Il G8 di Genova: descrizione di sette battaglie

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Ho un problema con chi ricorda Genova. Razionalmente, mi dico, non c'è niente di strano a voler commemorare un episodio che fu traumatico anche per molti che non c'erano. E quindi incoccio in decine di resoconti, un genere letterario già sintetizzato nella formula treno-corteo-mazzate-treno, e non ho il diritto di sentirmi infastidito, ma succede. Leggo tante cose e hanno tutte senso, ma forse le ho lette troppe volte. Alcune ormai hanno fatto il nido nell'inventario dei luoghi comuni: sembra ovvio affermare che a Genova sia finito qualcosa: avrebbe anche un bel senso narrativo immaginare una generazione che lotta per un mondo migliore, si prende un bel po' di mazzate, se ne torna a casa a drogarsi o a imborghesirsi e il mondo peggiora. Insomma un canovaccio già scritto negli anni Settanta/Ottanta che già nel 2001 qualcuno pretendeva di farci recitare, c'era del nervosismo perché non sapevamo bene le battute. Invece non è andata così, a Genova non è proprio finito niente (persino gli errori più marchiani purtroppo sono stati ripetuti di lì a pochi mesi), mentre qualcosa è iniziato. Vabbe'. 

Ho un problema con chi ricorda Genova perché ricordare significa armonizzare la propria memoria con il nostro presente, rimuovere tutte le asperità, le cose che il nostro Io del 2021 non accetterebbe più, costruirsi un passato più sensato e accomodante. Per capirlo mi basta confrontare i miei ricordi, tutti belli carini e armonizzati, con quel che ho lasciato qui scritto, per niente carino, anzi grezzo e imbarazzante, quel passato irrisolto che languisce negli scatoloni del solaio e non avete voglia di aprire e guardarlo neanche con la scusa degli anniversari. Ho un problema con chi ricorda Genova, me stesso incluso. Più ne parlo più mi allontano. Mi toccasse spiegare a chi non c'era, farei una gran confusione e farei apposta, perché il G8 fu soprattutto questo: una gran confusione. Ogni memoria parziale tradisce questo aspetto, ognuno era andato con una sua agenda e ha portato a casa la sua esperienza. C'è chi non crede nell'esistenza dei Black Bloc perché non li ha visti, c'è chi pensa che Casarini fosse il leader del movimento intero e non di una frangia che si era conquistata (anche meritoriamente) un particolare risalto mediatico. 

Il G8 non fu una manifestazione, questa è una cosa che bisognerebbe spiegare a chi ha pazienza. Le manifestazioni più o meno tutti sanno cosa sono e come funzionano: c'è un tema importante, molta gente lo condivide e scende in piazza. A volte è autorizzata, a volte no; a volte la polizia mena, a volte no. La maggior parte di chi arrivò a Genova si aspettava in effetti qualcosa del genere. Quel che successe davvero è che a Genova di manifestazioni ce n'erano tante, promosse da enti diversi, con obiettivi a volte opposti e pratiche che non si conciliavano tra loro, per cui per respirare atmosfere completamente diverse bastava a volte voltare un angolo, o addirittura restare nella stessa piazza ma con una maglietta diversa. E non sto parlando solo del tremendo venerdì delle piazze tematiche: a Genova già da giorni arrivava gente con idee diversissime, in particolare l'associazionismo cattolico era in seminario già da una settimana. Poi ci fu la contromanifestazione delle forze dell'ordine, che fu la vera traumatica novità di quel G8; e sabato ci fu la reazione popolare. Quante manifestazioni ci furono, più o meno nello stesso momento e nella stessa città? Ogni volta che le conto arrivo a un numero diverso, vediamo stasera. 

1. La prima manifestazione, quella che doveva attirare i riflettori del mondo, era quella degli "Otto Grandi": i rappresentanti dei governi di USA Canada, Francia, Germania, Giappone, Italia, Regno Unito, e Russia. Fa veramente strano rileggere l'elenco oggi e pensare che Cina e India non fossero ancora ritenute degne. Questo tipo di vertici si convocava una volta all'anno (si convocano tuttora) e al di là dell'agenda lanciavano un messaggio al mondo intero: siamo noi, le nazioni economicamente più evolute, il vero supergoverno informale del mondo. Ce ne rendiamo conto e ce ne prendiamo la responsabilità. Non c'è bisogno di sottolineare quanto questo approccio sapesse di un imperialismo fuori tempo massimo: persino il G8 a un certo punto ha sentito la necessità di cambiare. Gli impegni presi da quel G8 in materia di ambiente o di lotta alla povertà erano poca cosa e non se li ricorda nessuno. È il caso di ricordare che il vertice di Genova fu il primo evento di questo tipo a cui partecipò George W. Bush, che si era insediato pochi mesi prima alla Casa Bianca malgrado avesse raccolto meno voti del suo rivale democratico, Al Gore. Nella sua campagna elettorale del 2000, Al Gore parlava già di riscaldamento globale, un problema che del resto era già in cima alla priorità della comunità scientifica e aveva già ispirato i protocolli di Kyoto. Per gran parte della base repubblicana che votò Bush, il riscaldamento globale era una bufala.  


2. Contro la manifestazione di potenza dei grandi del mondo, già dal 1999 (Seattle) aveva preso forma un movimento di protesta internazionale. Si trattava per lo più di studenti provenienti dalle nazioni del G8 o comunque da Nordamerica ed Europa Occidentale. Avevano impostazioni ideologiche diverse ma comunque identificabili nella sinistra antagonista (anarchici, comunisti, ambientalisti) e per lo più provenivano da famiglie del ceto medio – potevano permettersi di viaggiare per il mondo. Dopo Seattle, le polizie europee li guardavano con sospetto, convinte probabilmente di assistere all'incubazione di una nuova internazionale terroristica. Sospetti ridicoli, col senno del poi: però gli studenti erano i più facili da fermare alla frontiera. Tra di loro era prevedibile che ci fosse qualche futuro membro della classe dirigente, ad esempio Pablo Iglesias (Alex Tsipras fu bloccato al porto di Ancona). E c'erano anche (non maggioritari) i casseur, che a quel tempo per lo più si ritenevano di matrice anarcoide: i famosi black bloc. Che alcuni fossero infiltrati, della polizia o dell'estrema destra, o semplici turisti del vandalismo, è un sospetto che cominciò a serpeggiare soltanto a Genova. Ovvero: la mattina del 20 era già molto più che un sospetto, ma 24 ore prima nessuno se lo immaginava, nessuno con cui io avessi parlato o di cui avessi letto qualcosa.  


3. Se i vertici del G8 (punto 1) avevano scatenato le manifestazioni internazionali anti-vertice (punto 2), queste manifestazioni a loro volta avevano 'forato il video', calamitando l'attenzione di un pubblico italiano molto più variegato, sia socialmente che ideologicamente. Per dire, a Genova arrivarono gli scout cattolici; le Onlus del Terzo Settore che in quel periodo si avvalevano ancora del servizio civile degli obiettori di coscienza ed erano quindi molto più dinamiche che in seguito; i movimenti di cooperazione; le associazioni ambientaliste; qualche sindacato (mica tanti); c'era Bertinotti che cercava una nuova anima movimentista per il suo partito e bisogna dargli atto che restò lì anche nel momento in cui tutta la stampa aveva deciso che a Genova c'erano gli Unni; tutta questa gente aveva scoperto in tv e sui giornali che si protestava contro il G8 e aveva pensato: giustissimo, andiamo anche noi. Portiamo le nostre idee, prendiamoci qualche piazza tematica, montiamo un banchetto. Se non sbaglio c'era pure Slow Food coi chioschi dei panini, perché alla fine era diventata anche una questione di visibilità, insomma fino a giovedì piazzale Kennedy sembrava una fiera, con gli anarchici internazionali in giro un po' perplessi che si sentisse più odore di salsiccia che di fumogeno. Quando si dice che Genova fu traumatica, bisogna capire che per molti la vigilia fu questo: non erano tutti con Casarini e Caruso a progettare l'assalto alla zona rossa, un sacco di gente pensava che alla fine sarebbe stato un corto normale, con qualche carica e qualche vandalo, ma niente di più. E non si trattava soltanto di persone ingenue: c'era anche l'idea di non lasciare le proteste in mano agli esaltati, di mostrare il fianco più moderato, nella speranza che facesse da schermo. E invece la polizia ci andò giù pari, con tutto l'associazionismo che si era appena federato e si era dato il nome più rassicurante possibile, Rete di Lilliput. Ebbene sì, a Genova i poliziotti menarono anche i lillipuziani. Fu un battesimo del sangue, perché Lilliput non smise affatto di esistere e mettere in rete persone di estrazioni e ideologie diversissime – io sono convinto che Lilliput sia stato uno degli incubatori del grillismo, ma non posso dimostrarlo e non voglio neanche litigare. 

4. Il movimento anti-verticista di cui al punto 2 non aveva ispirato soltanto l'associazionismo, ma aveva trovato un'incarnazione più fedele al modello nel mondo della sinistra antagonista e dei centri sociali. Questo mondo a sua volta era variegatissimo, ma non così settario: anzi, stava cercando di sfruttare la nuova vague di manifestazioni anti-vertice per uscire dai ghetti urbani che si era scavato durante tutti gli anni '90. I centri sociali numericamente non erano così rilevanti: non portarono a Genova fiumi di persone, ma erano gli unici che davano la sensazione di essere, per così dire, preparati al peggio: e invece quel che successe sconvolse anche loro. Alcuni loro rappresentanti avevano partecipato a Seattle e agli eventi successivi; conoscevano la differenza tra Black Bloc e Pink Bloc (sì, c'erano già anche i Pink Bloc); si erano già mobilitati per alcuni vertici che in teoria erano l'antipasto del G8: l'OCSE a Bologna e il Forum Mondiale a Napoli (dove nacque l'orribile nome "No Global"). In queste occasioni avevano chiarito le loro priorità: a nord si puntava il dito sulla contraddizione di una globalizzazione delle merci che negava la globalizzazione dei popoli: si parlava già di "Fortezza Europa" come di qualcosa da espugnare da dentro e da fuori. A sud si sentiva la maggiore presenza dei disoccupati e si puntava sul reddito minimo garantito. Ma obiettivi a parte erano i metodi di protesta il campo in cui gli antagonisti avevano dato prova di una certa creatività, nel tentativo di uscire dalla routine dei tafferugli anni '90, sviluppando pratiche che, cito a memoria, dovevano superare la falsa dialettica violenza non-violenza, ovvero trovare una sintesi tra chi voleva menare le mani e chi professava un pacifismo totale. A nord questa sintesi aveva dato vita alle Tute Bianche, un gruppo che accettava solo un tipo di violenza, ovvero quello passivo: la Tuta Bianca si costruiva in casa un'armatura di gommapiuma e plexiglass con la quale si sarebbe schiantata contro i celerini, nella speranza che lo scontro fosse ripreso abbastanza vicino da una videocamera (il colore bianco serviva a far risaltare il sangue).

  


Le Tute Bianche ci tenevano a non essere confuse coi Black Bloc, e a ragione: i Black Bloc mordevano e fuggivano massimizzando i danni e minimizzando i rischi, in pratica facevano guerriglia. Le Tute Bianche viceversa cercavano la battaglia campale, a richiederla era la loro stessa forma mentis, il modo in cui dividevano il mondo in moltitudini e fortezze e zone temporaneamente liberate. Furono loro a insistere sul concetto di Zona Rossa che andava assolutamente violata – obiettivo che già allora mi sembrava discutibile, e infatti andai in un'altra piazza, giusto per scoprire che la polizia caricava uguale. Dopodiché le manifestazioni hanno sempre un aspetto teatrale, da che esistono i media e anche prima, per cui oltre un certo limite è inutile accusare i manifestanti più esagitati di giocare alla guerra; le manifestazioni sono precisamente questo, per mostrare un conflitto lo metti in scena e speri che i media lo trovino abbastanza interessante. Se non lo trovano abbastanza interessante rischi un po' di più. Casarini rischiava un po' di più, ma non è che Gandhi si comportasse in modo sostanzialmente diverso. Soprattutto Casarini aveva il suo daffare a tenere assieme gente che se non avesse avuto l'obiettivo della Zona Rossa e lo scudo di plexiglass si sarebbe disperso e sarebbe stato tentato da pratiche assai più distruttive (malgrado i giornali lo ritenessero un pericoloso masaniello, Casarini era in sostanza il negoziatore, quello che doveva tenere aperti tutti i canali). Il punto debole non era tanto il plexiglass, quanto la disciplina: per funzionare, la pratica delle Tute avrebbe dovuto essere condivisa universalmente, e invece tutt'intorno c'erano casseur e infiltrati che vandalizzavano automobili e vetrine, o interpretavano la guerra di posizione in senso meno retorico e più letterale. Già venerdì sera le tv non mostravano le ferite riportate dalle Tute, ma la "devastazione"; qualcuno aveva giocato il loro gioco meglio di loro e fu l'ultima volta che fu concesso stupirci della cosa: da lì in poi doveva essere chiaro che a tutti che i media preferiscono le vetrine rotte alle tue ossa altrettanto rotte.

5. Può darsi che le proteste organizzate della sinistra antagonista di cui al punto 4 avessero innervosito i vertici delle forze dell'ordine. Può anche darsi che questi vertici ci tenessero a dimostrare al governo insediato di fresco (il Berlusconi II) che la musica poteva cambiare, se c'era la volontà politica: e una rapida visita del vicepresidente del consiglio, Gianfranco Fini, sembrava voler dire che questa volontà c'era. Fatto sta che la manifestazione più importante del G8, quella che davvero è passata alla storia, fu quella repressiva di polizia e carabinieri (ma anche finanzieri e forestali, sul serio, li ho visti anch'io). Anche questa manifestazione cominciò con una fiera: qualcuno spero si ricorda il tizio vestito da truppa d'assalto che si faceva fotografare da un terrazzo su un piazzale nello splendore del suo abbigliamento antisommossa; e mentre in piazzale Kennedy suonava Manu Chao, dall'altra parte del muro di container i rappresentanti dell'ordine ballavano la tecno. Le mazzate che cominciarono a tirare il giorno dopo non erano in nessun modo proporzionali alle offese eventualmente ricevute; per quanto i giornali continuino a raccontare questa cosa, non è che la polizia intervenisse duramente per reprimere i vandali; i vandali agivano indisturbati mentre altrove la polizia menava cortei abbastanza a casaccio.

Non bisogna stancarsi di sottolineare, finché chiunque continui a sostenere il contrario non soffochi nella sua merdosa ipocrisia, che la violenza delle forze di polizia a Genova è un unicum; non è che poliziotti e carabinieri in generale ci andassero piano con i manifestanti dei centri sociali, ma qualsiasi manifestante di quel mondo che è passato da Genova vi confermerà che quello che si vide lì era sensibilmente diverso. Una violenza cieca, rabbiosa, mal congegnata che trionfò alle Diaz e proseguì alla caserma di Bolzaneto, e che tutto sommato fallì il suo scopo, per un motivo non molto diverso da quello per cui fallì la strategia campale dei centri sociali. Proprio come i centri sociali avevano pensato di ritrovarsi soli contro la polizia, anche la polizia aveva messo in pratica la strategia più adatta a fiaccare i centri sociali, senza sapere che a Genova si sarebbe trovata davanti a un movimento molto più eterogeneo, che tornò a casa terrorizzato e riuscì, con una certa pazienza, a convincere parte dell'opinione pubblica che in quei giorni era successo qualcosa di grave. Se fu un esperimento di repressione autoritaria, fece molto male e uccise, ma fallì. 

6. Che la manifestazione repressiva sarebbe fallita lo si capì sabato 21 luglio, quando ci svegliammo ancora intontiti e dolenti per la morte di Giuliani e scoprimmo che un sacco di gente era appena arrivata per manifestare assieme a noi. Contro i pareri dei principali partiti e sindacati, la gente era lì: alcuni più vicini alle istanze del punto 3, altri del punto 4 o del 5, ma sabato a mezzogiorno tutto questo non aveva più molta importanza, e non l'avrebbe più avuta per un anno o due. Quel mattino era nato il Forum Sociale, con tutti i suoi limiti che in questo pezzo non ci stanno. Tra i temi promossi dal Forum c'erano tutti quelli che ci stanno affliggendo oggi: la sostenibilità ambientale, la speculazione finanziaria, i regimi di schiavitù cui inevitabilmente portava una globalizzazione delle merci e non delle persone. C'era già tutto e c'era, certo, anche una vena già complottarda e anti-tutto che avrebbe portato qualcuno verso posizioni identitarie – c'era anche Bagnai, per dire, non a Genova ma di lì a poco nelle iniziative di Sbilanciamoci. Mancava una vera classe dirigente; c'era una diffusa insofferenza verso chiunque si ritrovasse anche solo per necessità nel ruolo di portavoce; Casarini Caruso o Agnoletto non furono mai leader carismatici, neanche ci provavano. 

7. A Genova un sacco di gente c'era semplicemente per vedere cosa sarebbe successo. Non si erano mai viste tante videocamere nello stesso posto, certo, oggi le abbiamo tutti in tasca e non fanno più tanto effetto. Si sapeva che le cose potevano andare male, e questo attirava interesse e curiosità. A Genova c'ero anch'io perché volevo vedere coi miei occhi e scrivere quello che vedevo; non avrei tollerato di perdermi un'occasione del genere e questo in seguito mi ha dato un po' da fare – mi sono sentito un turista anch'io, l'intruso in una battaglia che non capivo, che tuttora sto cercando di spiegarmi. A Genova, dopo dieci minuti in piazzale Kennedy avevo già la maglietta del servizio d'ordine (il che lasciava perplesso pure me su quanto fosse facile infiltrarsi); passai il concerto a tenere sgombro il passaggio per le ambulanze e a supplicare in tre lingue i ragazzi di non andare a infrattarsi sugli scogli. Sabato mattina avevo in mano le chiavi della scuola Pascoli ed ero dall'altra parte della strada, nel plesso Diaz, mezz'ora prima che la polizia irrompesse. Ho molti ricordi ma non mi fido molto, so che sono parziali e viziati dalla necessità di andare d'accordo con tutti i sé stessi passati. È difficile spiegare cosa mi ha lasciato Genova, ma non sopporto di leggere che Genova ci ha fermati o bloccati o sconfitti. Io non mi sono fermato, non mi sono bloccato, non sono sconfitto. Quello che cercavo di fare a Genova, lo faccio ancora e spero molto meglio, perché a Genova diciamolo, facevo abbastanza schifo. 

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Il mondo brucia e abbiamo ancora Grillo tra i piedi

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Comunque va bene, sì, il Covid, e Beppe Grillo che fa la pace con Conte, e tra qualche giorno l'anniversario del G8 di Genova, però intanto in Europa continentale diluvia e in Canada hanno picchi di 50°Celsius: di che altro dobbiamo parlare? Tra un po' comincerà la vera emergenza climatica, a meno che non sia già cominciata, ma in ogni caso: se il Covid è stato un'impegnativa cima appenninica, adesso abbiamo davanti l'Himalaya. Fare previsioni ora sarebbe ancora più sciocco che all'inizio del 2020; durante la spedizione succederanno molte cose che nemmeno immaginiamo: cambieremo molte opinioni e le divideremo con persone insospettabili – insomma quello che è successo l'anno scorso, moltiplicato per cento. 

https://it.wikipedia.org/wiki/Riscaldamento_globale#/media/File:Urban-Rural_Population_and_Land_Area_Estimates,_v2,_2010_Northeast_Italy_(13873744025).jpg
(Comunque quella è Ferrara, non Bologna).

Sappiamo che se avevamo una vaga, vaghissima possibilità che questa crisi fosse gestita in Italia da un governo progressista, ce la siamo giocata con l'arrivo di Mario Draghi, che ha imposto un sensibile cambio di passo. Se abbiamo fretta non è difficile trovare nomi di colpevoli, peraltro recidivi: Renzi e Grillo. A distanza di qualche anno, la coerenza con la quale hanno sabotato ogni progetto progressista almeno dal 2008 in poi è impressionante; tanto più che entrambi non hanno mai smesso di professarsi progressisti, a modo loro, e a mettersi di traverso a qualsiasi iniziativa progressista che non li vedesse protagonisti assoluti. Molte volte ho rimproverato alla sinistra la mancanza di leadership, stavolta mi toccherebbe concedere che sono stati due leader a rovinare tutto. Ovviamente ho già la risposta pronta, ovvero: per forza hanno rovinato tutto, che altro aspettarsi da due buffoni? Se avessimo lavorato di più sulla classe dirigente avremmo evitato che il vuoto di leadership causasse l'ascesa di un comico e di un sindaco di Firenze. Renzi e Grillo saranno colpevoli, ma sono anche vittime di un enorme vuoto culturale che si è creato negli ultimi vent'anni, da Genova e anche prima. È facile ora trattarli da capri espiatori e non mi impedirò di farlo – chi si innalza sugli altari si merita tutta la polvere che solleva quando cade – ma il problema è un po' più grande di loro, è un po' grande di tutti noi. È peraltro un problema che non faremo il tempo a risolvere; spetterà all'Emergenza, che quasi sicuramente non scioglierà i nodi nel modo in cui avremmo voluto. È molto più facile che qualcuno in quei nodi resti stritolato, metaforicamente o meno. Poteva andare diversamente? 

Guardiamo al resto dell'Europa, dove le sinistre non dovrebbero essere disastrate come la nostra: ce n'è qualcuna che è riuscita ad approfittare dell'emergenza per imporre la sua visione del mondo, le sue priorità? Che io sappia no. Può darsi che non abbia cercato bene, anzi lo spero – mi danneggia forse la prospettiva storica, il pregiudizio per cui il progressismo è un fenomeno tipico delle crisi di crescita, mentre questa ha più l'aria di essere una catastrofe sistemica, qualcosa che in generale premia chi ha sviluppato corazze e barriere. Può darsi che un pregiudizio simile abbia portato leader di sinistra come Mélenchon o Corbyn a lambire il sovranismo. Anche in Italia è successo qualcosa di simile, non solo presso realtà ormai folkloristiche come i comunisti di Rizzo; non ce ne siamo accorti perché eravamo distratti dall'esplosione colorata del vaffanculismo Cinque Stelle. 

Sui Cinque Stelle non ho cambiato opinione (il che è sospetto, considerato quanto sono cambiati loro). Li definivo "un magma in cui si trovano ormai fuse assieme istanze che una volta erano di pura sinistra (l'ecologismo, la questione morale) e veleni di estrema destra". Con questo magma dobbiamo costruirci un riparo: non è il materiale ideale, ma altro disponibile non ce n'è, se ci fosse a quest'ora l'avremmo trovato. Otto milioni di persone votarono nel 2013 per un Movimento che a parte Grillo e il suo discutibile webdesigner, contava soltanto perfetti sconosciuti e tanta voglia di cambiamento; non dico che Grillo fosse davvero progressista (anche se è convinto di esserlo) o di sinistra; dico che tra quegli 8 milioni di voti c'erano quelli che la sinistra avrebbe dovuto intercettare per non diventare una forza residuale. Dico che nel 2008, all'ombra della fusione tra democratici e cattolici di sinistra si era consumata una scissione sotterranea; mentre il neonato PD di Veltroni ripartiva all'eterna conquista del centro moderato immaginario, nelle viscere dell'opinione pubblica si staccava un enorme scudo di persone deluse dal moderatismo, dalla ragionevolezza, scontente del berlusconismo e di chi il berlusconismo non era riuscito a respingerlo; fu quello il nucleo del grillismo e fu quella scissione che occorrerebbe rimarginare per rifare della sinistra una forza importante, ma non c'è più tempo nemmeno per recriminare. Possiamo aggiungere alla lista dei colpevoli qualche altro spauracchio: Veltroni senz'altro, e perché no, D'Alema che in un certo senso lo anticipò – e Prodi? Mettiamoci anche Prodi, troppo ragionevole per capire dove stava andando l'Italia. Insomma ne abbiamo di nomi contro cui sfogarci. Se solo servisse a qualcosa.

Negli anni successivi alla scissione è stato comodo, per tanti commentatori e anche per me, liquidare il Movimento associando a esso gli aspetti più discutibili e appariscenti: il complottismo, il mito della democrazia partecipativa e i ridicoli strumenti con cui veniva simulata, la natura reazionaria di tante rivendicazioni, l'ambiguità sull'Euro. Il M5S è effettivamente stato anche questo: una serie di risposte sbagliate offerte a un pubblico che però faceva domande importanti. Senza dubbio contiene frange complottiste e sovraniste e possiamo bollarle di destra, se ci fa stare meglio: ciò non toglie che le stesse frange esistano anche a sinistra – in un certo senso sono sempre esistite. A Genova, bisognerebbe ricordare, a contestare il G8 c'era già un universo inconciliabile e variopinto che comprendeva gli anarchici come i novax; c'era chi voleva abolire tutti i confini e chi voleva ri-istituire le dogane nazionali per fregare i McDonald's; chi voleva spegnere la luce per non surriscaldare il mondo e chi voleva tenere aperte le fabbriche per non perdere i posti. A unirli era soprattutto uno slogan: Un altro mondo è possibile. E può anche darsi che in quel momento la possibilità di un altro mondo ci fosse, ma avremmo dovuto metterci d'accordo quasi subito e sarebbe stato molto difficile. Anche qui: possiamo dare la colpa ai manganelli. Ma è una ricostruzione consolatoria: i manganelli hanno fatto molto male ma non ci hanno impedito di pensare. Anzi nei mesi successivi proprio la repressione di Genova sembrava aver creato per reazione un Movimento dove prima c'erano soltanto gruppi diversi con priorità diverse. La vera occasione l'abbiamo persa dopo il Social Forum di Firenze, e sinceramente non ho mai capito il perché. Senz'altro l'11 settembre ci ha preso in controtempo, senz'altro la Guerra Infinita di Bush figlio e Rumsfeld è diventata l'obiettivo primario e ci ha distratto, ci ha impedito di concentrarci su una serie di priorità sistemiche che a me perlomeno sembravano abbastanza chiare già nel 2001: l'emergenza climatica, i rischi connessi alla globalizzazione dei mercati e alla privatizzazione dissennata dei servizi, la speculazione finanziaria. A distanza di vent'anni non si è fatto praticamente niente: gli unici fronti in cui globalmente qualcosa è cambiato mi sembrano quelli dei diritti civili per le persone LGBT e della depenalizzazione delle sostanze. Questo mi lascia un po' perplesso: forse perché sono etero e non fumo. O forse perché si tratta di evoluzioni sacrosante ma tutto sommato compatibili con una visione del mondo liberale e individualista. In ogni caso c'è una specie di buco nella mia memoria, diciamo tra il 2004 e il 2008 non ho capito bene cosa sia successo, forse ci siamo un po' distratti a tifare per Obama (ma io neanche tanto, a rileggermi), o ad assistere alla lunga fine di Berlusconi. Credo sia un buco per molte coscienze provvidenziale, perché impedisce di collegare il movimento post-Genova al vaffanculismo dei grillini. Si capisce che in mezzo ci dev'essere stato un crollo culturale, una fuga dei cervelli, perché nel 2001 si parlava di Tobin Tax e nel 2008 di biowashball. Però temo che se avevamo una possibilità ce la siamo giocata in quel momento. 

Adesso è tardi. Da qui in poi la polarizzazione sarà tra chi accetta l'Emergenza e chi non ci vorrà credere: e come è successo col Covid, molte persone di sinistra si troveranno nel secondo insieme; io nel primo. Ovviamente discuteremo a lungo su chi ha tradito chi: aggiungete anche me alla lista, se vi fa stare bene. Per me continua a essere una questione di stile di vita: sono più di vent'anni che sento dire che sarà necessario modificarlo per sopravvivere; pensavo e penso che Bush figlio rappresentasse il nemico perché diceva chiaro e tondo che la guerra infinita si combatteva per difendere lo stile di vita occidentale. Tra tante istanze discusse e disputate questa almeno a sinistra la davo per scontata, ma poi è arrivato il Covid e ho scoperto che no, rinunciare al proprio stile di vita era per molti intollerabile tanto quanto per Salvini. E lo posso capire: il primo lockdown fu terribile, per molti più che per me; non m'interessa il discorso moralista, non c'è tempo neanche per quello. Ma molti che chiedevano un mondo diverso, dal 2020 in poi li ho visti domandare a gran voce che gli restituissero il mondo che c'era prima; se è così che un'emergenza riduce le persone, non ho che da fare le proporzioni. Nei prossimi anni arriveranno botte peggiori: può anche darsi che reagiremo meglio, magari il 2020 ci ha insegnato qualcosa. Oppure no: può darsi che ci abbia soprattutto irrigidito e incattivito. Anche questo è abbastanza naturale (se vivi abbastanza a lungo, tutto diventa abbastanza naturale. Anche le catastrofi).

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Il convegno del Coisp è una grossa chiazza di merda sull'immagine della polizia italiana

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Non credo di avere tra i miei lettori molti poliziotti, e visto l'andazzo non sono nemmeno sicuro di volerli avere: pensavo di scrivere un appello, ma non avrebbe molto senso. Secondo me ci devono arrivare da soli, e non dico i tesserati del Coisp che non so nemmeno che penetrazione abbia: ci devono arrivare tutti, a capire che un manifesto del genere, un titolo del genere, un convegno del genere, è un'enorme chiazza di merda sull'immagine delle forze dell'ordine.

E non importa quanti l'abbiano concepito e stampato - fossero pure quattro goliardi che hanno il numero di telefono dell'ex ministro e di quel povero ragazzo che una parte migliore dello Stato ha evidentemente lasciato solo: potrebbe anche averlo scritto e concepito un solo poveretto, ebbene quel poveretto sta cagando a spruzzo sull'immagine della polizia italiana. Credo sia un problema per la polizia italiana.

Poi sì, certo, è un problema anche per me; non tanto perché a Genova c'ero e leggendo questa cosa mi dovrei incazzare (a proposito no, non mi fa incazzare, mi fa solo tristezza. Alle provocazioni non reagivamo neanche 15 anni fa, figurati adesso che abbiamo la pancia, le occhiate, il mutuo, e in questura ci andiamo con le nostre gambe, anzi sulle nostre macchine non più di seconda mano). Non è più Genova il problema, non è Giuliani e non è Placanica, poveri ragazzi ridotti a bandierine.

Il problema è un padre di famiglia come posso essere io, che quando parla con uno di voi, in uno dei vostri uffici, mentre sbircia il calendario ufficiale e le bandierine delle missioni umanitarie pensa: speriamo che non sia del Coisp, speriamo che non sia uno di quelli che fa le battute con gli estintori e chiama pure Placanica a riderci su. Cioè non voglio dire che passo il tempo della stesura di un verbale a sperare di non aver davanti un poveretto rancoroso: ma il dubbio, anche solo il dubbio, io alla mia età non ce lo dovrei avere. Io dovrei fidarmi di voi, della vostra professionalità e della vostra dedizione. Se non succede, è un problema per voi, è un problema per me, è un problema per tutti.

Allora forse è un po' questo il punto: da una parte c'è gente che bene o male è cresciuta, diciamo pure invecchiata, chi meglio chi peggio; gente che il G8 ormai lo vive come una ricorrenza, quella settimana afosa in cui ti ritorna tutto in mente, gli elicotteri le salsicce l'anabasi in piazza Kennedy. Dall'altra chi c'è? Quelli che si caricavano ballando la techno dietro i container, quelli che si raccontavano le storie coi gavettoni di sangue infetto, come sono venuti su? Oltre alla pancia avranno messo un po' di senno? Voglio sperare di sì, non ce la farei ad alzarmi al mattino in Italia se non riuscissi a sperare di sì. Poi guardo il manifesto del convegno Coisp e penso vabbe', se nutri una personcina di titolacci di Libero e sfottò di Feltri, cosa vuoi che diventi da grande? Uno che chiama Placanica a ridacchiare su piazza Alimonda. Non dico il rispetto per i morti, che pure è una cosa nobile e antica: ma il rispetto per i vivi, per chi quel giorno aveva vent'anni e si è distrutto l'esistenza in un istante. Se non capisci una cosa del genere, come posso fidarmi di te? E magari giri pure armato.
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I cinque dopo Genova

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Cinque ragazzi – 25 anni nell’estate 2001. Stanno finendo l’università. Grandi attese. Si ritrovano a giugno a cena in terrazza e decidono di andare a Genova per il g8, un po' perché un altro mondo è possibile un po' perché minchia, bordello, Genova è il simbolo, se non ci vai sei un coglione. Vengono tutti coinvolti negli scontri. Immediatamente dopo si perdono di vista.

Nel giro di 10 anni sono diventati tutti stronzi. Cos’è successo? C’è un’organizzazione segreta che si occupa di trasformare in stronzi i virgulti della società? Se chiudono gli occhi e provano a immaginare quella cena, c’è sempre una zona d’ombra. Sicuro che fossero in cinque? Il tavolo era da sei.

(Questo pezzo partecipa alla Grande Gara degli Spunti! Se vuoi provare a capirci qualcosa, leggi qui).

Artista. A Bolzaneto ha un orgasmo mentre viene molestato (“A Ge ho scoperto il sesso”). Ha incubi frequenti, crede di ricordare attenzioni moleste da parte del padre nella prima infanzia. Fallisce un vernissage perché rifiuta di proseguire una relazione col critico che lo aveva scoperto. Viene poi assurdamente assunto nell’ufficio stile di una griffe di magliette, le disegna brutte apposta con scritte trasgressive in strass (lo so, ma la prima volta che ho abbozzato questa roba si vedevano ancora in giro, giuro).

Avvocato. Entra nel Legal Forum durante il praticantato, ma sta solo aspettando il concorso da magistrato perché vuole arrestare i mafiosi - Falcone, Gherardo Colombo, quel tipo di immaginario. Durante una carica ha una crisi di panico e scappa abbandonando gli amici (“A Ge ho scoperto la paura”). Si sposa presto - il concorso lo vince, ma al primo rischio di esporre la famiglia molla tutto. Diventa l’avvocato di un boss che è indagato per una serie di incendi dolosi.

Giornalista. Laureata in scienze dell'educazione, arriva a Genova con un collettivo femminista, ma scrive già per un foglio locale. Aggredita da un poliziotto, dopo le cariche riesce a iscriversi all'Albo e in capo a cinque anni ha una rubrica su un quotidiano nazionale. Scrive qualsiasi cosa piaccia al direttore di turno (“A Ge ho scoperto il potere”).

Medico. Alle Diaz un poliziotto gli ha spappolato la milza. (“A Genova ho scoperto la violenza”). Dopo un’esperienza nauseante in ginecologia (è l’unico non obiettore) sprofonda in un Pronto Soccorso, dove un giorno stende un extracomunitario che pretendeva di farsi curare gratis (ora che ci penso la storia cominciava appunto con un nero ubriaco che si prende un pugno in una sala d'aspetto). Viene messo in aspettativa e comincia a riflettere.

Scrittore. Ha assistito ai due giorni di scontri senza mai riuscire a capire cosa stava succedendo. (“A Ge ho scoperto il caos”). Dopo Genova entra in una società di produzione e comincia a collaborare al serial “Passioni”, in attesa di scrivere un romanzo che non comincia mai.

Dunque la storia cominciava con questo medico che al termine di un doppio turno al pronto soccorso rompe il naso a un africano e torna a casa. Non riesce a dormire (è mezzogiorno), allora decide di chiamare il suo amico avvocato - che poi non è più suo amico da un pezzo, e anche al telefono si fa negare, ma è l'unico avvocato che conosce. Mentre si domanda come sia stato possibile frequentare uno stronzo del genere per tanti anni, comincia a pensare a quella famosa cena che fu molto divertente - c'ero io, quello, quella, e poi... c'è un buco, non riesce a ricordare chi fosse il sesto a tavola. Come a volte avviene quando piuttosto di pensare ai tuoi guai ti fissi sulla prima cazzata, il medico non riesce a darsi pace di questa lacuna. Decide di chiederlo agli altri, ma non ha nemmeno più i numeri di telefono (un furto al pronto soccorso). Compra il giornale perché forse c’è la mail della giornalista (vecchia fiamma mai corrisposta). C'è un suo trafiletto in cui fa ironia su uno scrittore che denuncia i roghi dolosi: bello fare l'eroe, ma dovrebbe anche trovarsi una ragazza. Perplesso, lascia una mail.
Accende la tv per guardare Passioni, suo piacere proibito. C’è una ragazza messa incinta da uno stupratore seriale tossicodipendente che ha grossi problemi di salute ma ciononostante, ci mancherebbe, vuole tenere il bambino. Il medico ha la nausea, ma gli viene in mente che il suo amico che scrive questa puttanate gli deve un favore e che è facile trovarlo a un certo bar.
Il giorno dopo si ritrova in commissariato per fornire la sua testi sull'increscioso episodio accaduto il giorno prima. Mentre aspetta che il poliziotto metta giù il telefono, tra i calendari e i gagliardetti appesi alla parete trova un ricordo di Genova, un attestato. Il tizio è molto competente e comprensivo: gli spiega che l’extra non ha fatto denuncia, ma è manovalanza di un clan impiegato nel racket. Quindi deve stare molto attento e richiamare alla prima intimidazione.
Al bar trova lo scrittore. È distratto ed evasivo. Sta lavorando a un dramma su Genova, un poliziotto e un manifestante. Non ricorda chi fosse il sesto a tavola.

Questo non era proprio alla mia portata - troppa contemporaneità - ma credo di aver smesso perché suonava falso. I ventenni tornati da Genova non sono passati dalla parte del Sistema - magari qualcuno ci ha pure provato, ma il Sistema aveva già i suoi guai a trovare un posto a tutti i figli suoi. Comunque se pensate di dargli una possibilità dovete votare per I Cinque dopo Genova! Potete cliccare sul tasto Mi Piace di Facebook, o linkare questo post su Twitter, o scrivere nei commenti che questo pezzo vi è piaciuto. Grazie per la collaborazione, e arrivederci al prossimo spunto.
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Date un quotidiano a Calabresi

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A questo punto potremmo vedere nel vandalismo in felpa nera un fenomeno pandemico, che s’annida in qualsiasi manifestazione, da Baltimora a Milano, indifferentemente dai motivi per cui si convoca, parassitandone la visibilità. Potremmo anche pensare che questa è la prima occasione che ha la polizia, dopo la sentenza di Strasburgo, di farsi un po’ desiderare: basta lasciar campo libero ai vandali (in fondo la stessa tecnica del G8), e in pochi minuti le nostre bacheche si riempiono di invocazioni agli uomini in uniforme. Potremmo pensare tutto ciò: e Mario Calabresi ci darebbe torto. Lui sa perché oggi davano fuoco ad auto e vetrine. È successo perché nessuno ha mai parlato delle devastazioni al g8.

Chiaro, no?
Qualcuno potrebbe trovare la cosa opinabile: a me per esempio sembra di ricordare che se ne parlò parecchio. Questa per dire era la prima di un quotidiano di Torino che Calabresi forse conosce, il 22 luglio: nota bene che la sera prima la polizia aveva devastato le Diaz, in un orario in cui le redazioni non erano ancora chiuse. Non c’era la Diaz in prima.


E il giorno dopo?



Uno potrebbe far notare che non solo di vandalismi si è parlato, ma che ci sono stati processi e sentenze (un secolo di galera diviso tra 10 condannati in appello). Ma si tratta di obiezioni speciose. Forse Calabresi ha ragione: se dai più visibilità ai vandali, loro magari smettono. Se solo Calabresi potesse farci qualcosa, se solo qualcuno gli desse la possibilità dirigere un quotidiano.
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Le due verità del poliziotto

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Su almeno una cosa avevi ragione: esistono sempre due verità. La prima ti fa grosso con gli amici; la seconda ti salva il culo quando rischi il posto.

Quindi è vero che eri alle Diaz; però è vero che non hai picchiato nessuno.

È vero che volevi contrapporti "con giovane vigoria", ma è vero che "fu tortura", "fu uno scempio".

È vero che tu e i tuoi colleghi si sentono i "perfetti capri espiatori", ma è vero che nessuno di loro ha pagato un bel niente fin qui: e anche tu, se fossi stato solo un po' più attento con facebook, l'avresti passata ancora più liscia. Esistono sempre due verità.

Io per esempio dovrei essere contento. Ho visto un tizio che faceva lo sbruffone, e poi l'ho visto costretto a fare dietro-front. Spettacolo istruttivo e un po' liberatorio. Questo è vero.

D'altronde.

Prima sapevo solo che mi odiavi; adesso so che all'occorrenza puoi cambiare verità, e tradire anche te stesso. Avrai ancora qualche temporaneo fastidio e poi tornerai in servizio. Se mi troverò davanti a te, che verità sceglierai? E chi potrò chiamare, in quel momento? Di chi mi potrò fidare?

Qualcuno in seguito potrà sempre dire ai giornali che c’era e non ha visto niente - e agli amici che lo rifarebbe.
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Ma cos'è questa storia che non possiamo insultarvi su facebook?

