anche la paura vende benissimo, nei momenti giusti. In periodi di stagnazione e crisi, per esempio: lo abbiamo sperimentato abbondantemente dai primi Novanta in poi. I leghisti con l’emergenza criminalità e le invasioni hanno messo insieme un bel gruzzolo di voti; anche Berlusconi non ha disdegnato di paventare l’avvento del comunismo, e Grillo continua a vendere paura un tanto al chilo, tagliata con qualche vaga formuletta di speranza: hai voglia a dire che non c’è mercato, la paura se guardi bene le elezioni le ha vinte. Il PD le ha perse, e senza dubbio non ha azzeccato la campagna, ma non perché abbia spaventato i suoi potenziali elettori con slogan rancorosi; “Smacchiamo il giaguaro” non era affatto uno slogan rancoroso, anzi era abbastanza allegro; purtroppo era anche irrimediabilmente brutto. René lo avrebbe liquidato così: brutto, proviamo qualcos’altro. È un professionista, questo è un altro messaggio del film. La comunicazione politica non è necessariamente la politica, bisogna affidarsi a specialisti; e ovviamente bisognerà pagarli un po’. Rischiate di uscire da “No” con qualche argomento a favore del finanziamento dei partiti, attenti. 
Un’ultima cosa sul doppiaggio italiano. La scelta di lasciare non tradotti (e senza sottotitoli) gli spot originali è incomprensibile, in un film che racconta una guerra di spot. E non è vero che lo spagnolo lo capiscono tutti. Sembra quasi che i doppiatori italiani non abbiano avuto il coraggio di accettare la commistione di fiction e documentario fino alle sue estreme conseguenze: anche l’orribile Pinochet è un personaggio del film, tanto più orribile quanto più cerca di trovare un volto rassicurante. Parla la stessa lingua di René, non è un invasore, non è un alieno. Se il film è doppiato, andava doppiato anche lui. Avete avuto quasi un anno di tempo, ecchediamine. Tanto valeva sottotitolarci una versione originale.  

No è al cinema Monviso di Cuneo oggi (sabato) e domenica, alle 21. Viva il cinema Monviso!
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Cattiva Giovanna

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Gabbia per uccelli

Divento più tollerante ogni giorno che passa. Sarà l'età? Per esempio non ho mai nutrito dubbi sul basso livello dello spot Fernovus Saratoga. Finché non ho scoperto che era stato censurato, anzi, “non censurato, è più esatto dire represso”, dall'Istituto di Autocontrollo Pubblicitario. “Perché erano arrivate molte proteste dal pubblico”. E ancora una volta la mia mente vacilla nel tentativo di immaginare questo pubblico che dopo lo spot Fernovus Saratoga, invece di farsi una risata, scrive lettere all'Istituto di Autocontrollo per annunziare che si sente offeso. O fax. È quel tipo di gente che manda i fax, ci scommetto.

Siccome poi sono sempre i migliori che se ne vanno (è un po' una regola di questo blog, ve ne sarete resi conto) anche lo spot Saratoga, ora che è stato represso, mi sembra molto migliore di come lo dipingevano. Me lo riguardo e lo trovo perfetto, non c'è un'inquadratura che non sia funzionale al risultato finale – sì, c'è un blooper, ma è funzionale persino quello. L'avevo sempre liquidato come un omaggio veramente ritardatario al cinema italiano scollacciato anni '70, ma riguardandolo devo correggermi: è un omaggio al porno, forse anni '80, forse no, non me ne intendo. Quel che ha fatto il regista è stato allestire un set da porno, girare il primo minuto di una scena porno, e poi tagliare. In sé l'idea mi sembra originale e persino... coraggiosa: omaggiare il porno in tv senza esibire il corpo delle donne.

Perché, e questa è la cosa importante (tutto il resto potete saltarlo), lo spot Fernovus Saratoga non esibisce il corpo delle donne. Non lo fa. Forse lo farebbe in Afganistan, in Iran, dipenderà dai contesti. Ma in Italia secondo me no. In Italia la situazione odierna è più o meno rappresentata dagli spot della Tim con la Rodriguez in costume o in bikini, il cui raffinato messaggio più o meno corrisponde a: “Ehi, avete visto che stragnocca è la Rodriguez? Questa sequenza in cui corre in costume al ralenti ve la offre la Tim”. In Italia abbiamo tanga in prima serata, e ci vuole persino impegno per accorgersi del décolleté e della coscia di Giovanna. Ecco, questo spot chiede al suo pubblico un certo tipo di impegno. Il punto di partenza è il porno, ma quello d'arrivo è l'erotismo. Un piccolo passo per l'uomo, un enorme passo per la Saratoga.

