Di un pezzo sbagliato che ho scritto un anno fa

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È buffo come invecchino i pezzi che uno scrive. Alcuni funzionano ancora dopo vent'anni, altri dopo pochi mesi sembra che li abbia scritti un altro. Presto o tardi tutti scadono, ma quello che ho pubblicato appena un anno fa ci ha messo davvero pochi giorni. È commovente pensare quanto io sia cambiato, in un periodo di tempo che alla mia età si percepisce come brevissimo: oggi non scriverei mai un pezzo del genere, e se lo leggessi in giro magari mi incazzerei con chi lo scrive. Non mi sembra giusto cancellarlo, ma preferirei corredarlo di una specie di spiegazione, come quelle che le piattaforme di streaming allestiscono per i film del passato che rischiano di scandalizzare gli spettatori che non sono abituati (né obbligati) a contestualizzare. 


Dunque, caro pubblico immaginario: è vero, un anno fa consideravo il lockdown una misura inadeguata, che avrebbe causato più danno (economico) che utile (epidemiologico): più che una misura di prevenzione, lo ritenevo il risultato di una particolare circostanza politica, una specie di rivincita di un'autonominatasi élite meritocratica contro il populismo che aveva propulso il M5S al potere. Siffatto fenomeno lo definivo "burionismo" e rileggendomi sembra che mi preoccupasse più del virus. Almeno questa è la sensazione che davo. Una cosa che non traspare affatto dal pezzo è che avevo in realtà fatto già in tempo a spaventarmi: due giorni prima (lunedì 24) mi era già capitato di contattare il mio medico di base e di confessare alcuni sintomi vaghissimamente influenzali – quello che mi preoccupava davvero era che avevo appena scoperto che il genitore di un mio alunno era stato ricoverato. Pochi giorni prima era entrato lui stesso nella mia scuola, per ritirare la pagella; l'indomani, per motivi di lavoro, era transitato nella zona tra Pavia e Lodi in cui era stato localizzato il primo focolaio lombardo. Se la consegna della pagella fosse stata programmata nella settimana successiva, anche la mia scuola sarebbe probabilmente diventata un focolaio. A Carpi fu il paziente zero, ma non il primo a morire, qualche settimana dopo; la tempestività con cui comunicò alle autorità sanitarie i suoi sintomi evitò probabilmente un disastro peggiore. 

Insomma il covid, che in quei giorni era vissuto ancora in gran parte d'Italia come uno spettro lontano (e tale sarebbe rimasto, in molte province fino all'autunno), per me era già una realtà quotidiana: da quel lunedì avevo smesso di andare a scuola, ma non avrei mai immaginato che la scuola non avrebbe più riaperto fino a settembre; che gran parte dei miei ragazzi di terza li avevo già visti dal vivo per l'ultima volta. Il lockdown che immaginavo mentre scrivevo quel pezzo era una banale sospensione didattica di una o due settimane, e dall'alto delle mie improvvisate competenze epidemiologiche lo consideravo un banale palliativo, una specie di scotto da pagare a Burioni e compagnia. Non avrei neanche avuto tutti i torti, se davvero tutto dopo dieci giorni fosse stato riaperto (e di questo ero sicuro). L'eventualità di un lockdown esteso a tutte le regioni d'Italia, e protratto fino all'estate, era per me plausibile tanto quanto quella di una guerra civile: sul serio, per credere che negozianti e ristoratori avrebbero accettato misure così draconiane senza alzare barricate ho dovuto verificarlo coi miei occhi: e tuttora mi chiedo come sia stato possibile. Se potessi prendere una macchina del tempo e avvisare il mio io di un anno fa, sarei il primo a non credermi. Dopo un decennio buono passato a preoccuparsi dei NoVax e di qualsiasi banda di disperati che riuscisse a conquistare una piazza (i forconi!) chi se lo sarebbe aspettato tutto questo? Io non me lo aspettavo. Eravamo veramente all'inizio: si cercava ancora il paziente zero, si parlava di cinesi e pipistrelli. 

Già ai primi di marzo tutto era cambiato. Ripensando a quel che mi è successo dopo, mi sembra di avere scalato una montagna. In febbraio la vedevo da lontano, e pensavo di aver capito che forma avesse. Appena mi sono avvicinato, non ho più visto nient'altro se non il pezzo di sentiero che avevo davanti: non ho avevo abbastanza energia per preoccuparmi d'altro. C'era da inventare una didattica a distanza, riallacciare i contatti coi colleghi e gli studenti, organizzare gli esami, eccetera. Nel frattempo Burioni spariva all'orizzonte, eclissato da altri specialisti più disponibili a confrontarsi sui media. Oggi, quando lo incrocio su un social, mi sembra sempre un po' più ottimista di me. I numeri (soprattutto quelli della vicina Lombardia) ci suggeriscono che siamo ai prodromi della terza ondata, di tutte la più stupida perché sarebbe bastata un po' di prudenza per contenerla; ma bisognava per forza festeggiare il Natale in compagnia e riaprire le scuole superiori, dato che sono "sicure". 