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Ieri Tortosa era fiero d’essere stato alle Diaz e lo avrebbe rifatto 1000 volte; appena Repubblica se n'è accorta ha fieramente cancellato il suo scritto su Facebook, (probabilmente lo cancellerebbe altre 1000 volte). Al telefono ha spiegato che era là ma non ha visto niente, non sa niente, è stato travisato. Finirà sotto inchiesta, una gran seccatura, e tutto questo perché? Ha solo scritto che loro poliziotti ci odiano perché non abbiamo la tuta e siamo radical chic. Ha scritto quel che pensa. È colpa sua se non ha capito che Facebook è un luogo pubblico, e che occorre riflettere prima di rovesciarvi scemenze da bar?

Non è una domanda retorica.

È la stessa che sollevava ieri Gramellini: in fin dei conti cosa ha fatto la povera Paola Saluzzi? Ha scritto che Alonso è un imbecille. Vabbe', spiega Gramellini, "gli ha dato dell’imbecille su Twitter, non in tv". È solo Twitter! Adesso non ci si può più dare dell'imbecille su Twitter? E Alonso osa prendersela? E Murdoch sospenderla? Ma mica per buona educazione, sapete, solo per “gli interessi economici”. Cioè al giorno d’oggi l’educazione serve anche a fare affari, signora mia. Ma davvero uno se la può prendere per un imbecille su Twitter?

Anche questa non è una domanda retorica.

Sono due domande sceme. No, non potete offendere chiunque in pubblico. No, se qualcuno se la prenderà non potrete sempre contare sulla solidarietà della vostra categoria. Ai vostri figli perlomeno lo stiamo insegnando: speriamo che a casa ve lo spieghino.


(Ma non avevo dubbi, guarda).
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Il poliziotto che pestava ragazzi disarmati con vigore cameratesco

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Sarebbe più interessante se fossero i poliziotti a raccontare cosa fu Genova per loro, mi dicevo. Lunedì ho letto di Gianpaolo Trevisi, che era là fuori a mettere la faccia davanti ad Agnoletto, e per l’occasione ha proiettato Diaz ai suoi allievi, invitandoli a riflettere sul fatto che “nella maggior parte dei film o delle serie televisive, grazie alle quali molti amano la Polizia, è quasi tutto inventato e nell'unico, forse, unico film che ci distrugge è tutto drammaticamente vero, in quanto basato su fatti processualmente verificati”.

Vedi che qualcosa è cambiato, mi sono detto. Ma proprio allora inciampo in un altro poliziotto che ci informa che lui quella notte c’era, e che lo rifarebbe mille volte: altri mille denti cavati a mille studenti disarmati? Finalmente, tra gli insulti a chi è abbastanza morto da non poter replicare, scopriamo perché bisognava assolutamente pestare a sangue gente in sacco a pelo:

“Quello che volevamo era contrapporci con forza, con giovane vigoria, con entusiasmo cameratesco a chi aveva, impunemente, dichiarato guerra all'Italia, il mio paese".

Caro poliziotto, mi spiace se ora finirai nei guai soltanto perché hai voluto essere sincero su facebook. Mentre quando spaccavi ossa nessuno ti ha fatto niente. Il punto è che tu pensavi di contrapporti con forza e giovanile vigoria, ma quel che è successo è che hai bastonato degli indifesi disarmati. Non ti sei coperto di gloria, ma di un’altra cosa. Tu e lo Stato che magari da stasera non rappresenti più.
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Il ritorno del no global pentito (un'esclusiva per il Foglio)

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Sul Foglio.it campeggia la letterina di un tizio che andò minorenne al G8 di Genova, "aizzato" tra l'altro da una trasmissione di Fabio Volo (?) Dopo aver preso un po' di mazzate, invece di tamponarsi la testa sanguinante si unì a un gruppo di devastatori, provando un inedito "furore punk" - ma sfogandosi su una vetrina già rotta "per solidarietà". Comunque se n’è pentito. Se n’è pentito davvero tanto. A Genova "quasi tutti fummo colpevoli", dice, ma nessuno ammette i propri errori. Parla per te, è la più ovvia reazione: io non ho rotto niente e mi caricavano comunque. Ma non è questo il problema.

I ragazzi erano seduti a terra con le gambe
 incrociate e le braccia in alto, quando furono
trascinati via dagli uomini della Digos.
Perugini e quattro sottufficiali falsificarono
i verbali della cattura, farcendoli di bugie.
Durante il trasferimento in macchina al carcere,
due dei no-global furono minacciati con
una pistola: Vi ammazziamo, bombaroli di merda".
Il testo è di 4 anni fa: chissà se l’autore nel mentre si sarà liberato dal senso di colpa per la povera vetrina. Il suo racconto da piccolo Fabrizio Del Dongo alla battaglia sembra mescolare episodi del 20 (agguati e camionette) e del 21 (corteo sul lungomare), il che non significa che sia falso: capitò a molti in quei giorni di confondere ricordi personali con le immagini che venivano riversate in tv o internet. Neanche questo è il problema.

È che alla fine tutti questi racconti sono uguali: treno-mazzate-devastazioni-treno. Quanto sarebbe più interessante un coraggioso sito o foglio che pubblicasse il ricordo di un poliziotto giovanissimo, addestrato da “maestri” che gli raccontavano di gavettoni di sangue infetto, e poi mollato in libertà a sparare controvento gas urticante e picchiare i primi che incontrava. Quella sì, che letterina sarebbe. Com'è che non la scrive nessuno.
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Non c'è "devastazione" che spieghi le Diaz, basta con le cazzate.

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C’è ancora chi si attenta a difendere la polizia. Di fronte alla sentenza limpida, incontestabile di Strasburgo, c’è chi insiste a trovare attenuanti: “a Genova fu il finimondo”! Certo che ci fu: e le forze dell’ordine vi parteciparono, sparando per ore fumogeni a caso, caricando cortei pacifici mentre black bloc e altri vandalizzavano indisturbati la città. Poi, la sera, arrivarono in un dormitorio e bastonarono persone indifese già nel sacco a pelo. Questo accadde, questo risulta dalle sentenze.

Chi vuol far passare la macelleria delle Diaz per una reazione a caldo, giustificata da un’emergenza, mente ai lettori e forse a sé stesso. I macellai delle Diaz non erano isolati e in panico come in piazza Alimonda: avevano ricevuto un certo tipo di preparazione e ordini precisi (da chi?), e li eseguirono con freddezza.

Secondo Sallusti stanno torturando i poliziotti.
Che Sallusti non si vergogni di loro non sorprende: Sallusti non si vergogna per definizione. Anche dal Foglio cosa pretendere più che un inchino a qualsiasi mano stringa il bastone. Come andarono le cose, solo il vecchio Cossiga poteva permettersi di spiegarcelo: “infiltrare il movimento con agenti provocatori pronti a tutto, e lasciare che per una decina di giorni i manifestanti devastino i negozi, diano fuoco alle macchine e mettano a ferro e fuoco le città… Dopo di che, forti del consenso popolare, il suono delle sirene delle ambulanze dovrà sovrastare quello delle auto di polizia e carabinieri”. Cossiga, attenzione, non parlava di Genova. Parlava in generale.

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Cestaro è un eroe, ma alle Diaz fu davvero "tortura"?

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Ad Arnaldo Cestaro, l’uomo tranquillo che a 62 anni cercò di mettersi tra i giovani accampati nella scuola Diaz e le guardie impazzite che avevano fatto irruzione, dobbiamo più che una semplice riconoscenza. Cestaro poteva morirne; ne riportò danni permanenti. Da allora non ha smesso di testimoniare e denunciare quanto successo, finché anche a Strasburgo non gli hanno dato ragione: quel che accadde la sera del 21 luglio 2001 fu tortura, e se in Italia manca ancora una definizione giuridica del concetto, peggio per noi. Dobbiamo questo al signor Cestaro, che poteva starsene in un angolo zitto e buono, e si alzò a difendere ragazzi che avevano la mia età. Non ha ancora smesso: a 75 anni li sta ancora difendendo.

Detto questo, confesso una perplessità. Per la Treccani la tortura consiste in “varie forme di coercizione fisica applicate a un imputato, più di rado a un testimone o ad altro soggetto processuale, allo scopo di estorcere loro una confessione o altra dichiarazione utile”. La definizione si può applicare al caso Bolzaneto, ma non aiuta molto a comprendere quanto stava accadendo nello stesso momento alle Diaz: più che tortura, “macelleria”, come la chiamò un poliziotto. I colleghi che roteavano i manganelli sui denti di manifestanti nel sacco a pelo non stavano cercando informazioni. L’ordine era un altro: spaventarci? Alzare ulteriormente una tensione già insostenibile? Ancora non lo sappiamo. Ma la risposta è tra noi, non è che Strasburgo possa aiutarci anche in questo.
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Vite parallele

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Come molti oggi ricordano, Alex Tsipras nel 2001 avrebbe dovuto partecipare alle proteste contro il vertice G8 di Genova: fu fermato dai carabinieri con tutta la sua delegazione nel porto di Ancona, e si prese pure qualche mazzata. Se fosse riuscito a passare, magari le avrebbe prese insieme a noi, marciando tra gli altri insieme a Francesco Caruso, Luca Casarini, Vittorio Agnoletto: quelli che già ai tempi cominciavamo a chiamare "non leader". Il loro scarso carisma, che li rendeva già allora poco interessanti a buona parte di chi li fiancheggiava, era ai tempi rivendicato come un segno di diversità: beata la rivoluzione che non ha bisogno di eroi.

Ai tempi Tsipras era leader dell'area giovanile di Synapsismos; nel 2004 entra nella segreteria politica. Nello stesso anno Agnoletto diventa europarlamentare con Rifondazione Comunista. Caruso ce ne mette due in più per approdare a Montecitorio, sempre con RC (racconterà di aver seminato piantine proibite nei vasi del cortile). Di Casarini nessuno sembra più parlare, ma nel 2005 la sua area di riferimento era ricomparsa sotto i riflettori nazionali per aver candidato alle primarie del PD un anonimo in passamontagna arcobaleno: il "candidato senza volto". Nel 2006 Tsipras è eletto consigliere comunale ad Atene. Due anni dopo è eletto presidente di Synapsismos: fonda Syriza (che si attesta alle elezioni sotto il 5%) ed entra in parlamento.


In quel 2008 cade il governo Prodi, Napolitano scioglie le camere, e non si sa bene che fine faccia Caruso (anche nel suo curriculum il buco è molto vasto). Pansa, in un libro contro la "casta rossa" scrive che avrebbe lavorato nel Parco del Gran Sasso. In compenso nel 2008 fa parlare di sé Casarini, che pubblica un romanzo con Mondadori! Dell'anno successivo è una sua intervista famosa in cui spiega di aver aperto una partita iva e di simpatizzare con gli imprenditori che fanno disubbidienza fiscale. In quel momento immaginarlo come una scheggia impazzita ormai convergente con la Lega era plausibile.

Nel 2009, intanto, Agnoletto riprova a candidarsi per il parlamento europeo, ma Rifondazione ormai non riesce più a superare la soglia del 4%. Gli va male anche l'anno dopo la campagna per il consiglio regionale lombardo. Nel 2014 ritroviamo Casarini nelle liste dell'Altra Europa con Tsipras, anche lui non eletto. L'ultimo dei non leader italiani ad aver dato notizia di sé è Francesco Caruso, per una cattedra di sociologia affidatagli dall'Università Magna Grecia di Catanzaro. I gradini saliti da Tsipras negli ultimi anni (17% e poi 27% nel 2012, 35% oggi) li sapete.

Tutto questo vuol dire qualcosa? Magari no. Magari se Caruso o Casarini avessero insistito con più serietà sulla propria carriera politica, innestandosi con più convinzione in un partito e mantenendo ferma la barra tra una tempesta e l'altra, magari... non sarebbe successo niente di diverso. La Grecia non è l'Italia, anche se a momenti stavamo per regalarle un sistema elettorale altrettanto demenziale. Quel che posso dire è che il composito mondo di sinistra che per più di un decennio non si è preoccupato di costruire nessun leader credibile ha avuto esattamente quel che desiderava: nessun leader credibile. Se c'è stato forse un momento in Italia per costruire qualcosa di diverso, in quel momento nessuno ha voluto o potuto metterci la faccia. Alla fine ce l'ha messa Beppe Grillo, uno che passava di lì e probabilmente voleva soltanto vendere qualche libro, qualche dvd.
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Dal G8 a Grillo

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Questo anniversario di Genova casca più del solito a sproposito, e mi trova filo-governativo mio malgrado, senza essermi mai iscritto né all'albo né, ahimè, al libro paga. L'altro giorno un tizio è venuto qui sotto nei commenti a postare un intervento di Wu Ming, chiamandomi "servo organico". Ecco, per esempio, i Wu Ming: loro sono ancora intellettuali non asserviti come dodici anni fa, loro sono ovviamente contro il PD, contro Grillo e tutto il resto: e quindi? Cosa pensano che dovrebbe succedere a questo punto? Voi lo avete capito?

Più in generale lo vorrei chiedere a chi passa di qui e inveisce contro il vergognoso governo di compromesso, e contro il compromesso stesso, chiamandosi fuori: come se ci fosse ancora un fuori. Con tutto il garbo che riesco a simulare: ma insomma, voi cosa proponete esattamente? Elezioni in settembre? Con la stessa legge elettorale? E pensate che ne uscirebbe una situazione molto diversa? Siete sicuri che sarebbe una situazione migliore? Vale la pena di rischiare? Ma insomma che governo vorreste, visto che questo vi fa schifo (e fa schifo anche a me: ma voi ci tenete a comunicare che vi fa schifo di più, vi fa schifo in un modo che non riuscite a tollerare, e questa vostra insofferenza è un valore, mentre la mia sopportazione è evidentemente una colpa). Posso capire i renziani: loro probabilmente credono di poter risolvere la situazione a vantaggio loro e di tutti. Ma non sono tutti renziani, anzi. E quindi: se pensate che il PD si sia definitivamente compromesso, con o senza Renzi, cosa vi aspettate esattamente dalla prossima crisi di governo? L'apocalisse grillina? L'insurrezione delle masse? Volevo chiedervelo perché onestamente non lo so.

E in mezzo a tutto questo casca l'anniversario di Genova, e la sirena suona più lugubre del solito. Ho forse tradito la mia gioventù? Gli ideali per cui bla bla bla? Cambio argomento.

Ai tempi di Genova andavano molto di moda i cosiddetti noir italiani. Anche in ambienti tradizionalmente poco sensibili alla letteratura di genere i polizieschi venivano considerati un modo nuovo e originale di descrivere la realtà italiana. Così fu abbastanza naturale che il G8 di Genova finisse in diversi libri del genere, per lo più nello sfondo: persino Camilleri stava per far dimettere il commissario Montalbano dalla vergogna, eccetera. Ma la scena che più mi è rimasto in mente è in Gorilla blues di Sandrone Dazieri, ambientata durante la manifestazione genovese avvenuta un anno esatto dopo - cioè undici anni fa - e che per me e per molti è un ricordo altrettanto vivido del G8 del 2001.

In quelle pagine, se ricordo bene, il protagonista a un certo punto passa per una stanza dove è riunita una cosa fighissima che si chiama "comitato per l'autodifesa". Questo comitato è fatto di giovani, probabilmente ancora in braghe a vita bassa e canottiera, e sicuramente qualcuno porta i dreadlocks. Ma sono fighissimi. Sì, è difficile spiegare, ma nel 2002 si poteva ancora portare i dreadlocks ed essere fighissimi protagonisti della controcultura. Sono hacker, sono videoreporter, sono persino blogger, sono il futuro della sinistra e dell'Italia. Purtroppo sono soltanto un'invenzione letteraria dell'autore, che li descrive in due paginette e poi porta il Gorilla in un altro posto. Nella nota finale Dazieri stesso vorrà precisare che "non esiste nessun comitato di autodifesa come quello che ho descritto". Però, quando uscì Gorilla blues, i lettori di Dazieri in quel comitato ancora ci credevano. Sapevano che da qualche parte nel movimento di Genova c'era gente veramente in gamba (stavo per scrivere "coi controcoglioni", ma ho un'età), che sapeva maneggiare le nuove tecnologie e capiva molto più in fretta degli altri dove stava andando il mondo. Ci speravano. Ci abbiamo sperato. Proprio come il Gorilla, ogni tanto tra un forum e un corteo transitavamo per ambienti dove c'era gente davanti al monitor o con la videocamera in mano e sembravano veramente cazzuti competenti. E alcuni forse lo erano. Ma se ne sono andati presto. Quel che è rimasto era molto, molto inferiore alle attese. Salvo i Wu Ming.

Loro sono rimasti. Erano bravi, e lo sono ancora. Ma probabilmente non bastavano. Adesso è il 2013 e diventa molto difficile spiegare alla gente che tu per qualche anno hai pensato che Indymedia fosse un progetto interessante, o sei andato dietro a personaggi come Casarini. E in effetti non è così, se ti ricordi bene, se vai a leggere il blog, tu non hai mai espresso sentimenti di cieca fiducia in Casarini: non lo hai mai considerato nel modo in cui i grillini considerano il Beneamato Beppe. A me, e a tanti come me, è capitato di trovarci in coda a un corteo di Casarini perché ritenevamo che in quel corteo ci fosse gente aggiornata, lungimirante, con le informazioni giuste e con le chiavi di lettura giuste. Come i Wu Ming, per dire. Ma forse a parte i Wu Ming non c'era molto, e gli stessi Wu Ming non hanno sempre azzeccato le chiavi di lettura.

Adesso - se ho capito bene - accusano Grillo di avere occupato lo spazio dei "movimenti radicali" (sempre al plurale, come ai vecchi tempi), impadronendosi di alcune parole d'ordine e virando tutto a destra. Hanno l'onestà di riconoscere che non è stato Grillo a uccidere i movimenti (un lento suicidio di massa era già in atto da tempo), ma adesso che c'è lui non si riesce più a trovare lo spazio per ricominciare da capo, che è quello che probabilmente interessa a loro. Ricominciare da capo con altri movimenti radicali. Come negli altri Paesi dove Grillo non c'è, e infatti ci sono i movimenti radicali, e infatti...

...non sta succedendo niente.

Niente o quasi. Magari mi sbaglio, magari mi sembra la bonaccia definitiva e invece è l'occhio del ciclone. Però un paio di anni fa c'erano gli Indignados in Spagna: risultati? Occupy Wall Street: conseguenze? La rivolta turca come va? In Egitto, Piazza Tahrir ha buttato giù il regime, non si può dir di no. Oppure si potrebbe dire che l'esercito ha mollato Mubarak e ha affittato piazza Tahrir. Vedremo. Cosa resta? In Libia e in Siria più che movimenti sembrano bande armate. Forse in Tunisia. Non è un bilancio entusiasmante. Tornando da questa parte del mediterraneo, si fa fatica a immaginare che oggi possa sorgere un movimento di protesta di base non antieuropeo: è un'altra simpatica conseguenza del rigorismo imposto dalla Germania. Ma a un movimento antieuropeo la sinistra starà sempre stretta: è sempre più difficile non lasciar filtrare istanze di destra, tradizionaliste e identitarie. Insomma, è triste dirlo, ma in questa fase i "movimenti" avrebbero virato verso destra anche se non ci fosse stato Grillo. Grillo poi ci ha messo l'organizzazione - quella che i "movimenti" non hanno mai voluto avere, e infatti sono tutti implosi: il M5S ancora no. I Wu Ming "tifano rivolta" nella base del M5S, esprimono l’auspicio che "le contraddizioni si acuiscano ed esplodano", un sintagma così deliziosamente anni '70 che mi ricorda l'ultima volta che ebbi a che fare con dei tizi di Indymedia (mi augurarono che il mio blog esplodesse in virtù delle sue contraddizioni). Forse ritengono che "destra" e "sinistra" nel M5S si possano ancora separare, come l'acqua dall'olio, perché sono due cose diverse che Grillo ha messo assieme per accidente: ma è destino che non vadano assieme. E quindi prima o poi si separeranno, le contraddizioni scoppieranno, e a sinistra sorgerà di nuovo un movimento, anzi tanti movimenti, radicali.

Io non la penso così.
Per quel che conta.

Ma probabilmente mi sono sempre aspettato molto meno dai movimenti. Per esempio: mai pensato che si potesse fare la rivoluzione, armata o no. La tentazione palingenetica, direbbe Bersani, ecco: mai avuta. Per me i movimenti avrebbero dovuto attirare tanta gente, spostare il baricentro dell'opinione pubblica verso sinistra, e soprattutto portare alla ribalta una nuova classe dirigente. Quelle famose persone fighissime, ancora giovani, ma aggiornate, in grado di padroneggiare le nuove tecnologie e di capire prima degli altri dove stavamo andando. Per me i movimenti erano anche e soprattutto un'occasione per trovare queste persone, che una scuola di partito non avrebbe selezionato mai. E un grosso problema del PD è senz'altro la scarsa selezione nelle vecchie scuole di partito. Ma se nel 2001 mi capitava di pensare al futuro, non m'immaginavo un eden bucolico coi piadinari al posto dei MacDonald's. Speravo che nel 2013 in Italia ci sarebbe stato un solido partito di sinistra guidato e sorretto da gente capace e competente che si era fatta le ossa nel Movimento dei Movimenti. Non è andata così.

E in coscienza non credo che sia stata colpa delle vecchie nomenklature dei partiti di sinistra; non credo che sia stato un complotto di D'Alema o Bertinotti per tenere alla larga le menti migliori della mia generazione. Purtroppo temo di non averle mai viste, le menti migliori della mia generazione. Anche quando i partiti imploravano facce nuove, e D'Alema e Bertinotti si stavano pensionando, non si è presentato nessuno. Nel frattempo i movimenti si erano ridotti al lumicino e candidavano alle primarie PD il Candidato Senza Volto. Una pagliacciata che tutto sommato riassume tutta l'inadeguatezza di una generazione, la mia, che non può neanche dire di aver perso come quella di Gaber, perché per perdere bisogna almeno partecipare, metterci la faccia, e noi no.

Abbiamo cominciato a contestare l'idea di leader, non era giusto esprimere un leader (e quindi nessuno sentiva la necessità di sbattersi per conquistarsi una qualche leadership); bastavano i portavoce. Poi anche i portavoce hanno iniziato a mettersi il passamontagna, sia mai che ti scappasse per sbaglio a qualcuno di diventare una faccia nota, magari (brrrr) televisiva. Abbiamo reclamato la disorganizzazione e l'anonimato, e coerentemente siamo scomparsi nel caos. Poi è arrivato Beppe Grillo, e ha rilevato tutto per due lire. Da quel che ho capito i Wu Ming ritengono sia una specie di errore di percorso, nulla che non si possa correggere con molto ottimismo della volontà. Per me no, per me è l'esito naturale di tutto il movimentismo italiano degli anni Zero. I fermenti di destra c'erano già al G8, magari nascosti nell'insalata del banchetto Bio. Matti con i volantini sul signoraggio e le schie chimiche circolavano già La superficialità, la demagogia, la disorganizzazione, erano già presenti e al tempo ci sembravano inevitabili, qualcosa di cui ci saremmo liberati crescendo. Ma non siamo cresciuti, è la nostra tragedia. Io non credo che oggi ci possa essere in Italia un altro movimentismo fuori da quello di Grillo, che riunisce così bene tante cose disparate che erano saltate fuori nel decennio prima. E non è colpa del solo Grillo se il risultato è catastrofico e oggettivamente prolunga la carriera di Berlusconi (e di D'Alema). Il movimentismo era miope e votato all'autolesionismo prima di incontrare Grillo, che non ha fatto che interpretarne le istanze più riconoscibili: morte al compromesso, qualsiasi compromesso. Viva la verità alternativa, qualsiasi sia la fonte, ogni cazzata ha diritto al suo quarto d'ora. Abbasso i complotti, la trilaterale e Bilderberg: quanto se ne parlava su Indymedia ai tempi. Abbasso l'organizzazione, decide tutto un pool di uomini illuminati e fighissimi blogger e videoreporter nel camper di Grillo: e si vota su internet, la prima volta che sentii proporre di votare su internet ero esattamente a Genova, 12 anni fa. Mi dispiace scriverlo, più che a voi dispiaccia leggerlo, ma io da Genova a Grillo vedo una lunga linea abbastanza rettilinea. Poi vabbe', Casarini mi stava più simpatico di Grillo. Ma non molto di più. Indymedia sembrava più interessante di Beppegrillo.it. Ma non molto di più.

E non vedo perché dovrei tifare rivolta, stavolta. Potete anche darmi del servo del potere: siete ottimisti, se pensate che questo straccio di Potere possa ancora pagarsi la servitù. Non penso di dover difendere il governo Letta; penso sia un accrocchio vergognoso; non capisco quale alternativa abbia in mente chi implora la crisi al più presto. Ho una famiglia, un mutuo, queste triviali cose che m'impediscono di unirmi allo spensierato coro del Tanto Peggio Tanto Meglio, di quelli che non vedono l'ora che scoppino le contraddizioni. Per mia esperienza, in Italia le contraddizioni tendono a non scoppiare: trovano un equilibrio e ti prendono per stanchezza. Ovviamente spero di sbagliarmi.
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Scampato alle Diaz

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un pezzo del 2007. Non aggiungo più niente, ho già scritto troppo). 

Stasera non avrei scritto niente, se non che prima di coricarmi, passando davanti allo specchio, ho visto la faccia di uno che ha scampato le Diaz per pura botta di culo.
Siccome un pensiero tira l'altro, mi sono anche domandato che faccia avrei. Un po' più sbattuta di certo: magari un dente in meno (qualcuno lasciò un dente sulle scale). Forse più calvo, chi lo sa, più rugoso e interessante. Io non voglio passare per un reduce – è ridicolo, Genova furono tre giorni – però capisco perfettamente la gente che va in guerra, la scampa e poi si sente in colpa per tutta la vita. È un senso di colpa strano, misto a una curiosa invidia, e alla voglia di contar balle ai ragazzini al bar.

Io alle Diaz in quel momento avrei voluto esserci. Nel senso che avevo una gran voglia di andarci, venti minuti prima che le Diaz passassero alla Storia. Suona buffo, ma era tutta una questione di blog. Volevo aggiornare il blog, che poi era un modo di avvertire una ventina di persone che l'avevano letto fino a poche ore prima che ero salvo e stavo bene. Era tutto puerile e terribilmente serio allo stesso tempo. Le scuole cablate erano due, una di fronte all'altra: la più grande aveva la Sala Stampa e i server, ma i computer giravano con un cacchio di sistema operativo alternativo che s'inchiodava continuamente. Nelle Diaz invece c'era il vecchio stramaledetto windows duemila. Io dunque, mentre stavo in fila per accedere al sospirato blogger, avevo una gran voglia di provare se lì di fianco c'era meno fila. La Diaz, fino a quel momento, la conoscevano in pochi, tra cui io; io che due sere prima mi ero coricato con le chiavi della Diaz in tasca, perché nel cosiddetto servizio d'ordine del Movimento dei Movimenti si faceva carriera rapidissimamente, bastava continuare a preoccuparsi mentre la gente andava a dormire.

Io dunque ero indeciso se restare lì o andare alle Diaz. Se ci fossi andato, forse oggi passerei i miei pomeriggi a fissare il muro o a guardare i manga, magari soffrirei la depressione e peserei 120 chili; oppure mi sarei liberato di ogni borghese inibizione, come quelli che scampano un disastro aereo e non hanno più paura di nulla, e lavorerei sulle impalcature dei grattacieli, chi lo sa. Se invece fossi rimasto lì in fila, di lì a cinque minuti i carabinieri mi avrebbero semplicemente convinto ad accucciarmi al muro con le mani alzate, mentre sequestravano i server con un sacco di immagini compromettenti (compromettenti per loro, visto che in tutti questi anni non risulta le abbiano usate per incriminare chicchessia). Ma non feci nulla di tutto questo, perché passò Glauco a dirmi che andavano a prendere una birra lì all'angolo e io dissi ma sì, chi se ne frega. Era tutto molto serio, e allo stesso tempo no.

Come Buzzati, quando la sera tornava a casa dal grande giornale e scriveva su un quadernetto il Deserto dei Tartari; come Fenoglio quando da bambino montava sui tetti e s'immaginava di sparare agli invasori, anch'io probabilmente nel mio piccolo pensavo che ci sarebbe stata una guerra prima o poi, almeno una Battaglia, e che solo la Battaglia mi avrebbe fatto uomo. La guerra però non arrivava mai e così ho provato ad arrangiarmi con Genova.
A Genova le cose erano estremamente serie, in effetti, e allo stesso tempo restare seri era spesso difficile: tutto rischiava di diventare puerile da un momento all'altro. La cosa di cui sono più fiero è il servizio d'ordine al concerto di Manu Chao, quelle quattro ore spese a sgolarsi per avvertire i ragazzini di non oltrepassare la linea rossa della corsia ambulanze, e per cortesia di non rompersi l'osso del collo sugli scogli. Mercoledì sera, prima di ritirarmi al campeggio, avevo lungamente cercato di mettere pace tra due skin francesi impasticcati che se le davano in piazzale Kennedy, e non avevano l'età di mio fratello. Poi mi ero scocciato: ero un adulto, non Madre Teresa.

In seguito ci furono le cariche di venerdì, e bamboccioni se n'erano visti molti, in uniforme e in tenuta da movimento. Noi stessi, soliti modenesi, ondeggiavamo da una piazza tematica all'altra, cercando di mantenere un distacco critico, ma anche annusando a pieni polmoni la voglia di mettersi nei guai, il profumo con cui la troia Guerra seduce tutti i ragazzini. Poi era corsa voce di un morto, anzi di due, di tre; dalla città salivano fili di fumo e tutto sembrava allo stesso tempo serio e patetico, e per quanto non fossimo allegri eravamo più che mai fieri di essere lì piuttosto che altrove. Sabato ci eravamo svegliati con la sensazione di essere più che mai nel giusto, e le cariche e la lunga anabasi per i quartieri della città scoscesa in fondo li avevamo vissuti con lo spirito giusto: che era lo spirito d'avventura. All'ora in cui Glauco mi invitò a bere una birra tutto sembrava finito, la tensione era scesa di molto; e l'ansia di aggiornare il blog (l'unico blog a Genova!) poteva sembrare una cosa puerile.

La birreria stava dietro l'angolo e faceva affari d'oro, perché era l'unica rimasta aperta in quel quadrante della città. C'incontrammo una ex compagna di classe di Glauco che si era trasferita in Belgio e faceva teatro e tornava in Italia solo per le rivoluzioni. Quella birra non l'ho mai bevuta – ma la storia credo di averla già raccontata, o no? Ma qui c'è un sacco di gente che forse non l'ha ancora sentita, e allora sedetevi ragazzuoli, che vi spiego. Ci fu un frastuono di sirene, e quando uscimmo a vedere, restammo molto stupiti che non fossero i soliti CC o PS o GdF o Forestali, ma una colonna di ambulanze e Croce Rosse. Magari le aveva chiamate proprio Fournier, che ringrazio. Ho sempre pensato che fossero state molto tempestive, come se i picchiatori delle Diaz le avessero chiamate ancora prima di irrompere.

Voi, com'è giusto, la storia la conoscete dalla A alla Z: il poliziotto che si graffia il giubbotto con un coltello e poi lancia l'allarme (hanno cercato di accoltellarmi), i carabinieri e i poliziotti che entrano, le ambulanze che arrivano, le barelle che escono, il questore il giorno dopo in conferenza stampa che mostra le prove della resistenza armata della Diaz: un piccone fregato al cantiere di fianco, le molotov che poi qualche poliziotto confessò di avere fabbricato, e che in seguito sono misteriosamente scomparse, un sacco di coltellini svizzeri e pacchetti di kleenex da non sottovalutare (se si pensa che la principale fobia dei ragazzini in uniforme da poliziotto erano i fantomatici "palloncini di sangue infetto"). A raccontarlo sembra una comica, col sangue finto e i pugni per finta che fanno saltare i denti per finta.

Quando però le vivi, certe situazioni, ti trovi come nel mezzo della battaglia: non hai la minima idea di quello che sta succedendo. Dopo esserci nascosti per un quarto d'ora dietro la saracinesca della birreria, alla fine cedemmo alla tentazione di andare a vedere cosa succedeva. Non si capiva nulla, e non c'era nessuno che ti raccontasse la stessa cosa. Siccome nessuno mi aveva spiegato che i server avevano preso il volo, io mi fiondai subito all'ufficio stampa per aggiornare il blog, che ora mi sembrava la cosa più adulta da fare; stavo inutilmente cliccando il tasto refresh quando sentii un boato d'umana indignazione che mi scaraventò di nuovo fuori, e mi fece arrampicare sulla cancellata di fronte alle Diaz. Cosa stava succedendo?
"Portano via un morto".

Il morto in realtà era una barella carica delle famose munizioni di cui sopra, ma coperte da un telo verde impermeabile, che faceva un effetto body bag orribile a vedersi. Rimasi appeso alla cancellata per un tempo che mi sembrò interminabile, fregandomi del blog e probabilmente inveendo e fischiando a poliziotti e infermieri, ben sapendo che non era la cosa più adulta da fare.

Più tardi sono entrato, come altri cento, e ho visto le cose che avevano già visto altri cento: ma le ho viste male, in fretta, sicché quando le rifanno vedere in tv (molto di rado) non le riconosco, oppure confondo ricordi televisivi e reali, e mi vergogno. La sensazione di trovarsi al centro delle cose, che ci aveva aiutato a drizzare le antenne per tre giorni, stava svanendo. Ricordo sempre quella porta dei bagni forata da un colpo secco di manganello: m'immagino sempre di trovarmi lì, di chiudermi in bagno, di sentire le botte di manganello e poi di vedere la mano del poliziotto che si sbuca dal foro, trova la maniglia e la apre. Ma non ero lì, per cui in fondo il mio è solo un film come un altro.

Genova mi ha fatto paura, bisogna dirlo: quando tornai a casa continuavo a sentire le sirene, di giorno, di notte, per una settimana. Poi mi è passata.
Genova mi ha dato la scossa, e per alcuni mesi mi ha spinto a fare cose serie; ma in mezzo alle cose serie continuavano a esserci molte storie buffe, ridicole e apparentemente inadeguate, che col tempo hanno preso il sopravvento. Ho concluso che la vita è così, seria e ridicola insieme, che il bambino egotico e curioso che mi porto dentro non deve per forza morire in seguito a una battaglia: può restarsene lì, a patto che non rompa troppo.
Adesso vivo in una città ancora più piccola, davvero una miniatura; continuo ad aggiornare il blog per un motivo o per un altro e non racconto balle da reduce ai ragazzini, perché un reduce non sono.
I ragazzini poi sono terribili, perché ogni anno ne arrivano di nuovi, e non c'è cura migliore alle nostalgie sciocche di una nuova infornata di allegri ignoranti. Questi che stamattina han fatto l'esame sono del Novantatré, cosa vuoi che gli freghi di un tafferuglio che scoppiò a 9 anni? Quello che gli fa drizzare le antenne sono gli argentini torturati sotto lo stadio e lanciati dagli aeroplani senza paracadute. Il desaparecido volante è un enigma che coinvolge Storia, Geografia e Scienze: da che altezza venivano lanciati? Che velocità raggiungevano durante la caduta? Cadevano in moto uniforme o con un'accelerazione costante? Morivano asfissiati, inceneriti come le meteore, o annegavano? Questi sono misteri intriganti per un ragazzino.

Io non vorrei dover aggiungere misteri alla Storia del dopoguerra, che già ne sovrabbonda. Crescendo i miei ragazzini dovranno prendere appunti sull'Italicus, sulla Stazione di Bologna, su Ustica, Piazza Fontana... io vorrei che almeno si risparmiassero le Diaz. In fondo sono un mistero minore, che con un piccolo sforzo da parte dei carabinieri e dei poliziotti onesti si potrebbe archiviare in breve. Non era mica la guerra, anche se "Diaz" ha sempre avuto un suono sinistro (i giornalisti non avrebbero potuto inventarsi di meglio). Si disse subito che era l'Argentina, il Cile. No: erano le Diaz, nemmeno una scuola vera, una piccola palestra in cui le forze dell'ordine dello Stato repubblicano persero del tutto l'autocontrollo, e ancora aspettiamo che ci spieghino il perché.
Dovrebbero farlo. Sarebbe un bene per loro, per il Senso dello Stato dei nostri ragazzini, e anche per me. Personalmente non ho voglia di rivedermi tra cinque o dieci anni in un documentario sgranato, mentre mi appendo all'inferriata come un deficiente. Non vorrei perdere tempo a spiegare a mio figlio perché ero lì. Ero lì perché in quel momento non avrei sopportato di essere altrove: fine.
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Ok, disperdiamoci

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Dieci anni sono un intervallo interessante. Di solito, se è ancora troppo presto per il “com'eravamo stupidi”, è quasi sempre il momento in cui si smette di dire “sembra ieri”. Questo è curioso perché in effetti qualche somiglianza con ieri (le manifestazioni anti-tav, o quelle studentesche dell'autunno scorso) persiste. Eppure non c'è nessuno in giro che osi dire sembra ieri. Genova è già un termine di paragone storico: i suoi protagonisti (Agnoletto, Caruso, Casarini, i vertici della polizia italiana, Scajola, George W. Bush) sono lontani dai riflettori; l'espressione “Movimento di movimenti” nessuno la sente più da anni; il social forum nessuno si ricorda bene cosa fosse; indymedia Italia fa gli accessi di un blog di provincia. A quanto pare l'unico termine che è sopravvissuto nella memoria collettiva è “black bloc”, salvo che ormai vuol dire tutto e niente.

Di fronte a una dissoluzione così spettacolare, il primo istinto è quello di istituire un rapporto di causa-effetto con l'unico aspetto ancora assolutamente attuale dell'esperienza genovese: le mazzate dei poliziotti (quelle sì, potrebbero avercele date ieri o l'altro ieri, più o meno con gli stessi tonfa). L'ho letto da più parti: il movimento a Genova è stato “sconfitto”, ecco perché facciamo persino fatica a ricordarci cosa fosse la Rete di Lilliput o il Genoa Social Forum. Genova insomma sarebbe il migliore esempio di repressione di un movimento, una success story da insegnare a tutte i gendarmi del mondo, che dal Libano alla Spagna sembrano avere un gran bisogno di lezioni. Questo è il messaggio che rischia di passare, anche quando continuiamo a raccontare le nostre ormai decennali esperienze treno-mazzate-treno ad amici e conoscenti che, a questo punto, più che chiederci come ci siamo trovati a Genova dovrebbero chiederci cosa abbiamo fatto dopo. Ci hanno disperso, ci hanno dissuaso, soprattutto ci hanno “mostrato gli strumenti”: non ci hanno ammazzati ma ci hanno fatto capire che era un'opzione, e dopo lo choc iniziale ognuno è tornato alla sua vita; due mesi dopo sono venute giù le torri e il decennio ha preso un binario diverso.

Io ovviamente non sono d'accordo. Trovo questa versione non soltanto ingiusta – Genova non è stata la “fine” di un bel niente – ma anche in un qualche modo consolatoria. Perché se è vero che ci siamo dispersi, non sono state le mazzate a farlo. Ci siamo dispersi da soli, con calma, negli anni successivi. Alle mazzate si può riconoscere viceversa il merito di averci temporaneamente riunito in un qualcosa che il venti luglio 2001 era ancora un cartello di associazioni diverse, con storie diverse e progetti diversi, che addirittura facevano manifestazioni diverse (le maledette “piazze tematiche”) e il ventuno era un Movimento che marciava compatto, battezzato nel sangue di Piazza Alimonda e della Diaz. Da questo punto di vista Genova potrebbe anche essere considerato un inizio di qualcosa, di un “attivismo anni zero” che ha caratteri abbastanza diversi da quelli del decennio precedente.