Storicamente questa azienda ha sempre avuto un'idea molto chiara di come attirare l'attenzione del suo target: tette. Anche qualche culo, ma in buona sostanza tette. Probabilmente la raffinata associazione mentale col silicone era un invito che nessun pubblicitario poteva rifiutare. Vorrei anche approfittare per dire che questa strategia di buttare lì due tette nello spot che interrompe un Gran Premio era rozza, offensiva nei confronti delle donne, ecc. ecc., ma nella sua totale rozzezza in un certo senso più onesta delle trasgressive campagne di Oliviero Toscani, uno che se gli danno da vendere il cibo per cani e gatti, prende un quintale di modella nuda e ci sbatte sopra le maschere da cani e gatti. Se l'anno prossimo gli daranno lo spray antizanzare, lui se ne uscirà con la maschera delle zanzare, e sarà un'altra geniale e oltraggiosa trovata. Per di più, a parità di sfruttamento del corpo femminile, le donne nude di Toscani sono ben più tristi di quelle Saratoga.

***Qui c'era una foto della campagna di Alma Nature, ma un giorno Google mi ha chiesto di rimuoverla perché non tollera immagini di nudo integrale nei siti che usano google ads.***

Il punto è che mentre Toscani usa il corpo perché non ha mai saputo usare altro, col solito alibi di scandalizzare ecc. ecc., la Saratoga ha in mente un target preciso: gli artigiani. E con gli artigiani le tette funzionano. Potrà dispiacere alle donne, e magari anche a qualche artigiano, però evidentemente le cose stanno così. Però se qualche donna (o qualche artigiano) avesse scritto una letterina per protestare contro uno spot Saratoga a base di tette e culo, io non avrei trovato nulla da eccepire. È giusto pretendere più rispetto, è sensato alzare la soglia dell'intolleranza nei confronti dello sfruttamento del corpo. Il punto è protestare proprio quella volta che la Saratoga aveva provato a fare uno spot senza capezzoli: la prima volta che invece di sbattere un paio di chiappe in faccia ai muratori stava cercando di far funzionare un dispositivo erotico. Che può sembrare ridicolo, ma è sempre meglio di un culo in un box doccia. E invece no, non va bene. Ma a quel punto cosa può andar bene? Sarebbe interessante leggere quelle letterine, capire le motivazioni. È offensivo mostrare una domestica un po' lasciva, o una moglie compiacente? A me sembrano fantasmi maschili, esibiti come tali (la scena è assolutamente irrealistica, girata in un mondo a parte sospeso sul mare). Lo so che c'è del sessismo nel messaggio “è una vernice così facile che può usarla anche una donna senza sporcarsi”, però mi sembra un sessismo innocuo: credo che anche il giorno in cui le donne avranno raggiunto l'assoluta parità continueremo a raccontarci barzellette su donne che non sanno parcheggiare e uomini che non riescono ad accendere la lavatrice. Peraltro l'uomo dello spot (una faccia da culo perfetta, complimenti al casting) ha un ruolo piuttosto passivo: sono le due donne ad avere in mano, oltre al pennello, il controllo della situazione. Il fatto che stiano rimettendo a nuovo una voliera, ovvero una gabbia per uccelli, lo trovo sottilmente inquietante, una metafora da stampa erotica cinese.

