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Il palazzo dei corvi

Nel cuore della mia città c’è un grande Palazzo, dove noi civili non possiamo entrare: e questo, vi giuro, non è Kafka.
È la realtà.

La colpa, se vogliamo, è di un duca, che aveva perso il suo vero ducato in battaglia.
A quel tempo Modena era un tipico comune padano, portici stretti e fogne a cielo aperto, molto legato al suo locale medioevo. Arrivò dunque questo duca, con un po’ di corte al seguito e una collezioni di quadri da far girar la testa, e decise in mancanza di meglio di farne la nuova capitale. Fuori Modena era già il Seicento, e andavano di moda i palazzi grandi come città: anche i nostri duchi ne ordinarono uno, ma pareva che non avessero molta fretta, e nemmeno molti soldi. A ogni architetto di passaggio (Bernini incluso) facevano ridisegnare il progetto. Poi il marmo finì, più o meno a metà dei lavori, e si continuò col mattone: una cosa un po’ ridicola, ma il risultato non è male.
Il risultato è un palazzo smisurato, assolutamente fuori scala rispetto alla città, che sbarra il Centro Storico su tutto il lato nord, senza essere né fuori né dentro. La facciata dà su una piazza che sarebbe bella, se la gente venisse a passeggio o si desse appuntamento. Ma i modenesi non hanno mai pensato a quello spazio come a una piazza: per loro è solo il parcheggio più vicino al Centro. E il palazzo è solo una enorme transenna da aggirare. Non lo notano neanche, e sì che è grande. Ma siccome nessuno può entrare, è come se non ci fosse.
Il palazzo, infatti, non appartiene al comune. È una piccola città nella città, come a Roma il Vaticano. Ed è la città dei Corvi.

I Corvi vengono da tutt’Italia, ma soprattutto “da giù”. Arrivano a diciotto anni e hanno già le idee chiare, anche se ancora non sanno cosa sia la nebbia. Vengono a studiare e ad addestrarsi per la patria. Faranno esami e marce, marce ed esami, finché non diventeranno ufficiali del nostro esercito: quell’esercito che in caso di guerra è spesso d’intralcio alle operazioni. Non tutti però arrivano alla fine: alcuni si fermano prima. Dev’essere una scuola molto dura, ma in realtà non ne sappiamo niente.
Non ci sono simpatici, è vero, ma non è del tutto colpa nostra. Il fatto è che noi dobbiamo ancora digerire il vecchio duca, con le sue smanie di grandezza. Poi arrivano questi, e si prendono il posto più bello della città, con degli interni che stanno sui manuali di Storia dell’Arte. Se pensate a quanto può costare un posto letto in Centro…
Il fatto è che viviamo davvero in due città diverse, noi e loro. Dalle nostre finestre noi guardiamo il Palazzo, e pensiamo all’ampio parcheggio. Ma dalle loro finestre, loro, cosa vedono? Senz’altro non guardano noi, che siamo lì solo per caso, uno sfondo piuttosto incongruo ai loro studi e alle loro battaglie. Guardano al loro futuro, che è appena un po’ meno grigio della nebbia; alla loro carriera nell’esercito, a quando finalmente potranno levarsi quel ridicolo mantello dalle spalle e combattere come uomini: fare quello a cui si stanno preparando da anni, da una vita.
Ma sanno che probabilmente non combatteranno mai, perché non ci sono più città da difendere: e Modena men che meno. C’è solo un deserto, grigio, e i Tartari non arrivano.