Ora, proprio perché sono passati dieci anni di manifestazioni, è difficile rendersi conto della differenza, ma Genova non era una manifestazione come la concepiamo oggi, con un obiettivo, delle rivendicazioni precise, un comitato che la promuove, un percorso più o meno negoziato con le autorità ecc. A Genova eravamo arrivati con idee diverse, progetti diversi, e una piattaforma comune che si riduceva a uno slogan: un altro mondo è possibile. A parte questo, non c'era nessuna possibilità che un tesserato Legambiente potesse condividere qualcosa con una Tuta Bianca: se si fossero incontrati, non si sarebbero capiti, ma del resto anche questo era improbabile: dormivano in campeggi diversi, partecipavano a riunioni diverse, manifestavano addirittura in piazze diverse. Fino al diciannove. Il venti abbiamo scoperto che il manganello non faceva nessuna differenza; che le piazze tematiche erano trappole per topi, che nessun distinguo ci salvava dai pestaggi e dalle infiltrazioni. Lì forse abbiamo dato un taglio all'attivismo anni '90 e all'idea che la pluralità sia sempre un valore. Il social forum smise di essere un coordinamento di non-rappresentanti e diventò un movimento; tra l'altro fu uno di quei casi in cui l'insieme si rivelò maggiore della somma algebrica delle parti, perché molte persone che sfilarono il ventuno arrivarono a Genova quel mattino, ignorando gli inviti dei dirigenti dei DS che nella notte avevano ordinato alla Sinistra Giovanile di non salire sui treni e disdire le corriere. Il risultato fu abbastanza spettacolare: il venti c'erano ancora tute bianche, anarcoinsurrezionalisti, cattolici lillipuziani, rifondaroli, attacchini, sindacalisti; il 21 c'era il Forum Sociale. Non era più un modo di dire: esisteva, ed è esistito per parecchio. Nella mia pigra città si fecero riunioni regolari almeno per un paio di anni, e a un certo punto i reduci del G8 erano una minoranza; la maggior parte degli attivisti a Genova non c'era andata, eppure era chiaro a tutti che Genova era stato il punto di partenza. Poi cos'è successo? Tante cose.

Cominciamo da quelle positive. I membri di quel movimento, che oggi sembrano piuttosto inclini all'elegia e alla celebrazione, dieci anni fa non ebbero grossi problemi a riconoscere i loro errori, e ad ammettere che una forza più organizzata aveva giocato con loro come il gatto col topo. La prima cosa che doveva fare il movimento per ottenere una credibilità era marcare la sua differenza coi casseur più o meno nerovestiti, e lo fece. Nel giro di un anno e mezzo riuscì a riposizionarsi: da cartello di facinorosi a movimento pacifico e pacifista. Le tappe di questo percorso furono le marce della pace dell'ottobre 2001 e del maggio successivo; la manifestazione romana anti-wto del novembre 2001 (con il disturbatore Ferrara ad agitare la bandierina israeliana), fino al trionfale forum sociale di Firenze (novembre 2002), quando centinaia di migliaia di attivisti si incaricarono di smentire le profezie vandaliche di Oriana Fallaci. L'undici settembre, e l'immediata invasione dell'Afganistan, lungi dal disperderci diedero più stabilità alla piattaforma comune, ma soprattutto ci fornirono un avversario ideologico (il neoconservatorismo filoamericano) che rese molto più semplici le adunate: non c'era più bisogno di spiegare che mondo possibile si desiderava; bastava essere contro il mondo dei neocon: la guerra infinita, uno scenario molto più concreto del Wto o degli immaginosi imperi toninegriani. Da questo punto di vista, provocatori 'soft' come Ferrara o la Fallaci ci resero un servizio enorme. Il 2003 fu la consacrazione: non solo con l'invasione dell'Iraq i “noglobal” diventavano definitivamente “no war”, ma il loro attivismo era diventato un elemento stabilizzante per tutta la sinistra: quando Cofferati, all'indomani dell'assassinio Biagi, non annullò il corteo di Roma, ma lo trasformò in un'enorme e composta celebrazione, ricalcava inconsapevolmente su una scala molto diversa quello che avevano fatto Agnoletto & co all'indomani dell'assassinio di Giuliani; ma intanto aveva dietro di sé l'esempio di due anni di manifestazioni composte e pacifiche. Insomma, se si trattasse di un film, uno potrebbe scegliere di mettere i titoli di coda sulle adunate di Firenze e Roma, e sarebbe il migliore lieto fine immaginabile: c'era una volta un movimento fatto di tanti gruppi autoreferenziali, che non si parlavano e non distinguevano infiltrati e utili idioti, e che nel giro di pochi giorni sono cresciuti, sono cambiati, sono diventati un movimento serio con obiettivi precisi (la denuncia delle violenze della polizia, il ritiro dell'Italia dall'Iraq), alcuni li ha persino ottenuti, quindi fine. Ma appunto, non è un film: e quel che viene dopo è meno esaltante. È anche molto più difficile da raccontare. Cos'è successo dal 2004 in poi?

In un certo senso, niente. A invasione dell'Iraq completata, il ritmo delle grandi manifestazioni è rallentato, e ci siamo tutti dati una calmata. Non essendo un movimento generazionale, non ha senso cercare una spiegazione anagrafica; però nella vita di grandi e piccini esistono dei cicli, e forse chi aveva vissuto l'estate terribile ed entusiasmante del 2001 dopo tre anni era semplicemente stanco. Io per esempio cominciai a sentire una certa insofferenza quando mi resi conto che non c'era ricambio: tre anni dopo eravamo sempre gli stessi, ora si trattava di incrostarci e sopravvivere in attesa di confluire nella successiva ondata, nel successivo movimento di movimenti. Nel frattempo ci furono le amministrative e nella mia pigra città i noglobal arrivarono in Consiglio, addirittura in Giunta, e quello forse fu un altro segno della fine. Più in generale, dopo aver lottato contro la globalizzazione, contro la criminalizzazione e la repressione e contro la guerra, si trattava di passare alla fase propositiva, ma per questo passaggio non eravamo pronti, ammesso che un movimento lo sia. Molte idee sfoggiate a Firenze alla prova dei fatti mostravano la loro scarsa consistenza: mi viene in mente l'esempio del Bilancio Partecipativo: quando ci mettemmo a studiare da vicino la rivoluzionaria proposta della municipalità di Porto Alegre, ci accorgemmo che poteva essere rivoluzionaria, sì, per una cittadinanza analfabeta, e che i bilanci delle nostre amministrazioni comunali o circoscrizionali erano già altrettanto aperti senza nessuna rivoluzione. Andò un po' meglio con la Tobin Tax, perlomeno se ne parla ancora come di qualcosa di serio. Per il resto, continuavano a esserci milioni di buoni motivi per dire di no: no al Tav, no alla Del Molin, no al rifinanziamento delle missioni italiane, no ai periodici sgomberi... ma a quel punto eravamo più o meno tornati al pre-Genova, alle piazze tematiche e un po' autoreferenziali. Poi, se uno vuole, nella vittoria del sì all'ultimo referendum può anche verderci un colpo di coda dei noglobal seguaci di Zanotelli (ma anche dei verdi antinucleari anni'80: in fondo se smettiamo per un attimo di mettere a fuoco le etichette ci rendiamo conto che c'è gente che manifesta da vent'anni per lo stesse cose, anche se - comprensibilmente - ogni tanto cambia berretto).

Insomma è andata così. Poteva andare meglio. Però che sia chiaro: non è stata colpa delle mazzate, anzi. Finché ci sono state mazzate, c'è stata unità di intenti, prontezza di riflessi, determinazione a reagire. Qui mi fermo, perché il passo successivo è lamentarsi che abbiano smesso di darcene, e chiederne altre. E invece no: quello che ci è mancato è la concentrazione e la determinazione per passare al passo successivo, dal movimentismo alla politica. E un'altra cosa che ci è mancata – ma qui partiranno i fischi – sono stati i leader. Per forza, il movimento era antileaderistico e acefalo per sua costituzione. Però un movimento si riconosce anche dai personaggi che riesce a formare e selezionare, e qui sta la nostra vera sconfitta. Non abbiamo creato nessuna classe dirigente; quei pochi leader che avevamo li abbiamo presi in prestito dai centri sociali o dai cobas o dalla LILA. Non ne abbiamo creati di nuovi, e sì che a un certo punto sembrava che nelle nostre file militassero gli intellettuali, gli economisti, i giuristi, i mediattivisti più aggiornati (per quanto farraginosa e caotica, indymedia nel 2001 era lo stato dell'Arte dell'informazione on line). Da tutta questa fucina di talenti non è uscito quasi niente: giusto qualche romanzo, qualche pezzo celebrativo ogni estate verso il venti luglio, tutto qui.
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Tutti matti per B.B.

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La definizione di Black Bloc
"E questo è il mio contributo al movimento: un contributo da piccolo correttore di bozze frustrato" (un pirla, 10 anni fa).

Non so quanto senso abbia dirlo oggi, ma i veri Black Bloc di dieci anni fa (perché è questo che stiamo facendo: adoperiamo una terminologia di dieci e più anni fa) non mandavano i poliziotti in infermeria. Non che avessero alcuna simpatia per le forze dell'ordine, ma semplicemente questa idea di caricare i professionisti della carica, di bastonare i professionisti del bastone, non rientrava nelle loro pratiche di contrapposizione, credo che allora si dicesse così. Insomma loro facevano un'altra cosa precisa, che consisteva nel nascondersi e vandalizzare i simboli del potere economico (banche, fastfood, automobili a partire da una certa cilindrata, vetrine). Non erano nemmeno 'violenti' in senso stretto, a meno di non voler considerare le vetrine come esseri senzienti in grado di percepire il dolore, e in effetti a Genova molti piansero più per la sensibilità offesa dei negozi che per la testa spaccata di Giuliani. Diciamo che erano vandali organizzati, che allo scontro frontale (pallino dei masochisti militanti dei centri sociali italiani) preferivano tattiche di guerriglia oggettivamente meno rischiose, cercando di massimizzare l'impatto mediatico. L'idea era che un negozio devastato richiama più attenzione di centinaia di cortei pacifici, e non era così campata in aria, purtroppo.

Ne parlo al passato anche se probabilmente i BB veri da qualche parte esistono ancora, e continuano a spaccare vetrine con furia antiturbocapitalista. Però da noi non è più possibile chiamarli col loro vero nome, da Genova 2001 in poi, con tutta l'infiltrazione e la semplice confusione che ci fu in quelle giornate. Al punto che mi sento un pirla io, a voler fare la punta alle matite, a sottolineare che ai miei tempi, eh, ai miei tempi signora mia anche i Black Bloc erano una cosa precisa, mica tutto 'sta confusione di adesso.

In realtà no, non ho nessuna pretesa o speranza di vincere una battaglia terminologica che è già stata persa da anni, più o meno da quando ci siamo rassegnati a usare il termine finto inglese vero autarchico napulitano “No Global”, che all'inizio era una cosa che non si poteva sentire. Più o meno nello stesso periodo qualsiasi tizio col volto coperto pronto a tirare qualche oggetto contundente sul casco di un poliziotto è stato arruolato dalla stampa italiana nei temibili Black Bloc (spesso con un'altra kappa finale, non ci sono mai abbastanza kappa quando si parla di queste cose). Oppure negli anarco-insurrezionalisti, che anche loro in realtà sarebbero quelli che mettono le bombe nei cassonetti, salvo che lo fanno così raramente (una volta ogni due o tre anni) che il nome praticamente è sprecato, ed è un peccato perché suona proprio bene, anarco-insurrezionalista. Così alla fine lo hanno riciclato, lo usano tutte le volte che nei filmati non ci sono abbastanza manifestanti vestiti di nero, per cui usare Black Bloc suonerebbe un po' incongruo, ecco, quelli diventano anarco-insurrezionalisti.

In realtà è affascinante studiare perché certi nomi funzionino meglio di altri, ad esempio io capii che “No Global” aveva vinto quando vidi le magliette che vendevano ai margini dei forum sociali: qualche genio (malvagio) aveva serigrafato una foto del subcomandante Marcos col passamontagna e il dito medio alzato sopra a quel maiuscolo sfacciato NO GLOBAL, ecco, credo che si trattasse di un fotomontaggio, non ce lo vedo proprio il subcomandante, che a suo modo è persona di una certa raffinatezza, col medio alzato; ma quella serigrafia aveva qualcosa di così volgarmente efficace da mangiarsi in un boccone qualsiasi altro slogan più costruttivo e possibilista, ad esempio “un altro mondo è possibile”. Possibile? Ma quindi bisogna sbattersi a immaginarlo, fare progetti, prospetti, riunioni, una fatica che non ti dico (qualcuno crede che il movimento di Genova fu sconfitto a Genova, e invece no, finché si prese le botte cresceva e attirava consensi: cominciò a perderli quando si passò alla fase propositiva, dal forum di Firenze in poi). NO GLOBAL è molto più chiaro: ci sono dei malvagi global e noi gli diciamo no. Praticamente è neolingua: paradossale per costituzione, perché in fondo cosa c'è di più globalizzato del dito medio, probabilmente il segno non verbale più conosciuto del mondo. Un'altra cosa che funziona bene nella neolingua sono le allitterazioni: BB, Big Brother, Black Bloc, riempie la bocca in un modo meraviglioso, non che importi realmente che gente fosse e cosa faceva. Sì, è un po' come confondere PCI e Brigate Rosse; d'altro canto molta gente ormai lo fa.

Questa approssimazione nella terminologia, questo arrivare sempre più o meno con dieci anni di ritardo (magari alcuni “black bloc” della Val di Susa ai tempi dei BB veri avevano sei o sette anni), una volta era scusabile, diciamo fino a tutto il ventesimo secolo, quando certi gruppi o gruppuscoli erano semiclandestini e i loro ciclostili non sempre leggibili. Però siamo nel 2011, non è così difficile digitare “black bloc” su google. A questo punto secondo me un certo tipo di sciatteria è intenzionale. Voglio dire che ci tengono, i giornalisti, a risultare poco informati sull'argomento. È un modo per far sentire le distanze. Nessun organo di stampa serio vuole mostrare di conoscere, anche solo per cultura generale, la lingua dei facinorosi. In fondo è sempre una questione di propaganda, più che di informazione, coi quotidiani italiani.

Ricordo sempre (e mi scuso, perché non c'entra poi così tanto) quel che scrisse Repubblica l'indomani della morte di Giuliani. Scrisse che era un “Punk bestia”, precise parole, punk bestia. E già allora mi chiedevo come fosse possibile che nessuno in quella redazione conoscesse la grafia di pancabbestia, un neologismo ventennale, così poco neo da risultare ormai quasi affettuoso. Mentre a smontarlo recuperava tutto il disprezzo originale, come si fa a dare della bestia a un ragazzino morto? Oggi avrebbe ventotto anni e magari una laurea in scienze marine, va' a sapere.

Io poi tutta la faccenda non la sto seguendo molto, e così come non pretendo di sapere se il TAV sia giusto o no (a occhio mi pare una scommessa rischiosa, l'unica certezza i soldi degli appalti) non saprei neanche più dire chi siano realmente i “black bloc” o “anarcoinsurrezionalisti” della Val di Susa. Faccio fatica a immaginarli grillini, anche se Grillo a furia di promettere apocalissi che non arrivano qualche fanatico lo starà crescendo, ogni Lutero ha il suo Müntzer. Il loro approccio frontale, più che violento masochistico, mi ricorda tantissimo i soliti movimentisti dei soliti centri sociali, con o senza ricambio generazionale: il loro antico pallino per le battaglie campali e per le ferite da mostrare. Alla fine sono complementari ai picchiatori che hanno davanti, e che probabilmente gliele hanno date anche stavolta di santa ragione senza attendere che qualche manifestante scagliasse la prima pietra: non faccio nessuna fatica a crederci, così come non dubito che parecchi residenti e manifestanti pacifici, sotto i fumogeni, abbiano simpatizzato con loro. Però il risultato della battaglia è sempre il solito: da qui in poi chi è contro la Tav è un terrorista, avanti con la Tav. Anche qui, sarebbe bastato cercare su google, c'è tutto un archivio, una galleria, un museo degli errori impressionante. Ma anche qui, c'è gente che su google si guarda bene dall'andarci.
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Non disperdiamoci

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L'imboscato
- Una volta questo blog era, non lo dico per vanteria (anzi un po' me ne vergogno) il più manifestaiolo di tutti; poi è successo qualcosa, in modo anche abbastanza brusco: non so se ci avete fatto caso, ma ai cortei non ci vado più. A volte ci invito gli altri, ma poi non ci vado lo stesso. A volte faccio il tifo. A volte faccio finta di niente.

A questo punto però ci tengo a mettere agli atti che se non scendo più in piazza non è per disillusione, non è per divergenze sulla piattaforma programmatica, non è perché mi si nota di più. No, vorrei che fosse chiaro che le cose sono molto più semplici: ho messo pancia, ho messo famiglia, ho una pila di roba da correggere alta così, insomma banalmente invecchio.

Queste scuse non richieste non interessano probabilmente nessuno, e nemmeno le avrei scritte, se non avessi letto in questi giorni su diversi blog affini a questo una certa insofferenza per le adunate di piazza. Per esempio Bordone che fa i distinguo con le femministe (poi però in piazza ci va e si diverte), Costa che fa ironia, Adinolfi che fa due calcoli e scrive: andare in piazza è una stronzata. Ecco, per me no. Andare in piazza non è quasi mai una stronzata. Sono contento che qualcuno abbia più energia di me e ci vada. Lo ritengo tutto sommato necessario. In particolare, sono contento che la manifestazione delle donne sia venuta così bene. Io mi sono tenuto a distanza, ultimamente ho qualche difficoltà a capire e a farmi capire da diverse donne, però credo che abbiano ragioni da vendere, pardon, da regalare (insomma le ragioni sono vostre, gestitevele voi); essere donne in Italia è difficile, oggettivamente.

C'è da dire che abbiamo un tempismo fantastico, noi blogger italiani d'opinione: mentre in medio oriente le piazze fanno tremare i tiranni, noi ci domandiamo se la piazza sia opportuna, se la piazza non abbia controindicazioni, se la piazza non sia moralista, presbiteriana, eccetera. Per me l'unico vero difetto delle piazze italiane è che non si riempiono abbastanza: probabilmente tante volte non siamo riusciti a concludere qualcosa non perché andavamo troppo in piazza, ma perché ci siamo rimasti troppo poco. E comunque è opinabile anche questo. Io in dieci anni tutte queste manifestazioni inutili, per nobili cause senza speranze, non me le ricordo. Ho manifestato per chiedere luce sui fatti di Genova, e un po' di luce c'è stata. Ho manifestato contro l'abolizione dell'articolo 18, e l'articolo è rimasto (ok, la cosa era un po' più complessa). Ho manifestato contro la guerra in Iraq; Romano Prodi ha vinto le elezioni e il contingente italiano ha lasciato l'Iraq. Potevamo ottenere qualcosa di più? Senz'altro, ma tutte le volte che siamo stati davvero tanti, che abbiamo forato in tv e sui giornali, qualcosa a casa lo abbiamo portato. Magari è solo una coincidenza, ma all'indomani della manifestazione delle donne i sondaggi hanno dato Berlusconi in calo verticale (alla salute di tutti quelli che pensavano che il caso bunga-bunga non lo avrebbe danneggiato, quelli che conoscono gli italiani e hanno il polso del Paese). Certo, non è una cosa automatica. Non è che se manifesti un paio di giorni la Gelmini ritira la riforma universitaria o Berlusconi si dimette. Però lo abbiamo fiaccato, Berlusconi... pardon, lo avete fiaccato, io stavo a casa e scrivevo sul blog.

Ecco, ho anche questa cosa da dire a mia discolpa. Ho un blog. Una serie di fortunate circostanze lo ha reso più letto di altri. In piazza non sono che un minchione tra tanti (un decimo di minchione per la questura), ma qui posso spiegarmi, posso far partire dei messaggi, insomma a un certo punto mi sono raccontato che il mio contributo alla causa potevo darlo da qui. Tanto più che non sono più quel bel giovane zazzeruto che nelle foto in mezzo agli striscioni veniva così bene. E allora come si spiega questo rimorso sottile.

Probabilmente è la consapevolezza che i nipotini non se la berranno. Nonno, insomma, mentre Berlusconi mandava tutto in vacca tu cosa facevi? Eri passato in clandestinità, almeno? No, non proprio, all'inizio andavo in piazza, ma poi le cose si fecero lunghe, misi pancia, misi famiglia... però continuavo a esprimermi su un sito che funzionava col protocollo http... sì, vabbe' nonno, ciao.

PS: se Berlusconi proprio non si vuole dimettere, io uno sciopero generale lo faccio volentieri. Un giorno, una settimana, quel che serve. Mi ha già rubato così tanti anni.
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Uno cento mille Cossiga

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Update: questo pezzo è stato originariamente pubblicato con le immagini prese da questo post di Mazzetta che mostravano un manifestante curiosamente equipaggiato con armi e strumenti in dotazione alla polizia. Le immagini successivamente sono state diffuse un po' dappertutto, e il tizio è stato identificato come uno studente, per esempio sul Post e su Indymedia (Indymedia Lombardia in questo caso, Indy Roma ha altre priorità). Credo che il senso del mio pezzo non cambi di molto se le tolgo.

Comunque coraggio

Sono stanco, è stata una giornata dura. Immagino che molti abbiano riflettuto molto più di me, e fatto notare il paradosso di un voto di fiducia che ci avvicina alle elezioni. È ovvio che con una maggioranza così risicata Berlusconi non sarà in grado di governare: è altrettanto naturale che non sia nelle sue intenzioni (è discutibile che governasse prima). L'importante è restare al centro della scena e dimostrare che nessuna maggioranza è possibile: quindi nessuna riforma della legge elettorale è possibile. Così, a occhio, il vero vincitore è Bossi, che voleva le elezioni a primavera e le avrà. E le vincerà, probabilmente. Più appannata appare, per ora, la stella del suo alleato. Però da qui a primavera c'è tutto il tempo per organizzarsi e riportare a casa il risultato. Chi è scettico, pensi a quanto sembrava spacciato Berlusconi qualche settimana fa, sommerso dagli schizzi del bunga bunga. Gli si è lasciato un mese di tempo, ecco il risultato. La sua fine, quando sarà, verrà alle spalle e improvvisa: non c'è alternativa, se gli lasci un po' di tempo lui si riorganizza e ti sistema. Qualcuno da comprare lo troverà sempre.

Sono stanco, e invidio chi a sinistra già sta facendo partire il training autogeno: dai che a primavera possiamo farcela. Mi spiace molto, ma secondo me no: non abbiamo i numeri, soffriamo una legge elettorale che ci penalizza, mentre il nostro avversario controlla i media che orientano il giudizio del grosso dell'elettorato – che non si orienta ancora su facebook, e nemmeno nelle riserve indiane di Annozero o Ballarò. L'offensiva mediatica che stiamo per subire sarà la più violenta; in effetti la mia unica speranza è che fallisca per esagerazione. In fondo i registi, i Fede e i Vespa sono anziani, conoscono perfettamente il loro pubblico anziano ma potrebbero anche rimbecillirsi un po', calcare troppo la mano. Finora non è mai successo, ma chissà.

Nel frattempo Roma brucia, e per loro non c'è uno scoop migliore. Che gli utenti di Minzolini e Mimun abbiano chiaro che oltre Berlusconi c'è il caos, l'anarchia, il black block con la kappa che da anni non ha più niente a che vedere con il gruppo storico: non si tratta semplicemente di pigrizia dei cronisti, ormai dobbiamo accettare il neologismo: quando in mezzo a un corteo spuntano caschi neri e radio della polizia, ivi è il black block, e il gioioso spontaneismo di qualsiasi onda verde o arcobaleno è finito.

Non sarò il solo stanotte o domattina a citare Cossiga; fa lo stesso, non m'interessa essere originale: citiamo tutti Cossiga, all'infinito, alla noia, diventi l'ultimo Cossiga the new Pasolini; metti che qualche studente non lo abbia mai sentito e in queste stesse ore si stia convincendo che lanciar sassi a un celerino è cosa fighissima. Dunque, studenti, mentre vi esprimo la massima stima, vi scongiuro di non ascoltare i consigli di quelli della mia generazione o successive, chiunque vi rompa le palle con le masturbazioni sul sessantotto o il settantasette o il gìotto di Genova e di meditare unicamente queste frasi dell'ex Ministro degli Interni Franceso Cossiga, boia:

"Infiltrare il movimento con agenti provocatori pronti a tutto, e lasciare che per una decina di giorni i manifestanti devastino i negozi, diano fuoco alle macchine e mettano a ferro e fuoco le città...
Dopo di che, forti del consenso popolare, il suono delle sirene delle ambulanze dovrà sovrastare quello delle auto di polizia e carabinieri. Le forze dell'ordine dovrebbero massacrare i manifestanti senza pietà e mandarli tutti in ospedale. Non arrestarli, che tanto poi i magistrati li rimetterebbero subito in libertà, ma picchiarli a sangue e picchiare a sangue anche quei docenti che li fomentano. Non quelli anziani, certo, ma le maestre ragazzine sì".
"l'ideale sarebbe che di queste manifestazioni fosse vittima un passante, meglio un vecchio, una donna o un bambino, rimanendo ferito da qualche colpo di arma da fuoco sparato dai dimostranti: basterebbe una ferita lieve, ma meglio sarebbe se fosse grave, ma senza pericolo per la vita"
"Io aspetterei ancora un po', e solo dopo che la situazione si aggravasse e colonne di studenti con militanti dei centri sociali, al canto di 'Bella ciao', devastassero strade, negozi, infrastrutture pubbliche e aggredissero forze di polizia in tenuta ordinaria e non antisommossa e ferissero qualcuno di loro, anche uccidendolo, farei intervenire massicciamente e pesantemente le forze dell'ordine contro i manifestanti"..


Voi avete tutto quello che vi serve per essere più furbi di quanto lo siamo stati noi: un ampio dossier di errori da cui imparare. Permettete il riassunto: ogni vetrina rotta sono cinquanta voti in più all'animale. Se una videocamera riprende, i voti diventano mille. Chi tira al poliziotto, è un poliziotto. Se non lo è lo diventa in quel momento. Lasciate che si spacchino la testa tra loro, li pagano per questo. Voi non vi paga nessuno: state in gruppo, urlate, non cedete alle provocazioni. Le cose non cambieranno domani e nemmeno dopodomani. Nessuno vi ha mai detto che sarebbe stato facile. O ve l'hanno detto? Mentivano. Comunque coraggio.
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La Marescialla

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Uno a zero per te

Ho pensato spesso alla Marescialla in questi ultimi anni; molto più di quanto lei si meritasse.

Quando cominciai a mettere da parte le Dieci Intercettazioni Che Ci Hanno Fatto Sognare, la immaginavo sul podio, forse al primo posto: forse tutta la commedia della classifica era soltanto una morbosa strategia elaborata dalla mia mente per rimetterla sotto i riflettori, lei che c'era stata per così poco.

Poi il buon senso ha preso il sopravvento: in un qualche modo devo essermi reso conto che la Marescialla è un'ossessione soltanto mia; a un certo punto ho voluto accorgermi che in senso tecnico la sua telefonata non è un'intercettazione. Durante i fatti del g8 la questura di Genova stava registrando le comunicazioni tra agenti e centrale operativa. Immagino sia la prassi. Il fatto è che in quei giorni le forze dell'ordine distruggevano le documentazioni fotografiche e filmate; addirittura irruppero nella scuola Pertini e si portarono via i server del Genoa Social Forum. La volontà di riscrivere la storia di quei giorni sembrava evidente. E allora perché non hanno cancellato i nastri della centrale operativa? Perché hanno lasciato che gli avvocati delle vittime acquisissero le comunicazioni dove si attestavano le violenze della polizia, e soprattutto il caos in cui stava operando? Un sussulto di trasparenza, o un altro caso di disorganizzazione? O ancora il risultato di una lotta tra bande, per cui si erano lasciate filtrare soltanto certe comunicazioni, e altre no... non lo sapremo mai, accontentiamoci di quel che abbiamo. La Marescialla, intrappolata nella sua registrazione come un insetto nell'ambra. Un insetto che ride, scherza, esulta per la morte di un ragazzo (ma anche l'esultanza in fondo è parte dello scherzo).

Di lei non sappiamo nient'altro. A Genova ci abitava, il che le impediva di godersi appieno l'esperienza. Temeva (non a torto) che le sfasciassero la macchina. Non era una violenta, non sentiva l'odore della sfida che in quei giorni impregnava le strade. Era contentissima di trovare riparo dietro le "montagne enormi" del Reparto Mobile di Napoli, gente che per calpestare le zecche era venuta da lontano, magari aveva fatto domanda. Lei invece se le era semplicemente trovate sottocasa e sperava che morissero tutte: vasto programma, ma all'alba di sabato poteva trovare promettente il fatto che ne avessero ammazzata già una. Uno a zero per noi, yeh!

Uno a zero per noi, yeh.

Quand'è che l'ascolto di una conversazione più o meno privata, divulgata via internet o tv, si trasforma in compulsione morbosa? Nel mio caso ha a che fare col lettore mp3, con l'idea di infilare una telefonata in un lettore, e poi, a distanza di mesi e di anni, mentre si è in tutt'altre faccende affaccendati, in coda a un semaforo o in palestra, ritrovarsi a tu per tu con la Marescialla che ripete: Uno a zero per noi, yeh. Amica, amica. Speriamo che muoiano tutti. Maledette zecche del cazzo. È l'odio che mi ha lasciato un promemoria, perché mi conosce, sa che sono pigro in tutte le passioni, compreso il rancore: incapace di odiare tanto a lungo, e invece dovrei. A Genova avrei potuto perdere un occhio, o un dente, o un naso: ad altri è successo, che non erano molto più incoscienti di me. Poteva succedermi, e la Marescialla ne avrebbe riso.

Ciao Marescialla. Mi chiedo a volte dove sei in questo momento. Non che abbia la minima importanza. In questi nove anni sarai cresciuta anche tu, come tutti noi (meno uno). Avrai avuto le tue gioie e i tuoi dolori, facile che abbia messo su famiglia, magari proprio con Nicoula. Nel 2007, riascoltando la tua voce su internet, avrai probabilmente avuto pena di te stessa. Non ti sarai voluta riconoscere in quell'allegria, quel sorriso congelato nell'ambra, una smorfia che non ti rappresenta. Tu non sei più così, ormai è come se non lo fossi mai stata. Siamo tutti migliori di come ci intercettano. Ti sarai sentita presa di mira, esposta alla rabbia di milioni di zecche, non più coperta dall'ala protettiva del Repartomobbile, tu che in fondo stavi soltanto dicendo belinate a un collega, come se ne dicono in tutti gli ambienti di lavoro.

Ciao Marescialla, da una zecca del tempo che fu. Uno che non avrebbe mai sfasciato la macchina a nessuno - prima di averti ascoltato: dopo, due bottarelle al tuo cofano le avrebbe assestate volentieri. C'è stato un periodo in cui ti ascoltavo apposta, mi davi la carica. Quando mi sentivo troppo buono, caricavo il tuo nastro e poi ero pronto a dar calci contro il muro. Ma è passata anche quella fase. Alla fine, sai cos'è successo? Che mi sono affezionato. Lo so che c'è gente come te nelle centrali operative di tutti gli abusi di potere del mondo, che si fa quattro risate mentre passa le comunicazioni tra assassini. Però alla fine non ha senso prendersela con te. E poi mi sono accorto che t'invidio.

Non t'invidio l'allegria, né senz'altro il mestiere. T'invidio Genova, che è una città di cui mi sono preso in un modo difficile da spiegare. Forse perché nessun'altra mai mi aveva tenuto fuori, con tanto di transenne e un muro di container: e allora sai come sono i maschi, certe volte s'incapricciano. Ogni tanto mi capita di rivederla alla tv, e mi sembra mia, non so perché. È come certe storie che durano una notte o due, poi ognuno per la sua strada: c'è chi non se ne ricorda più, c'è chi se le tiene dentro per tutta la vita. Genova non si ricorda più di me, lo so, la capisco. Io invece continuo ad ascoltarti perché mi fai pensare a lei. Buona vita Marescialla, e scusa se mi sono preso la tua città per un paio di notti. Ti giuro che mi piaceva, mi piaceva sul serio.
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Questo è Intrattenimento

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Se anche questa sera voglio stare a casa

Drin, drin
“Pronto, ma chi è?”
“Sono Arci, disturbo?”
“S-no, aspetta... solo un attimo... devo pausare... ecco”.
“Cos'è che devi fare?”
“Ma niente... stavo guardando una cosa sul... sul lettore. Dimmi”.
“Ma hai sentito di Genova?”
“Eh?”
Il processo! Hanno condannato quelli che sono entrati alle Diaz”.
“Ah, bene”.
“Ma bene un cazzo! Hanno preso solo i pesci piccoli! Tutti i graduati scagionati...”
“Ahi”.
“Io non ho parole. Non le ho più, veramente”.
“Eh”.
“E neanche tu, mi sembra”.
“Ma infatti cosa vuoi che ti dica, guarda... è uno schifo”.
“Altroché”.
“Ma mica da oggi”.
“Infatti io non ne posso più. Ne ho parlato anche con Aurelio. Te lo ricordi Aurelio”.
“Come no”.
“Lui dice che siamo a Vienna ormai. Il congresso, capisci?”
“Che congresso?”
“Il congresso di Vienna! 1814! La restaurazione in tutta Europa! È lì che siamo tornati!”
“Beh, in effetti”.
“Per cui lui sostiene che bisogna ripartire da lì”.
“Che in pratica vorrebbe dire...”
“Insomma, stiamo rifondando la Carboneria”.
“Tu e Aurelio”.
“Ti chiamavo infatti per sapere se ci volevi stare”.
“Eh?”
“Sta tranquillo, chiamo da un anonimo occultato. Comunque se ci stai d'ora in poi dovremo comunicare con un codice crittografico che...”
“Scusa, eh. Però non mi sembra una cosa seria questa. Cioè, mica si fonda in due o tre, la Carboneria”.
“Ah, ma non credere che all'inizio, nel 1814, fossero molti di più”.
“Sarà, ma comunque...”
“E anche in seguito, c'è poco da scherzare, sai? La prima generazione, tutti alla forca. Il carcere duro nei casi fortunati. Però da qualche parte bisogna pure iniziare. E allora, ci stai o no?”
“Ci devo pensare”.
“Balle. Sì o no, avanti. Non posso mica perder tempo, sto chiamando tutto l'indirizzario del duemilaetré”.
“Vedi, il punto è che ho tantissima roba da fare, tu non hai veramente idea di quanta”.
“Bravo, spezzati la schiena per Tremonti”.
“C'è questo mutuo maledetto che...”
“Bla bla bla”.
“E ho anche messo famiglia, sai”.
“E che futuro le prepari, ci stai pensando?”
“Arci, ma ti rendi conto? E' mezzanotte, sono qui sprofondato sul divano e tu mi telefoni per chiedermi di unirmi a una congiura e ti devo dire sì o no subito? Non posso pensarci almeno fino a domani?”

La mia generazione non è che abbia avuto tutte le fortune del mondo, eh, possiamo anche dirlo.
Certo, ad altri è andata pure peggio. Noi siamo pur sempre quelli troppo giovani per le pere e troppo vecchi per il crack. Non ci hanno nemmeno fatto respirare il ddt. In compenso siamo stati irradiati da tantissima televisione a colori che, si è scoperto in seguito, faceva male.
E si vede. Prendi un trentenne di successo a caso (uno dei 15 trentenni di successo di cui si fregia l'Italia): uno scrittore o politico o musicista o che ne so. Grattalo un po', e vedrai cosa salta fuori: Goldrake e Fonzie, Fonzie e Goldrake. Tutto qui? Quasi sempre tutto qui. Eppure.
Eppure, a furia di prendere sberle dalla Realtà, a un certo punto sembravamo esserci svegliati pure noi. E proprio quando cominciavamo a capire che il mondo aveva bisogno del nostro impegno. Proprio quando cominciavamo a sensibilizzarci, a responsabilizzarci, a organizzarci. Proprio quando ci apprestavamo a raccogliere il testimone dai quarantenni spossati, proprio quando sembrava giunta finalmente l'ora di uscire di casa...

“Se proprio insisti ti richiamo domani”.
“Oh, grazie. Adesso ciao, eh?”
“Ma senti. Cosa stai guardando?”
“Io? No, niente”.
“Come niente. Quando ti ho chiamato, hai detto che mettevi in pausa qualcosa”.
“Mah, sai, è una serie americana che ho scaricato”.
“Una serie?”
“Sì, è la quarta serie di un telefilm che... qui da noi in chiaro stanno ancora mandando la terza... devo dire che mi sta prendendo”.
“E di che parla?”
“Mah, è un gruppo di straordinari eroi che lotta per la salvezza del loro mondo, ma... detta così, suona ridicola”.
“Mentre invece...”
“Mentre invece ognuno di loro ha una storia molto incasinata, gli elementi fantastici sono finalizzati alla caratterizzazione psicologica, ci sono degli incastri narrativi particolarmente complessi, insomma è scritta davvero bene, certe volte ti viene l'invidia, davvero...”
“Ti sento molto entusiasta”.
“Beh, guarda, mi ero messo lì a guardare un episodio alle sette, e poi...”
“E' mezzanotte ormai”.
“Cacchio, vuol dire che sono qui sul divano immobile da cinque ore”.
“Non devi andare in bagno?”
“No. Anche perché non ho bevuto niente. Disidratato”.
“Gli americani sanno il fatto loro”.
“Ah, ma quando ti capita di vederla, capirai. Cioè, magari i primi due episodi ti sembra una stronzata. No, diciamo che fino a metà della prima serie è una stronzata. Ma poi....”
“Ti prende”.
“Se vuoi ti passo la prima serie, c'ho il cofanetto... comunque sul mulo trovi tutto, eh”.
“Grazie, ma non credo che avrò il tempo”.
“Ah già, dimenticavo, la Carboneria”.
“Sì, quella m'impegnerà molto, temo”.
“Allora mi richiami domani?”
“Forse”.
“Solo magari cerca di suonarmi verso le sette, perché dopo...”
“Non vuoi essere disturbato”.
“Mi mancano ancora sei episodi. Così dopo non ci penso più”.
“Ma dopo ne troverai un'altra”.
“Un'altra così? No, questa è davvero l'ultima”.
“Dici sempre così”.
“A domani allora, eh?”
“A domani”.

...Proprio quando sembravamo finalmente cresciuti, flop! Atterrarono in un colpo sui nostri salotti centinaia di serie americane, tutte meravigliose e intriganti, tutte più intelligenti di quanto non sembravano, tutte scaricabili gratis, tutte per noi. Direi che anche stavolta il Risorgimento è rimandato.
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"Gli incidenti sono stati provocati ad arte"

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Ho come la sensazione che tra breve i nostri soliti racconti da reduce del g8 non interesserano più nessuno.

(In bocca al lupo, eh, ragazzi).
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Salva il mondo, salva il p-d-leader

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L'imboscata

Caro Walter Veltroni,
ho ricevuto la sua lettera in cui mi chiede di partecipare alla manifestazione nazionale del PD di sabato. Le dirò, ci sto riflettendo. Mi sto interrogando su tante cose.
Per esempio, mi sto chiedendo fino a che punto sia stato corretto creare una banca dati con gli indirizzi di chi ha votato alle Primarie. Non si faceva prima a tesserarci tutti? Ah, già, ma il Foglio vi aveva spiegato che bisognava fare il partito moderno, all'americana, senza tessere. E tuttavia, in un qualche modo un “partito con quattro milioni di tesserati” mi suona meglio di “partito con un indirizzario di quattro milioni di cittadini”. Ma vabbè, questi son dettagli.

Mi chiede di andare in piazza il 25 d'ottobre per salvare l'Italia. Bello slogan, eh. Se poi vado sul sito e cerco qualcosa di più concreto, delle proposte... non ce n'è. A meno che io non creda che manifestando contro il governo, il governo cadrà come una pera matura. Ma non funziona così di solito, no? Altre volte si sceglieva il punto debole dell'avversario e si attaccava tutti compatti lì: per esempio, il 23 marzo di Cofferati era contro l'abrogazione dell'articolo 18: semplice e concreto. Ma stavolta?

Ok, c'è la petizione sui tagli alla scuola, questione sacrosanta; ma ci si sorprende a pensare: meno male che la Gelmini sta facendo questi tagli, così abbiamo qualcosa di concreto contro cui manifestare. Insomma: adesso sappiamo per cosa combattiamo. Anche se è ben curioso, no? Questa manifestazione è stata programmata in giugno.

Caro Veltroni, secondo me programmare una manifestazione a quattro mesi di distanza è stato un grandissimo errore. Direi che basterebbe questo a farmi seriamente dubitare sulle sue doti di stratega e di leader. In quattro mesi può succedere di tutto: infatti è successo di tutto. Prima si è fatto rubare la scena da Di Pietro, poi c'è stato quel mezzo inciucio su Alitalia, poi il crack delle borse... i motivi per cui dovrei manifestare oggi sono davvero diversi da quelli che mi avrebbero portato in piazza tre mesi fa. Come molti elettori democratici, ho il vizio di voler essere trattato come una testa pensante, uno che riflette, e non come una pecora che si pascola in piazza nella data programmata.

Non solo, ma quando tu fai sapere a tutti che quattro mesi dopo sarai lì, il minimo che ti puoi aspettare è che ti preparino un'imboscata. Che è esattamente quello che sta succedendo, basta leggere il Foglio per rendersene conto. Anche se poi, il Foglio, ormai, chi lo legge più? Ah, lei, già. Beh, cos'ha pensato quando ha letto quel pezzo(*) in cui le veniva spiegato che la manifestazione del 25 sarebbe stata un successo soltanto dal milione in su? Non si è sentito definitivamente preso in giro? Prima l'hanno convinta a non tesserare la gente, e poi le chiedono un milione? 