C'è poi da tener conto dell'autoironia. Ciao, siamo la Saratoga, quelli che insistono a portare il sesso in ferramenta, ben oltre la soglia del ridicolo. L'autoironia investe anche i clienti, le loro libido cresciute a vhs porno. Ed è oggettivamente divertente: il tormentone Brava Giovanna strappa sempre una risata. Uno spot che invece di mostrarti il culo o 'scandalizzarti', prova ad eccitarti e poi ti fa ridere di te stesso e dei tuoi sogni erotici non è poi così male. L'ironia è una prova di consapevolezza, e quel che definitivamente mi piace dello spot Fernovus è il proprio il suo essere un congegno non raffinato, ma funzionale. Si capisce che dietro c'è un cervello, laddove dietro a molti spot ormai si riesce a immaginare soltanto una stanza piena di scimmie vestite da ex studenti di scienze della comunicazione, che battono i piedi a caso sui loro Mac. Un giorno scriveranno lo spot perfetto: nel frattempo se ne escono con ciofeche inguardabili come la campagna dell'anno scorso di Nastro Azzurro. Dove non c'è un grammo di ironia, né di consapevolezza, né di nulla: si riesce soltanto a immaginare questa scimmie che zompano disperate nella stanza mentre un altoparlante grida parole incomprensibili: “Made in Italy!”, “Design!”, “Azzurro, nel senso di Blu!”, “Opera lirica, nel senso di donne che fanno versi incomprensibili!”, Modelle!”, “Eleganza!” Il risultato finale è la cosa più volgare che mi è mai capitato di vedere su una tv in chiaro. Persino alle tre di notte su Telesanterno potevi trovare delle tipe allusive che mangiavano molto lentamente una banana, ma un facial no, un facial non l'avevo mai visto, e ai creativi della Nastro Azzurro è scappato così, per caso, senza nessun intento parodico o scandalizzatorio: il volto di una modella come carta assorbente, perché no. Sarei curioso di sapere se qualcuno ha protestato all'Istituto di Autocontrollo – direi di no, visto che lo spot è ancora in giro. Mi sembra logico: per capire quanto sia volgare e offensivo questo spot bisogna avere un minimo di cultura pornografica. Ovvero: noi uomini sappiamo offendervi in maniere che voi donne non riuscite nemmeno a immaginare. Quando ve ne renderete conto, forse l'idea di rimettere a nuovo la vecchia gabbia non vi sembrerà così sbagliata.

Quanti Brava Giovanna riesci a guardare senza impazzire? (io sono arrivato a 1:42)
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Il Percome Delle Cose

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Per favore, non abradere tua figlia
(Questo mi è venuto un po' cinico, vi avverto).

L'edificio della mia vita assurda è fatto di tanti piccoli mattoni bizzarri, come questo: una pubblicità contro le mutilazioni genitali femminili a pranzo e a cena, da una settimana, con una voce che dice in un accento strano: “Noi padri e madri siamo responsabili, nessuno escluso”. Pagata del Ministero Pari Opportunità, cioè da me. Insomma, io sto pagando per farmi dire a pranzo e a cena che se qualcuno infibula la responsabilità è anche un po' mia di possibile padre o madre. O di mio padre, o di mia madre. Mamma, papà! E vergognatevi un po', no?

E di tutto ciò, io non rinuncio a chiedermi il perché, e soprattutto il per-come. Quest'ultimo in particolare è la mia maledizione. Mi disse l'indovina: Tu Passerai La Tua Vita A Chiederti Il Per-Come Delle Cose. (Sempre meglio di parlare con tutte le iniziali maiuscole, le risposi).

Primo Scenario:
Dopo mesi e anni di appostamenti e ricerche, il Ministero delle Pari Opportunità ha finalmente tracciato l'identikit dei genitori-tipo che praticano le mutilazioni genitali femminili in Italia. Hanno dai 20 agli 80 anni e guardano i canali nazionali, soprattutto i tg di pranzo e cena. A questo punto la geniale Ministro ha un'idea: invece di spendere soldi a pioggia in iniziative di sensibilizzazione, facciamo qualcosa di mirato: parliamo direttamente a loro, negli spazi pubblicitari in cui è più facile sorprenderli! Per dire l'altro giorno mi ero quasi risolto a infibulare la mia bambina, stavo giusto sterilizzando l'ago sul fornello del gas, quando è passata questa pubblicità che mi ha toccato il cuore e... “ho scelto: non condannerò mia figlia”. Certo che al Ministero ne sanno una più del diavolo, eh. Come hanno fatto a capire che quel Messaggio serviva proprio a me?

Secondo Scenario:
Dopo mesi e anni di indagini e ricerche, il Ministero delle Pari Opportunità ha tracciato l'identikit dei genitori-tipo che praticano le mutilazioni genitali femminili in Italia. Si tratta di famiglie giovani di origine africana, che difficilmente guardano i canali Rai in chiaro, e andrebbero dissuase attraverso un'azione capillare di assistenza sociale e medica che... costa uno sfruculione di soldi, non li abbiamo! Ci servono per gli sgravi alla Fiat e gli aiuti al digitale terrestre! Ma per un po' di spazi pubblicitari in Rai, per quelli sì, tanto è una partita di giro, e nessuno potrà dire che non facciamo niente per il problema. Per cui mi raccomando, commensali italiani, memorizzate: il Ministero e la Presidenza del Consiglio stanno facendo qualcosa di molto concreto contro: Escissione, Asportazione, Abrasione, In-fi-bu-la-zio-ne... ve ne siete persi uno? Non vi preoccupate, a ora di cena replichiamo. E se vostro figlio vi chiede di che si tratta? Ma voi glielo spiegate, tanto i rigatoni ormai li avete sputati comunque dal disgusto.