E poi c’è la questione del mantello.
Il mantello è l’uniforme da passeggio dei corvi. È un ampio tabarro nero, che forse tiene caldo, ma che in combattimento risulterebbe un bell’impiccio. Fa molto Ottocento. Sotto il tabarro, appeso a un fianco, il corvo tiene l’altro segno di distinzione: un sottile tagliacarte d’ottone, il cosiddetto “spadino”. Un arma di difesa un po’ improbabile, per non dire ridicola. (Al maiale il codino / al corvo lo spadino, si leggeva su un muro alla Pomposa).
Per un lungo inverno, che va da ottobre a maggio, questo ragazzo di vent’anni è costretto ad andare in giro per le nostre strade conciato così, come la comparsa di un film di Zeffirelli. Nel fine settimana è seguito dai famigliari o dalla fidanzata, venuti a trovarlo “da giù”; e da un facchino, perché un ferreo regolamento gli impedisce di portare bagagli quando indossa l’uniforme.
È chiaro che chi ha voluto un costume così mirava a una sola cosa: che il corvo si sentisse odiato dalla città, e che la ricambiasse. Cosa c’è di più penoso, per un ragazzo di vent’anni, di girare per una piaccola città straniera e sentire una sfumatura di presa in giro in ogni sguardo? Il mantello e lo spadino lo proteggono da ogni contatto amichevole con gli indigeni. Senza di loro non gli è consentito di uscire. Il mantello è un pezzo del palazzo che il corvo si porta ovunque con sé. E questo non è Kafka, badate: è la loro vita, per cinque e più anni.

Poi, ogni tanto, qualcuno di loro se ne va. Si uccide, lasciandosi cadere da quelle finestre così grandi.
Allora i suoi compagni, e i superiori, si affrettano a ricordare che era un bravo ragazzo, appassionato studente e molto ligio al dovere, ma, come dire, un po’ debole. Immaturo, disse una volta un generale importante – poi gli hanno spiegato che quella parola non la deve dire più, che non sta bene davanti ai genitori, ma comunque ci siamo capiti. E che non si tratta di nonnismo, per carità, non esiste il nonnismo all’Accademia Militare di Modena. Esistono solo ragazzi motivati e preparati al loro futuro, ma non tutti reggono allo stress. Punto.

E noi, a sentire queste cose, scuotiamo la testa e alziamo le spalle. Stress da esami, figuriamoci. Tre suicidi in sei anni…
E poi voltiamo pagina. Che cambiare le cose non tocca certo a noi.

Al centro dell’ampio parcheggio sta la statua di un patriota, che guarda il Palazzo con aria di sfida.
Era un vicino di casa del duca, che col suo tacito consenso stava organizzando una mezza rivoluzione. Finché quest’ultimo non aveva preso paura – in fin dei conti era solo un piccolo duca, schiacciato tra Regni ed Imperi – e lo aveva condannato a morte, un atto inaudito in uno Stato da operetta come il nostro. La statua guarda proprio alla stanza in cui il Duca firmò la sentenza.
Forse non è una gran statua, ma per me è un bel simbolo del nostro atteggiamento nei confronti del Palazzo: Ciro Menotti lo guarda a testa alta, per nulla impressionato. Sembra che stia dicendo: “E alòra?” Tutta questa facciata di finto marmo, cos’è? A parte ostruire il traffico, a cosa serve? Non ci si poteva fare un giardino, o ancora meglio, ampliare il parcheggio?

È così strano che la scuola dei militari l’abbiano voluta mettere da noi. Noi abbiamo così poca fiducia nell’esercito, e in chiunque voglia metterci i piedi in testa.
Però, in fondo, questo nostro fregarcene è comodo a tutti. Noi ci facciamo i fatti nostri e non diamo nessun fastidio. Non è la nostra città, quella. Che se la sbrighino loro.
Eppure quei ragazzi, nel fine settimana, camminano tra noi, nelle nostre strade, nella nostra nebbia. Per quanto il mantello li possa nascondere al prossimo, si vede bene che sono ragazzi. Che meriterebbero una giovinezza migliore.
Ma noi abbiamo sempre troppe cose da fare: li guardiamo passare, abbozziamo un sorriso e tiriamo per la nostra strada.
Che cambiare il mondo non tocca a noi.
Ma a chi tocca, allora?
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