Lei sa, tutti sappiamo, che un milione di manifestanti è una quantità assai difficile da raggiungere (e comunque da contare: anche se ce la facessimo, nessuno ce lo riconoscerà mai). È vero che durante il Berlusconi II il contapersone era un po' saltato a tutti, e si sono salutate spesso folle di due e persino, con Cofferati, tre milioni (e non si capisce perché a quel punto il buon Sergio non abbia semplicemente ordinato di marciare su Palazzo Chigi, visto che Roma fa appena due milioni e 700mila abitanti). In seguito c'è stato un po' di revisionismo sull'argomento: persino la Repubblica ha riconosciuto che il Circo Massimo si riempie con meno di un milione, ecc.. E adesso, guarda un po', chi è che ti rivende come nuova la panzana dei tre milioni di Cofferati? Il Foglio! Ma quanto sono stronzi, eh? Non ci si crede.

Per farla breve: un corteo alla buona, ma appassionato, organizzato in luglio, avrebbe potuto sembrare l'inizio della riscossa; il super-mega-corteo tanto atteso di ottobre non potrà che essere un flop. Anche se facessi il mio dovere di brava pecora obbediente, ecc., ecc., ecc.. E il pezzo avrebbe potuto anche finire qui, ma ieri è successo (lo sapete) che Berlusconi ha invitato la polizia a entrare nelle università. Quel poco di esperienza che ho maturato mi dice che quando i reparti speciali abituati a spezzare le schiene agli ultrà si ritrovano di fronte a degli studenti, succede un guaio di quelli che poi se ne interessa Amnesty International, e non sto scherzando: Amnesty International. Ovviamente sto pensando a Genova, ma pensare a Genova mi ha anche fatto ricordare quel sabato mattina in cui ero io che avevo un bisogno disperato di un grande manifestazione civile e democratica; perché i resti di Carlo Giuliani erano ancora caldi, e per mezza Italia io non ero che un teppista spaccavetrine e bruciamacchine. Ecco, in quell'occasione il grande corteo serviva a me, per spiegarmi, per riportare la pellaccia a casa, e Massimo D'Alema disse no: a Genova non ci dobbiamo andare. Ecco. Quand'ero nei guai, voi per me non c'eravate.
Adesso siete voi ad avere bisogno di me, e io quasi quasi vi direi no. 

...E il pezzo poteva finire anche qui. Ma poi è arrivato il comunicato di Cossiga. E tutti i blog a dire brutto Cossiga, ma perché? Cos'ha fatto di male stavolta? Ha solo detto la verità, quella che ti libera. Ormai l'unica speranza di vederci chiaro nei misteri di trent'anni di Storia d'Italia sta negli errati dosaggi di farmaci del vecchietto ciclotimico. Credo che Cossiga sia il primo pezzo grosso ad ammetterlo: nei movimenti c'erano infiltrati che creavano caos. Lo abbiamo sempre saputo, ma ormai c'eravamo stancati di dirlo, sembravamo paranoici. Almeno ora sappiamo che non eravamo paranoici a caso. "Il suono delle sirene delle ambulanze dovrà sovrastare quello delle auto di polizia e carabinieri". E' esattamente quello che accadde alle Diaz, grazie per avermi finalmente spiegato il perché.

E soprattutto: alla fine Cossiga mi ha fatto venire voglia di andarci, a Roma. Perché bisogna farmi incazzare, e lui ci riesce ancora. C'è da ringraziarlo, davvero.

(*)...non riesco a lincarlo. Il sito continua a fare schifo.
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Passa la Storia, fai ciao con la manina

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(Ristampa da un anno fa)

Genova fu una dimostrazione fascista.

Genova dovremmo iniziare a raccontarcela in un modo diverso.
Quando dico “raccontare”, non parlo di bugie, ma dell’esigenza di raccogliere centinaia di testimonianze, memorie, fotogrammi, in un qualcosa che abbia un capo e una coda, un senso e una morale: un racconto.
In questo racconto, di solito, ci sono gli 8 uomini più importanti della terra riuniti in una città, e migliaia di persone seriamente preoccupate per la situazione che vanno nella stessa città a manifestare il loro malcontento. Alcuni erano pacifici, altri molto meno, alcuni erano immersi in una loro mitopoietica personale di zone rosse e armature di gommapiuma, alcuni la sapevano più lunga. E parecchi hanno preso tante, tantissime mazzate, soprattutto in una scuola (le Diaz) e una caserma (Bolzaneto). Un ragazzo è morto. Noi ce la raccontiamo così, e tutto sommato nel nostro racconto non c’è niente di sbagliato. Resta comunque un racconto insoddisfacente, che non spiega quasi nulla.

Il nostro racconto pecca del solito vecchio peccato: l’autoreferenzialità. Siccome a Genova c’eravamo anche noi, riteniamo giusto raccontarlo dal nostro punto di vista. Preso il treno, fatto il corteo, prese le mazzate, ripreso il treno. Tutto questo può essere interessante (anche le foto delle vacanze sono interessanti, a piccole dosi), ma è solo la punta dell’iceberg.
È tempo di ammetterlo: noi non siamo i protagonisti di Genova. Un livido, una cicatrice, un bello spavento, non ha fatto di noi i protagonisti. Avremmo voluto tanto esserlo, una volta almeno nella nostra vita. Con tutte quelle videocamere in giro il rischio di passare alla Storia era molto forte. Ma anche stavolta i fatti ci hanno oltrepassato, e di molto. Genova avrebbe dovuto essere la nostra manifestazione, ma non lo è stata.

Genova è stata la manifestazione dei ragazzi in uniforme blu, in uniforme nera, in tuta aderente con casco accessoriato, con scudo di plexiglas, con lacrimogeni non omologati. Genova è stata la sagra del tonfa, il manganello multiuso. Genova è stata la dimostrazione delle forze dell’ordine, che venivano da tutte le parti a confrontare le proprie esperienze: bella la tua divisa, forte il tuo manganello, fammi vedere come usi lo spray. Come se qualcuno avesse detto (e qualcuno deve averlo detto): adesso vi facciamo vedere quanto riusciamo a essere fascisti, se c’impegniamo. Quasi un esperimento, che nei giorni successivi fece molta paura: e se fosse stato l’inizio di un nuovo stato di cose? La paura sfumò quando ci rendemmo conto che no, finita la sagra la giustizia italiana riprendeva il suo corso sbuffante, incerto, ma sui soliti binari repubblicani. Era stato un esperimento, e neanche molto riuscito. Meno male. Però adesso vorremmo che ci raccontassero la storia.

La mamma bastonata, il pancabbestia straniero preso a calci in testa, non sono i veri protagonisti. Tutto quel che possono raccontare sono le loro mazzate, prese senza sapere il perché. Molto più interessante, più drammatico e più intrigante, sarebbe il racconto di chi quelle mazzate si è messo a darle: chi sei? Da dove vieni? Com’è che d’un tratto, da difensore della legge e dell’ordine, ti sei trasformato in un picchiatore di vecchiette? Hai preso qualcosa? Qualcuno ti ha fatto un discorso? Quante cose potresti dirci, se ne avessi voglia. E che storia ne verrebbe fuori, se anche i tuoi colleghi parlassero.

Altro che le nostre cronache scipite – treno-corteo-mazzate-treno – che ormai fanno sbadigliare gli invitati a cena. L’inizio potrebbe essere ambientato da qualche parte in un ministero. O nei quartieri generali di una forza dell’ordine, con un gruppo di persone che si pone problemi e trova soluzioni. Alcune di queste persone avranno avuto le mostrine, altri le cravatte; ad ogni buon conto noi vorremmo conoscerli tutti: poter dare un nome e un cognome a certe decisioni importerebbe moltissimo. Vorremmo anche un capitolo circostanziato sul training dei ragazzini in uniforme blu e nera sul piazzale di fianco al nostro: quelli che mentre noi facevamo i seminari sul disastro climatico e la Banca Mondiale, prendevano appunti sui manifestanti dotati di razzi terra aria e gavettoni di sangue infetto. Quelli che mentre noi ascoltavamo Manu Chao e mandavamo giù birra e salsicce, si caricavano con la techno e mandavano giù pasticche. Vogliamo sapere come mai su quel defender in Piazza Alimonda si trovavano due sbarbatelli, e uno aveva in mano la pistola e l’altro il volante. Quanto daremmo per dettagli anche piccoli, ma succosi, come ad esempio: quel poliziotto che si graffiò il giubbotto alle Diaz e poi si autodefinì accoltellato, fu un geniale improvvisatore o eseguiva un ordine?

Identificare le responsabilità, risalendo le catene di comando, sarebbe il minimo. Noi vorremmo qualcosa di più: preso atto che a Genova ci fu una colossale manifestazione delle forze dell’ordine, che eclissò la manifestazione anti-g8, vorremmo sapere per quale motivo i poliziotti e i carabinieri manifestavano. Vorremmo capire il senso: era un messaggio? A chi era rivolto? E ha funzionato? Perché alla fine della fiera rimane in noi la sensazione di essere stati menati a casaccio, per nessun motivo, da gente che in realtà pensava ad altro, e menava la nuora perché la suocera intendesse. Non è piacevole. Una volta si diceva “vogliamo sapere per cosa combattiamo”. Noi siamo molto più pacifisti: ci accontenteremmo di sapere per quale motivo le abbiamo prese. E ne abbiamo prese tante.

Prendete le registrazioni saltate fuori in questi giorni. Forse non aggiungono nulla al quadro probatorio, eppure è sconvolgente il solo fatto che esistano ancora. Sei anni fa, dopo essere tornati a casa, vivevamo nell’incubo che tutto quello che era successo sarebbe stato cancellato. La polizia che col blitz in sala stampa aveva preso possesso dei server indymedia avrebbe cancellato ogni prova. Si è poi visto che di prove in giro ce n’erano ancora in abbondanza. Ma le registrazioni di questi giorni sono documenti interni della polizia: qualcosa che gli uomini in uniforme avrebbero potuto cancellare infinite volte in questi sei anni, così come hanno fatto sparire le molotov di loro fabbricazione. E invece no. Queste registrazioni sono rimaste: qualcuno ha deciso di conservarle. E qualcuno le ha fatte avere ai legali delle vittime. Chi sarà stato mai? Un poliziotto che dopo una manciata d’anni ha cominciato a vergognarsi, come Fournier? O qualcuno che anche stavolta usa le botte del G8 per dire indirettamente qualcosa a qualcun altro? E a chi?

Si dice che i vecchi poliziotti non buttino mai via niente, simili anche in questo ai vecchi macellai. Anche nel nastro meno interessante, debitamente invecchiato, c’è sempre da trovare qualcosa per ricattare qualcuno. Lo sa bene Pollari, che deve avere una cantina fantastica, piena di registrazioni millesimate ("Senti, senti che aroma questo D’Alema del 1999”). Tutto questo è molto interessante, anche se alla fine della fiera resta una delusione. La delusione di chi ha visto la Storia passare davanti ai caschi e i manganelli, e si è messo in posa pensando di avere un posto in prima fila. E invece no. Eravamo solo le vittime predesignate del solito gioco italiano troppo difficile da capire, e impossibile da raccontare. Però sarebbe interessante, anche solo provarci.
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la commissione, tenetevela

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Ci sono tanti motivi per prendersela con questo Parlamento. Francamente, ce n’è troppi. Suggerirei pertanto di concentrarsi sui più eclatanti, senza allungare ulteriormente la lista.

In altre parole: ma sul serio vi rimane un po’ d’indignazione da impegnare in una scemenza come la Commissione Parlamentare d’Inchiesta sui fatti di Genova? Ma Buon Dio. Indignatevi per i torroncini di Mastella. Per la compravendita di senatori. Per la compravendita di Capezzone, che manco è senatore… probabilmente se lo sono trovati incellofanato in un’offerta speciale (bella sòla). Indignatevi per Veltroni che, incapace di illuminare le vie pedonali di Roma Centro, se la prende col presidente della Romania. Indignatevi per questi e mille altri motivi… ma non per la Commissione Parlamentare d’Inchiesta sui fatti di Genova. Che è una scemenza. Devo anche spiegarvi il perché?

Cinque motivi per cui la Commissione Parlamentare d’Inchiesta sui fatti di Genova è una scemenza, e discuterne una sconsiderata perdita di tempo ed energie

0. Premessa.
Io a Genova c’ero. Non avrei sopportato di non esserci. Sono uscito dalle Diaz cinque minuti prima che ci entrassero i carabinieri. Un ragazzo che conosco è stato a Bolzaneto. Come tutti, chiedo giustizia. Ma a chi? Di sicuro non a una Commissione Parlamentare. Almeno per ora.

1. Meglio i giudici, grazie.
Tecnicamente, la giustizia la fanno i giudici, applicando le leggi. Io non credo di vivere nel miglior Paese del mondo coi migliori giudici del mondo. Per esempio, i pubblici ministeri che hanno chiesto da 6 a 16 anni anni per un gruppo di dimostranti mi sembrano alquanto esagerati. In generale, comunque, conservo un maggiore rispetto nei confronti della giustizia che della politica: voi no? Preferite che arrivi una commissione di senatori e deputati bipartisan a interferire su procedimenti ancora in corso? Vi dispiace così tanto che questo non possa succedere? Siete ben strani.

2. Chi paga?
Provate un po’ a indovinare chi finanzierebbe i lavori della commissione. Eh, certo, dopo cinque anni in cui avete pagato gli extra a quel fine segugio di Paolo Guzzanti per indagare sulle sedute spiritiche di Prodi, l’idea di non finanziare più una commissione di politici detective vi pesa. Posso capirvi. Allora fate così: andate in banca, ritirate i vostri risparmi in mazzette da cento, e dategli fuoco sulla pubblica piazza (Per inciso, la commissione di Guzzanti ha stabilito che Prodi è uno pseudo-agente del KGB. Questo sì che è spender bene i nostri soldi, no?)

3. Precari di lusso
Se non erro, una Commissione Parlamentare dura finché dura il Parlamento. Non è un mistero per nessuno che l’attuale legislatura stia appesa a un filo. E se Prodi cadesse domani? E se ci si riducesse a votare in febbraio o marzo? Stiamo a fare tutto questo baccano per una Commissione d’Inchiesta che rischia di non fare in tempo a riunirsi? Se anche – per una coincidenza assai remota – i componenti di siffatta Commissione fossero tutti parlamentari onesti, seri, e consapevoli del proprio ruolo, pensate che possano lavorare bene in una situazione in cui qualsiasi seduta della Commissione potrebbe essere l’ultima? Che razza di inchiesta ci salterebbe fuori? Probabilmente un'inchiesta affrettata e superficiale. Ne avremmo veramente bisogno. Così, se un giorno si verificassero le premesse per fare un'inchiesta seria, probabilmente ci sentiremmo rispondere: "Grazie, no. C'è già quella affrettata e superficiale fatta durante il Prodi II, e ce la teniamo".

4. “Ma c’era nel programma”.

Ecco, appunto, ditelo. Ditelo, che a questo punto la Commissione è semplicemente un punto d’onore. Vi hanno tolto uno scalino, un ministero o un sottosegretario, e voi v’aggrappate alla Commissione. Che poi questa Commissione funzioni o no, v’interessa relativamente. Il punto è che voi avete diritto a un contentino.
Vogliamo ricapitolare un po’ la situazione? È vero, la Commissione era nel programma elettorale. Con quel programma (lunghissimo, impraticabile) Prodi ha vinto le elezioni. Di striscio. Dopo qualche mese ha perso la maggioranza in Senato e si è dimesso. In seguito è stato nominato di nuovo da Napolitano, ma con un programma di soli 12 punti, sottoscritti dalla maggioranza. Una maggioranza lievemente diversa da quella delle elezioni (fuori De Gregorio, dentro Follini). In quei 12 punti la Commissione d’Inchiesta su Genova c’è? No. E allora? Perché facciamo finta che in febbraio non sia successo niente?
La situazione è pessima, ma non così difficile da capire. L’unica maggioranza possibile in questo momento in Italia è appesa a un filo. Se cade, si va alle elezioni con una legge orribile, che probabilmente creerà un’altra maggioranza appesa a un filo. A questo punto, o si tira innanzi cercando di rimettere a posto la legge elettorale, o si va al voto e amen. Prodi ha deciso di tirare innanzi. Si può discuterne, ma chi ha votato la fiducia a Prodi in febbraio ha deciso di seguirlo. E ha sottoscritto i 12 punti. Se si accetta l’idea di governare con un voto di scarto al Senato, si accetta anche il fatto che non sempre c’è margine per i contentini. Nel caso della Commissione d’Inchiesta, non c’è. E non mi sembra nemmeno una grande tragedia. Se ne consumano ben altre, negli stessi giorni e nelle stesse stanze.

5. Così è se vi pare
Ma fingiamo di nuovo che tutto possa funzionare: che la Commissione d’Inchiesta, formata da parlamentari onesti seri e consapevoli, riesca a portare a termine un’inchiesta decente entro i termini della legislatura. Pensate che potrebbe giungere a una verità condivisa? Perché in realtà è questo l’unico senso di una Commissione di questo tipo: mettere nero su bianco quello che è successo a Genova, in una forma che possa essere condivisa da tutti. Ve l’immaginate?
Pensate ai parlamentari più seri che conoscete. Di destra e di sinistra. Chiudeteli in una stanza e immaginateli mentre discutono del G8. Pensate che ne possa uscire qualcosa di buono? Un’inchiesta parlamentare di questo tipo, nel 2007 (o nel 2008, o nel 2009), nel migliore dei casi si concluderebbe con due relazioni. La relazione di maggioranza stabilirebbe più o meno quello che sappiamo già, perché lo ha scritto Amnesty: quello che è successo a Genova nel luglio del 2001 è la più grave sospensione dei diritti civili nel dopoguerra. La relazione di minoranza spiegherebbe invece che i poliziotti e i carabinieri, accorsi in massa per evitare gli attentati di Bin Laden, sono stati attaccati dai comunisti cattivi e si sono difesi come potevano. Così in capo a un anno o due avremmo strapagato una dozzina o più di parlamentari per ottenere esattamente quello che avevamo all’inizio: due verità per due Italie diverse. Che tra loro ormai non si parlano più. Guardano gli stessi filmati e capiscono entrambe solo quello che vogliono capire. C’è davvero bisogno di scomodare una commissione per tutto questo?

Un giorno si farà, la Commissione. Spero non sia domani. Quando la giustizia ci avrà portato già qualche sentenza definitiva. Quando avremo un governo un po’ più saldo, in grado di non flettersi ad ogni venticello parlamentare. Quando Fini sarà definitivamente fuori dai giochi – sicché si potrà anche invitarlo in Commissione e fargli un paio di domande: Come mai era a Genova? A che titolo ha passato in rassegna le forze dell'ordine? Perché lei sì e il Ministro degli Interni no? I poliziotti non le sembravano un po' eccitati? Ha sentito parlare anche lei dei gavettoni di sangue infetto? Ha perso un po’ di tempo a spiegare che si trattava soltanto di una leggenda urbana? Eccetera eccetera.
Quella sì che sarà una grande commissione d’inchiesta. Ma ha da passare una nottata.
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parla a voce bassa, spiega cosa vuoi

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il disco dell'estate (2001)
Centro Operativo di Genova ftg. Valeria Rossi: Se hai dato, dato dato (mp3).
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passa la Storia, fai ciao con la manina

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Genova fu una dimostrazione fascista

Genova dovremmo iniziare a raccontarcela in un modo diverso.
Quando dico “raccontare”, non parlo di bugie, ma dell’esigenza di raccogliere centinaia di testimonianze, memorie, fotogrammi, in un qualcosa che abbia un capo e una coda, un senso e una morale: un racconto.
In questo racconto, di solito, ci sono gli 8 uomini più importanti della terra riuniti in una città, e migliaia di persone seriamente preoccupate per la situazione che vanno nella stessa città a manifestare il loro malcontento. Alcuni erano pacifici, altri molto meno, alcuni erano immersi in una loro mitopoietica personale di zone rosse e armature di gommapiuma, alcuni la sapevano più lunga. E parecchi hanno preso tante, tantissime mazzate, soprattutto in una scuola (le Diaz) e una caserma (Bolzaneto). Un ragazzo è morto. Noi ce la raccontiamo così, e tutto sommato nel nostro racconto non c’è niente di sbagliato. Resta comunque un racconto insoddisfacente, che non spiega quasi nulla.

Il nostro racconto pecca del solito vecchio peccato: l’autoreferenzialità. Siccome a Genova c’eravamo anche noi, riteniamo giusto raccontarlo dal nostro punto di vista. Preso il treno, fatto il corteo, prese le mazzate, ripreso il treno. Tutto questo può essere interessante (anche le foto delle vacanze sono interessanti, a piccole dosi), ma è solo la punta dell’iceberg.
È tempo di ammetterlo: noi non siamo i protagonisti di Genova. Un livido, una cicatrice, un bello spavento, non ha fatto di noi i protagonisti. Avremmo voluto tanto esserlo, una volta almeno nella nostra vita. Con tutte quelle videocamere in giro il rischio di passare alla Storia era molto forte. Ma anche stavolta i fatti ci hanno oltrepassato, e di molto. Genova avrebbe dovuto essere la nostra manifestazione, ma non lo è stata.

Genova è stata la manifestazione dei ragazzi in uniforme blu, in uniforme nera, in tuta aderente con casco accessoriato, con scudo di plexiglas, con lacrimogeni non omologati. Genova è stata la sagra del tonfa, il manganello multiuso. Genova è stata la dimostrazione delle forze dell’ordine, che venivano da tutte le parti a confrontare le proprie esperienze: bella la tua divisa, forte il tuo manganello, fammi vedere come usi lo spray. Come se qualcuno avesse detto (e qualcuno deve averlo detto): adesso vi facciamo vedere quanto riusciamo a essere fascisti, se c’impegniamo. Quasi un esperimento, che nei giorni successivi fece molta paura: e se fosse stato l’inizio di un nuovo stato di cose? La paura sfumò quando ci rendemmo conto che no, finita la sagra la giustizia italiana riprendeva il suo corso sbuffante, incerto, ma sui soliti binari repubblicani. Era stato un esperimento, e neanche molto riuscito. Meno male. Però adesso vorremmo che ci raccontassero la storia.

La mamma bastonata, il pancabbestia straniero preso a calci in testa, non sono i veri protagonisti. Tutto quel che possono raccontare sono le loro mazzate, prese senza sapere il perché. Molto più interessante, più drammatico e più intrigante, sarebbe il racconto di chi quelle mazzate si è messo a darle: chi sei? Da dove vieni? Com’è che d’un tratto, da difensore della legge e dell’ordine, ti sei trasformato in un picchiatore di vecchiette? Hai preso qualcosa? Qualcuno ti ha fatto un discorso? Quante cose potresti dirci, se ne avessi voglia. E che storia ne verrebbe fuori, se anche i tuoi colleghi parlassero.

Altro che le nostre cronache scipite – treno-corteo-mazzate-treno – che ormai fanno sbadigliare gli invitati a cena. L’inizio potrebbe essere ambientato da qualche parte in un ministero. O nei quartieri generali di una forza dell’ordine, con un gruppo di persone che si pone problemi e trova soluzioni. Alcune di queste persone avranno avuto le mostrine, altri le cravatte; ad ogni buon conto noi vorremmo conoscerli tutti: poter dare un nome e un cognome a certe decisioni importerebbe moltissimo. Vorremmo anche un capitolo circostanziato sul training dei ragazzini in uniforme blu e nera sul piazzale di fianco al nostro: quelli che mentre noi facevamo i seminari sul disastro climatico e la Banca Mondiale, prendevano appunti sui manifestanti dotati di razzi terra aria e gavettoni di sangue infetto. Quelli che mentre noi ascoltavamo Manu Chao e mandavamo giù birra e salsicce, si caricavano con la techno e mandavano giù pasticche. Vogliamo sapere come mai su quel defender in Piazza Alimonda si trovavano due sbarbatelli, e uno aveva in mano la pistola e l’altro il volante. Quanto daremmo per dettagli anche piccoli, ma succosi, come ad esempio: quel poliziotto che si graffiò il giubbotto alle Diaz e poi si autodefinì accoltellato, fu un geniale improvvisatore o eseguiva un ordine?

Identificare le responsabilità, risalendo le catene di comando, sarebbe il minimo. Noi vorremmo qualcosa di più: preso atto che a Genova ci fu una colossale manifestazione delle forze dell’ordine, che eclissò la manifestazione anti-g8, vorremmo sapere per quale motivo i poliziotti e i carabinieri manifestavano. Vorremmo capire il senso: era un messaggio? A chi era rivolto? E ha funzionato? Perché alla fine della fiera rimane in noi la sensazione di essere stati menati a casaccio, per nessun motivo, da gente che in realtà pensava ad altro, e menava la nuora perché la suocera intendesse. Non è piacevole. Una volta si diceva “vogliamo sapere per cosa combattiamo”. Noi siamo molto più pacifisti: ci accontenteremmo di sapere per quale motivo le abbiamo prese. E ne abbiamo prese tante.

Prendete le registrazioni saltate fuori in questi giorni. Forse non aggiungono nulla al quadro probatorio, eppure è sconvolgente il solo fatto che esistano ancora. Sei anni fa, dopo essere tornati a casa, vivevamo nell’incubo che tutto quello che era successo sarebbe stato cancellato. La polizia che col blitz in sala stampa aveva preso possesso dei server indymedia avrebbe cancellato ogni prova. Si è poi visto che di prove in giro ce n’erano ancora in abbondanza. Ma le registrazioni di questi giorni sono documenti interni della polizia: qualcosa che gli uomini in uniforme avrebbero potuto cancellare infinite volte in questi sei anni, così come hanno fatto sparire le molotov di loro fabbricazione. E invece no. Queste registrazioni sono rimaste: qualcuno ha deciso di conservarle. E qualcuno le ha fatte avere ai legali delle vittime. Chi sarà stato mai? Un poliziotto che dopo una manciata d’anni ha cominciato a vergognarsi, come Fournier? O qualcuno che anche stavolta usa le botte del G8 per dire indirettamente qualcosa a qualcun altro? E a chi?

Si dice che i vecchi poliziotti non buttino mai via niente, simili anche in questo ai vecchi macellai. Anche nel nastro meno interessante, debitamente invecchiato, c’è sempre da trovare qualcosa per ricattare qualcuno. Lo sa bene Pollari, che deve avere una cantina fantastica, piena di registrazioni millesimate ("Senti, senti che aroma questo D’Alema del 1999”). Tutto questo è molto interessante, anche se alla fine della fiera resta una delusione. La delusione di chi ha visto la Storia passare davanti ai caschi e i manganelli, e si è messo in posa pensando di avere un posto in prima fila. E invece no. Eravamo solo le vittime predesignate del solito gioco italiano troppo difficile da capire, e impossibile da raccontare. Però sarebbe interessante, anche solo provarci.
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ciao Fournier, meglio tardi che mai

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("Macelleria messicana" non è una frase a caso. Sono le parole dette da Ferruccio Parri, gran capo dei partigiani d'Italia, quando vide i milanesi che sparacchiavano ai cadaveri di Mussolini e dalla Petacci appesi a piazzale Loreto. Un episodio indegno e vile, che secondo Pertini aveva "disonorato" l'insurrezione poplare. Anche D'Alema, recentemente, ha espresso il suo rammarico).

Scampato alle Diaz

Stasera non avrei scritto niente, se non che prima di coricarmi, passando davanti allo specchio, ho visto la faccia di uno che ha scampato le Diaz per pura botta di culo.
Siccome un pensiero tira l'altro, mi sono anche domandato che faccia avrei. Un po' più sbattuta di certo: magari un dente in meno (qualcuno lasciò un dente sulle scale). Forse più calvo, chi lo sa, più rugoso e interessante. Io non voglio passare per un reduce – è ridicolo, Genova furono tre giorni – però capisco perfettamente la gente che va in guerra, la scampa e poi si sente in colpa per tutta la vita. È un senso di colpa strano, misto a una curiosa invidia, e alla voglia di contar balle ai ragazzini al bar.

Io alle Diaz in quel momento avrei voluto esserci. Nel senso che avevo una gran voglia di andarci, venti minuti prima che le Diaz passassero alla Storia. Suona buffo, ma era tutta una questione di blog. Volevo aggiornare il blog, che poi era un modo di avvertire una ventina di persone che l'avevano letto fino a poche ore prima che ero salvo e stavo bene. Era tutto puerile e terribilmente serio allo stesso tempo. Le scuole cablate erano due, una di fronte all'altra: la più grande aveva la Sala Stampa e i server, ma i computer giravano con un cacchio di sistema operativo alternativo che s'inchiodava continuamente. Nelle Diaz invece c'era il vecchio stramaledetto windows duemila. Io dunque, mentre stavo in fila per accedere al sospirato blogger, avevo una gran voglia di provare se lì di fianco c'era meno fila. La Diaz, fino a quel momento, la conoscevano in pochi, tra cui io; io che due sere prima mi ero coricato con le chiavi della Diaz in tasca, perché nel cosiddetto servizio d'ordine del Movimento dei Movimenti si faceva carriera rapidissimamente, bastava continuare a preoccuparsi mentre la gente andava a dormire.

Io dunque ero indeciso se restare lì o andare alle Diaz. Se ci fossi andato, forse oggi passerei i miei pomeriggi a fissare il muro o a guardare i manga, magari soffrirei la depressione e peserei 120 chili; oppure mi sarei liberato di ogni borghese inibizione, come quelli che scampano un disastro aereo e non hanno più paura di nulla, e lavorerei sulle impalcature dei grattacieli, chi lo sa. Se invece fossi rimasto lì in fila, di lì a cinque minuti i carabinieri mi avrebbero semplicemente convinto ad accucciarmi al muro con le mani alzate, mentre sequestravano i server con un sacco di immagini compromettenti (compromettenti per loro, visto che in tutti questi anni non risulta le abbiano usate per incriminare chicchessia). Ma non feci nulla di tutto questo, perché passò Glauco a dirmi che andavano a prendere una birra lì all'angolo e io dissi ma sì, chi se ne frega. Era tutto molto serio, e allo stesso tempo no.

Come Buzzati, quando la sera tornava a casa dal grande giornale e scriveva su un quadernetto il Deserto dei Tartari; come Fenoglio quando da bambino montava sui tetti e s'immaginava di sparare agli invasori, anch'io probabilmente nel mio piccolo pensavo che ci sarebbe stata una guerra prima o poi, almeno una Battaglia, e che solo la Battaglia mi avrebbe fatto uomo. La guerra però non arrivava mai e così ho provato ad arrangiarmi con Genova.
A Genova le cose erano estremamente serie, in effetti, e allo stesso tempo restare seri era spesso difficile: tutto rischiava di diventare puerile da un momento all'altro. La cosa di cui sono più fiero è il servizio d'ordine al concerto di Manu Chao, quelle quattro ore spese a sgolarsi per avvertire i ragazzini di non oltrepassare la linea rossa della corsia ambulanze, e per cortesia di non rompersi l'osso del collo sugli scogli. Mercoledì sera, prima di ritirarmi al campeggio, avevo lungamente cercato di mettere pace tra due skin francesi impasticcati che se le davano in piazzale Kennedy, e non avevano l'età di mio fratello. Poi mi ero scocciato: ero un adulto, non Madre Teresa.

In seguito ci furono le cariche di venerdì, e bamboccioni se n'erano visti molti, in uniforme e in tenuta da movimento. Noi stessi, soliti modenesi, ondeggiavamo da una piazza tematica all'altra, cercando di mantenere un distacco critico, ma anche annusando a pieni polmoni la voglia di mettersi nei guai, il profumo con cui la troia Guerra seduce tutti i ragazzini. Poi era corsa voce di un morto, anzi di due, di tre; dalla città salivano fili di fumo e tutto sembrava allo stesso tempo serio e patetico, e per quanto non fossimo allegri eravamo più che mai fieri di essere lì piuttosto che altrove. Sabato ci eravamo svegliati con la sensazione di essere più che mai nel giusto, e le cariche e la lunga anabasi per i quartieri della città scoscesa in fondo li avevamo vissuti con lo spirito giusto: che era lo spirito d'avventura. All'ora in cui Glauco mi invitò a bere una birra tutto sembrava finito, la tensione era scesa di molto; e l'ansia di aggiornare il blog (l'unico blog a Genova!) poteva sembrare una cosa puerile.

La birreria stava dietro l'angolo e faceva affari d'oro, perché era l'unica rimasta aperta in quel quadrante della città. C'incontrammo una ex compagna di classe di Glauco che si era trasferita in Belgio e faceva teatro e tornava in Italia solo per le rivoluzioni. Quella birra non l'ho mai bevuta – ma la storia credo di averla già raccontata, o no? Ma qui c'è un sacco di gente che forse non l'ha ancora sentita, e allora sedetevi ragazzuoli, che vi spiego. Ci fu un frastuono di sirene, e quando uscimmo a vedere, restammo molto stupiti che non fossero i soliti CC o PS o GdF o Forestali, ma una colonna di ambulanze e Croce Rosse. Magari le aveva chiamate proprio Fournier, che ringrazio. Ho sempre pensato che fossero state molto tempestive, come se i picchiatori delle Diaz le avessero chiamate ancora prima di irrompere.

Voi, com'è giusto, la storia la conoscete dalla A alla Z: il poliziotto che si graffia il giubbotto con un coltello e poi lancia l'allarme (hanno cercato di accoltellarmi), i carabinieri e i poliziotti che entrano, le ambulanze che arrivano, le barelle che escono, il questore il giorno dopo in conferenza stampa che mostra le prove della resistenza armata della Diaz: un piccone fregato al cantiere di fianco, le molotov che poi qualche poliziotto confessò di avere fabbricato, e che in seguito sono misteriosamente scomparse, un sacco di coltellini svizzeri e pacchetti di kleenex da non sottovalutare (se si pensa che la principale fobia dei ragazzini in uniforme da poliziotto erano i fantomatici "palloncini di sangue infetto"). A raccontarlo sembra una comica, col sangue finto e i pugni per finta che fanno saltare i denti per finta.

Quando però le vivi, certe situazioni, ti trovi come nel mezzo della battaglia: non hai la minima idea di quello che sta succedendo. Dopo esserci nascosti per un quarto d'ora dietro la saracinesca della birreria, alla fine cedemmo alla tentazione di andare a vedere cosa succedeva. Non si capiva nulla, e non c'era nessuno che ti raccontasse la stessa cosa. Siccome nessuno mi aveva spiegato che i server avevano preso il volo, io mi fiondai subito all'ufficio stampa per aggiornare il blog, che ora mi sembrava la cosa più adulta da fare; stavo inutilmente cliccando il tasto refresh quando sentii un boato d'umana indignazione che mi scaraventò di nuovo fuori, e mi fece arrampicare sulla cancellata di fronte alle Diaz. Cosa stava succedendo?
"Portano via un morto".

Il morto in realtà era una barella carica delle famose munizioni di cui sopra, ma coperte da un telo verde impermeabile, che faceva un effetto body bag orribile a vedersi. Rimasi appeso alla cancellata per un tempo che mi sembrò interminabile, fregandomi del blog e probabilmente inveendo e fischiando a poliziotti e infermieri, ben sapendo che non era la cosa più adulta da fare.

Più tardi sono entrato, come altri cento, e ho visto le cose che avevano già visto altri cento: ma le ho viste male, in fretta, sicché quando le rifanno vedere in tv (molto di rado) non le riconosco, oppure confondo ricordi televisivi e reali, e mi vergogno. La sensazione di trovarsi al centro delle cose, che ci aveva aiutato a drizzare le antenne per tre giorni, stava svanendo. Ricordo sempre quella porta dei bagni forata da un colpo secco di manganello: m'immagino sempre di trovarmi lì, di chiudermi in bagno, di sentire le botte di manganello e poi di vedere la mano del poliziotto che si sbuca dal foro, trova la maniglia e la apre. Ma non ero lì, per cui in fondo il mio è solo un film come un altro.

Genova mi ha fatto paura, bisogna dirlo: quando tornai a casa continuavo a sentire le sirene, di giorno, di notte, per una settimana. Poi mi è passata.
Genova mi ha dato la scossa, e per alcuni mesi mi ha spinto a fare cose serie; ma in mezzo alle cose serie continuavano a esserci molte storie buffe, ridicole e apparentemente inadeguate, che col tempo hanno preso il sopravvento. Ho concluso che la vita è così, seria e ridicola insieme, che il bambino egotico e curioso che mi porto dentro non deve per forza morire in seguito a una battaglia: può restarsene lì, a patto che non rompa troppo.
Adesso vivo in una città ancora più piccola, davvero una miniatura; continuo ad aggiornare il blog per un motivo o per un altro e non racconto balle da reduce ai ragazzini, perché un reduce non sono.
I ragazzini poi sono terribili, perché ogni anno ne arrivano di nuovi, e non c'è cura migliore alle nostalgie sciocche di una nuova infornata di allegri ignoranti. Questi che stamattina han fatto l'esame sono del Novantatré, cosa vuoi che gli freghi di un tafferuglio che scoppiò a 9 anni? Quello che gli fa drizzare le antenne sono gli argentini torturati sotto lo stadio e lanciati dagli aeroplani senza paracadute. Il desaparecido volante è un enigma che coinvolge Storia, Geografia e Scienze: da che altezza venivano lanciati? Che velocità raggiungevano durante la caduta? Cadevano in moto uniforme o con un'accelerazione costante? Morivano asfissiati, inceneriti come le meteore, o annegavano? Questi sono misteri intriganti per un ragazzino.

Io non vorrei dover aggiungere misteri alla Storia del dopoguerra, che già ne sovrabbonda. Crescendo i miei ragazzini dovranno prendere appunti sull'Italicus, sulla Stazione di Bologna, su Ustica, Piazza Fontana... io vorrei che almeno si risparmiassero le Diaz. In fondo sono un mistero minore, che con un piccolo sforzo da parte dei carabinieri e dei poliziotti onesti si potrebbe archiviare in breve. Non era mica la guerra, anche se "Diaz" ha sempre avuto un suono sinistro (i giornalisti non avrebbero potuto inventarsi di meglio). Si disse subito che era l'Argentina, il Cile. No: erano le Diaz, nemmeno una scuola vera, una piccola palestra in cui le forze dell'ordine dello Stato repubblicano persero del tutto l'autocontrollo, e ancora aspettiamo che ci spieghino il perché.
Dovrebbero farlo. Sarebbe un bene per loro, per il Senso dello Stato dei nostri ragazzini, e anche per me. Personalmente non ho voglia di rivedermi tra cinque o dieci anni in un documentario sgranato, mentre mi appendo all'inferriata come un deficiente. Non vorrei perdere tempo a spiegare a mio figlio perché ero lì. Ero lì perché in quel momento non avrei sopportato di essere altrove: fine.
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nati non il 20/2

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Un governo appena appena decente è come l’acqua corrente.
Appena ce l’hai non ci fai più caso.

Io non so esattamente cosa stia succedendo in questo esatto momento: più che conclusioni, le mie son sensazioni. Può darsi che D’Alema, per la centounesima volta, abbia promesso qualcosa che non poteva mantenere.
Può darsi che qualcuno a sinistra abbia scoperto per la centounesima volta di avere una coscienza, una coscienza che trepida per la sorte dell’alpino in Afganistan ma se ne frega se Berlusconi torna a Palazzo Chigi. Questione di priorità, che dire.
Può darsi – ma questa è più una certezza – che la gran maggioranza del centrodestra se ne freghi degli Alpini, dell’Afganistan, della guerra e della pace, e di qualunque cosa che non sia la prospettiva di appoggiare l’onorevole sedere su una poltrona di maggioranza in tempi brevi.
Tutti questi sono pregiudizi, ovviamente, ma pregiudizi ben rodati. Non è la prima, non è la seconda volta che li vedo, gli stessi personaggi in azione. Non essendo nato ieri e neanche ieri l'altro, in effetti ho perso il conto.

Con un po’ più di tempo a disposizione potremmo anche tentare di fare un bilancio di questo governo appena appena decente. Certo, è passato da un pezzo il tempo in cui ci si svegliava al mattino ringraziando il Signore per Romano Prodi. Se mai c’è stato, quel tempo lì. Prodi era come l’acqua corrente: non si ringrazia, si paga. Forse si pagava un po’ troppo. Ma la puzza che c’era prima, ve la siete dimenticata?