Terzo Scenario:
A un certo punto qualcuno avrà anche pensato che è senz'altro un peccato che tutti 'sti immigrati neri escidano, asportino, abradano, infubulino... ma soprattutto è un peccato che lo facciano senza che i loro vicini bianchi ne sappiano niente. Che c'è poi il rischio, tra un po', di trovarsi al prossimo linciaggio di un negro senza nemmeno sapere perché abbiamo voglia di ammazzarlo. Forse valeva la pena di investire in uno spot che facesse capire: Ehi, bianchi, ma lo sapete cosa fanno i neri alle loro bambine? Ehi, la vedete la bimbetta tanto carina che gioca col cerchio sottocasa? Beh, lo direste mai? I loro genitori sono dei mostri! Non sentite che è la loro voce che parla nello spot? “Noi padri e madri siamo responsabili, nessuno escluso”. Capito? Sono tutti uguali!
E quindi? C'è qualcosa che potete fare? No, no, niente, ci pensa il Ministero, voi dovete solo avere un po' più paura di loro, tutto qui. Fine dello spot. Digerite pure con ansia.
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- 2025

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All'inferno, e pedalare

Caro Leonardo, è da non crederci.
Il pezzo sui numeri ritardatari del Lotto, 'ribattuto' da me è finito in prima serata, a quanto pare funzionava. Un bel colpo, se l'avessi firmato io: ma tecnicam si trattava di un pezzo di Loreto.
"Almeno te l'avran pagato bene. Mi devi il sessanta per cento, se non sbaglio".
"Mi dispiace, mi hanno fregato".
"Chi? Quelli del Tg?"
"No. Sì. In un certo senso. Cioè, alla fine sei stato tu".
"Io?"
"Il tuo pezzo era così convincente. Così, tornando a casa… Sai quel tabacchino che c'è qui sotto, no?"
"Loreto, mi stai prendendo in giro. Non puoi averlo fatto davvero. O puoi?"
"Pensavo che con un po' di fortuna… e poi più si va avanti più le probabilità aumentano, no? È la legge dei grandi numeri, così…".
"Ti sei giocato il compenso".
"Io che di solito non gioco mai. È la prova che sono stato traviato. E sei stato tu, tu! con che faccia mi chiedi dei soldi, adesso?"
"E hai giocato il 52".
"Ma cos'ha quel numero? Perché non esce mai? Sul serio: Perché?"

Intanto c'è la guerra. Come in ogni decorso bellico, dopo i primi dieci giorni si comincia coi funerali di Stato in pompa magna. Stavolta è toccato a un volontario del Genio Infermieri, un ventiseienne di San Gennaro finito su una mina con l'ambulatorio cingolato. Lascia una bimba di sei mesi, una moglie casalinga e un bis-marito disoccupato: per intercessione pontificia quest'ultimo è stato assunto in una ditta del quartiere. Un ex manifattura pirotecnica riconvertita nel settore bellico, uno di quei sottoscala che sono la gloria produttiva del Nostro Bel Paese, dove realizziamo prodotti che fanno il giro del mondo: tipo le mine anticarro fatte a mano.