Oggi mi sembra di vedere tutto chiaramente, ma ecco, la montagna non la vedo più: è tutto intorno a me, in gran parte sotto di me, e non posso escludere che il mio io di un anno fa tutto sommato una certa dimensione del problema, da lontano, l'avesse azzeccata: quanta economia possiamo permetterci di sacrificare per la nostra salute? Non che io pretenda di conoscere la risposta, ma appunto: chi avrebbe oggi la super-competenza necessaria per risolvere un dilemma del genere? Non si poteva pretendere che fosse Conte, un tizio che era stato messo al suo posto proprio da un partito di programmatici incompetenti. 

Oggi è un problema che non mi pongo più – non perché non mi riguardi, ma perché ci sono troppo dentro, appunto: riguarda la salute mia e dei miei cari, alcuni dei quali non ho più abbracciato da allora, alcuni dei quali non abbraccerò più. Sono troppo interessato alla questione per poter formulare un parere equanime, e soprattutto non riesco a non supporre un interesse simile in chi formula un parere diverso dal mio. Su un piano razionale posso capire che abbia senso tenere aperte le scuole – la gente non può restare a casa coi figli – e allo stesso tempo non posso non constatare quanti disastri stia facendo quel falso senso di sicurezza che abbiamo inoculato nelle famiglie, aprendo tutte le mattine degli edifici scolastici dove l'unica barriera tra i bambini e il virus è la mascherina che si portano da casa (quelle della Fiat sono troppo scomode). Un anno fa diffidavo dei Burioni, temevo che capissero più dei virus che delle persone; oggi ho paura dei Bonaccini e dei Salvini che per una manciata di voti in più sono ben disposti a riaprire impianti sciistici o ristoranti quanto prima. Il virus prima o poi lo prenderò, oppure riuscirò a vaccinarmi (la segretaria del mio medico ha detto di citofonare giovedì). Prima o poi insomma il covid passerà, ma i Salvini e i Bonaccini resteranno lì, con la stessa indifferenza per la mia salute. Non so a che punto sono della montagna: la vetta da qui non la vedo, in compenso il paesaggio a valle mi risulta più chiaro. Confesso una certa pietà per quel ragazzo che un anno fa si trovava alle pendici. Tra un anno chissà cosa penserò, e in generale cosa sarà di noi. 

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E a Bruxelles lo aspettano ancora

Il pezzo di ieri conteneva una notevole imprecisione. Umberto Bossi, detto il Senatùr perché fu per un intera legislatura l'unico leghista approdato in parlamento, non è più Senatore da un pezzo, i soldi da Roma tecnicamente non li piglia più.

Li piglia da Bruxelles, in quanto europarlamentare. Da laggiù arrivano buste mensili di 12.750 euro anche per il fratello Fausto e il figlio Riccardo, assunti come assistenti accreditati - se quanto riportava il Corriere a fine 2004 è ancora valido. Sennò rettificherò pure questo.

Umberto poi sarebbe stato eletto alla Camera l'anno scorso, ma ha rifiutato il posto per restare nell'europarlamento, dove a dire il vero non sembra che si stia spezzando la schiena per il duro lavoro: nel sito ufficiale il suo nome è associato soltanto a un'interrogazione parlamentare sullo stoccaggio di gas sotterraneo presso Rivara (MO). Ora che ci penso non credo di avere mai visto una sua foto a Bruxelles, a Strasburgo, o anche solo più a nord di Como-Chiasso, ma forse è anche esagerato pretendere tutti questi viaggi da una persona malata. E lasciategli pigliare il suo stipendio in pace, no?

Non solo, ma il seggio a Montecitorio e il congruo compenso che gli sarebbero toccati sono invece stati generosamente destinati a qualche altro leghista sconosciuto ai più, che la volontà popolare non aveva designato neanche di sguincio, o sbaglio?

Scusate la scarsa precisione, è che non sono tanto bravo a fare il populista. Ci vuole più impegno e dedizione di quanto sembri, e uno stomaco d'acciaio e teflon. A me ogni tanto viene ancora la nausea, mi sa che tra un po' cambio argomenti.
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Scrivo alla "Gazzetta di Modena": Gentile direttore,

La ringrazio per aver pubblicato la mia mail sul caso Forza Nuova. Tuttavia, leggendo l'edizione on line del giornale, sono rimasto un poco perplesso. Sembra quasi che io scriva per la Gazzetta! giudichi lei:

«Vi infilzeranno coi kebab»
Forza Nuova, una lettera ironica e una favorevole

Il caso Forza Nuova continua a suscitare reazioni forti in città. Ecco di seguito due lettere: una favorevole al nuovo gruppo di estrema destra e una contraria.

Gentile redazione.
..

... e poi parte una mail... che non è la mia, ma di un tale Santoro che simpatizza con Forza Nuova. Per capirlo, però, bisogna leggere il suo comunicato fino in fondo (e ci vuole pazienza), dove sta la sua firma. Dopodiché, senza soluzione di continuità, comincia la mia lettera non firmata.

Il risultato è che io e questo Santoro sembriamo esserci scambiati le parti: io, che volevo criticare Forza Nuova, mi ritrovo a difenderla, e questo Santoro, che ha un debole per Fiore, si trova a minacciarlo col girarrosto del kebab. Penso che la cosa ripugni a entrambi.

Spero che nella versione a stampa l'equivoco si sia risolto, ma non si potrebbe comunque pubblicare una rettifica? Non ci tengo proprio a farmi passare per simpatizzante di Forza Nuova - questo penso sia già chiaro.

Distinti saluti
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