Proviamo a fare un po’ di Scenario-Berlusconi: cosa sarebbe successo in questi giorni, se un anno fa l’unto del Signore fosse stato bisunto dagli Italiani?
Due settimane fa c’è stata una mezza guerra civile a Catania per il derby siciliano: Berlusconi non avrebbe chiuso gli stadi non a norma. Lo ha detto lui stesso, che è una misura illiberale. Forse non avrebbe nemmeno sospeso il campionato - in nome degli interessi degli italiani; soprattutto degli italiani proprietari di una squadra di Serie A, dei diritti TV e sponsor annessi.
Una settimana fa abbiamo scoperto che in Italia c’è qualcuno che ancora ci prova con la lotta armata. La polizia li ha fermati prima che riuscissero a svaligiare un bancomat. Vogliamo ricordarci cosa succedeva ai tempi in cui Claudio Scajola, l’incompetenza fatta persona, era ministro degli Interni? A quei tempi il governo toglieva le scorte agli obiettivi dei brigatisti. Del resto a quei tempi un giuslavorista a libro spese del governo poteva essere più utile da morto che da vivo. Specie se ammazzato a sangue freddo alla vigilia di una manifestazione nazionale.

Qualche giorno fa c’è stata una manifestazione nazionale. Non è successo niente. Non è una sorpresa, per chi non avesse passato gli ultimi 5 anni in apnea. Il movimento pacifista italiano è serio e maturo: ha imparato sulla sua pelle quanto sia importante non reagire alle provocazioni. Tre mesi di governo Berlusconi furono sufficienti per imparare: sono bastati i fatti di Genova a chiarire a chi convenissero davvero violenza e vandalismo.

Dal 2001 a oggi ci sono state decine di altre manifestazioni nazionali, alcune oceaniche. Tutte tranquille al limite della noia. Questo anche per merito del ministro degli Interni che subentrò a Scajola. Ma se Berlusconi oggi fosse al governo, chi sarebbe al Viminale? Un degno successore di Pisanu o un avventurista incompetente come Scajola? E perché non Fini, il ministro che nel luglio del 2001 si aggirava per Genova a incoraggiare poliziotti e carabinieri?

Il movimento pacifista italiano non tira sassi, non spacca vetrine, non inneggia al brigatismo – perché sa che tutto questo è controproducente. La polizia, da Genova in poi, non isola spezzoni di corteo, non carica, non lancia camionette allo sbaraglio come in Piazza Alimonda, non compie blitz cileni come alle Diaz, non fabbrica molotov false. Non lo fa perché nessuno glielo ordina, perché a nessuno conviene. Ma se Berlusconi fosse a Palazzo Chigi, o magari al Colle? Chi può dirlo? Possiamo dirlo noi, giusto perché non siamo nati ieri. Se anche fossimo nati a Genova, non sarebbe già più ieri. È passato del tempo, e le facce in giro sono sempre le stesse. Difficile che ci stupiscano a partire da domani.
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- i ricordi non sono più gli stessi

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Autoclip

La prima volta che vidi L'Odio (il film, intendo), ero con un mio amico, e a un certo punto mi resi conto che il mio amico credeva che si trattasse di un film storico, sul serio, una ricostruzione degli anni '70.

Non aveva tutti i torti, perché in fin dei conti è un film in bianco e nero, e il bianco e nero mette sempre della distanza tra noi e le immagini. E all'inizio, se ricordo bene, c'è un bel reggae su scene di barricate. Il reggae, le barricate, ci sembravano cose lontane. Il bianco e nero ci aiutava a tenerle lontane.

Io, parlando di Genova, vorrei sforzarmi di non patinare nulla, di non virare tutto in bianco e nero, di non mettere nessuna cornice: perché queste cose sono successe a noi, proprio a noi, che eravamo pigri e accaldati 5 anni fa, proprio come stasera. Ed è vero che sembrava il Cile, ma sembrava anche, terribilmente, un qualsiasi pomeriggio afoso di luglio, e si poteva essere incerti se andare alle barricate o andare al mare. Ed è vero che c'erano barricate e striscioni e scritte ai muri, ma sugli stessi muri, ovunque, sorrideva indifferente Megan Gale. Ed è vero che si cantava Manu Chao e Bella Ciao, ma la canzone che più si sentiva dalle finestre rimaneva sempre

C’e solo una cura
io so che lo sai

2. Italiano. Percosso con pugni in faccia e calci alla schiena prima di entrare in cella, e poi in cella con pugni alle costole

è una stanza vuota
io mi fiderei


veniva ancora percosso all'interno della cella a opera di agenti che stringevano più forte i laccetti ai polsi, lasciati ingiustificamente mentre si trovava all'interno della cella


Bravo, puoi capire
cose che non vuoi


5. gli afferravano le dita della mano sinistra e poi tirando violentemente le dita stesse in senso opposto in modo da divaricarle, riportava lesioni: ferita lacero contusa di 5 cm. tra il terzo e quarto raggio della mano sinistra sei

il tuo guaritore
sei nel tuo mondo...


minacciato: "Se non stai zitto, ti diamo le altre" mentre gridava per il dolore in seguito alla mancata anestesia durante la sutura della lacerazione "da strappo" alla mano.

RIT. Dammi tre parole: sole, cuore e amore
dammi un bacio che non fa parlare


42- Minacciata col manganello contro la bocca ferita, con la cantilena "Manganello, manganello", e derisa per la paura dimostrata

è l’amore che ti vuole
prendere o lasciare
stavolta non farlo scappare


81. Subiva minacce anche a sfondo sessuale da persone che stavano all'esterno: "Entro stasera vi scoperemo tutte".

Solo le istruzioni per muovere le mani
non siamo mai così vicini
aaah, ahhh


36. Costretta a rimanere, senza plausibile ragione, numerose ore in piedi, con il volto rivolto verso il muro della cella, con le braccia alzate oppure dietro la schiena


Parla a voce bassa
spiegami che vuoi
sai ne è pieno il mondo
di mali come I tuoi


Percossa ripetutamente con manganellate alla testa e alle spalle, caduta a terra, percossa con calci alla schiena e al petto, presa per i capelli e sollevata, calciata in mezzo alle gambe, sbattuta contro un muro,


slacciati la faccia
ha rabbia il gatto che
gioca con la buccia
e gira in tondo


manganellata ancora e presa a calci al petto e al ventre, successivamente trascinata per i capelli lungo alcune rampe di scale, colpita ancora da tutti i lati con manganelli

RIT. Dammi tre parole: sole, cuore e amore
dammi un bacio che non fa parlare


Uno due tre viva Pinochet


è l’amore che ti vuole
prendere o lasciare
stavolta non farlo scappare


(trauma toracico addominale, fratture costali con pneumotorace a destra e contusione polmonare, trauma cranico, contusioni multiple, lesioni gravi per il conseguente indebolimento del 30% della funzione respiratoria e della locomozione del braccio e del collo)


Solo le istruzioni per muovere le mani
non siamo mai così vicini
aaah, ahhh


49. Costretto a marciare nel corridoio della caserma e ad alzare il braccio destro in segno di saluto nazista

Tra la terra e il cielo
e in mezzo ci sei te


Carlo Giuliani è stato ucciso da un sasso scagliato da un manifestante, che ha deviato una pallottola sparata in aria da un carabiniere su un defender in movimento


a volte è solo un velo
un giorno, un fulmine


il mattino del 20 luglio, Carlo Giuliani voleva andare al mare


se hai dato, dato, dato
avuto, avuto, avrai
oggi è già piovuto
dove sei, dove sei, dove sei..


Sin da bambino ho guardato video musicali, e a volte, quando ascolto una canzone, gioco ad associare le immagini, è come se montassi un video dentro la mia testa.

RIT. Dammi tre parole: sole, cuore e amore
dammi un bacio che non fa parlare

Il mio video personale di questa canzone finisce con le immagini di Carlo, che il 20 luglio alla fine decide di andare al mare, si tuffa, nuota, e vive, vive e prende il sole insieme a noi

è l’amore che ti vuole
prendere o lasciare
stavolta non farlo scappare
Solo le istruzioni per muovere le mani
non siamo mai così vicini
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- com'eravamo

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Torto marcio

"Ma pensa che c'è gente che ancora si vanta di essere andata a Genova nel 2001!"
"Intendi al G8?"
"Tu guarda st'ignoranti..."
"Saputelli".
"Cacasotto".
"Picchiatori"
"Pacifisti".
"Terrioristi. Ma per cosa lottavano, poi, te lo ricordi?"
"Ma quelle cose lì, contro il governo e il commercio globale, non vogliamo un mercato del lavoro troppo competitivo, eccetera. Le solite cazzate da figli di papà"
"Pezzenti".
"Superficiali"
"Pesanti".
"Inconsistenti"
"Testardi. E naturalmente ce l'avevano con Bush".
"Di già? Ma che gli aveva fatto?"
"E che ne so. Il protocollo di Kyoto… Le cazzate sull'inquinamento e il risparmio energetico… La verità è che non si fidavano di un petroliere. I soliti dietrologi".
"Ingenui".
"Catastrofisti".
"Immaturi"
"Veterocomunisti".
"E Bush cosa gli disse?"
"Ma niente, lui era blindato nel porto, manco li vide. Deve aver detto: chi ci contesta ha torto marcio".
"Torto marcio? Come si dice in inglese?"
"E che ne so, lo lessi in italiano. Comunque rende l'idea".
"Aveva ragione. Erano solo dei velleitari".
"Dei nichilisti"
"Anarchici"
"Fascisti. E mi sembra d'aver detto tutto".
"E già".
"Ma cosa stai leggendo?"
"Io? Ah, è il libro di Tremonti. Avvincente. Te lo consiglio".
"Tremonti?"
"Interessante, molto interessante. Non la solita politica italiana da riunione di condominio. È un'analisi geopolitica di largo respiro".
"In poche parole…"
"In poche parole spiega che la società italiana sta correndo dei terribili rischi a causa del Wto, l'Organizzazione del Commercio Mondiale. Specie da quando è entrata la Cina, che non rispetta i diritti civili ed è molto competitiva sul mercato del lavoro".
"Forte Tremonti, eh?"
"Fortissimo. A proposito, hai sentito l'ultima di Bush?"
"Se ne va dall'Iraq?"
"No, no. Al discorso sullo Stato dell'Unione ha detto che gli USA sono dipendenti dal petrolio".
"Ha detto così?"
"Ha detto così: prima o poi dobbiamo ammetterlo, the United States Is Addicted to Oil. Che coraggio, eh?"
"Certo che quando ha ragione ha ragione".
"Cercheranno di importare meno petrolio dall'estero. E investiranno più soldi nei combustibili alternativi".
"Chiamali scemi. Adesso come adesso i soldi del petrolio arabo vanno agli emiri, gli emiri pagano la decima a Hamas, e alla fine col rifornimento di un gippone americano ci si finanzia il terrorista di Hamas. L'unico boicottaggio serio è smettere di comprargli il petrolio".
"Ed è anche una buona idea per l'ambiente. Con tutti 'sti uragani…"
"Quell'uomo è sempre pieno di buon senso".
"Peccato che in giro ci sia così poca gente ad ammetterlo. Specie da noi".
"Eh, ma cosa vuoi. Son tutti dei pecoroni".
"Bastian contrari".
"Carichi di pregiudizi".
"Segaioli".
"Selvaggi".
"Signori «so tutto io»"
"Incompetenti".
"Buoni a nulla e capaci di tutto".
"Smidollati".
"Paranoidi".
"Schizzati".
"..."
(Repeat and fade)
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- 2025

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Civilization VII - Lo Scenario Rutelli (continua da venerdì).

Ave, Rutelli. Sei il Primo Ministro della Repubblica Italiana nel 2001 AD. Gli italiani sono simpatici, improvvisatori e inconcludenti.

"Be', ma come si permette?"
"In effetti questo è uno degli aspetti più discutibili del software. Ogni civiltà ha delle caratteristiche innate che si porta avanti in ogni fase del gioco, dalla preistoria all'era spaziale".
"Sì, lo so benissimo. I tedeschi sono metodici ed espansionisti, gli indiani sono mistici e pacifici, eccetera".
"Ah, vedo che hai giocato, qualche volta".
"Io… sì, qualche versione precedente. Negli anni Novanta".
"Ah sì? E come mai non sei diventato un Neocone?"
"Un che?"
"È una teoria molto in voga, ultimam. Fino a qualche tempo fa si pensava che la generazione di intellettuali USA formatasi negli anni Novanta avesse abbracciato l'ideologia neoconservatrice dopo aver letto il libro di Huntington, The Clash of Civilizations, hai presente".
"Che non è un Neocon".
"Diciamo che era un buon antipasto. Perché, l'hai letto?"
"Beh… ho guardato le figure".
"Ecco, appunto. A un certo punto qualcuno si è reso conto che The Clash of Civilizations era stato molto più citato che letto, e comunque era uscito solo nel 1996, mentre Sid Meier aveva pubblicato Civilization I già nel 1991".
"Sul serio? Pensato che le teorie di Huntington lo avessero influenzato".
"Era il contrario. Il videogioco aveva influenzato Huntington. O perlomeno i suoi lettori. Anche perché… pensaci un momento. The Clash of Civilizations si legge in una settimana. Quanto ti dura una partita di Civilization?"
"Io… non so. Trentasei ore".
"Di più, di più. E se ci giochi una volta…"
"…ci giochi altre volte".
"Insomma, i neoconservatori degli anni dieci erano tutti appassionati giocatori di Civilization negli anni Novanta. Erano maturati ideologicamente durante lunghe sessioni di gioco. E poi può darsi che leggessero anche un po' di Huntington, ma un buon gioco di simulazione ti penetra molto più di qualsiasi opera letteraria".
"Vabbè, ma che vuol dire, ci giocava anche un sacco di gente non Neocona… Io mi ricordo una volta che tornavo in treno da una manifestazione, sai, quelle cose enormi che facevamo ai tempi dell'Iraq, e non riuscivo a dormire perché il mio dirimpettaio pacifista si ostinava a spiegare a un suo amico come aveva scatenato la guerra nucleare contro gli egiziani e… ma come, sono già sotto coi soldi?"
"È il buco lasciato dal governo precedente".
"Ma no! Amato non mi avrebbe mai tirato un gioco simile. Lui era un uomo onesto, un…"
"Un socialista, sì. Non ti ricordi il bonus fiscale del 2000? Il tuo primo aumento alla tua prima busta paga. Pura manovra elettorale".
"Allora Tremonti non mentiva".
"Era solo un simpatico esageratore".
"Beh, che importa, tanto non ho mica promesso mari e monti, io. Ci metto solo un turno a… Momento. Cos'è qsta puzza di fritto?"
"Qsto è un altro aspetto discutibile della simulazione. Ogni ambasciatore si annuncia dal suo… profumo".
"Mao Tze Tung?"

Ave, Rutelli. L'ambasciatore della Repubblica del Popolo Cinese ti augura pace e prosperità.

"Sì, mi rendo conto che a questo livello avrebbero potuto usare volti più verosimili, ma pare che agli utenti piaccia più così. Quando tratti coi francesi c'è sempre Napoleone, e l'ambasciatore indiano è sempre Gandhi, anche quando ti lancia l'offensiva nucleare. Piccoli effetti umoristici".

Abbiamo sentito dire che state fondando un'Organizzazione Mondiale del Commercio con USA, Europa e Russia.
Ci piacerebbe aderire alla vostra Organizzazione.
Possiamo vendere: utensili in acciaio, manufatti tessili, tecnologia hi-tech
.

"La traduzione lascia un po' a desiderare. Cosa gli rispondo?"
"Sei tu, il Presidente. Improvvisa. Sei italiano o no?"
"Se gli dico di no, cosa fa, mi invade?"
"Ufficialm no. Potrebbe usare le bombe umane".
"Bombe umane?"
"Un deterrente molto efficace. Libera qualche milione di cittadini ansiosi di emigrare in Italia clandestinam".
"Beh, meglio così, un sacco di forza lavoro. Tanto io sono di sinistra… e qsto chi è?"

Ave, Rutelli, sono il tuo Ministro degli Interni, on. D'Alema

"Ma se non ha i baffi!".
"Porta pazienza, è uno scenario che ti ho fatto in due ore, secondo te avevo il tempo di mettere i baffi a D'Alema? Senti che ti dice".

Rapporti confidenziali dicono che un attacco umano dalla Repubblica del Popolo Cinese causerebbe rivolte in tutte le città del Nord.

"Beh, ma si fottano, quei Padani!"

Se questo è il tuo volere, Presidente, devo rassegnare le dimissioni

"E si fotta anche D'Alema! Però, mi piace qsto gioco. Ma la prossima volta mettici i baffi, mi darà più soddisfazione… beh? È già finita?"
"D'Alema si è dimesso, i Diesse ti hanno tolto la fiducia, il tuo governo è caduto, hai perso la partita".

Addio, Rutelli.
Il tuo governo è durato 27 giorni.
Gli annalisti del futuro ti ricorderanno come:
RUTELLI L'IMBELLE


"No, no aspetta. Torno indietro. Come non detto. Control Zeta. C'è un modo di fare Control Zeta?"
"Come no, basta pensarlo intensamente".
"E infatti! Dunq, sono di nuovo di fronte a Mao Tze Tung che sa di fritto. Gli dico che può entrare nell'Organizzazione Mondiale del Commercio, però… deve rispettare alti standard in materia di diritti umani! To', beccati questa".
"Lui che dice?"
"Fa sì con la testa e sorride".
"È un modo del software per esprimere assenso «all'orientale»".
"Più che sorridere ridacchia".
"È sempre un cenno d'assenso".
"Bene. E qsta adesso cos'è… cannella?"

Ave, Rutelli. Sono il Presidente degli Stati Uniti, George W. Bush

"Sì, e sai di cannella. Cosa vuoi?"

Vedo che anche tu sei d'accordo all'ingresso della Cina nel WTO. Firmeremo l'accordo formale al prossimo summit, in Italia, in luglio. Mi raccomando di curare le misure di sicurezza anti-terrorismo".

"E se lo mando a f'nql?"
"Non credo che andrai molto avanti".

"Va bene, allora Ok, George, non ti preoccupare, anzi, te lo posso dire? Preoccupati. Osama Bin Laden sta preparando un attacco alle Due Torri in settembre. Ouch! Che succede?"
"Succede che stai barando. Stai usando il senno del poi".
"E mi arriva la scossa?"
"Un piccolo deterrente".
"E qsto casino cos'è?"
"Non è niente, c'è malcontento popolare".
"E perché? Cosa ho fatto?"
"Pensano che organizzando un summit in Italia attirerai i terroristi; inoltre né Mao Tze Tung né George W. Bush sono molto popolari".
"Vabbe', ma che ci posso fare?"
"Più o meno lo sai cosa puoi fare. Puoi intrattenerli, costruire stadi, ripetitori tv, cinematografi…"
"Ci sono già in tutte le città, non bastano".
"Puoi farli lavorare meno a parità di salario".
"Ma sono già in rosso".
"Ti sarà già capitata una situazione del genere, no? Di solito cosa facevi?"
"Beh, la cosa più facile era distaccare un'unità militare nella città in tumulto".
"Bene, allora fa così. Prima concentri tutto il malcontento popolare in una città… in qlla dove avverrà il summit. E poi, con la scusa dell'antiterrorismo, ci mandi un bel po' di unità-carabinieri".
"Non è che ne abbia tante a disposizione. Mi servono per gli stadi".
"E allora prendi anche i poliziotti, i finanzieri, i forestali… tutto quel che hai".
"Però non so… non mi sembra una cosa molto di sinistra".
"Se te ne vengono in mente altre…".
"Non conosco il gioco abbastanza".
"Lo conosci benissimo. Improvvisa".
"E qsto chi è?"

Ave, Rutelli, sono il tuo Ministro degli Esteri, on. Veltroni

"Veltroni?"
"Pensavo che ti sarebbe piaciuto, sai, è un brav'uomo, ogni tanto lo mandi in Africa…"

Il summit internazionale è stato un successo. I terroristi non hanno colpito. Il mondo ti stima.

"Oh, bene".

Ave, Rutelli, sono il tuo Ministro degli Interni, on. D'Alema

"E tu che vuoi?"

La sollevazione popolare nella città di Genova è stata sedata.

"Ottimo".

Perdite: una unità.

"Che significa?"
"C'è scappato un morto".
"Militare o civile?"
"Senti, è una simulazione fatta in poco tempo, non ha nessuna importanza se è morto un carabiniere o un manifestante. Uno su 57 milioni è comunque poca cosa".
"Poca cosa? Questa è una Repubblica! Non è che può morire una persona in una città così".
"Certo che puoi, se concentri tutto il malcontento e tutte le forze di polizia in una città sola! Quando giocavi alle versioni più vecchie non ti capitava mai di far morire i tuoi cittadini?"
"Sì, ma era un gioco. Non me ne accorgevo neanche".
"È un gioco anche questo".

Ave, Rutelli, sono il tuo Addetto Stampa, Michele Serra

"Piuttosto inverosimile".
"È il primo che mi è venuto in mente".

Lieve malcontento in tutte le città, per la morte di un cittadino durante la rivolta di Genova.
La tua popolarità è crollata. Fini e Bertinotti vinceranno le prossime elezioni.

"E va bene, che ci posso fare?"
"Puoi chiedere scusa, nominare una commissione d'inchiesta e scaricare le colpe sui sottoposti".
"Giusto. Faccio dimettere tutti i dirigenti delle forze di polizia. E anche D'Alema, to', non è agli Interni, D'Alema? Al suo posto ci metto Fassino, così i DS mi mantengono la fiducia. Come sto andando?"
"Non male, sei arrivato al settembre del 2001 senza ancora fare una sola cosa di sinistra".
"Va be', ho ancora cinque anni, tanto".

(continua)
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Autoclip

La prima volta che vidi L'Odio (il film, intendo), ero con un mio amico, e a un certo punto mi resi conto che il mio amico credeva che si trattasse di un film storico, sul serio, una ricostruzione degli anni '70.

Non aveva tutti i torti, perché in fin dei conti è un film in bianco e nero, e il bianco e nero mette sempre della distanza tra noi e le immagini. E all'inizio, se ricordo bene, c'è un bel reggae su scene di barricate. Il reggae, le barricate, ci sembravano cose lontane. Il bianco e nero ci aiutava a tenerle lontane.

Io, parlando di Genova, vorrei sforzarmi di non patinare nulla, di non virare tutto in bianco e nero, di non mettere nessuna cornice: perché queste cose sono successe a noi, proprio a noi, che eravamo pigri e accaldati tre anni fa, proprio come stasera. Ed è vero che sembrava il Cile, ma sembrava anche, terribilmente, un qualsiasi pomeriggio afoso di luglio, e si poteva essere incerti se andare alle barricate o andare al mare. Ed è vero che c'erano barricate e striscioni e scritte ai muri, ma sugli stessi muri, ovunque, sorrideva indifferente Megan Gale, proprio come stasera. Ed è vero che si cantava Manu Chao e Bella Ciao, ma la canzone che più si sentiva dalle finestre rimaneva sempre...

C’e solo una cura
io so che lo sai

2. Italiano. Percosso con pugni in faccia e calci alla schiena prima di entrare in cella, e poi in cella con pugni alle costole

è una stanza vuota
io mi fiderei
veniva ancora percosso all'interno della cella a opera di agenti che stringevano più forte i laccetti ai polsi, lasciati ingiustificamente mentre si trovava all'interno della cella
Bravo, puoi capire
cose che non vuoi
5. gli afferravano le dita della mano sinistra e poi tirando violentemente le dita stesse in senso opposto in modo da divaricarle, riportava lesioni: ferita lacero contusa di 5 cm. tra  il terzo e quarto raggio della mano sinistra
sei il tuo guaritore
sei nel tuo mondo...
minacciato: "Se non stai zitto, ti diamo le altre" mentre gridava per il dolore in seguito alla mancata anestesia durante la sutura della lacerazione "da strappo" alla mano.
RIT. Dammi tre parole: sole, cuore e amore
dammi un bacio che non fa parlare
42- Minacciata col manganello contro la bocca ferita, con la cantilena "Manganello, manganello", e derisa per la paura dimostrata 
è l’amore che ti vuole
prendere o lasciare
stavolta non farlo scappare
81. Subiva minacce anche a sfondo sessuale da persone che stavano all'esterno: "Entro stasera vi scoperemo tutte".
Solo le istruzioni per muovere le mani
non siamo mai così vicini
aaah, ahhh
36. Costretta a rimanere, senza plausibile ragione, numerose ore in piedi, con il volto rivolto verso il muro della cella, con le braccia alzate oppure dietro la schiena
Parla a voce bassa
spiegami che vuoi
sai ne è pieno il mondo
di mali come I tuoi
Percossa ripetutamente con manganellate alla testa  e alle spalle, caduta a terra, percossa con calci alla schiena e al petto, presa per i capelli e sollevata, calciata in mezzo alle gambe, sbattuta contro un muro
slacciati la faccia
ha rabbia il gatto che
gioca con la buccia
e gira in tondo
manganellata ancora e presa a calci al petto e al ventre, successivamente trascinata per i capelli lungo alcune rampe di scale, colpita ancora da tutti i lati con manganelli 
RIT. Dammi tre parole: sole, cuore e amore
dammi un bacio che non fa parlare
Uno due tre viva Pinochet
è l’amore che ti vuole
prendere o lasciare
stavolta non farlo scappare
(trauma toracico addominale, fratture costali con pneumotorace a destra e contusione polmonare, trauma cranico, contusioni multiple, lesioni gravi per il conseguente indebolimento del 30% della funzione respiratoria e della locomozione del braccio e del collo)
Solo le istruzioni per muovere le mani
non siamo mai così vicini
aaah, ahhh
49. Costretto a marciare nel corridoio della caserma e ad alzare il braccio destro in segno di saluto nazista
Tra la terra e il cielo
e in mezzo ci sei te
Carlo Giuliani è stato ucciso da un sasso scagliato da un manifestante, che ha deviato una pallottola sparata in aria da un carabiniere su un defender in movimento 
a volte è solo un velo
un giorno, un fulmine
Carlo Giuliani, il mattino del 20 luglio, voleva andare al mare 
se hai dato, dato, dato
avuto, avuto, avrai
oggi è già piovuto
dove sei, dove sei, dove sei..
Sin da bambino ho guardato video musicali, e a volte, quando ascolto una canzone, gioco ad associare le immagini, è come se montassi un video dentro la mia testa.
RIT. Dammi tre parole: sole, cuore e amore
dammi un bacio che non fa parlare
è l’amore che ti vuole
prendere o lasciare
stavolta non farlo scappare
Solo le istruzioni per muovere le mani
non siamo mai così vicini
Il mio video personale di questa canzone finisce con le immagini di Carlo, che il 20 luglio alla fine decide di  andare al mare, si tuffa, nuota, e vive, vive e prende il sole insieme a noi
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Descrizione di una battaglia

(Bozza. Continua da ieri)

Nel saggio conclusivo Paolo Ceri afferma che i movimenti…

…sono caratterizzati dall’insolita combinazione di mobilitazione e partecipazione. Tale combinazione […] è generativa del movimento, al punto che il suo attenuarsi o squilibrarsi provoca il dissolvimento o la trasformazione del movimento in qualcosa d’altro. Se a declinare è la partecipazione spontanea (alle decisioni e alla vita associativa), il movimento si radicalizza, fino a trasformarsi in setta, oppure diviene puramente rituale. Se a venir meno è la mobilitazione, esso subisce un processo di istituzionalizzazione, fino a diventare un attore del sistema politico. Date queste differenze, si capisce come per i movimenti la posta in gioco – la scommessa – sia quella della durata che, in luogo d’essere questione di purezza ideologica, è questione d’equilibrio vitale tra una partecipazione effettiva e una mobilitazione spontanea.

Partecipazione. Mobilitazione. Altrove si parla di “concezione funzionale” e “concezione processuale”; di “azione” contro “consenso”: io mi metto subito a immaginare un gruppetto di persone che dice: “dobbiamo fare questo e quello entro la tale data”… e un altro che replica: “un attimo, chi siete voi per dirlo? Fermiamoci un attimo e ragioniamo su come deve funzionare il movimento”. Il dialogo può proseguire per molto tempo: nell’ultimo stadio il gruppo “azione” viene accusato di leaderismo, e il gruppo “consenso” di paranoia. Questa esperienza l’abbiamo vissuta in molti. Ma forse le cose sono un po’ più complesse. Ceri soggiunge: “col tempo e le risorse intellettuali necessarie, una storia sociologica dei movimenti potrebbe essere realizzata proprio ricostruendo le dinamiche e i rapporti tra mobilitazione e partecipazione”.

Questa “storia sociologica” m’interesserebbe. Posso proporre un contributo? Per me sarebbe opportuno distinguere tra Movimento del 20 luglio e del 21 luglio. Cerco di spiegarmi.

Il Movimento non ha una vera data di nascita, ma indubbiamente ha una data “di esplosione”: il 21 luglio del 2001. Genova è un big bang. Ma tutta l’energia che si disperde nell’universo nei mesi successivi, da qualche parte esisteva già. L’anno precedente una serie di associazioni di volontariato e gruppi di base (di matrice non solo cattolica) si erano messi “in rete” con Lilliput: nella primavera del 2001 molti gruppi, per lo più della sinistra post-marxista (ma non solo), si erano ritrovati a una prima assemblea preparatoria di Attac; i centri sociali erano ormai parte del paesaggio urbano da vent’anni, e negli ultimi due o tre avevano anche iniziato a far parlare di sé come centri delle nuove “tute bianche”. Semplificando al massimo, si può dire che l’obiettivo di Genova aveva fatto sì che una serie di realtà frammentate si coagulassero in due o tre sigle riconoscibili. Questo coagulo accelera proprio nei giorni di Genova: i Disobbedienti, si sa, nascono allo stadio Carlini, dall’incontro delle tute bianche del nord-est e dalla Rete no global del sud (che in un primo momento si chiamava “Rete del Sud Ribelle”). Talmente eccezionale è l’appuntamento con gli “otto grandi della terra”, che questi grandi coaguli, appena nati e quindi fragilissimi (ma anche molto entusiasti) sentono subito il bisogno di connettersi tra loro, di formare un fronte unito. Questo incontro avviene sotto il “cappello” del Genoa Social Forum, che all’inizio era semplicemente il coordinamento delle associazioni che avevano partecipato al World Forum di Porto Alegre.

Questo è più o meno lo stato dell’arte del Movimento, il 20 luglio del 2001: una varietà enorme di sigle, associazioni, gruppi e gruppetti, coagulati in tre o quattro macro-gruppi “di affinità” (il termine è di matrice anarchica, ma credo che renda bene l’idea), che dialogano tra loro (e con il resto del mondo) attraverso il Genoa Social Forum. In realtà non è un fronte così unito: è una composizione ancora fragile e magmatica. Segno di questa situazione è la scelta, mai abbastanza biasimata, di dividere le manifestazioni del 20 luglio in più “piazze tematiche”, dove i macro-gruppi (Attac, proto-disobbedienti, Lilliput, Cobas…) possono rivendicare pratiche e identità diverse. Sappiamo tutti benissimo com’è andata. Le “piazze tematiche”, separate tra loro in una città blindata, sono facili prede per l’infiltrazione e la repressione. A un certo punto il GSF dà l’ordine di “rientrare a Piazzale Kennedy”: qui la maggior parte dei manifestanti scopre cos’è successo tra Corso Torino e Piazza Alimonda. Scopre che i portavoce della sinistra istituzionale stanno invitando a non partecipare al corteo del giorno dopo. La sera del 20 luglio del 2001 il Movimento è isolato e solo. E lo stesso GSF mostra crepe abbastanza evidenti.

Il big bang avviene il mattino dopo. Il lungomare di Genova si riempie di manifestanti arrivati solo quel mattino. Sono arrivati ignorando gli inviti di partiti e sindacati. Sono venuti malgrado le scene di violenza proiettate in tv. Sono centinaia di migliaia – non tantissimi, in realtà, negli anni successivi ci abitueremo ad adunate molto più massicce: ma sono sensibilmente molti di più che il giorno prima. E la maggior parte non rientra in nessuno dei grandi macro-gruppi. È così che il 21 luglio del 2001 ci accorgiamo che Attac, Lilliput, gli stessi centri sociali, in fondo non sono che piccoli luoghi di concentrazione di un movimento molto più vasto. E che non si può più pensare al Movimento, come si era fatto ancora il giorno prima, come un insieme di piazze tematiche collegate fra loro: se non bastasse il vecchio adagio, “divided we fall”, è stata la repressione poliziesca a insegnarcelo, sulla nostra pelle.

Dal 21 luglio 2001 al settembre dello stesso anno, assistiamo a un fenomeno curioso e impressionante: in Italia nascono i Social Forum. Senza che nessuno sappia, esattamente, cosa sono e come dovrebbero funzionare. Lo stesso nome è del tutto involuto: è un calco dal “Genoa Social Forum”, che si era dato un nome inglese perché a Porto Alegre e poi a Genova aveva co-ordinato gruppi italiani ed esteri. Da semplice coordinamento di associazioni, il GSF è diventato qualcosa di più importante (e più inquietante): un archetipo, come lo definisce nel suo saggio Gian Luca Fruci.
Ma in realtà i nuovi Forum hanno poco a che vedere con l’originale GSF: sono gruppi che in molti casi nascono dal basso, dall’iniziativa di persone che non si riconoscono in nessun altra associazione di riferimento.
Nelle province dell’impero la confusione è grande. In vari centri esistevano già molti gruppi sensibili ai temi del Movimento: molti avevano partecipato a Genova, e in quei mesi stavano organizzando i primi embrioni di Attac o Lilliput. Quando arriva l’onda d’urto dei Social Forum: ovviamente gli stessi personaggi sono investiti in pieno, né possono sottrarsi dall’opportunità di farsi conoscere a un pubblico più vasto. Succede così che al Movimento “20 luglio” (quello dei macro-gruppi, delle piazze tematiche, dei centri sociali) si sovrapponga il Movimento “21 luglio”, il movimento dei “social forum”. Nella sovrapposizione è inevitabile che ci siano tensioni tra i gruppi, ma in generale sembra che tutti abbiano da guadagnare: le prime assemblee si fanno in grandi sale, si vedono un sacco di facce nuove. È un’esplosione d’interesse che prosegue anche dopo l’11 settembre, anzi: la sensazione che “nulla sarà come prima” rende tutti un po’ più attenti ai temi del Movimento. Una serie di scadenze ben definite aiuta gli attivisti a non disperdersi. Per un po’ sembra che debba nascere un Forum Sociale Italiano. Poi la tensione si allenta, e di Forum Italiano si smette di parlare.
Nei mesi successivi, la spinta propulsiva del big bang si esaurisce. Le facce nuove smettono di affollare le assemblee: i forum esistono ancora, ma sotto i forum s’intravedono sempre più evidenti i gruppi pre-esistenti. Quelli del 20 luglio. A tre anni di distanza, questo libro lo testimonia abbastanza fedelmente: su otto capitoli, uno è dedicato a Lilliput, uno ad Attac, uno ai centri sociali, uno al Commercio equo e solidale, uno agli anarchici (e al black bloc). Nel sommario riaffiora così la vecchia distinzione in piazze tematiche.

Attenzione: questo non significa che i forum non esistano più; ce ne sono ancora parecchi. Ma non sono più le adunate assembleari dell’estate 2001: in alcune città esistono ancora come tavolo di confronto tra vari gruppi (si è tornati insomma al modello 20 luglio); in altri casi sono sopravvissuti specializzandosi su alcuni temi: in pratica sono diventati anche loro “gruppi di affinità”, che si incontrano periodicamente, seguono campagne e organizzano iniziative. In pratica, hanno smesso di essere luoghi di partecipazione: sono diventati, anche loro, gruppi di mobilitazione. Del resto anche in Lilliput, dopo l’ondata costituente, gli organismi che hanno dato più prova di funzionare sono i GLT, “gruppi di lavoro tematico”: piccoli tavoli di persone interessate a uno specifico problema. In Attac mi sembra di assistere a una tendenza analoga. Quanto ai Centri Sociali, ci si chiede se in fondo non abbiano sempre lavorato così.

Se c’è una “crisi” del Movimento, insomma, è una crisi di partecipazione. Per contro, le mobilitazioni riscuotono ancora qualche successo. Ha vinto il gruppo dell’“azione”, quello che sin dall’inizio pretendeva di dettare il calendario. E come ha vinto? Per sfinimento. La democrazia è una cosa sfibrante, specie quando è partecipata. Si salva soltanto chi è particolarmente motivato, chi ha il tempo per partecipare alle riunioni infrasettimanali, chi ha la possibilità di dedicare un week-end a un’assemblea, ecc..

Io però non me la sento di biasimarli. Temo che abbiano vinto anche perché avevano ragione loro. Io ero stato tra quelli che aveva sopravvalutato il 21 luglio: pensavo che dopo il big bang nulla sarebbe stato come prima. Pensavo che dopo la sfilata sul lungomare di Genova, in Italia ci fossero almeno 300.000 persone interessate a partecipare alle decisioni del Movimento. Non era esattamente così. Il popolo del 21 luglio ha frequentato, sì, le assemblee, ma non era così interessato a partecipare ai meccanismi decisionali. In realtà veniva soprattutto a informarsi sulle successive scadenze. Dopo il 21 luglio ci sono state due Perugia-Assisi, e il 23 marzo, la grande manifestazione della CGIL. Poi c’è stato l’anniversario di Genova. Poi il Forum Sociale Europeo a Firenze. Poi la marcia contro la guerra a Roma. Il popolo del 21 luglio non si è perso un corteo. Tanto ama i bagni di folla, quanto disdegna le assemblee. Per lui tutte queste iniziative sono, essenzialmente, una forma di protesta: ieri contro la globalizzazione, oggi contro la guerra. Che il movimento potesse essere anche altro, un esperimento di democrazia, è un pensiero che l’ha appena sfiorato.

Questa forma di partecipazione ‘debole’ è ben rappresentata, secondo me, da due realtà particolari: il negozio di Commercio Equo e Solidale e il Centro Sociale. Apparentemente hanno poco in comune: di solito li immaginiamo frequentati da persone diverse. Però, guarda caso, sono due “luoghi” inseriti nel tessuto urbano, dove la gente può entrare anche se non condivide gli assunti ideologici degli organizzatori. Non c’è bisogno di essere noglobal, anarchici, sandinisti: ci si può limitare a essere clienti. Così come il Commercio Equo è un negozio alternativo, il Centro Sociale è un locale alternativo (nei casi migliori è molto di più, ma la maggior parte degli ‘utenti’ lo considera in questo modo). Si può decidere di entrare a far parte della cooperativa, o del Centro Sociale: occorrerà entrare in una rete di relazioni complesse e non sempre formalizzate, e, soprattutto, lavorare: impegnarsi, dimostrarsi degni di fiducia, assumersi delle responsabilità. Ma si può anche decidere di non fare nulla di tutto questo, di limitarsi a entrare, comprare il tè biologico o ascoltare un concerto a prezzo politico. Ecco, secondo me molto spesso la dicotomia tra mobilitazione e partecipazione ha assunto questo aspetto: da una parte una minoranza di attivisti a tempo pieno, impegnatissimi e un po’ matti; dall’altra la massa, anzi, la moltitudine dei clienti: quelli del 21 luglio. (Quante volte in mezzo a un corteo ci è sembrato di essere a un concerto).

Capita a tutti nella vita di trascorrere alcuni anni navigando a vista. Non sappiamo esattamente dove stiamo andando, e ci aggrappiamo alle scadenze. Non chiediamo più la luna, ma di arrivare alla fine del mese. E anche al Movimento, non chiediamo più una rivoluzione, ma un calendario di iniziative. E forse biasimiamo con troppa leggerezza chi si fa in quattro per offrirci le nostre occasioni mensili di mobilitazione. In ogni caso la scommessa di far convivere mobilitazione e partecipazione era persa in partenza. Non lo dico io, lo dice Ceri:

Si tratta di una scommessa che, per loro natura sociologica, i movimenti sono destinati a perdere. Si tratta di una sconfitta che, beninteso, è condizione necessaria perché il loro potenziale di modernizzazione e di rinnovamento democratico possa trasfondersi nelle istituzioni. Tutto dipende, quindi, da come e quando si compie la «sconfitta».

Il Movimento, insomma, deve morire per dare un buon frutto. Ma che frutto sarà? In cosa consiste questo “potenziale di modernizzazione”? Ceri e i suoi colleghi guardano a tutte le pratiche di democrazia partecipativa, agli esperimenti fatti in questi anni. Io non sono altrettanto sicuro. Mi guardo indietro e ho la sensazione che il maggior regalo che il Movimento farà alla società saranno le persone. Persone che in questo periodo hanno partecipato a riunioni e assemblee, hanno sbandato tra partecipazione e mobilitazione, hanno sperimentato, hanno chiesto e dato fiducia, e si sono fatte riconoscere tra i loro compagni. E domani potrebbero ritrovarsi trasfuse nella nuova classe dirigente. Non sarebbe neppure la prima volta.