È da queste piccole cose che si capisce che Sua Santità è in forma – e dallo stato di agitazione del mio capo, Antonio-Abate. Fino a due settimane fa era il primo a raccontare barzellette sull'Uomo in Coma Vigile, ogni aneddoto di vent'anni fa era buono per far ridere gli utenti. La sera del Messaggio Unificato dev'essersi inghiottito un manico di scopa: ora non fa che girare per l'ufficio con passo militare e occhio clinico. Si aspetta di essere epurato alla minima grana.
"E questo cos'è?"
"Eh? Questo? È uno spot che ho trovato da qualche parte, stavo pensando di proporlo in trasmissione".
"È di vent'anni fa?"
"Precisam".
"Non ci capisco niente. Perché il signore gira su quella bicicletta finta?".
"Si chiama cyclette, signore, era un attrezzo ginnico. Quand'era ragazzino ne avrà ben visto uno…"
"Lo sa che io avuto un'adolescenza difficile…"
"Già, mi scusi"
"…e non è che mi ricordi molto del mondo di prima. Del resto, se ricorderemmo, non avremmo bisogno della sua prodigiosa memoria, Immacolato. Ma insomma, perché costringere un vecchietto a fare ginnastica? eravate così ossessionati con la forma fisica?"
"Non è ginnastica, direttore: sta cercando di produrre energia per l'uso domestico, vede? La cyclette è collegata a una dinamo".
"Aaaah, ingegnoso. Ma era conveniente? Voglio dire, per spingere quei pedali servono tot calorie. Quello che risparmi in luce lo paghi in spese alimentari. Non rischia di finire la tessera mensile prima del…"
"Si tratta di un'esagerazione, direttore. Nessuno ha mai collegato una cyclette a una dinamo per cercare di risparmiare energia, naturalm".
"…naturalm".
"È uno di quegli spot di vent'anni fa che cominciavano a gettare ombre sul benessere acquisito. A quel tempo la maggior parte delle pubblicità ci trasportava ancora in un mondo di macchine di grossa cilindrata, ristoranti di lusso, eccetera. Verso la metà degli anni Zero si impone questo tipo di pubblicità proletarizzante, in cui il consumatore si specchia in un sé stesso un po' più povero: una tendenza incoraggiata anche da molti sondaggi d'opinione del tempo. Ricordo che al tempo trovavo l'idea di impoverire nel futuro molto elettrizzante. Non mi chieda il perché".
"Non te lo chiedo".
"Avevamo un'idea molto romantica della povertà a quel tempo. Consumavamo molto, ma non rinunciavamo alle nostre oasi private di povertà. Prendevamo d'assalto gli outlet, i negozi in saldi. Violavamo la legge, duplicavamo i Cd, ci divertivamo. La povertà era un mondo immaginario in cui riuscivamo a far fruttare il nostro famoso genio nazionale. Come questo vecchietto che pedala per ascoltarsi la partita: lui non è un semplice consumatore, lui è un uomo che si conquista il suo diritto ad ascoltare i gol. È allo stesso tempo buffo, ingegnoso, eroico e ribelle. Noi volevamo essere così".
"Direi che ci siete riusciti, complimenti…"

Touché. In quel momento è passato Pioquinto:

"Io non so fino a che punto possa funzionare in trasmissione. È un frammento di passato che fa subito venire in mente il presente".
"Appunto. Così gli utenti smetteranno di considerare i razionamenti energetici una novità, e si ricorderanno che sono iniziati giusto vent'anni fa!"
"Così presto?"
"Se vogliamo tirarla per i capelli…"
"Tiriamola, tiriamo pure i capelli".
"Vent'anni fa l'Enel aprofittò dell'installazione del contatore elettronico per ridurre la portata energetica delle famiglie. Iniziò in modo soft, abbassando le soglie di tolleranza per i sovraccarichi. Improvvisamente i contatori delle case si misero a saltare, i vhs a perdere le impostazioni (molti di loro non furono reimpostati mai più). Quando il malcontento cominciò a prendere forma, l'Enel fece la sua offerta: duecento euro a chi voleva farsi alzare la soglia da 3 a 4,5 kilowatt".
"A condominio?"
"No, signor direttore, a famiglia".
"A famiglia? E cosa ve ne facevate, di tutti quei kilowatt?"
"Mah, in un modo o nell'altro, riuscivamo sempre a non farcela bastare. In fondo bastava accendere lavatrice e lavastoviglie insieme e..."
"Lavatrice e lavastoviglie? Contemporaneam nello stesso condominio?"
"No, nella stessa casa".
"Sarà stato un caso limite, qualche edonista sfrenato che..."
"No, capitava a tutti. Sarà successo anche a me, probabilm, senza pensarci. L'energia è una droga, lo sa".
"Tre kilowatt a famiglia! Però vi sentivate tanto poveri dentro, eh?"
"Erano altri tempi, direttore".
E Pioquinto: "Roba dell'altro mondo. Tre kilowatt al giorno. Poi uno si chiede perché ci fu la catastrofe. Dio dovrebbe mandarvi tutti a pedalare all'inferno, altroché!"

È buffo, lo so, ma da allora l'immagine di tutti noi cinquantenni, nudi e calvi in un girone di malebolge, incatenati a scomodissime cyclette, costretti a pedalare per mantenere costanti le fiamme dell'inferno… mi è rimasta dentro.
Cristallizzata. Come se l'avessi già vista o sentita da qualche parte. O me la fossi sognata.
Ma è da tanto tempo che non ho più sogni da ricordare.
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