Purtroppo, queste trasfusioni di solito si fanno al netto delle ideologie. La classe dirigente non ha bisogno di idee, quanto di organizzatori capaci. E il Movimento, si è visto, sta selezionando proprio queste figure: gli esperti di mobilitazione. Oggi in piazza, domani nelle stanze dei bottoni?
È una prospettiva un po’ avvilente. Ceri e i suoi colleghi sono molto più ottimisti. Il futuro darà ragione a me o a loro: è uno di quei casi in cui preferirei avere torto.
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Descrizione di una battaglia
(bozza)

La democrazia dei movimenti. Come decidono i Noglobal. A cura di Paolo Ceri, Rubbettino, 2003

Non so se si possa dire, dei saggi di sociologia, che “si leggono in un fiato”: fatto sta che io l’ho letto davvero in un fiato, questo saggio di sociologia: e questo vorrà dire qualche cosa. Almeno due.
La prima è che, evidentemente, si tratta di un testo molto leggibile, scorrevole e non prolisso: fatto tanto più lodevole in quanto non si tratta di un saggio solo, ma di una raccolta di piccoli saggi composti da sette autori diversi (quasi tutti giovani ricercatori), diretti da Paolo Ceri. Il risultato però è un quadro d’insieme armonico: un testo scientifico che funziona anche come opera divulgativa.
La seconda cosa è più personale. Il libro sarò anche leggibilissimo: ma se l’ho letto d’un fiato è anche perché avevo bisogno di leggerlo. Non si divorano testi scientifici per pura curiosità: qui c’era qualcosa di più. In questo libro stavo cercando qualcuno che mi raccontasse la mia Storia. Perché, non la conoscevo già? Non più di quanto non la conosca il combattente nel mezzo della battaglia. (Nessuno ti spiega quel che succede nel mezzo della battaglia: questa verità, ben nota a Fabrizio Del Dongo e alle generazioni attraversate da guerre mondiali, noi l’abbiamo scoperta solo da Genova in poi).
Quello che cercavo in questo libro era – per dirla con una parola che improvvisamente, oggi, si comincia a sentire in riunioni e assemblee – una narrazione. La riorganizzazione delle mie esperienze, frammentarie, confuse, contraddittorie, in un racconto. Possibilmente a lieto fine – ma in fondo mi contentavo di meno. Mi sarebbe bastato trovare un senso a tutto quello che era successo e che tuttora ci succede. Mi contento di poco?

C’è stato un periodo – 2001, 2002 – in cui ho partecipato a molte assemblee, riunioni, cortei, organizzati da una serie di sigle diverse, ponendomi spesso una domanda non retorica: ma il Movimento è democratico? Ce lo siamo chiesti in molti. In teoria sì: il Movimento nasceva proprio dall’esigenza di rinnovare la democrazia, di scuotere gli apparati decisionali delle istituzioni politiche, di trovare o creare nuovi luoghi di partecipazione alle decisioni. In pratica, però, in quei mesi si trattava di partecipare ad assemblee con ordini del giorno fittissimi di iniziative e contro-iniziative, e in fondo non c’era nulla da decidere: o si aderiva, o non si aderiva. Chi stilava l’ordine del giorno, chi teneva il microfono in mano (e sceglieva a chi darlo), rischiava grosso: se si metteva troppo in luce poteva essere accusato di tentato leaderismo. Accusa pesantissima. D’altro canto, non si poteva nemmeno perdere tempo a decidere un meccanismo di rotazione dei portavoce, o un metodo formale per raggiungere le decisioni; parole come “delega” e “rappresentazione” erano bandite; e soprattutto: non c’era tempo. C’erano troppe cose da fare.
(C’era, naturalmente, un “gruppo di lavoro sulla democrazia interna”, ma non riusciva mai a inserirsi all’ordine del giorno [vedi questo vecchio pezzo]).

Dopo qualche mese è diventato evidente che l’emergenza non sarebbe mai finita. Non solo perché vivevamo in tempi eccezionali – in pochi mesi Genova, l’11 settembre, la guerra in Afganistan, la Palestina… – ma soprattutto perché quest’idea dell’“emergenza”, del calendario fitto, era diventata parte integrante del nostro modo di pensare, di agire, e di rimandare il problema della democrazia. Ma non potevamo rimandarlo per sempre. E così, a un certo punto, lo abbiamo affrontato. C’è stata una lunga stagione costituente, burrascosa e incostante, che ha attraversato gran parte del Movimento: i saggi del libro documentano le fasi alterne di questa stagione della Rete di Lilliput, Attac, i Forum Sociali. In tutti e tre i casi abbiamo assistito a qualcosa di simile: i gruppi che avevano fondato e ‘organizzato’ questi movimenti (e che avevano portato avanti le iniziative nei giorni dell’emergenza) sono stati contestati. Non si contestavano le persone, né quello che avevano fatto fino a quel momento. Si contestava il solo fatto che ci fosse da qualche parte un tavolo di portavoce, un direttorio, un “governo”. Così Lilliput ha rifiutato il ruolo di coordinamento del Tavolo Intercampagne; così Attac ha vissuto una forte dialettica tra consiglio direttivo e comitati locali; così il Forum Sociale Italiano, che doveva costituirsi, non è mai nato. “Rappresentanza”, “delega”, “portavoce”, rimanevano parole tabù. Tabù era diventato anche prendere una decisione per alzata di mano. Dal saggio di Francesca Veltri scopro finalmente in cosa consistesse quel famoso “metodo del consenso” adottato da Lilliput. È un sistema piuttosto complesso che consente a un’assemblea di arrivare a decisioni comuni senza votazioni e scontri interni (grazie anche all’ausilio di assistenti neutrali, detti “facilitatori”). Pare che funzioni, ma richiede molto tempo. E del resto Lilliput sembra aver deciso di prendersi tutto il tempo che vuole (“all’interno di Lilliput sta prendendo piede l’idea di rifiutare totalmente la presa di posizioni a carattere urgente, considerate incompatibili con la specifica struttura del movimento”). Si passa così dall’emergenza infinita al rifiuto del solo concetto di emergenza. Dal calendario fitto al calendario vuoto: perché no? Ma si può ancora chiamare Movimento, qualcosa che non si dà più nessun tipo di scadenze? Si “muove” ancora?

Il grande dibattito sulla democrazia attraversò anche il nostro piccolo forum sociale. Finalmente il gruppo di lavoro sulla democrazia interna poté relazionare. Ci furono i consueti diverbi, risolti probabilmente con il metodo del consenso o qualche altra pratica sfibrante – e alla fine anche il nostro Forum ebbe il suo regolamento scritto. La sua democrazia formalizzata.
Dopodiché accadde qualcosa di un po’ inquietante: io – che mi ero sempre lamentato della mancanza di democrazia del forum – smisi per un po’ di andarci. Non mi appassionavo più.
Ma non è successo solo a me. Le assemblee hanno cominciato a svuotarsi. Attenzione: non le riunioni operative, non i banchetti nelle strade, non i cortei: le assemblee. I luoghi dove, in teoria, la democrazia avrebbe dovuto essere partecipata. E invece sembrava che nel 2002 gran parte degli attivisti fossero ancora interessati a seguire iniziative e marciare dietro striscioni, e sempre meno a partecipare alle decisioni. L’Assemblea Nazionale di Lilliput, nel gennaio 2001, mi sembra un caso tipico: per la prima volta il “Metodo del Consenso” viene utilizzato in un’assemblea su scala nazionale, e… pare proprio che funzioni! Ma funziona anche perché quell’assemblea nazionale in realtà è piuttosto ridotta: si presentano soltanto 300-400 persone. E gli altri? Ricordiamo che Lilliput non accetta il concetto di delega. O meglio: gettata dalla finestra, la “delega” viene recuperata dalla finestra col nome più rassicurante di “fiducia”. Ma è davvero un passo avanti? Non è anche un segno di stanchezza? Dopo aver rifiutato meccanismi formalizzati di rappresentanza, molti lillipuziani si sono limitati a “fidarsi” dei compagni che avevano il tempo, o la voglia, di recarsi alle assemblee. Lilliput è solo un esempio: la stessa cosa è accaduta un po’ ovunque.

Dal 2002 in poi credo che tutte le assemblee si siano, non dico svuotate, ma ‘asciugate’: dove prima c’erano trecento persone ora ce ne sono cinquanta, dove ce n’erano cinquanta ora ce ne sono dieci, ecc.. Chi è rimasto?
In molti casi sono rimasti gli uomini dello stato d’emergenza. Quelli che nella prima fase tenevano il microfono, stilavano l’ordine del giorno, si assumevano la responsabilità delle iniziative. Quelli che rischiavano di passare per verticisti, e in certi casi lo erano davvero. Quelli che in molti casi hanno assistito alla stagione costituente con una smorfia di fastidio. Ma come mai hanno resistito proprio loro? Non era finita, l’era delle emergenze? E perché loro non si sono stancati, e gli altri sì? Avrei tanto voluto che qualcuno me lo spiegasse. Anzi, no, che me lo raccontasse. (Continua)
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L’anno prossimo a Ponte Alto

Terza e ultima

Settembre, a Modena, è l’unico mese che valga la pena. Poi ci saranno le nebbie, le piogge, qualche nevicata, e poi improvvisamente il sole, il sudore, i finestrini aperti su polline e micropolveri, le zanzare e l’afa, e tutti al mare. Non ci fosse questo terrazzino sull’autunno, dove vengono le ragazze vestite di bianco per meglio farsi valutare l’abbronzatura, e il lavoro di rassodamento ai fianchi, non ci fosse un po’ di Festival per farsi il riassunto su chi si è diventati, dove si abita, e con chi, e perché, e quanto al mese e per quanti mesi. Non ci fosse tutto questo si potrebbe anche piantar baracca e burattini e andare dovunque, ché la val Padana non sembra esser stata progettata per noi: per le zanzare, forse (o per le nutrie).
Io poi col secolo nuovo avevo un sacco di cose da dire a un sacco di gente: che adesso abitavo in centro a Modena, e lavoravo, lavoravo anche parecchio, con un contratto a tempo indeterminato, ch’è si raro. Così che improvvisamente il volontariato non mi interessava più. Oddio, il mio capo – che aveva uno stand al Festival – ci avrebbe anche tenuto.
“E poi potresti andare a fare qualche serata al Festival, no?”
“Al festival? Fino a mezzanotte?”
“Ma no, alle undici chiudi”.
“Ma poi il giorno dopo vengo a mezzogiorno?”
“Ehm, no, se fai così tu dopo anche tutti gli altri…”
“Ma allora è straordinario, me lo pagate?”
“No, sarebbe volontariato”.
Eeeh?”
“Volontariato!”
“Beh, qualche volta vi verrò a trovare”.

Il lavoro è lavoro e il volontariato non è lavoro, e a chi mi diceva rifacciamo una rivista un gruppo di studio, o semplicemente tiriam mattina con i massimi sistemi e con la birra io rispondevo non ho tempo vado a lavorar. Mi fermai a sentire Luttazzi, risi tutto il tempo e il giorno dopo non mi ricordavo una battuta sola (pare che a molti faccia questo effetto), vidi i Subsonica, gli Almamegretta, la gente che entrava a vedere i Blu Vertigo, con Morgan che tentava lo stage diving e picchiava per terra ingloriosamente (e la Sammi si incazzò col suo ragazzo perché Asia lo aveva inspiegabilmente salutato). Fu un anno di transizione, come tutti. Del resto a esser precisi il secolo iniziava l’anno successivo.

L’anno successivo, appunto.

L’anno successivo mi ritrovavo a sinistra del Partito, parecchio a sinistra del Partito, per uno che era partito da una parrocchia e non gli sembrava di essersi mosso granché. Allora forse si era spostato il Partito, no?
Tornare da Genova, con le sirene nei timpani, e trovare tra un paio di Megan Gale quel cartello pubblicitario fu come il colpo di grazia. Noi ci si faceva massacrare per strada e il partito restava in casa a fare marketing. Ero molto incazzato, e quando sono incazzato scrivo (riuscite a immaginarvi quanto io sia incazzato?)
Scrissi un pezzo che, a detta di chi se ne intende, è ancora uno dei migliori. La lesse pure mio fratello e rise molto. Un giorno eravamo in macchina assieme – stavamo andando al matrimonio di Virus (che non si ricorda più di essersi mai chiamato Virus) – e passammo sotto quel cartello. “Non dire niente”, mi disse. “So già la storia”. Scrivendo molto non mi restavano poi parecchie cose da dire.
Io sapevo che prima o poi mio fratello l’avrei visto, allo Spazio Giovani, stavo abituandomi all’idea. C’era abbastanza Spazio Giovani per tutti e due? Dovevo farmi da parte?

Per il momento andavo ai concerti (gli Stereolab! Ma l’acustica era pessima) e stavo dietro il banchetto di Attac. C’eravamo presi la nostra posizione e non la mollavamo. In un mese avevamo già stampato cinque quaderni di lavoro, vendevamo magliette, tessevamo una trama di studenti, insegnanti, operai più o meno specializzati. Chiesi al mio capo uno spazio dello stand per proiettare un paio di filmati di Genova, uno coi manifestanti pacifici e l’altro coi manifestanti tumefatti. Non facevamo che guardare spezzoni di Genova, e in sottofondo, onnipresente, Manu Chao, neanche più musica, fruscio. Dovevamo convertire il Partito che il 21 luglio ci aveva lasciati soli. Eravamo in tanti, l’assemblea era prevista per la sera dell’11.

Quando su un tavolo di biliardo una boccia colpisce un’altra, trasferisce su di lei gran parte della sua energia cinetica. La boccia che era immobile schizza via. La boccia che correva si ferma di colpo. Ma se potessimo rallentare come in un filmato, scopriremmo che c’è un istante in cui le due bocce sono ferme, immobili, e l’energia cinetica è trattenuta da qualche parte. La collisione c’è già stata, ma le reazione non ancora. L’11 settembre ci sentivamo così. Venivamo da Genova, andavamo forte, siamo andati a sbattere contro questa cosa enorme. E sapevamo già che non ci saremmo più mossi, e che anche questa cosa enorme in breve sarebbe schizzata via, per la sua rovinosa strada: ma intanto eravamo lì, a bocce ferme, disperati e impazienti. Allo Spazio Giovani avevano montato il maxischermo, così arrivando alla spicciolata sentimmo per la prima volta la voce di Bruno Vespa nel sacrario. E in un momento in cui non ci si capiva nulla, ma davvero nulla, e le stime sui morti variavano dai cinquecento ai cinquantamila, il Ministro Claudio Scajola seppe fornirne la cifra precisa, “da fonte certa, americana”. Quell’uomo era un fenomeno, anzi è.

Tornai a casa, misi su rai 3 e passai la notte sul divano. Nulla sarebbe stato come prima, come si dice in questi casi.

L’anno dopo c’era la guerra e io ero esausto. Cambiare lavoro, raccogliere tremila firme, protestare contro l’Afganistan e l’articolo 18, incontrare la donna della propria vita, sono cose che stancano. In libreria ci sono i soliti fumetti, è inutile che ristampino Moebius, lo so a memoria. C’è una mostra di Wharol, ma quanto tempo ci puoi mettere a guardare una mostra di Wharol? Dieci minuti per leggere la presentazione e tre minuti per un’occhiata ai vasetti Campbell. Al banchetto del Forum Sociale ci andavo per inerzia. Proiettavo l’ennesima videocassetta su Genova (e la gente continuava a fermarsi, sconvolta). Volevo prepararmi sul WTO, lessi tutto il libro di Susan George che in seguito, purtroppo, dimenticai.
Di fronte c’era l’Associazione Italia-Cuba, con le eterne magliette del Che. Il giorno della manifestazione per la pace, spuntò il cartello: magliette della pace.
Lì sotto, sulla riva del lago, c’era lo spazio Giovani, ma io non volevo più andarci, e avevo ragione. C’è gente davvero giovane lì sotto. Una sera stavamo facendo capannello quando non passa un fighetto totalmente stonato con un gavettone di birra? Ed eccoci qui, un architetto, un professore di italiano, un dottorando in filosofia e un avvocato, fradici di birra. Eravamo molto incazzati, in ispecie Johnny, che certe cose ai suoi amici non le può tollerare (lo tenemmo fermo in sei).
“Ti portiamo a casa, eh?”
Verso il parcheggio, sull’argine del laghetto artificiale, quasi inciampiamo in un culetto roseo, sbocciato da un paio di jeans sbottonati.
“Ehi, ma qui c’è un culo!”
“Se guardi bene, non è da solo”.
“Ma che ci fanno lì? Si sono addormentati?”
“Oppure se la prendono comoda”.
“Che roba però, ‘sti giovani”.
“Sfacciati, proprio, eh?”
“Ma figurati se noi alla loro età”.


Sulla strada di casa sorpassiamo il fighetto a piedi con la macchina, il suo fuoristrada ha spianato il guard-rail.

Quest’anno qualcosa è cambiato.
Hanno fermato Tom fuori dal parcheggio custodito: si era fatto un paio di birre. Palloncino, patente ritirata (da dieci giorni a sei mesi, vedremo), dieci punti in meno, mille euro di multa.
Ho la sensazione che nulla sarà come prima.

Per il resto, mi tengo la smorfia dell’anno scorso, ma non sono più esausto, sono solo scocciato. Non faccio banchetti, volontariato non mi ricordo più cosa sia, le ragazze carine sono tutte sistemate, ballare non se ne parla, birra è meglio berne poca. Giusto per vedere Cofferati, che l’anno prima non sarebbe mai entrato in politica, e quest’anno non desiderava altro che prender la cittadinanza a Bologna. La verità è che ho poca voglia di uscire, non sono più abituato a tanta gente nello stesso posto. E poi una volta ero solo, autonomo, parcheggiavo, bevevo qualcosa, un’occhiata in libreria e fine. Ora devo salutare cento persone e tutte mi chiederanno come va col lavoro, e qui dovrò iniziare cento discorsi un po’ complessi.
“Non sarà che comincia a starti stretta, Modena?”
“No, lo escludo. È che… Lo escludo”.
“Cosa prendi?”
“Una bud”.
“Ih, ih, ih”.
“Che c’è?”
“Si pronuncia bad, ignorante”.
“Lo so. Però io dico bud. Problemi?”
“Eeeeh, che carattere”.
“Sei tu che rompi le palle, scusa”.
“Com’è andata al mare?”
“Di merda. E te?”
“E il lavoro, come va?”
“A puttane grazie”.
“Ma quella rivista che facevi…”
“Chiuse tutte le riviste”.
“E quella brunetta che stava in casa con te, sai che a me piaceva…”
“Tornatataranto”.
“Ah… cambiando argomento”.
“Ecco”.
“Quest’anno è uno schifo, non c’è neanche un concerto”
“Ma non direi, stasera è pieno”
“Sì, Irene Grandi lo chiami un concerto. È roba da ragazzini”.
“Infatti”.
“Ma tu cosa ascolti, adesso?”
“Non lo so”.
“Io ho preso il live di Manu Chao, carichissimo! Te lo presto?”
“Magari un’altra volta”.

Ora mi rendo conto che ho raccontato quindici anni di Festival dell’Unità di Modena senza quasi parlare del Partito. Che ha cambiato due nomi, due quotidiani e quattro segretari, due volte nella polvere e una volta al governo. Che a Roma ha perso soldi a palate, mentre qui la gente si dava da fare a friggere piadine e a bollire tortelloni, polverizzando record d’incasso, e poi buttando tutto via per quel lotto di terra a Ponte Alto che alla fine non valeva neanche la pena.
Allora spiegherò una cosa: per me, e forse non solo per me, il Partito è come la parrocchia. È un’istituzione che non va presa troppo sul serio, però allo stesso tempo non la si può prendere in giro, ci vuole rispetto. Non per i preti, che vanno e vengono e di solito non hanno niente di nuovo da dire, ma perché c’è gente che ci ha lavorato, e gratis, e non per un volontariato di un anno o due, ma per una vita.
Voi cosa sapete delle parrocchie? Quello che dice il Papa, o Ruini? Non ne sapete niente. Cosa sapete del Partito? Quel che dice Fassino? Fassino non è nessuno senza la gente che lo sta ad ascoltare. Ed è quella gente che monta gli stand e serve ai ristoranti, e si siede per due ore ad ascoltare il nuovo segretario, e ogni anno ce n’è qualcuno in meno. Quando non ce ne saranno più pianteremo baracca e burattini e ce ne andremo via, perché la val Padana non è degna di essere popolata. Io a quindici anni ero una tabula rasa, se qualcuno mi avesse detto: tiriamo sassi da un cavalcavia, ci sarei andato. Se mi avessero dato una mazza in mano, sarei entrato in uno stadio con quella mazza in mano. Ma c’era una parrocchia, c’erano festival all’aperto, città finte di compensato in cui la gente passeggiava tranquilla e nessuno mi chiedeva chi ero e da dove venivo. Voi l’avete un posto così, nelle vostre smaglianti città? A Modena un posto così c’è, e lo hanno fatto i comunisti, che adesso si chiamano diessini. Per questo andrebbero giudicati, non per le loro idee sballate o per le loro strategie ancora più sballate. Per il loro lavoro, per la loro serenità, per la loro accoglienza. C’erano librerie e i concerti, e banchi del bar, e qualcuno mi chiese di fare il Delegato Letteratura, e tutto è iniziato da lì. E tutto questo mi è stato dato gratis, e il meno che io possa fare è dire: grazie. Mi dispiace per chi non c’è più, ma io ci sono, e ci sono anche grazie a voi.
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(Questo pezzo è stato scritto sei mesi fa. Con tutto quello che è successo è possibile che ve ne siate dimenticati, ma qualcuno aveva minacciato Placanica di morte.
In Italia siamo quasi sessanta milioni di italiani, trenta milioni di allenatori, quindici milioni di critici cinematografico-musicali, venticinque milioni di romanzieri incompresi, venti di dietrologi dilettanti. Io sono uno. Non faccio niente di male, o almeno, c'è chi fa di molto peggio).

Nessuno tocchi Placanica

"C'è qualcuno che lo vuole morto e glielo manda a dire.
Noi non sappiamo chi ci sia dietro i "brigatisti 20 luglio" (o "20 truglio", come già scrive qualcuno: Truglio è uno dei superiori di Placanica presente in Via Tolemaide). Non abbiamo elementi per concludere che si tratta di "anarcoinsurrezionalisti", come vorrebbe il Ministro, o i soliti "pezzi deviati", come vorrebbe il Movimento.
Non abbiamo la pazienza e la competenza di seguire gli inquirenti nelle loro sofisticate interpretazioni, di spremere messaggi in codice da ogni imprecisione (ce ne sono parecchie). Per esempio, è curioso che i "brigatisti 20 luglio" parlino di una «pentola a pressione piena di polvere nera»: l'unica pentola del genere in Italia fu trovata a Bologna il 18 luglio 2001, due giorni prima della morte di Giuliani.

Non ci facciamo molte illusioni sulle perizie sintattico-grammaticali, retaggio dei verbosissimi comunicati dei brigatisti di una volta. Non è più tempo dei ciclostile e delle risoluzioni strategiche, gli anarcoinsurrezionalisti e i pezzi deviati si danno del tu e chattano quotidianamente su indymedia. È chiaro che alla lunga finiscono per mutuare lo stesso stile, un impasto di tribunale, caserma e centro sociale okkupato. La filastrocca con cui inizia il comunicato ne è un saggio disgustoso. È una parodia della tristissima filastrocca di Pinochet cantata dagli aguzzini di Bolzaneto, ma riesce a essere persino più penosa dell'originale:

''1-2-3 di sbirri morti ne vorremmo trentatre, 4-5-6 ma ce ne bastano anche sei…"
Messaggio in codice, o pura e semplice manifestazione d'idiozia? Eppure chi ha scritto questa roba sa procurarsi esplosivi e sa trasformarli in ordigni ad alto potenziale. Sa dove piazzarli e ha la cautela di rendere inservibili le telecamere di sorveglianza mentre lo fa.

Noi non sappiamo nulla in realtà, tranne una cosa: qualcuno vuole morto Placanica, o almeno lo minaccia. Perché? Chi ha interesse alla sua morte (o alla sua paura)?

Nella ricostruzione ufficiale dei fatti di Piazza Alimonda, Placanica è l'anello debole. È un ragazzo spaventato, che arriva all'ospedale in stato di shock e continua a chiedere: "dov'è la mia pistola?". Si autodenuncia. Poi ritratta. Cambia versione più volte, finché il suo avvocato non si dimette. Per molti giorni è praticamente agli arresti, senza la possibilità d'incontrare nemmeno i suoi genitori. Teme di non poter più fare il carabiniere, poi si sente abbandonato dall'Arma, alla fine si dice fiero di farne parte.

Placanica è un ragazzo che non è sicuro della sua verità, e non è bravo a raccontare le bugie. Finché Placanica è vivo, il caso Piazza Alimonda resta aperto. Chi lo vuole uccidere, vuole chiudere il caso Piazza Alimonda.
Per questo motivo è il caso di gridare forte: Nessuno tocchi Placanica. Lo si difenda con ogni mezzo necessario. Non gli si faccia fare la fine del povero Marco Biagi. Nell'interesse della giustizia e della verità.

Perché a Genova è già morto un ragazzo di troppo.
Perché – sarà anche una banalità – il sangue non si lava col sangue.
E perché Placanica è tra quei pochi che sanno veramente come sono andate le cose quel giorno, ed è l'unico che un giorno potrebbe decidersi a parlarcene.
Non è una sorpresa, a ben vedere, che qualcuno sogni di toglierlo di mezzo.
Non deve sentirsi molto bene, in questo momento. Può fidarsi di chi gli sta vicino?"

***
Sono passati sei mesi. Ieri sera Placanica è rimasto gravemente ferito in un incidente stradale. Un suo avvocato parla di circostanze sospette e si chiede come mai il ragazzo fosse solo. Un altro avvocato (sempre di Placanica) dice che è normale che fosse da solo, che non c'è nessun motivo per tenergli compagnia.

Io non ne so niente, ma ripeto la domanda: quel ragazzo può fidarsi di chi gli sta vicino?
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Carlo Giuliani, per prima cosa, non vive e non lotta insieme a noi.

Carlo Giuliani è morto, nel corso di una manifestazione repressa dalle forze dell’ordine. Sono cose che purtroppo accadono ovunque nel mondo, ed è bene ricordarsene, è bene protestare. In questi giorni, per esempio, molti parlano della repressione in Iran. Il caso della giornalista picchiata a morte dalla polizia ha colpito il cuore di molti. Giustamente.
Ora, spiace constatare come nella volontà di far luce su quel caso il governo iraniano abbia mostrato una correttezza maggiore di quello italiano su Genova. Spiace, proprio perché non ci sono dubbi, non ci dovrebbero essere dubbi su quale sia il regime più democratico tra l’Italia e l’Iran. Quello che concede più libertà ai suoi cittadini e agli ospiti. E infatti io non ho il minimo dubbio: sono felice di vivere qui e non altrove.
Eppure non posso dimenticare di aver visto due anni fa una città italiana che non sembrava più in Italia, ma in Cile. Se è stata un’allucinazione, è stata collettiva, condivisa anche da molti agenti di pubblica sicurezza. Se è stato un miraggio, non è stato innocuo, ma ha lasciato dietro di sé una scia di contusioni, devastazioni, denti rotti, traumi. E un ragazzo di 23 anni che è morto. Un ragazzo che non rappresenta nessuno a parte sé stesso, un ragazzo che forse quel giorno avrebbe fatto meglio ad andare al mare.
Un ragazzo che, poco prima di cadere a terra, aveva un estintore in mano: il che lo ha reso, agli occhi di molti italiani, un pericolo pubblico, o perlomeno uno che se l’era cercata. Attenzione.
Non intendo discutere il buon senso: in generale, inseguire una camionetta dei carabinieri con un estintore in mano non è una buona idea.

Ma era una buona idea caricare un corteo pacifico che sfilava secondo il tragitto programmato? Fu una buona dividere i manifestanti, rastrellarli lungo i marciapiedi o accerchiarli in Piazza Alimonda? Fu una buona idea lasciare una camionetta in Piazza Alimonda? Fu una buona idea mandare a bordo delle camionette ragazzini di leva, accecati e intossicati dai gas controvento, più spaventati dei dimostranti?
Carlo Giuliani, che l’indomani la Repubblica definiva un “punk bestia”, non aveva passato la sua breve vita ad assaltare forze dell’ordine a mani nude. Se non si fosse trovato in Piazza Alimonda oggi sarebbe vivo, e magari incensurato. Ma era a Piazza Alimonda, come avrei potuto esserci io, come avreste potuto esserci voi; e a Piazza Alimonda c’erano in tanti – esasperati dai gas, dalle cariche, dall’adrenalina – che stimarono di dover far fronte alle cariche dando tempo al grosso del corteo di ritirarsi. In quei momenti ognuno decide per sé. Ma Carlo Giuliani ha pagato per tutti.
Qualcosa – anche se molto meno – l’ha pagata anche Placanica. E nessun altro. Nessun responsabile di polizia o carabinieri ha perso il posto. Alcuni stanno facendo anche carriera. Esportano la democrazia. Complimenti.

Piazza Alimonda è storia vecchia, ormai, lo so. Come il massacro alle Diaz, o gli abusi della caserma di Bolzaneto, commessi sotto gli occhi dell’ineffabile Ministro Castelli. Sono storie vecchie, ma prima di esportare nel mondo la nostra democrazia bisognerebbe risolverle. Qualcuno ha ammesso di aver sistemato delle molotov come in una caccia al tesoro, di essersi accoltellato da solo per ottenere la solidarietà dei commilitoni? Bene. Ma non ci basta. Qualcuno dovrebbe ammettere di aver torturato dei ragazzini rei di essersi fatti acchiappare. Qualcuno dovrebbe spiegarci il senso dell’irruzione nella scuola-palestra e nel media-center. Qualcuno dovrebbe scusarsi per aver giocato alla strategia della tensione. Qualcuno dovrebbe ammettere di avere preso la mira e ucciso un ragazzo, perché è ridicolo, umiliante, dover credere alla “pallottola deviata da un sasso”.

Se invece pensate che non valga la pena di chiedere giustizia per Genova, lasciateci almeno perdere. Non cercate il nostro consenso per altre campagne di democrazia. La democrazia non è una civiltà da esportare, la democrazia è una lotta continua, interna, sotterranea, disarmata, tra soggetti sociali che hanno interessi in conflitto. Niente di paradisiaco, niente di cui andar fieri, ma qualcosa per cui lottare. Non ci sono patrie della democrazia, ci sono solo frontiere della democrazia, l’Iran è una, l’Italia pure.

Una vergogna per uno Stato democratico come il nostro, uno tra i più democratici del mondo probabilmente…

(Giuliano Giuliani, in Un anno senza Carlo, Baldini & Castoldi, pag. 62)
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La storia che non voleva finire (prima parte)

Del resto è vero, i blog sono futili e noiosi, privi di qualunque utilità, come la storia che vi vado a raccontare.

C’erano, tanto tempo fa, un ragazzo e una ragazza, e in mezzo duecento chilometri.

Duecento chilometri non è così male, voglio dire, ne ho viste di peggio: il problema è che il ragazzo non conosceva la ragazza, e nemmeno qualcuno che la conoscesse; nessuno che potesse indicare l’indirizzo, il paese, perlomeno la direzione da prendere e la distanza da coprire, nessuno in grado di assicurare nemmeno se quella ragazza esistessa o no, per cui la cosa cominciava a diventare sconfortante. Se capite quello che intendo.

Finché un giorno, per la precisione due anni fa, a Genova ci fu la riunione dei potenti della Terra, e molta gente andò a protestare: e ci andò il ragazzo, e ci andò anche la ragazza.
Ma la città era molto grande, e la confusione tantissima, sicché i due ragazzi non si incontrarono; tornarono entrambi nelle loro case con le sirene nelle orecchie e una certa rabbia nel cuore, e questa storia sarebbe potuta finire qui.

Una storia estremamente insulsa, ne converrete.

Ma a quei tempi, bambini, c’era Internet.
Per la verità c’era anche la televisione, e il cinema, e anche loro giocarono la loro parte. Infatti, una sera di novembre il ragazzo (ma chiamiamolo uomo, a 28 sarebbe ora) doveva uscire con una ragazza, di cui in seguito si è perso il ricordo. Di lei si sa solo che doveva andare al cinema col nostro eroe, ma all’ultimo momento disse di no. Così il nostro uomo se ne restò sul divano di casa, a pigiar tasti di telecomando, finché non scoprì che la Rai dava un documentario su Genova.
Non gli piacque. Avrebbe voluto sentire le parole di Walden Bello o Susan George, ma si sentiva soltanto Manu Chao e ragazzini che suonavano i tamburi. E quel che peggio, i violini di Philip Glass. Il nostro uomo detestava Philip Glass. Sono quelle idiosincrasie assurde che possono decidere il nostro destino.

Forse, chissà, se quel giorno la ragazza dimenticata non avesse tirato il pacco; se la rai non avesse trasmesso il film dei registi italiani su Genova; se i registi italiani si fossero preoccupati di montare qualcosa di più interessante; ma soprattutto, se non avessero scelto Philip Glass come colonna sonora dei pestaggi, la storia sarebbe davvero finita qui. Ma tutte queste cose sono accadute, e altre ancora.

Accadde per esempio che l’indomani il nostro uomo, accecato dall’ira di ritrovarsi comparsa in una sceneggiata musicale di Glass, invece di rispondere alle mail di lavoro, scrisse un pezzo critico e spocchioso su un blog di certi suoi amici. Questi suoi amici avevano e hanno un blog molto bello, dove si parla di musica e ogni tanto, senza dar nell’occhio, si fa un po’ di lettteratura. Avevano anche pubblicato un piccolo libro, dettaglio non secondario, come si vedrà. Dunque, il pezzo critico e spocchioso cominciava così.

Un altro mondo è.... bleeeargh!
Era di sicuro meglio andare al cinema ma, paccato dall’ennesima fanciulla, domenica sera non mi è restato di meglio che sistemarmi sul divano ad aspettare Un altro mondo è possibile, il Documentario Finale sui giorni di Genova, firmato da praticamente tutti i registi italiani (per evitare polemiche quelli che non c’erano sono comunque stati inseriti nei titoli di coda).


Ora, è vero che c’è gente che scrive sui blog per far colpo sulle ragazze, e lo trovo più che giusto: ma direi che se uno vuol far colpo sulle ragazze non comincia un pezzo così. Però chissà, magari mi sbaglio. Non sono il massimo esperto mondiale di blog, tantomeno di ragazze.

Non pago di aver esternato il suo livore, il nostro uomo decise di farsi pubblicità (con la scusa che dopotutto la faceva per il sito dei suoi amici). A quei tempi era appena nato un sito di informazione indipendente molto ambizioso, e chiunque poteva commentare gli articoli. Orbene, anche ai redattori del sito il film dei registi non era affatto piaciuto. Il nostro uomo ne approfittò. Si iscrisse al sito, trovò la recensione al film, e scrisse un piccolo commento in cui lincava il blog dei suoi amici. Poi si vergognò, ma poco.

Ma se avesse saputo la conseguenza del suo gesto, ragazzi miei, non si sarebbe vergognato manco per niente. Quel commentino, che esiste ancora, era probabilmente la cosa migliore che avesse combinato in 28 anni di vita.

(Continua domani).
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Succedono più cose in cielo e in terra
(che sul tuo blog, o Camillo)

Noto che va di moda spulciare Repubblica, e chi sono io per sottrarmi. Purtroppo non ho niente di fresco: mi tocca presentarvi un mio vecchio amico, Frankie.

Il mio amico Frankie (nella foto qui a destra) è un fenomeno. Della natura? No.
Questa foto lo ha immortalato a Genova, il 20 luglio del 2001. La foto è ancora nell’archivio delle “Gallerie fotografiche” del sito di Repubblica. Titolo: “Genova nel dramma”.

Sapete, le molotov avvistate a Genova sono state piuttosto rare. Due le hanno usate i poliziotti; una terza è quella in mano a Frankie. Una molotov molto particolare: è vuota. Il mio amico Frankie è un mago.
Malgrado sia vuota, la bottiglia sprigiona una fiamma impressionante. Fiamme cosi', nelle foto, è raro vederne. Negli scatti al volo dei reporter, praticamente impossibile. Ma il mio amico non conosce l’impossibile. Una fiamma cosi' avrebbe già dovuto bruciargli la maglietta, ma il mio amico Frankie è pure ignifugo. Non solo la maglietta non prende fuoco, ma non viene nemmeno illuminata dalla fiamma.

Insomma, ci sono vari elementi che mi spingono a dire che il mio amico Frankie è un tipo fuori dal comune. Se ingrandiamo la foto scopriamo che intorno a lui gli oggetti perdono la loro consistenza, diventono sfuocati, un’aureola di pixel lo circonda. Nella sua mano sinistra, Frankie stringe qualcosa d’invisibile, forse un talismano che gli consente di apparire e scomparire a suo piacimento nella folla, brandendo molotov vuote e fiammeggianti, a maggior scorno delle forze dell’ordine. In un’altra foto (dell’ansa) lo ritroviamo in un altro quartiere, con la medesima molotov in mano e il medesimo sprezzo del calore. Addirittura, indossa una giacca di jeans, indumento curioso per quei giorni (a Genova, vi ricorderete, facevano 30° all’ombra), che conferma l’idea di una persona eccezionale, fuori dagli schemi.

Insomma, il mio amico Frankie è davvero un fenomeno. Della natura? No. Di Photoshop.
Tutto questo era evidente già allora, quando l’”anarcociclista Mentos” scrisse alla giornalista Loredana Bartoletti di vergognarsi, dimostrandogli che un fotomontaggio cosi' si realizza in 20 minuti.
Sono passati due anni, ormai. La foto è ancora li'. Non mi risulta che nessuno alla Repubblica (o all’Ansa) abbia chiesto scusa. Non mi risulta che nessun altro giornale abbia smentito Repubblica su questo punto (men che meno il Foglio), ma in realtà ho solo poca voglia di cercare negli archivi, sono un blog amatoriale, io.

Bene cosi'? Veniamo a Camillo. Continua a dire che al Museo di Bagdad non è successo niente. Chissà, forse a furia di ripeterlo diventerà vero.
Devo dire che non capisco tutto questo improvvisa passione per le civiltà mesopotamiche. Ma se è vero che i danni sono contenuti, io sono il primo a esserne contento.
Mi sta bene che le indagini (dell’esercito americano) stiano ridimensionando i danni al Museo. (E' ancora consentito pero' prendere con le molle le informazioni che provengono direttamente da un esercito invasore?)
Mi sta anche bene se qualcuno cerca di tirare le notizie dalla sua parte e dire che “Non è successo niente”. Per me è propaganda, ma si è liberi di farla.

Quello che sinceramente non capisco è il link.
Perché scrivere “Non è successo niente” e lincare articoli in cui ognuno puo' leggere che effettivamente è successo qualcosa? E non è qualcosa di poco conto. 3000 manufatti spariti, di cui 47 sono definiti “main exhibition items”. Stavolta anche Camillo ha avuto il buon senso di farlo presente, ma per lui si tratta di “solo” 47 pezzi. E' una questione di punti di vista. Se domani sparissero 47 pezzi dagli Uffizi potrebbe anche cadere il governo. Pero' non è questa la cosa importante.

Infatti, diciamocelo: a noi (a me, a Camillo, a voi tutti) interessa veramente qualcosa delle opere del Museo Nazionale? Abbiamo intenzione di visitarlo in breve? No.
Quel che davvero ci interessa, quello su cui stiamo litigando, è la condotta di un esercito invasore. Alcuni pretendono che gli americani siano stati integerrimi, un vero esercito liberatore che porta la democrazia sulle baionette e ammazza solo quand’è assolutamente necessario, restituendo a un popolo la sua dignità, la sua libertà, la sua cultura.
Altri (come me) dubitano. Per partito preso, ma anche per una questione di educazione: mai prendere nulla per oro colato. Né repubblica, né un’indagine militare, né niente.
Ora, tutti sapevano che il Museo Nazionale era a rischio. La domanda è una sola: il democratico esercito americano si è o non si è adoperato per evitare il saccheggio?

La risposta è chiara: no. L’esercito americano aveva altre priorità.
“Oh bella”, dite voi, “E come fa a esserne cosi' sicuro?”
Lo so… perché ho letto l’articolo lincato da Camillo! E guardate un po’:

Many archaeologists blame U.S. forces, saying they failed to protect the institution in central Baghdad when they captured the city April 9.
U.S. military commanders have rejected the charges, saying the museum was not on the list of sites their troops were ordered to secure upon entering the city


Tutto qui. Poi, fortunatamente, il saccheggio non è stato cosi' devastante come si temeva: ma non grazie agli americani. Loro avevano una lista, e nella lista il Museo non c’era. Il Ministero del Petrolio, si'. La pagliacciata della statua di Saddam, si'. Il Museo Nazionale, no. Se la maggior parte dei tesori sono stati salvati, è stato grazie alla cura degli iracheni. O alla loro avidità (avevano già imboscato gli oggetti migliori). O alla loro pigrizia. Comunque, non alle forze USA Che dovevano restituire la libertà, la dignità, la cultura, ma nel momento in cui il Museo era assaltato avevano altro da fare.
E tuttora continuano ad avere altro da fare: ci sono in Iraq vari siti archeologici non protetti che continuano a essere saccheggiati. Come faccio a saperlo? Beh, non ci crederete, ma... ho letto l’altro articolo lincato da Camillo (il trucco è leggere il fondo, lui di solito cita la prima parte. Per lo stesso motivo, non leggerà mai queste mie parole).

Although the museum collections are now secure, there are widespread reports that looting has intensified at some of the most important but unprotected archaeological sites in Iraq, including the buried cities of Uruk, Larsa and Fara.

Sapete che da quando leggo Camillo ho sempre più motivi per sparlare degli USA?
Lo so, dovrei smetterla.
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Questo fine settimana c’è un vertice G8. Ci avete fatto caso?
Almeno, avete fatto caso a quanto poco se ne parla? Perché, secondo voi? Cos’è successo al G8? Cos’è successo a tante persone che hanno fatto di tutto per essere a Genova due anni fa e oggi non si pongono nemmeno il problema di raggiungere Evian, a poche cenitnaia di chilometri di distanza? Alcune ipotesi:

1. Il Movimento è in crisi.
Qualche segno di crisi c’è.
Basta guardare che fine hanno fatto i nomi più in vista – nessuna fine, in realtà, ma ormai procedono in ordine sparso. Casarini, dopo un’avventura bolognese dagli esiti deludenti, ha fatto notizia per essersi preso una torta in faccia a Londra. Agnoletto si considera ormai sciolto da qualsiasi ruolo rappresentativo, e ha scritto un libro in cui finalmente può dire cosa pensa (e togliersi qualche sasso dalle scarpe). Zanotelli batte la campagna, accolto ovunque da torme di proseliti, in una sua personale interpretazione dell’Apocalisse. I Wu Ming coltivano il loro giardino narrativo. Gino Strada è in Iraq a esercitare, presumo. E così via.
E i militanti? Più o meno sono quelli di due anni fa, defezioni vere e proprie non ce ne sono. (Il Movimento non è dogmatico, non esistono espulsioni o radiazioni: ci sono tanti gruppetti e ognuno sceglie il più congeniale). Si fanno vedere sempre meno alle assemblee, anche se alla fine non si perdono un corteo. È un problema di motivazione, o meglio è un problema di stanchezza.
Se una crisi c’è, insomma, è la solita crisi stagionale di maggio e giugno. I motivi sono semplici, fin banali: in questi mesi chi studia e chi lavora ha poco tempo a disposizione. L’anno scorso la crisi è finita il pomeriggio del 21 luglio, quando le strade di Genova si sono improvvisamente riempite di una folla di giovani che aveva finito gli esami o si era presa le ferie. Il Movimento si fa nel tempo libero, ed è dura dover contrastare nel tempo libero chi di mestiere fa il Potente a tempo pieno (coi soldi nostri, sia detto per inciso).

2. Il G8 è passato di moda.
Senza dubbio oggi il G8 non è più percepito come l’odioso consesso dei potenti della Terra. A due anni da Genova è più difficile vedere Bush, Chirac, Schroeder e Putin come un blocco compatto. Dall’11 settembre in poi, il Movimento ha progressivamente messo a fuoco un obiettivo diverso: l’imperialismo americano. George W. Bush, due anni fa niente di più che una simpatica macchietta che stringe le mani ai colleghi chiamandoli col nome sbagliato, è diventato il demiurgo del Medio Oriente. Siamo passati dal fumoso Impero di Toni Negri all’Impero Americano dei Neocons o di Vidal. Magari cominciamo a provare qualche remota simpatia per quella canaglia di Chirac. Beh, ci sbagliamo.
Il G8 non è solo una passerella per l’imperatore e i suoi amici più potenti: continua a essere un vertice serio, dove si prendono le decisioni importanti alle spalle dei Paesi non rappresentati. Decisioni che gli USA non possono prendere da soli: due anni di vittorie militari non li hanno reso molto più potenti di quanto non fossero prima; nel frattempo l’economia interna non tira, e l’euro forte comincia a dare preoccupazioni.
E allora forse varrebbe la pena di stare attenti a quello che succede a Evian: non alle contestazioni fuori, quanto ai contrasti dentro. Secondo Tricarico più di G8 si tratterà di un G2, una trattativa tra USA ed Europa, più che due grandi potenze, due grandi mercati dagli interessi ormai contrastanti. Chi abbia il coltello dal manico, sembra fuori discussione: gli USA hanno preso Bagdad anche per ricordare a tutti che il petrolio va calcolato in dollari, non in euro.

3. Il Movimento ha vinto
come dice sempre Agnoletto. Ma c'è poco da esser trionfali. Non si può dire che il mondo sia molto migliorato da due anni in qui. Ma qualcosa è cambiato. Prendiamo il G8: due anni fa era ancora una grande cerimonia in stile Excelsior: la città di turno aveva l’onore di essere rimessa a nuovo per l’occasione. Oggi è una riunione di capi di Stato costretti a complicati trasferimenti tra le montagne e le frontiere (il vertice è in terra francese, ma gli alberghi sono in Svizzera). Continuano a incontrarsi, certo. Ma hanno dovuto rinunciare alla pompa magna, alle transenne nei Centri Storici, al sequestro dei cittadini. Il G8 “anni Novanta” non esiste più, è sepolto con l’ottimismo della New Economy e dei processi di pace di Clinton. È una vittoria simbolica. Poco più di niente. Ma è già qualcosa. A Genova gli Otto Grandi non ci andranno più. E forse è inutile tallonarli fino a Evian.

Anche perché il Movimento non ha più bisogno di infiltrarsi nei Vertici ufficiali per far sentire la sua voce. Ha i suoi appuntamenti, i suoi forum, ha tutto lo spazio che vuole per costruire le sue idee. E questo è tutto quello che conta: le idee. Non il numero di manifestanti a questo o quel corteo, non i fermati alla frontiera, non i titoli di giornale. È sulle idee che il Movimento sta vincendo. Basti pensare a quello di cui si sta parlando in Italia, da un mese: l’opportunità di concedere l’immunità a una manciata di politici. Nel frattempo il Movimento parla dell’acqua, del petrolio, dei diritti ai migranti: di quello che sta cambiando ogni giorno intorno a noi. Mentre tutti fuori giocano alla piccola campagna elettorale, il Movimento parla di privatizzazioni: di come sia passata nel silenzio generale la legge che obbliga a svendere le aziende municipali, una legge che viene da molto lontano, attraverso l’Europa direttamente dal WTO.

Il Movimento parla del WTO, la più fantomatica delle Organizzazioni Internazionali, che in settembre a Cancun cercherà una volta per tutte di svuotare il guscio delle nostre democrazie. Nel disinteresse di tutti, ma non del nostro. Possiamo essere in pochi, stanchi e accaldati, ma siamo svegli: possiamo non essere d’accordo su tutto, ma almeno sappiamo cosa ci sta succedendo. Senza bisogno di andare a Evian. Sarà per la prossima volta (a Parigi?)
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"Ma il Signore gli disse:"Però chiunque ucciderà Caino subirà la vendetta sette volte!" Il Signore impose a Caino un segno, perché non lo colpisse chiunque lo avesse incontrato. (Genesi 4.15)

Nessuno tocchi Placanica

C'è qualcuno che lo vuole morto e glielo manda a dire.
Noi non sappiamo chi ci sia dietro i "brigatisti 20 luglio" (o "20 truglio", come già scrive qualcuno: Truglio è uno dei superiori di Placanica presente in Via Tolemaide). Non abbiamo elementi per concludere che si tratta di "anarcoinsurrezionalisti", come vorrebbe il Ministro, o i soliti "pezzi deviati", come vorrebbe il Movimento.
Non abbiamo la pazienza e la competenza di seguire gli inquirenti nelle loro sofisticate interpretazioni, di spremere messaggi in codice da ogni imprecisione (ce ne sono parecchie). Per esempio, è curioso che i "brigatisti 20 luglio" parlino di una «pentola a pressione piena di polvere nera»: l'unica pentola del genere in Italia fu trovata a Bologna il 18 luglio 2001, due giorni prima della morte di Giuliani.

Non ci facciamo molte illusioni sulle perizie sintattico-grammaticali, retaggio dei verbosissimi comunicati dei brigatisti di una volta. Non è più tempo dei ciclostile e delle risoluzioni strategiche, gli anarcoinsurrezionalisti e i pezzi deviati si danno del tu e chattano quotidianamente su indymedia. È chiaro che alla lunga finiscono per mutuare lo stesso stile, un impasto di tribunale, caserma e centro sociale okkupato. La filastrocca con cui inizia il comunicato ne è un saggio disgustoso. È una parodia della tristissima filastrocca di Pinochet cantata dagli aguzzini di Bolzaneto, ma riesce a essere persino più penosa dell'originale:

''1-2-3 di sbirri morti ne vorremmo trentatre, 4-5-6 ma ce ne bastano anche sei…"
Messaggio in codice, o pura e semplice manifestazione d'idiozia? Eppure chi ha scritto questa roba sa procurarsi esplosivi e sa trasformarli in ordigni ad alto potenziale. Sa dove piazzarli e ha la cautela di rendere inservibili le telecamere di sorveglianza mentre lo fa.

Noi non sappiamo nulla in realtà, tranne una cosa: qualcuno vuole morto Placanica, o almeno lo minaccia. Perché? Chi ha interesse alla sua morte (o alla sua paura)?

Nella ricostruzione ufficiale dei fatti di Piazza Alimonda, Placanica è l'anello debole. È un ragazzo spaventato, che arriva all'ospedale in stato di shock e continua a chiedere: "dov'è la mia pistola?". Si autodenuncia. Poi ritratta. Cambia versione più volte, finché il suo avvocato non si dimette. Per molti giorni è praticamente agli arresti, senza la possibilità d'incontrare nemmeno i suoi genitori. Teme di non poter più fare il carabiniere, poi si sente abbandonato dall'Arma, alla fine si dice fiero di farne parte.

Placanica è un ragazzo che non è sicuro della sua verità, e non è bravo a raccontare le bugie. Finché Placanica è vivo, il caso Piazza Alimonda resta aperto. Chi lo vuole uccidere, vuole chiudere il caso Piazza Alimonda.
Per questo motivo è il caso di gridare forte: Nessuno tocchi Placanica. Lo si difenda con ogni mezzo necessario. Non gli si faccia fare la fine del povero Marco Biagi. Nell'interesse della giustizia e della verità.

Perché a Genova è già morto un ragazzo di troppo.
Perché – sarà anche una banalità – il sangue non si lava col sangue.
E perché Placanica è tra quei pochi che sanno veramente come sono andate le cose quel giorno, ed è l'unico che un giorno potrebbe decidersi a parlarcene.
Non è una sorpresa, a ben vedere, che qualcuno sogni di toglierlo di mezzo.
Non deve sentirsi molto bene, in questo momento. Può fidarsi di chi gli sta vicino?
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Compartecipazione psichica
Senz'altro non è un bel modo di esprimersi. Il composto "Compartecipazione" andrebbe radiato dal dizionario, in quanto inutilmente ridondante (cosa distingue una compartecipazione da una semplice partecipazione?). L'aggettivo "psichico", dal suono sinistro e dalla pronuncia disagevole, dovrebbe essere circoscritto alle pubblicazioni mediche, e sostituito ove possibile con "mentale". Insieme, queste due parole, fanno un certo effetto. Specie se sono scritte sul pezzo di carta che ti manda in prigione.

Di "compartecipazione psichica" si parla a pagina 53 dell'ordinanza di custodia cautelare della procura di Genova. (Ma nessuno, al momento, è agli arresti per compartecipazione; i "compartecipanti" sono indagati a piede libero). Leggendo di qua e di là, non sono riuscito a capire se si tratti di un'espressione prevista dal codice penale, o di un'infelice invenzione linguistica del Gip.
La "compartecipazione psichica", si spiega, è una forma di concorso in reato che si verifica "nella fase di ideazione". Se non è cospirazione, insomma, poco ci manca.
Il gip la distingue in due tipi: la "determinazione", "che fa sorgere in altri un proposito criminoso che prima non esisteva"; e l'"istigazione", "che si limita a rafforzare in un'altra persona un proposito criminoso in essa gia' esistente". Determinatori e istigatori non si sporcano le mani con spranghe o estintori, ma sono di fronte alla legge ugualmente colpevoli, perché… perché "psichicamente compartecipi".

È, insomma, un modo lambiccato di dire una mezza ovvietà: che gli organizzatori e i complici dei devastatori di Genova sono ugualmente colpevoli. Resta da capire perché, invece di parlare di istigazione a delinquere, complicità, apologia di reato, ecc.… il gip scelga una formula tanto inquietante.

Un'"istigazione" prevede un istigatore e un istigato. Una "determinazione" richiede un determinatore e un determinato. Il reato ha come una direzione: c'è un mittente (mandante) e un esecutore. Ma la "compartecipazione" è qualcosa di diverso. È un modo di descrivere i fatti che si adegua un po' meglio a quanto è successo in certe piazze di Genova. Prendiamo per esempio i blecbloc di Piazza Paolo da Novi, descritti da Giulietto Chiesa in "Genova/G8" (Einaudi)

si trovavano diversi gruppi di giovani molti dei quali vestiti di nero, con passamontagna calati sul volto, caschi, maschere, fazzoletti; non scherzavano, erano impegnati a scavare, a fare emergere dal selciato le pietre; alcuni svellevano parte della segnaletica stradale, altri spezzavano le recinzioni metalliche delle aiuole. L'impressione era quella che non ci fosse nessuno che dava ordini, ciascuno faceva per conto proprio, ma comunque si trattava di un lavoro organizzato..

Non c'è un portavoce, uno stratega, un capopopolo: l'organizzazione non è verticale, ma orizzontale: non istigata, ma "compartecipata". Ironia della sorte, una delle parole d'ordine del Movimento, la "partecipazione" (vedi la democrazia partecipata, i bilanci partecipativi), qui gli si rivolge contro. In polemica con chi sostiene che le devastazioni furono episodi circoscritti, il gip evoca una "guerriglia urbana preordinata" e ampiamente compartecipata.

E a questo punto – mi pare di capire – nessuno dei manifestanti di Genova è al di sopra del sospetto. Io, per esempio, nel primo pomeriggio di venerdì mi sono trovato nel mezzo di quello che credevo fosse il corteo dei Cobas, già pieno di gente con le facce coperte e le spranghe in mano, dagli intenti evidentemente criminosi. Intenti che in quel momento mi sono ben guardato di ostacolare. Ma in questo modo non ho forse con la mia passività "rafforzato in un'altra persona un proposito criminoso"? C'è modo di provare davanti a una giuria che in quel momento non ero "psichicamente compartecipe" dei primi cassonetti dati alle fiamme? Mediante perizia psichiatrica? Macchina della verità? Ipnosi?

Tutto questo, naturalmente, non reggerebbe di fronte al tribunale del riesame. Ma intanto i potenziali indagati aumentano in misura esponenziale. È sufficiente esser stato fotografato o ripreso nei pressi di uno scontro, o di un atto di vandalismo, in atteggiamento "compartecipe". Naturalmente gli eventuali organizzatori, portavoce, ecc., sono anche loro "compartecipi" per aver "fatto sorgere" o "rafforzato" in altri un "proposito criminoso".

Per un anno e mezzo abbiamo collezionato, ingrandito e scandagliato qualsiasi fotogramma riguardante Piazza Alimonda e il caso Giuliani-Placanica. Era solo l'inizio. Nei prossimi giorni, mesi, anni, assisteremo alla moltiplicazione dei fotogrammi. Per ogni arrestato presente e futuro troveremo le immagini che ne provano l'innocenza e quelle che ne provano la colpevolezza, o meglio, la "compartecipazione". Ci saranno processi e controprocessi, sentenze annullate e ribadite. È facile pensare che parecchi innocenti si ritroveranno la vita rovinata. È lecito sperare che, in mezzo a tutto questo, si farà anche un po' di luce sui fatti di Genova e sui misteriosi blecbloc.

Ma in questo gioco al massacro il Movimento rischia qualcosa di più: di 'baschizzarsi', di appassionarsi alla causa dei "compagni in carcere" fino a perdere di vista i suoi ideali e i suoi contenuti. Di trasformarsi nella solita accolita di rancorosi reduci dalle galere, un po' suonati, che hanno mille sacrosante ragioni di lamentarsi, e che oltre a lamentarsi non sanno più che fare. Ne abbiamo visti tanti, finire così – siamo sicuri di essere migliori?

Il comunicato stampa del Genoa Legal Forum
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In Piazza Alimonda, ancora

Nei giorni scorsi su indymedia è apparso un nuovo dossier sul caso Giuliani-Placanica, uno zip nascosto in un mp3, pubblicato dal solito Franti. È un documento avvincente e, insieme, repellente. Franti e il suo collega Arto hanno il merito di aver trovato belle foto e messo in piedi una ricostruzione interessante. Ingrandendo una foto del defender che ha investito Carlo Giuliani, hanno scoperto che il profilo del "terzo uomo", il Tenente Colonnello che non era né al volante né dietro con la pistola in mano, è molto simile al profilo dello stesso Placanica. E siccome Placanica non è mai stato sicuro di aver sparato in testa a qualcuno (ha cambiato versione diverse volte), ogni tipo di dietrologia è consentita.

Franti e Arto sembrano sapere il fatto loro. Esibiscono una serie di foto in cui si dimostrerebbe come gli ufficiali che dovevano dirigere le operazioni intorno a Piazza Alimonda siano stati i primi a tagliare la corda. Non dimenticano di citare fatti poco noti all'opinione pubblica, come la presenza nella piazza di ufficiali già distintisi in Somalia per… violenze sulla popolazione civile. Riportano l'audizione del vicecomandante del ROS dei carabinieri alla commissione d'inchiesta parlamentare, facendo maliziosamente notare come quest'ultimo il 5 settembre dell'anno scorso parli di una non meglio precisata "procura competente" ai disordini di Genova. Quale? Genova? Torino? Cosenza? Forse non lo sa ancora neanche lui. Insomma, Franto e Arto sembrano preparati e attendibili…

…Ma poi si fregano da soli condendo il tutto con dialoghi da noir all'italiana (con tutto il rispetto per il noir all'italiana):

- Dove scappi, coglione? Ferma sta jeep, sta fermo che ti faccio vedere io come si fa, imbecille! Pam! Pam! E ora metti in moto e sgomma coglione, via, via che ci togliamo da questo merdaio adesso… Vai, ti ho detto, tanto quello è già morto e se ci passi sopra non cambia niente. Forza, ti copro io! Fa presto! Pliccanica dammi la pistola, che cazzo hai fatto! Sei tutto pieno di sangue, anche nella jeep riesci a farti picchiare, coglione! Ma ora sei nella merda! Dammi la pistola! Ok… vieni qua tu cretino… Come ti chiami? Raffone? Ok Raffone monta qua su e ricordati che sei sempre stato qua, o vedrai che sei nella merda come quello smidollato del tuo collega, […]

Lavoriamo di fantasia? Forse…


Non "Forse". Di sicuro. Ma un po' di fantasia può essere utile; quello che da fastidio è il voler fare letteratura su un morto. E tutta la fiducia che cominciavo a nutrire d'improvviso evapora. Fammi vedere meglio quelle foto. Beh, tutti i profili si somigliano da lontano. E un segno bianco su un casco non vuol dire niente. Mi avete fatto leggere un bel romanzo, ma il protagonista è realmente vissuto. Ed è realmente morto. E adesso mi vergogno.

***
Ma è vero, è un mistero appassionante, il caso Giuliani-Placanica. Ci coinvolge più di ogni altro mistero italiano. Perché ci riguarda più da vicino, forse. E poi perché ci mette l'uno contro l'altro, senza mediazione. E' sufficente che rine parlino i giornali, o la tv, e ognuno di noi torna a Piazza Alimonda, un'altra volta, per pensare: Cosa avrei fatto?
Qualcuno la rivive nei panni di Giuliani: avrei sollevato l'estintore? E perché? Per colpire il nemico, per difendere me e i compagni?
E qualcun altro la rivivrà dalla parte di Placanica: avrei sparato? In aria o ad altezza d'uomo? Per minacciare, per difendermi, per uccidere?

È questo il vero mistero che ci tormenta. È per questo che collezioniamo foto e video. Misuriamo i metri che separano Giuliani dal defender: a due metri è un potenziale assassino, a tre un cittadino che si difende. Cerchiamo nell'aria sassi che si prendano la colpa di aver deviato un colpo a salve nella testa di un ragazzo. Probabilmente nessun delitto è stato tanto osservato. Cerchiamo tutti la prova che ci assolva – il che vuol dire che ci sentiamo tutti, in qualche modo, in colpa.

"No, questo non lo accetto, tu sei peggio di Franti. Lui gioca al detective, tu all'esistenzialismo. Vorresti dire che il colpevole è in ognuno di noi? Troppo comodo. No, il colpevole è la fuori, dev'essere individuato e punito".
Sì.
Ma allora il caso è chiuso, non c'è più niente da indagare. Che Placanica abbia sparato ad altezza uomo; che abbia sparato in alto; che un sasso abbia deviato la pallottola; che il gas lo abbia sconvolto e accecato; che lui si sia limitato a guardare e poi a coprire un superiore: che differenza fa? La volontà di avere un morto nelle strade, quel giorno, era evidente. Non è senz'altro di un capro espiatorio che abbiamo bisogno. Non di un ragazzino. Ma nemmeno del suo immediato superiore.
Molto più in alto dobbiamo guardare, senza perdere tempo a frugare tra vecchi complotti e cianfrusaglie, perché i colpevoli non tramano nell'ombra, ma sono davanti agli occhi di tutti noi. Perché chi si mise a giocare alla guerra nelle strade di Genova sapeva di poter contare sulla copertura di questo Governo. Perché, insomma, Placanica ha tanti superiori, e i loro nomi li conosciamo (qualcuno li ha anche votati).

Solidarietà a tutti i presunti, in particolare a chi nei giorni scorsi ha compilato il modulo di autodenuncia del Forum per la pace di Ferrara e ora si ritrova indagato a Trento per cospirazione… io comunque l'avevo detto, che certi pm non hanno il senso dell'umorismo, però… solidarietà.
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Ordine di arresto suicida
Per il resto, la descrizione della provocazione rivolta alle forze dell'ordine fa riferimento al sarcasmo che usa Caruso, che annuncia «con un cavolfiore vi seppelliremo», che parla di «celerini affetti dal morbo dell'afta epizootica» e che promette «con ortaggi e verdura faremo la lotta sempre più dura» invitando «i compagni del servizio d'ordine, armati di carciofi e scolapasta» a farsi avanti.
Umorismo involontario?

1. Giustizia per le vetrine
Il successo – limpido – dell'organizzazione del Social Forum non dovrebbe farci dimenticare che in Italia c'è ancora molta gente con un'idea precisa di quanto è successo a Napoli e a Genova un anno fa: orde di manifestanti avrebbero devastato la città e aggredito le forze dell'ordine. E siccome i riscontri (vetrine infrante, poliziotti feriti) ci sono, è uno scandalo che ancora nessuno sia in galera.
Questo punto di vista è comprensibile: è giusto chiedere giustizia per le vetrine, anche se a me capita di appassionarmi di più per l'occhio d'un ragazzo percosso dal calcio di un vicecapo digos. Purtroppo in Italia le vetrine hanno pessimi avvocati, che finiscono per nuocere alla loro causa, come la Fallaci.
Inoltre, la difesa delle vetrine alla lunga rischia di rivelarsi controproducente per polizia e carabinieri. Com'è possibile che, con tutte le videocassette che ci sono in giro e nelle edicole, non siano ancora riusciti a individuare una sola faccia, un solo colpevole di "saccheggio e devastazione"? Per contro, i magistrati che hanno voluto indagare sugli eccessi delle forze dell'ordine, di riscontri ne hanno trovati.

L'imbarazzo per CC e polizia dev'essere diventato intollerabile dopo gli arresti di Napoli, la scorsa primavera, nel momento in cui la Magistratura sembrava dare ragione ai manifestanti.
È a quel punto che il Ros (Raggruppamento Operazioni Speciali) dei Carabinieri inizia a bussare di procura in procura con un copioso dossier in cui si prova – si proverebbe – la responsabilità di alcuni personaggi del movimento meridionale nelle devastazioni di Napoli. Ma il dossier non ha molto successo. Le procure di Torino e Genova, tra le altre, lo rispediscono al mittente. Forse perché sono procure 'rosse'. O forse perché le accuse sono inconsistenti.
Ma l'Italia è lunga, e alla fine un paio di magistrati più sensibili degli altri lo trova anche il Ros, a Cosenza.

2. Siamo tutti cospiratori, seriamente
Attenzione però: nemmeno il pm Fiordalisi e il gip Plastina trovano nulla che valga un'incriminazione per devastazione o saccheggio. O al limite per vandalismo, resistenza a pubblico ufficiale... Nulla.
Invece il reato contestato è: cospirazione politica mediante associazione al fine di turbare l'esercizio del governo; effettuare propaganda sovversiva; sovvertire violentemente l'ordinamento economico costituito nello Stato.

Si tratta di un'accusa più difficile da dimostrare, ma anche da contestare: non basta far sparire dai cassetti coltelli da cucina e mattarelli. È sufficiente scrivere un'e-mail sulla rivolta globale, o, temo, scaricare la stessa e-mail sul proprio pc. Ma anche farsi bello con l'amico al cellulare, dicendo cose tipo: "macché black block, a Genova eravamo noialtri a fare casino", come ha fatto effettivamente uno degli arrestati, Cirillo (dimostrando una dabbenaggine incredibile per un ex settantasettino: dopo Genova perfino i lillipuziani stavano attenti a quello che dicevano al cellulare, con tutti i clic strani che si sentivano).
Non era nemmeno necessario essere a Genova o a Napoli: anche da casa si poteva cospirare ascoltando radio Gap e scrivendo messaggini agli amici con istruzioni come: "evitare Corso Torino". Capito, Enzo? Sei nella merda.

Non consola sapere il reato di cospirazione risale al codice Rocco (1930), visto che nessuno ha ritenuto giusto invalidarlo. Anzi il reato di cospirazione ha conosciuto un buon revival negli anni di piombo, e rimane attualissimo anche oggi, vista la nuova normativa antiterrorismo. In più, nell'overdose informativa in cui viviamo oggi, tra sms, e-mail, filmati digitali (e blog!) prima o poi una cospirazione scappa a tutti quanti. Esattamente come a chiunque può capitare di scaricare un'e-mail a contenuto p e d o p o r n o g r a f i c o e rischiare anni di carcere e infamia.

Insomma, non è solo questione di solidarietà: siamo davvero tutti sovversivi. Valutate voi se è il caso di autodenunciarvi alla procura di Cosenza, come suggerisce il Forum per la Pace di Ferrara. Io, se devo essere sincero, ho un po' paura che mi prendano sul serio, perché…

3. Ma a Cosenza ci sono o ci fanno?
…perché (è questo il punto più inquietante) a Cosenza non hanno il senso dell'umorismo. O forse ne hanno più del dovuto. Ma, insomma, se l'accusa è grave, ha ben ragione Diario a sostenere che le motivazioni sono risibili. Troppo risibili. Caruso, per esempio, è accusato di cospirare a cielo aperto con… una pannocchia di plastica. Sembra uno scherzo. L'apice del ridicolo resta però la confusione tra radio Gap e i Gruppi d'Azione Partigiana di Feltrinelli: se tre lettere bastano a provare la cospirazione, non si capisce come possano farla franca i proprietari della nota catena di abbigliamento (come suggeriscono Diario e Gnu). E insomma, a questo punto il sospetto sorge legittimo: ci sono o ci fanno?

Capita a volte che un giudice scriva una sentenza deliberatamente assurda, costringendo la Cassazione a riaprire il processo: in gergo tecnico, si chiama "sentenza suicida". Ecco, quello di Cosenza sembra un "ordine di arresto suicida". Scritto appositamente per essere rigettato dal Tribunale delle Libertà. E per fare degli arrestati degli eroi: in primis quel povero masaniello di Caruso, che di stare sulla ribalta si era stancato da un pezzo. Ma perché?

4. "È un complotto di Berlusconi per screditare la magistratura"
Purtroppo il complottismo è il nostro vero sport nazionale. Ma non si può fare a meno di notare come tutto questo accada non solo a una settimana dal Social Forum, ma anche a pochi giorni dall'approvazione della legge Cirami; a poche ore prima della condanna di Andreotti in appello; nella settimana in cui Berlusconi ha pretestuosamente riaperto il dibattito sulla grazia ad Adriano Sofri. In giorni, insomma, in cui l'indipendenza della magistratura è attaccata su più fronti. Il che spiega almeno l'insolita solidarietà che anche politici e opinionisti del centrodestra hanno dimostrato per gli arrestati nei giorni scorsi.

Senza voler credere a un machiavellico complotto di Berlusconi o chissachì, la strumentalizzazione senz'altro c'è, e nei prossimi giorni andrà denunciata: Caruso e Andreotti non hanno niente, veramente niente in comune: nel bene e nel male.
Certo che però l'Italia è strana. Se protesti per venti arrestati ti rinfacciano di non aver ugualmente protestato per tutte le manette scattate negli ultimi dieci anni. Ma avremo ben il diritto di protestare per chi ci pare, senza per forza dare addosso a una categoria – i magistrati – in cui c'è del buono e del marcio, come in tutte le categorie di questo mondo?

5. Che fare?
Quel che possiamo.
Per ora possiamo già vantarci di avere reagito con più compostezza di molti politici nello stesso frangente, dando un'altra prova di maturità. Nella prossima settimana gli obiettivi da proporsi (se proprio vogliamo cospirarne) credo siano due. Il più immediato, la libertà per quei cospiratori che ieri notte hanno viaggiato da Trani a Viterbo "con i piedi e le caviglie ammanettate, raggomitolati su se stessi e rinchiusi all'interno di gabbiotti di mezzo metro quadrato". Il più importante, l'abolizione del reato di cospirazione. Il che sarebbe un bene per tutti. Anche per chi vuole bene alle vetrine e cerca di difenderle dai vandali. Ma chi – strumentalizzazioni a parte – ha veramente a cuore le vetrine oggi? A parte i manifestanti di Firenze, intendo?
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Avrete notato che è passato un anno da Genova
E che è da un po' che non scrivo granché.
Beh,
giusto oggi stavo cercando di scrivere qualcosa su Genova, su quest'anno così incredibile e terribile per me, quando mi sono reso conto che stavo scrivendo la storia della mia vita, partendo dalla crisi petrolifera del 1973. E allora ho lasciato perdere, perché non credo che sia quel tipo di cose che vi va di leggere qui.
D'altro canto: cosa vi aspettate di leggere?
Domanda interessante.

Tirate al reduce

Genova è stata tante cose per me, l'anno scorso, tante che quasi rischiavo di ricaderci addosso tornandoci: tornando al bar da cui vidi passare la polizia che andava alle Diaz, ecc. Per fortuna non c'è stato il tempo. Per fortuna la Genova di quest'anno è stata un'altra cosa, che non si sovrappone in nessun modo. Un viaggio con amici vecchi e nuovi, soprattutto. E quattro giorni senza computer, un'ottima cosa.
Poi torno a casa e trovo su Defarge un'interessantissima intervista a "Ignacio Ramonet, direttore de Le monde diplomatique". Ramonet, invitato a un convegno sull'informazione, stacca un cospicuo assegno e spara a zero sull'informazione via Internet, "piena di menzogne e falsità. Che tende ad essere gratuita e disponibile 24 ore su 24, e che da un lato ottempera ai suoi scopi principali annunciare, vendere, sorvegliare e dall’altro priva la vera informazione della propria ragion d’essere e delle entrate sulle vendite".

La cosa mi punge un po' sul vivo. Io probabilmente non sarò mai un giornalista, troppo vecchio per affiliarmi all'albo, ormai. Ma a Genova, l'anno scorso, feci un po' d'informazione per i fatti miei. Gratuitamente. Per la verità, non feci nessun scoop, non scrissi nulla che non si trovasse già su Indymedia o Radio Gap. Eppure feci realmente qualcosa di rivoluzionario. E spiego perché.
Cos'è una rivoluzione?
Ho la sensazione che si tratti prima di tutto di una scoperta. Il rivoluzionario non fa che sfruttare una forza, un'energia che esisteva già in natura, ma che nessuno aveva notato. Il vapore, il Terzo Stato, i treni, le televisioni. Per cui, in realtà, il vero rivoluzionario non fa le barricate, ma sfonda una porta aperta. I sanculotti alla Bastiglia non trovarono resistenza.

Del resto io non mi sono mai sentito un rivoluzionario. Anzi ho passato i primi 27 anni della mia vita a sentirmi ripetere che tutto era già stato inventato, raccontato, catalogato, esaurito, e non restava che citare e fare il verso. Nessun entusiasmo, tutta ironia.
E poi, un giorno, mi sono trovato a Genova, in una sala stampa, con al collo un accredito quasi fasullo. Stavo semplicemente facendo la fila per accedere a un computer, quando iniziò la conferenza stampa del GSF, e all'improvviso tutti i giornalisti lasciarono i terminali e… tirarono fuori il taccuino.
All'inizio non ci feci nemmeno caso, perché non sono un tipo così svelto. Mi misi a navigare tutto contento, aprii blogger, cominciai a snocciolare i fatti miei come al solito. Solo dopo qualche minuto realizzai che tutti quei giornalisti erano dei deficienti. Avevano libero accesso a internet e… usavano il taccuino! Il primo a pubblicare le dichiarazioni di Agnoletto e Susan George sarei stato io, sul mio piccolo sito artigianale!

La rivoluzione di cui parlo è tutta qui: il blog come strumento di cronaca. È l'uovo di Colombo, ma tutti quei giornalisti affilati all'albo non c'erano arrivati, e scribacchiavono sui loro taccuini (i più fighetti avevano il portatile). Ma si poteva fare soltanto l'anno scorso, a Genova, alle Diaz. Si poteva fare grazie a Indymedia, che in quel momento era la fonte di prima mano per tutti gli organi d'informazione. Era un caso eccezionale, e – come ha scritto da qualche parte un mio amico – non possiamo nemmeno augurarci che si ripeta. Mi scuso, perciò, con chi si aspetta da me qualcosa "stile Genova": non credo che ne sarò più capace.
Personalmente vado fiero del mio piccolo successo di quei giorni, e insieme me ne vergogno. Me ne vergogno perché ho la sensazione che avrei avuto di meglio da fare che pigiar tasti alle Diaz, e perché alla fine non ho fatto proprio nulla di speciale. Salvo che sono stato uno dei primi a farlo.

Tra qualche anno, immagino, inizieranno a farlo anche i giornalisti. Ma a quel punto saranno in tanti ad accorrere sul luogo del delitto con portatili o cellulari finalmente connessi, e non sarà più rivoluzione, sarà la solita sommossa di tutti i giorni. E allora sì, le "menzogne e le falsità" prenderanno il sopravvento sulla verità, come succede sempre quando le verità, le informazioni, iniziano a inflazionarsi. I giornalisti, oggi, sono quelli che corrono tutti assieme nello stesso posto con un microfono in mano, un nugolo di mosconi che gira sempre intorno alla stessa merda. Sì, lo so, non sono tutti così. Ma non sono nemmeno quei disinteressati paladini dell'informazione che ha forse in mente Ramonet. E anche Internet, in sé, non è un bene e non è un male: può essere un veicolo d'innovazione, una forza che scrolla via le vecchie abitudini dei cronisti. O viceversa può essere un mezzo di conservazione, e arenarsi in forum inconcludenti e mefitici. Vedi Indymedia, sempre a un passo dall'impantanarsi.

Morale (individuale): non conta il messaggio, non conta il medium, conta trovarsi almeno una volta nella vita davanti una porta che nessuno ha mai aperto, e spalancarla, prima che arrivino gli altri tutti in una volta. Vale anche per i blog: sono interessanti perché sono ancora relativamente pochi. Ma tra qualche anno ne avremo tutti uno, e saremo così occupati a leggere quelli dei nostri conoscenti che non ci verrà mai più in mente di curiosare tra gli sconosciuti. E il fenomeno finirà lì.
A quei tempi io rilascerò interviste dicendo: eeeeh, ai miei tempi sì che era diverso, eravamo una manciata di animi eletti in giro per l'Italia… e pensate che io ero a Genova… ecco, quando sarò così, sparatemi.
Promettetemi che lo farete.
No, ma sul serio.
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I CASI DEL MINISTRO SCAJOLA, III
senza pietà, né ritegno

Drin!
"Pronto"
"Presidente, sono Claudio".
"Claudio quale, il custode della villa in Costa Smeralda?"
"No, il Ministro degli Interni".
"Ah, sì… Claudio! Che piacere, come va?"
"Insomma. Io chiamavo per via di quelle dimissioni".
"Ah, già, le dimissioni. Beh, Claudio, non se ne parla nemmeno".
"Ecco, appunto. Credo sia superfluo dirle quanta stima e quanta ammirazione io nutri per lei…"
"Non è mai superfluo, Claudio".
"…il giorno in cui io seppi che mi nominava Ministro degli Interni, non lo nascondo, ero francamente sorpreso…"
"Stupirvi è il mio mestiere, Claudio!"
"…perché fino a quel momento io di Interni non ne sapevo nulla".
"Via, Claudio, adesso sei ingiusto con te stesso".
"…però mi sono detto: il Presidente sa quello che fa, e se mi nomina Ministro, vuol dire che io ne sono capace".
"Bravo Claudio, questa è la giusta attitudine".
"…Ma i risultati, Presidente, sono stati disastrosi!".
"Ma no, che cosa dici".
"Presidente! In quest'anno di ministero io ho abusato della sua fiducia in tutti i modi! L'ho esposta al ridicolo nazionale e internazionale!"
"Ecco, Claudio, qualche errorino l'hai fatto, non lo nego… per esempio, a Genova, gli arazzi alle pareti non erano un granché…"
"A Genova ho lasciato che Fini prendesse il controllo della piazza! I poliziotti usavano armi proibite dalle convenzioni internazionali e nascondevano molotov nei dormitori, e io stavo a Roma a giocare a solitario col computer!"
"E i tappetini della passerella, soprattutto… si vedeva subito che non erano nuovi".
"E poi mi sono intrappolato da solo, con le mie dichiarazioni da deficiente! Siccome i carabinieri sparavano, io mi sono inventato di avergli dato l'ordine di sparare, e perfino i Comandanti mi hanno sputtanato! Che fosse chiaro che i carabinieri sparano quando gli pare e non glielo può ordinare nessuno!"
"Sì, quei tappetini mi hanno fatto sudar freddo. Ma da quale congresso li avevi riciclati? Ti sembrava il caso di lesinare, con Bush Putin e Chirac in giro?".
"Certo, tutto questo è successo un anno fa… ero nuovo del giro… si poteva dar la colpa al Centro-sinistra…"
"Ed è quello che ho fatto, Claudio. Del resto non ho mai dubitato delle tue capacità".
"Lei è troppo buono con me, Presidente! Troppo! Ma è ormai evidente come io sia il più indegno dei suoi Ministri, e sì che è una bella gara!"
"Beh, se proprio insisti, Claudio, qualche rilievo da farti ce l'ho".

"Basti il modo in cui ho gestito il caso Biagi, dico, perfino il suo stalliere si sarebbe comportato in maniera più elegante di me!"
"Lasciamo stare gli stallieri, Claudio…"
"Certo, in fondo ho fatto quello che avrebbe fatto chiunque! Quel signore viene, sostiene di essere un consulente importante, capirai! E pretende che gli lasci la scorta. Ma se l'ho tagliata a tutti! Me l'aveva chiesto Tremonti…"
"Sì, Tremonti, d'accordo, ma bisogna stare attenti a non esagerare".
"Ho cercato di spiegarglielo, ma lui insisteva… diceva che Cofferati lo minacciava. Ora, è facile adesso prendersela con me, ma sfido chiunque al mio posto a comportarsi diversamente: arriva un professor nessuno, dice: salve, sono un consulente importante, e Cofferati minaccia di uccidermi! Come si fa a dargli retta? Era come se avesse scritto 'Mitomane' sulla fronte".
"Per esempio, tu sai quanto io apprezzi la cura degli dettagli…"
"I dettagli, già, Presidente… Avrei dovuto pensarci. Ricordarmi di D'Antona. Fare due più due. E invece niente. I brigatisti avrebbero potuto ucciderlo in qualsiasi momento, ma hanno aspettato che la questura di Bologna gli togliesse la scorta. Avrei dovuto pensarci".
"Ma ci sono accostamenti che proprio non riesco a mandar giù"
"Neanch'io, Presidente. Non riuscivo ad ammettere che qualcuno potesse tramare alle mie spalle. Io mi fidavo, e loro mi prendevano in giro. Mi hanno fatto dichiarare che era la stessa pistola di D'Antona, e non era vero. Un'altra figura di merda".

"Per esempio, al Viminale mi è capitato di vedere una cassapanca rococò di fianco a una scrivania Luigi XIII. Beh, non mi sembra proprio il caso".
"Poi, naturalmente, Biagi è stato fatto santo. Improvvisamente si è scoperto che il Libro Bianco l'aveva scritto tutto lui. Che era il martire delle riforme. E tutti a cospargersi il capo di cenere. Un'ipocrisia rivoltante".
"Quante volte te l'avrò detto, Claudio? Al Viminale il rococò non si addice. È roba da Farnesina. Un giorno o l'altro ti mando un camioncino per la consegna. Però a queste cose dovresti pensarci tu…".
"Nessuno che si sentisse di dire la sacrosanta verità: che Biagi non aveva più bisogno di scorta perché gli stavamo dando il benservito, che Maroni non gli avrebbe rinnovato il contratto! Certo, col senno del poi era un eroe delle riforme, ma da vivo Biagi mi era sembrato nient'altro che un precario, con le classiche paranoie del caso".
"E ti dirò, anche il mobilio di palazzo Chigi lascia un po' a desiderare":
"Io ho resistito, Presidente, non sa quante volte ho rischiato di scoppiare, ma ho sempre resistito. Poi, l'altro giorno, a Cipro… non so che mi è preso".
"Tutti questi cassettoni stile Impero, te l'ho già detto di buttarle via, ma quand'è che vieni a fare un sopralluogo? Certe volte mi chiedo cosa fai tutto il santo giorno. Per esempio, a Cipro che c'eri andato a fare?"
"Lei forse può capirmi, Presidente… all'estero si crede sempre che i giornalisti non capiscano quello che diciamo. Ho il sospetto che si travestano da giornalisti stranieri. E poi il caldo, lo stress, Maroni che fa il furbo… mi è scappata. Un errore imperdonabile. Imperdonabile".
"Claudio, ma insomma, mi ascolti quando parlo?"
"Certo, Presidente".
"Direi di no. Non fai che lagnarti per delle inezie che non c'entrano niente col tuo mestiere. Io ti ho nominato Ministro degli Interni".
"Sì, Presidente".
"E tu non fai che parlare di quel poveretto di Biagi, di scorte, di carabinieri, del G8… tutto questo cosa ha a che fare con gli Interni?"
"Mah, Presidente, veramente…"

"Claudio, io è da anni che ti tengo d'occhio, da quand'eri un pesce piccolo democristiano un po' inquisito, come tanti. Ma sin d'allora ho capito che in te c'era un grande talento. Io per queste cose ho un occhio. Per esempio, un giorno ho detto: bravo questo Mike Bongiorno, sarà un grande presentatore. Ed è andata così. E un'altra volta ho visto Ruud Gullit e ho detto: però questo negro, mi sa tanto che diventerà un gran calciatore. Nessuno ci credeva, eppure è andata così. O no?"
"Certo Presidente, ma io…"
"Lasciami finire. Sin dal primo momento in cui sono stato tuo ospite a Imperia ho capito che tu avevi un vero talento per gli Interni. Per l'arredamento, le tendine alle finestre, gli stucchi, gli arazzi. Come politico, sai, sei sempre stato una mezzasega. Ma come arredatore sei un genio ancora largamente inespresso. Un mago degli Interni. È per questo che ti ho fatto ministro".
"Ah… beh…"
"E dopo un anno che sei lì, non sei ancora venuto a cambiare i cassettoni di palazzo Chigi, e non fai che rilasciare dichiarazioni su fatti che non ti riguardano! Si può sapere cosa ti ha preso?"
"Ehm… Presidente, forse c'è stato un equivoco".
"Un equivoco?"
"Sì, direi un tragico qui pro quo".
"Ma che qui e quo qua vai parlando, il fatto è che ti sei montato la testa. Non sei l'unico Ministro a cui è successo. Ma non credere che io ti mollerò così facilmente. Un talento come il tuo vale tanto oro quanto pesa. Vuoi che ti ritocchi lo stipendio?"
"No, Presidente, meglio di no…"
"Come vuoi. Allora magari ti raddoppio la scorta, eh? Quattro macchine blu davanti e dietro. Così lo sapranno tutti quanto ti stimo e la pianteranno di attaccarti".
"Beh, Presidente, se insiste…"
"Ok, da domattina scorta raddoppiata. Però domani mattina alle nove precise voglio vederti a Palazzo Chigi per quei cassettoni. È chiaro?"
"Sì, mio Presidente".
"Molto bene. Sogni d'oro, Claudio. A domani".
"A domani Presidente".

-click-
"Ouf".
"Silvio, ma si può sapere chi era a quest'ora della notte?"
"Ma niente, era Claudio".
"Claudio chi, il custode?"
"No, il mio arredatore, un pirla di Forza Italia. Bravo, eh. Però un pirla".
"Certo che te li sai scegliere".
"Oh, Veronica, credi che alla mia età sarei ancora in circolazione se mi scegliessi collaboratori intelligenti? Devono essere perlomeno più pirla di me".
"Bella gara…"
"Cos'era, una battuta?"
"No, niente. Buona notte, Presidente".
"Buona notte".
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Cosa c'è, adesso?

Cosa c'è al TPO di Bologna?
Cosa c'è al Gabrio di Torino?
Cosa c'è al Rivolta di Firenze?
Cosa c'è nella sede dei Cobas di Taranto?

Cosa c'è da sequestrare, che non sia già stato messo in rete?
Cosa c'è da visionare, che non avreste potuto scaricare comodamente dal terminale della questura?
Ma soprattutto: cosa c'è da far sparire, che non abbiate già fatto sparire la sera del 21 luglio, mentre i vostri colleghi ci distraevano massacrando dimostranti nella scuola di fronte? Quando siete entrati nelle scuole Diaz-Pertini, avete fatto inginocchiare tutti e avete portato via i computer?
Che altro c'è? Che altro volete?

Volete prove delle vostre violenze? E perché Indymedia avrebbe dovuto tenerle nascoste? Anzi, ne abbiamo copie in ogni computer. In quante case avete ancora intenzione di entrare senza mandato?
Volete prove delle violenze che qualcuno avrebbe commesso su di voi? Ma perché non ve le siete procurate prima? Non potevate filmare qualche carabiniere con il naso rotto, dei centinaia che nel pomeriggio del 20 luglio marcarono visita e si presero un permesso? Stavano tutti così male, non c'era nessun celerino contuso che potesse testimoniare? Un finanziere con un occhio nero? Una guardia carceraria col braccio al collo? Nessuno? Non si è mai visto nessuno in televisione, sui giornali. Ma si sa, Indymedia detiene il monopolio dell'informazione...

Volevate oscurare indymedia Italia? Sciocchini, il server è in America... Indymedia è ancora su.
Volevate che nei telegiornali la notizia dei computer sequestrati passasse rapida dopo l'approfondimento sugli avvelenatori dell'ambasciata americana, così che il telespettatore sbadato stabilisse l'equazione Indymedia = terrorismo internazionale? (Permettete però una domanda: fa più scalpore un terrorista con la mappa delle fognature di Roma o i bombardieri americani in Serbia senza la cartina delle ambasciate di Belgrado? L'ambasciata cinese la tirarono giù. Fu un tragico errore. Non avevano la cartina. Potevano chiederla al Comune, come hanno fatto a Roma i terroristi arabi).

Volevate farci paura?
Ma noi abbiamo già paura. Tanta paura.
Brrrrrrr
Non ci credete?
Eppure, con quei pistoloni, con quei manganelloni, dei giovanottoni come voi, dovete farci paura per forza.
Rassicuratevi.
E ditelo anche a Scajola, che abbiamo tanta paura di lui.
Poveraccio.
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affidereste i vostri Interni a quest'uomo?Sparlate a vista

Un ministro, lei? Mi faccia il piacere, mi faccia. Al massimo una minestrina… (Pazienza)

È vero, è facile fare brutte figure quando si è ministri degli Interni. Anzi, se si guarda al passato gli unici Ministri degli Interni che ci ricordiamo sembravano aver ricevuto la delega alle brutte figure. Il povero Bianco. Maroni. Gava, che si dimise per manifesta incapacità.
Il fatto è che nessuno studia da Ministro degli Interni. Da bambini, di solito, sogniamo di fare i calciatori. O le rockstar. O i piloti. O i navigatori. O gli astronauti. E chi studia sodo sogna di diventare Presidente. Ma nessuno sogna di fare il Ministro degli Interni. Per quanto importante e ben pagato, è un posto di ripiego. Scommetto che sulla scrivania Scajola tiene un modellino. Una macchina rossa. O una barca a vela…

Scajola era noto come un buon organizzatore di partiti. È abbastanza plausibile che il giorno prima di giurare in Parlamento sapesse poco o nulla delle mansioni spettanti a un Ministro degli Interni. Probabilmente a tutt’oggi non ne sa molto di più. Cioè, nella vita ti fai un mazzo così, alla fine ti fanno Ministro degli Interni, e non puoi neanche ordinare a un carabiniere di sparare? Pare di no. E comunque cambia poco, perché il carabiniere spara comunque, se è in giornata, se si sente in pericolo, se ha il fumo negli occhi, se è in preda al panico, se c’è un ragazzo a tre metri da lui con un estintore in mano, se i colleghi gli hanno detto che comunque sarà legittima difesa e non rischia neanche il posto. E allora, per quanto impanicato, prende la mira e spara. E poi riprende la mira e spara di nuovo, perché un ragazzo a tre metri di distanza con una pallottola in corpo è pur sempre una potenziale minaccia per sé e per compagni. Tra qualche tempo Placanica tornerà in servizio. Spero di non trovarmelo a tre metri di distanza.

Ricapitolando: quand’anche Scajola avesse ordinato alle forze dell’ordine di sparare, esse non potevano che ignorare l’ordine. Hanno sparato, sì, ma prima di riceverlo, o anche dopo, seguendo l’estro del momento. E hanno fatto altre cose che nessuno ha loro ordinato, tipo il massacro alle Diaz o le torture a Bolzaneto: dopo sei mesi di interrogatorio non sono ancora in grado di riferire chi gli ha ordinato di andare lì, e comunque quando loro sono arrivati c’erano già dei loro colleghi con un’altra divisa che avevano fatto tutto, non restava che dare una mano a pulire. Il tutto, naturalmente, all’insaputa del Ministro degli Interni, che ordini così non poteva darli. Ma se nessuno può ubbidirgli, e comunque tutti fanno quello che gli pare, allora a cosa serve un Ministro degli Interni? A nulla. A fare qualche brutta figura davanti alle telecamere ogni tanto.

La cosa interessante non è tanto la gaffe, ma il modo in cui il poveraccio è stato prontamente sbugiardato dalle forze di polizia. Una prontezza un po’ sospetta, uno sgarbo eloquente: Ministro, noi non la copriamo più.
A quel punto però il Ministro non poteva tirarsi indietro: aveva pronunciato la parola “sparare”, tutti avevano sentito, e la polizia aveva negato. Che fare? Se io fossi stato il suo Addetto alle Relazioni avrei visto una sola via d’uscita: la papera. Signori, è stata una mistificazione della sinistra, dovuta a un errore di pronuncia. Infatti, anche se qualcuno di voi ha erroneamente compreso “sparare”, io in realtà avevo ordinato di:

- sparire. Proprio così: “Se oltrepassano la linea rossa, voi sparite”. La tattica dello spiazzamento: voi fate tutto questo casino per entrare? Beh, noi spariamo. Nel senso che vi sgombriamo la piazza, non giochiamo più. Un’idea geniale, ministro. E nei fatti, almeno i carabinieri, durante il 21 luglio, erano spariti. Se ne vide solo una piccola delegazione davanti alla Diaz. Invece la polizia non sparì affatto. Sparò in compenso numerosi lacrimogeni ad alzo zero. Sempre per quel maledetto errore di pronuncia.

- sperare. “Se oltrepassano la linea rossa, voi sperate che facciano i bravi e si comportino bene”. Ed effettivamente il 21 luglio qualche manifestante oltrepassò la linea senza far nulla di pericoloso, e non fu nemmeno trattenuto. Tutto grazie alla lungimiranza del nostro ministro.

- spirare. Questa è più difficile da accettare, ma forse il Ministro chiedeva ai paladini delle Forze dell’Ordine un sublime sacrificio che avesse un valore di dissuasione morale: “Se oltrepassano la linea rossa, voi spirate”. Per ogni manifestante che entrava, un poliziotto avrebbe fatto hara kiri. Seduta stante. E a quel punto persino il più sanguinoso blecbloc (per non parlare di quelle anime belle delle tute bianche o dei lillipuziani) ci avrebbe pensato due volte a compiere un gesto che comportava il sacrificio di un innocente. Veramente crudele, ministro. Ma efficace.

- sparlare. Questa è la versione più plausibile, la più in tono con le direttive della Casa della Libertà. “Se oltrepassano la linea rossa, sparlate”. In quest’ultimo caso Scajola non avrebbe fatto altro che ripetere l’ordine che gli arrivava dal suo principale:

affidereste i vostri Interni a quest'uomo?“Capo, e se oltrepassano la linea rossa? Cosa dico ai miei uomini?”
“Digli di sparlare”
“Sparare? Ma non posso!”
“Ho detto sparlare, idiota. Dire un mare di cazzate”.
“Cazzate, Presidente?”
“Ma sì, stordirli con le scemenze, e più stupide sono meglio è”.
“Ma di che tipo, Eccellenza?”
“Le prime che ti vengono in mente. Di’ che volevi sparare. E poi smentisci. E poi che avevi paura per Bin Laden. Di’ che sai cose che non puoi dire ma che si sapranno presto. E poi di’ che la sinistra ti sta strumentalizzando”.
“Sire, non capisco”.
“A dire il vero neanch’io, però funziona. Vedi, io ho notato questa cosa. Ogni giorno io li fotto da un punto diverso, e loro se ne accorgono, e iniziano a protestare. Allora, sai cosa faccio? Dico una cazzata qualunque, del tipo: le prostitute col tanga è una vergogna. Oppure: la sinistra ha un conflitto d’interessi con la verità. Lo giuro sui miei figli. Mi consenta. E tante altre, che neanche più me le ricordo. Ne ho dette troppe. E sai cosa succede?”
“Che succede, Maestà?”
“Succede che loro s’indignano, e protestano”.
“Ma protestavano anche prima”.
“Sì, ma prima protestavano per una cosa seria. Invece dopo protestano per una cazzata. E continuano finché io ne dico un’altra. E un’altra ancora. Quante ne avrò dette in vita mia, non lo so neanch’io. Parlo, sparlo, straparlo, è l’unica cosa che so fare. È sempre stato così, sin da quando vendevo villette in Brianza. È l’unica cosa che funziona”.
“Quindi l’ordine è sparlare a vista”.
“Proprio così. Frastornarli di cazzate. A raffica. A ripetizione. I carabinieri dovrebbero essere ben esercitati”.
“Ma Padre, e se poi salta fuori che era un ordine che non potevo dare?”
“Scajola, insomma, secondo te io ti pago per dare ordini a qualcuno?”
“No, Santità?”
“No. Ti pago per prenderli da me. Ma soprattutto per dire cazzate. A raffica. A ripetizione. Anzi, adesso ti convoco una conferenza stampa per domani, e vediamo come te la cavi. Fammi vedere cosa sai fare. Mi raccomando, Ministro dei miei interni”.
“Sì, Signore”.
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Anche se avete chiuso
le vostre porte sul nostro muso
la notte che le pantere
ci mordevano il sedere…


Le etichette sono pessime cose, e bisognerebbe evitarle finché si può.
Non è solo una questione di forma: se anche fosse buon inglese, “No global” non andrebbe bene comunque.
E se anche fosse giusto dire “No” e dire “Global”, questa etichetta non andrebbe bene lo stesso.
E se anche esistesse davvero, questo famoso e famigerato movimento “No Global”, questa etichetta non andrebbe bene ugualmente. In quanto tale. In quanto etichetta.

Questo non è marketing. Non siamo qui per fare pubblicità a un cantante o a un passamontagna (attività in sé rispettabilissime). Siamo qui perché ogni giorno succedono cose che non ci piacciono, e tra i nostri diritti costituzionali c’è ancora quello di esprimere il nostro dissenso.
O non c’è più?

C’era, questo diritto costituzionale, il 20 e il 21 luglio a Genova? Secondo le testimonianze scritte e filmate di giornalisti e manifestanti no, questo diritto costituzionale era stato sospeso.
La polizia, i carabinieri, la guardia di finanza (le “forze dell’ordine” che noi paghiamo perché ci difendano) hanno caricato cortei autorizzati in zone autorizzate dalla questura; hanno sparato fumogeni ad altezza uomo a pochi metri dei manifestanti; hanno infierito sugli stessi chini a terra con calci e manganelli; hanno fermato centinaia di persone che fuggivano accusandole di resistenza a pubblico ufficiale e le hanno torturate con comodo, per due giorni, al fermo di polizia di Bolzaneto.
Un carabiniere, un ragazzino di leva, in preda agli effetti dei fumogeni (effetti dei quali nessun istruttore evidentemente l’aveva informato), preso dal panico, in una camionetta rimasta indietro, vedendo un ragazzo di qualche anno più grande venire verso di lui con un estintore, gli ha sparato in testa, e lo ha ucciso.
Infine, sabato sera, un gruppo di poliziotti e carabinieri ha massacrato le decine di persone che si trovavano nelle scuole Diaz, senza trovare nessuna vera arma e nessun vero terrorista, approfittandone però per sequestrare gli archivi informatici di Indymedia, pieni di documenti sulle violenze delle forze dell’ordine.

La libertà, un diritto costituzionale, il 20 e il 21 luglio, a Genova, è stato sospeso.
Perché?
Per salvare le vetrine delle banche? Le auto parcheggiate? I cassonetti? Oltre al fatto che nessuno ha impedito veramente a chi voleva di sfasciare un cassonetto o un auto, vorrei far presente che qui c’è in ballo molto più di una vetrina.
Le vetrine sono assicurate. Le banche danneggiate hanno riparato al danno in pochi giorni. Il molare strappato alla radice, ritrovato sui gradini delle scuole Diaz, non si riattacca più. Carlo Giuliani non è rimborsabile. Carlo Giuliani è morto.

Quello che è successo in quei giorni è grave. E tornando da Genova ci sembrava che molti, malgrado le deformazioni televisive, se ne fossero resi conto. Si sentiva in giro molta indignazione e molta solidarietà. E un po’ di speranza. Perché c’è un limite a tutto, e i responsabili non avrebbero potuto farla franca, in un Paese civile.

Sono passati cinque mesi esatti, e mi sono accorto che quella speranza non l’ho più. L’ho persa giorno dopo giorno, senza accorgermene. Man mano che i processi andavano avanti, i pezzi grossi della digos che prendevano a calci negli occhi i ragazzini tornavano in servizio e i poveri cristi fermati sulla spiaggia e portati a Bolzaneto venivano processati (alcuni anche per tentato omicidio).
E nel frattempo tutta la solidarietà, tutta l’indignazione, scadeva in un vago borbottio giornalistico, e veniva lentamente eclissata da questa etichetta: no global. Quelli di Genova. I no global vanno a Napoli. I no global vanno a Roma. Forti però, ‘sti No Global. Ma stiamo ancora ai No Global? Minchia, cheppalle… Agnoletto, Casarini… perché non fondano un partito? Perché non la piantano? Dove vogliono arrivare?

Guardate che stavolta è diverso. Non stiamo presentando l’ennesimo film sull’ennesima generazione. Non è una sfilata di moda. Non è un concerto.
Guardate che non siamo più negli anni ’90. Lo spettacolo è finito (oltretutto siamo in guerra).
Qui c’è in ballo la Costituzione. Quando si passa sopra la Costituzione (per salvaguardare i cassonetti?) ci andiamo di mezzo tutti.
Ci andate di mezzo anche voi, che in luglio vi siete un attimo indignati, e poi avete preferito pensare che il problema fosse qualche migliaio di disadattati dei centri sociali con la smania di rompere vetrine (sempre queste vetrine).
A voi va troppo comodo dire No Global. Che è come dire “Quelli là”.

E invece no, signori: qui si sta parlando di voi. Potevate esserci voi alle Diaz quella sera, che cercavate di riposarvi o scrivevate una mail a casa per rassicurare i vostri amici. Potevate essere sulla spiaggia il giorno dopo, a tuffarvi dagli scogli per sfuggire dai manganelli. “Quelli là” non erano anarchici o comunisti. Erano gente come voi! Questo è il vero motivo per non dire No Global: perché i No Global siete anche voi, coglioni!

Sono mesi che vi dite che niente sarà come prima… intanto però cos’è cambiato? Niente, i soliti rincari, i soliti dolori, a scuola scioperano perché non hanno voglia di studiare, tanto ormai è Natale, al cinema danno Harry Potter…
E intanto hanno depenalizzato il falso in bilancio,
E intanto hanno fatto una specie di sanatoria per i capitali trasferiti all’estero,
E intanto hanno insabbiato i processi scomodi con la truffa delle rogatorie,
E intanto hanno ghettizzato le minoranze con la legge Bossi-Fini,
E intanto siamo in guerra (brutte figure del nostro Governo a parte…),
E intanto… continuate voi, tanto non c’è limite a quello che potranno fare. Aboliranno l’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori? Parificheranno definitivamente la scuola privata alla pubblica? Vedremo.
Il minimo che si può dire di questo governo è che si sta dando parecchio da fare.

Certo, è un governo di maggioranza: ma manifestare il proprio dissenso è ancora un diritto di tutti. Fino a prova contraria…
Ma a manifestare non sono semplicemente i “No Global”. Sono impiegati, studenti, lavoratori, disoccupati, che hanno una quantità di motivi concreti per protestare. Abbiamo spaccato qualche vetrina, in passato? Va bene, sentite scuse. (Vorremmo però sentire le scuse anche di chi, mesi fa, mirava alle nostre teste).

Abbiamo diritto alla vostra solidarietà, perché stiamo protestando anche per voi. Qui sono in gioco le libertà individuali: la libertà di pensiero, la libertà di associazione. Forse domani capiterà a voi di dover scendere in piazza. Perché no? Quel giorno forse la Costituzione vi farà comodo, e avrete un po’ di gratitudine per chi l’ha difesa, quelle sere in cui voi vi dicevate “non sta succedendo niente”.
E forse allora troverete un nome più gentile per noi. Non un’etichetta, un nome.
Grazie per l’attenzione

...lasciandosi in buonafede
massacrare sui marciapiede
anche se ora ve ne fregate,
voi quella notte voi c'eravate


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alle ragazze piaccionoNon si butta via niente
Redazione di Leonardo, una sera qualunque.
"Allora, il pezzo di stasera? Chi ha delle idee, forza."
"Che ne dite di recensire il deludentissimo film dei registi italiani su Genova?"
"No, per un po' basta noglobbal, vi prego".
"Ma lo avevo già pronto!".
"E tu dallo a polaroid, che non si butta via niente".
"E se parlassimo di pinguini? Alle ragazze piacciono i pinguini!"
"E se parlassimo di ragazze?"
"A loro non piacerebbe".
"Potremmo fare una lista di tutte quelle che negli ultimi 20 giorni mi hanno detto: Perché sai, io non voglio farti del male.
Sarebbe divertente".
"Bravo, e già che ci sei accludi nomi cognomi e indirizzi".
"Ma perché qui sopra non si legge mai un pezzo su quanto sia bello/brutto avere 30 ed essere sposati/conviventi/padri?"
"Perché non abbiamo 30 anni e non siamo né sposati né padre né niente".
"Sfiga".
"Ah, e poi ricordati che Ketty vuole un pezzo sul sul sesso".
"Su cosa?"
"Sul sesso".
"E cos'è?"
"è ... è difficile da spiegare... "
"La solita roba da webdesigners, immagino. Ma io non me ne intendo di quella roba lì, poi mi ridono dietro..."
"Sentite, ma un bel pezzo divertente, come ai vecchi tempi? Questa cosa di Cossiga che sfida Bill Gates, per esempio. Perché non facciamo una scenetta con Bill sequestrato da Gladio... si sveglia ed è legato a una sedia, ha la barba sfatta... sullo sfondo c'è il simbolo di... di..."
"Di un pinguino! Alle ragazze piacciono i pinguini!"
"Ma certo! Un pinguino, il simbolo di Linux! Bill Gates rapito dalle brigate Open Source! Gaaaanzo".
"Questa non fa ridere nessuno".
"Però fa pensare".
"Sì, fa pensare che siamo alla frutta. Andiamo a casa, va'".
"Ah no, mettiamo almeno un link serio".
"Tipo?"
"Qualcosa sul WTO! Non abbiamo mai, mai parlato del WTO. Siamo andati fino a Roma per protestare contro e non abbiamo spiegato nemmeno il perché. Vergogna..."
"Non possiamo mica spiegare tutto sempre".
"E poi ho detto basta! basta noglobbal, hanno stressato la m..."
"Signori, scusate, ma non so se qualcuno di voi si è reso conto che siamo in una guerra, che ci sono i marines a Kahandar e..."

"Ragazzi, fermi tutti! C'è un'emergenza! Quel sordido colletto bianco di Wile ha parlato male del Buy nothing day!"
"E sai che ci frega"
"Scherzi? dobbiamo rintuzzarlo immediatamente".
"Ma ne abbiamo parlato anche ieri sera... cheppalle..."
"E la volete dare vinta a Wile? Mai!"
"Senti, vorrà dire che lo rintuzziamo domani".
"Domani non si può! Ci sarà da parlare del WTO!"
"E della guerra! Un altro giornalista morto! Non ce ne frega più niente?"
"E di Cossiga, che fa ridere".
"E dei pinguini... i pinguini piacciono a..."

"Sentite, abbiamo già parlato di questo. Non dobbiamo parlare per forza di tutto, non ce l'ha detto il dottore.
Anzi, forse il dottore a questo punto ci consiglierebbe di smettere".
"Senza neanche mettere un link sul WTO?".
"Fatto".
"Però domani Wile lo rintuzziamo, vero?"
"Sì, domani lo rintuzziamo".
"Promesso?"
"Promesso".
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Silvio Berlusconi:
La polizia ha ecceduto perché non preparata


"Il G8 ha conseguito un sucesso diplomatico e politico. Non e' colpa nostra se poi l'atteggiamento masochista di certa parte politica ha puntato i riflettori su cio' che e' successo in materia di ordine pubblico" E'il commento del premier Silvio Berlusconi all'inchiesta parlamentare sui fatti di Genova. Per il capo del governo ci possono essere stati "eccessi di reazione" da parte delle forze dell'ordine: "La cosa che proeoccupa - ha proseguito - è che abbiamo ereditato una polizia che, non per colpa propria ne dei governi precedenti, non ha la preparazione nè l'equipaggiamento adatti ad affrontare questo movimento anti- tutto che si è manifestato negli ultimi tempi". Il capo del Governo ha anche criticato duramente il modo in cui i mezzi di informazione hanno seguito la vicenda: "Teniamo sulle pagine dei giornali con l'indagine conoscitiva il fatto che si cerchi di processare la polizia anziche' cominciare con il processo ad una organizzazione violenta, che ha gia'annunciato di voler intervenire ai prossimi vertici internazionali di Roma e Napoli. Bisogna invece puntare i riflettori - ha concluso - su quella organizzazione che ha radici anarchiche e nichiliste, di cui ci si deve preoccupare. Bisogna vedere chi e' colpevole di istigazione, di supporto, di copertura, di collusione".
(Mir)
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A volte vorrei essere un giornale,

che anche nelle giornate più tragiche ha le sue rubriche dove la vita continua, c'è l'oroscopo, i titoli in borsa, i programmi tv. E così, riempendo colonne, la vita va avanti, colle sue gioie, i suoi dolori, le sue ingiustizie.

Invece sono una persona, e dopo avere scritto tanto (troppo...) non so esattamente come continuare. Cosa dovrei scrivere adesso? Qualcosa di divertente? L'ultimo film che ho visto? Cosa ne penso del Dpef? Di Fassino che simpatizza con Israele?

Non sono più sicuro di vivere in una democrazia, d'accordo. Vale la pena di fare il broncio per questo? Non so.

Prima o poi però devo ringraziare le persone che mi hanno scritto in questi giorni. La vostra attenzione (il vostro affetto, in certi casi) mi hanno fatto davvero bene. Io, che arrivando a Genova credevo di non rappresentare nessuno fuorché me stesso, ho scoperto rapidamente che ero lì anche per altre persone, e che dovevo tenere gli occhi aperti e la testa alta anche per loro.

Questo non vuole dire che io sia soddisfatto della mia *missione*. Per quanto abbia cercato di tenere gli occhi aperti, non ho visto molte cose, altre cose le ho viste e non le ho capite, o le ho capite tardi. Su Genova continuano a leggersi cose molto più interessanti di quelle che ho scritto io.

Per esempio:

Tenetevi aggiornati su www.mir.it

Mentre i vari corpi di polizia continuano a rimpallarsi le responsabilità, in un balletto ormai penoso, cominciano ad arrivare le testimonianze dall'estero. Questa (da Indymedia) è lunghissima, ma vale la pena, perché conferma l'idea che ci siamo fatti dell'irruzione alla Diaz e delle torture di Bolzaneto. On. Castelli, possibile che dall'Inghilterra e dall'Italia si sentano raccontare le stesse storie, e a lei non risulti nulla?
Quanto alla parola "torture", l'articolo stesso spiega perché non è esagerato adoperarla nel caso di Bolzaneto.

Il rapporto riservato della questura di Genova, pubblicato dalla Repubblica, non è un grosso scoop. D'accordo, c'è una menzione di "25-30 infiltrati di Forza Nuova": questo però arriva dopo i famigerati palloncini di sangue e i lanci di "frutta con all'interno lamette di rasoio", le immaginifiche armi del "Blocco Giallo" che voleva anche affittare un satellite... Insomma, non ci sono solo i picchiatori, nelle questure. Ci sono anche i picchiati. Ops, scusate, mi è scappata.

Anch'io vorrei credere che è tutta colpa degli infiltrati fascisti, ma le cose probabilmente non stanno così. Il Black Bloc, è un fenomeno complesso, come disse Agnoletto quella volta. Un enorme documentosui blacks, da Indymedia, ha il pregio di essere tradotto in italiano. Per quelli che arrivano sul mio sito digitando "black block"... ci tengo a dire che io vengo in pace.

Piccoli episodi che fanno pensare:
"Certo che bisogna essere pazzi per parcheggiare qui", ci dicevamo sabato, passando per Corso Torino. E adesso salta fuori che un auto distrutta non risulta registata al PRA...


Il ladro di estintori
Il PUNK BESTIA era mascherato, stava sfasciando tutto, voleva uccidere i carabinieri.....con un estintore rubato. Quanti reati per un non-violento !! (dal sito di Forza Italia)

Ve lo sarete chiesti anche voi: ma Carlo Giuliani andava in giro con un estintore da muro?

(ANSA) (pubblicato sempre da Indymedia, però) - "GENOVA, 31 LUG - Non risulterebbe tra gli strumenti in dotazione ai mezzi dei carabinieri l' estintore arancione che compare nelle immagini che ritraggono Carlo Giuliani nell' atto di lanciarlo contro la Land Rover..."

Clarence pubblica una foto in cui si vede l'estintore a bordo del mezzo. (Ma quando è stata scattata veramente? Prima, dopo, durante? Permettetemi di dissentire con Clarence: una "sequenza fotografica" non dice "la verità", al massimo ne ricostruisce una).

Si dice "Come in Cile", si dice "Come l'Argentina"...
Sì, l'abbiamo detto in tanti. Ma che ne sappiamo? Un giornalista cileno che è stato a Genova mi ha detto che non ha mai visto una polizia così. Siccome non è esattamente l'ultimo arrivato, ma ha conosciuto Allende e Pinochet, forse vale la pena di sapere che ne pensa.

"Dai, a noi puoi dircelo, quella dei repubblicani sulla tomba di Mazzini te la sei inventata!"
E invece no.

Ma chi raccoglie le testimonianze su Genova?
Un po' tutti. Meglio così. Il Genoa Social Forum realizzerà un libro bianco. C'è chi si preoccupa già della sua diffusione. Diario invece ha già raccolto talmente tanto che non ne vuole più.

Per oggi basta così. Grazie ancora a tutti.
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Chiedo scusa, ma... credo di essere stato terribilmente lungo. Comunque questo è l'ultimo pezzo.


Genova, sabato 21 luglio 2001 (seconda parte)

Lo sbando

Sembra tutto finito, invece non finisce mai.

Il comizio, quello sì, è finito. L’altoparlante dice di convergere sul Marassi. Non si può tornare indietro, assolutamente. Specie lungo viale Italia. E la stazione è bloccata.
Io lo sapevo che finiva così. Perché non ho rimontato la tenda stamattina? La mia roba è dall’altra parte di Genova, e in mezzo c’è tutta la polizia del mondo. E fosse solo questo. Glauco e Ponz hanno la macchina da qualche parte, ma sono irreperibili. L’unico col cellulare carico è Ric. Dal palco gli oratori si sgolano: tutte le comitive sono invitate a convergere sul piazzale dello stadio Marassi. Ci sono parecchi bambini sperduti, naturalmente.
“Il gruppo X è desiderato sotto il palco”.
“Il gruppo Y è pregato di alzare la bandiera, grazie”.
E noi che facciamo? Un appello a Glauco? Non si può far chiamare un singolo dall’altoparlante, al massimo un’associazione. A meno che…

“Signorina… scusi. Potrebbe fare un appello alla Federazione Giovanile Repubblicana di Modena?”.
“Come?”
“ Federazione Giovanile Repubblicana. Sezione di Modena. Dica che li aspettiamo qui davanti”.
“Ouff… (Nell’altoparlante): IL PULLMANN DEI GIOVANI REPUBBLICANI DI MODENA QUI DAVANTI, PER FAVORE”.

Neanche attirandoli con la promessa di un pullman tutto per loro riusciamo a ritrovare gli unici due giovani repubblicani di Modena (del mondo intero?). Quanto a Ponz, loro autista, è seduto per terra, bloccato da una formidabile emicrania. Ma in un modo o nell’altro finiamo per incontrarci, nel cul-de-sac che chiude C.so Sardegna. Tutto quello che abbiamo è dall’altra parte di Genova. Ma in mezzo ci sono le cariche della polizia. Triste ironia: possiamo solo avvicinarci alla Zona Rossa.
“Perché non pieghiamo di qui?”
Ma non è mica Modena, che basta tracciare un dito sulla cartina per tracciare una rotta. Genova è una vertigine, tra una via e l’altra ci può essere una montagna, e infatti c’è.
“Dobbiamo andare a Marassi, di qua, non hai sentito?”
“Ma il Marassi è di là”.
“L’altoparlante diceva di qua”.
“Ma tanto è tutto Marassi qui, è il nome del quartiere”.
“L’altoparlante diceva di qua”.
“Ma se ti dico che lo stadio è di là”.
E chi se ne frega dello stadio del cazzo! Secondo te gioca la Samp stasera? Non dobbiamo andare a vedere nessuna Sampdoria del cazzo, dobbiamo muoverci di qui, capito? Ma lo fai apposta?”
“Come vuoi, però lo stadio è di là”.
“Ma l’altoparlante…”
E Ponz: “Continuate a litigare, ragazzi. Mi fate passare l’emicrania”.
Siamo molto nervosi. E non abbiamo tutti i torti. Ci siamo appena incamminati quando intorno a noi la gente si mette a correre. Sono arrivati? Mi volto indietro e mi dico: Ci Siamo. Non posso tornare a casa senza aver visto una carica…
…ma vedo solo gente come me che fugge, e poi la dietro altra gente che si ferma e alza le mani, come a dire: falso allarme. È una carica o no? Almeno ci siamo messi in moto.
C’è un ragazzo steso a terra, svenuto. Sorride.

Il piazzale dello stadio. Lo stadio di Renzo Piano, rosso come a voler prevenire la ruggine, il mio preferito quando guardavo 90° Minuto. E nel piazzale un viavai di gente che non sa da che parte andare, sfoglia cartine, chiede in giro, gira in tondo. Poi all’improvviso un altro fuggi-fuggi, e sul fondo un blu di camionette. Ci caricano o no? Ma perché ci caricano qui, dove aspettano di partire le corriere? Vogliono farci restare a Genova? Vogliono spargerci in tutta la città?
Intercettiamo un convoglio di dimostranti dal Carlini. Vanno nel senso opposto: è l’unico consentito. Ci metteranno anni ad arrivare, ma è meglio che restare fermi. Li seguiamo? O c’infiliamo su per un’altissima scalinata e ci perdiamo definitivamente? Vincenzo, un amico incontrato per caso, conosce qualcuno da quelle parti. Proviamo. (Come diceva il manuale del dimostrante? Non disperdersi in gruppetti? Lasciamo perdere).
La scalinata sale più di cento metri. Si vede un po’ di Genova da lì. E in basso, nel piazzale, il convoglio del Carlini, tante formichine che vanno avanti a mani alzate.

Sembra tutto finito…
Siamo saliti, abbiamo chiesto a vigili e conducenti d’autobus, le uniche divise di cui ci fidiamo. Ci siamo ritrovati in un quartiere alto, davanti a una pizzeria takeaway, e abbiamo ordinato delle margherite, lì sul marciapiede. È da 24 ore che non mangio, credo (non riesco a ricordare). La casa degli amici di Vincenzo non la troveremo mai, ma intanto più tempo passa meglio è. Siamo stanchi, ma allegri, ci prendiamo in giro, raccontiamo ai pizzaioli le nostre esperienze di Black Block. Io ne ho visti, io ne ho fotografati, anch’io, signora. Io, signora, ero nel loro campeggio, di fronte alla caserma. No, non siamo mai stati perquisiti. Sì, in corso Sardegna eravamo più di duecentomila, non violenti. L’ha detto la televisione?
Tra una casa e un'altra s’intravede il mare, e sul mare qualcosa che sembra un’enorme palazzo bianco. Dev’essere la nave di Bush. Siamo così lontani dagli scontri che si vede persino la Zona Rossa

“Elisa dice che hanno riaperto Brignole”.
L’autobus che porta a Brignole è pieno di stranieri, alcuni un po’ contusi. Il piazzale davanti alla stazione sembra uno stadio. Partono i treni speciali? Non tutti stasera. C’è chi la notte la passerà qui. Che importa, ormai è tutto finito.
Un altro bus ci porta a Sciorba: stiamo cercando la macchina di Ponz. (“Eppure mi sembrava di averla lasciata lì…”). Rifacciamo il percorso della manifestazione, cartacce, scritte ai muri, le solite vetrine infrante. A una capannina diamo un’occhiata alla tv, trasmettono dalla Zona rossa C’è La Russa e sembra perfino pacato. Sì, è tutto finito ormai. Ponz si concede una fetta di cocomero.
Col tempo l’ansia si dissolve. Tutto è ancora dove l’avevamo lasciato: la macchina di Ponz, la mia tenda. Tutto al suo posto. Anche noi.


La notte

“Senti, noi pensavamo di andare a bere qualcosa”.
“Proprio adesso?”
Siamo al Centro Media, la scuola dove vado a giocare al cronista di guerra. Stavolta ormai non mi facevano entrare, non trovavo il pass. È da mezz’ora che sto in fila davanti a un terminale, aspettando il mio turno. Sfoglio un brandello di “Time” trovato sul pavimento, sbircio gli hackers di fianco che si mostrano il capolavoro di un amico: si è impadronito del sito di una prefettura, ha messo in homepage la solita foto di Giuliani investito dalla camionetta. E proprio quando tocca a me, deve arrivare il solito Glauco impaziente a tirarmi per le maniche? Andiamo qui, andiamo là, prendiamo da mangiare, prendiamo da bere… perché non li mando tutti a quel paese una buona volta? Io ho un pubblico da casa che sta in apprensione, ho le mie responsabilità, ormai…
“Va bene, arrivo. Aspettiamo Ric, però”.
È al piano di sopra, sta salutando un’amica, ha detto che viene ma non arriva mai.

Intanto inganno il tempo litigando. Al cancello sta un volontario inglese, un ragazzino. Mi ha chiesto di dire a questi tre italiani che vogliono entrare senza pass che non si può.
“Ragazzi, è una semplice regola. Senza pass non si entra. È la sala stampa”.
“Ma cos’è, stiamo a fare i vigili urbani qui? Io il pass ce l’ho, questi sono due miei amici che hanno lavorato un sacco e…”
Sospiro. Il pass è un cartoncino verde che nei primi giorni si chiedeva all’ingresso. Bastava citare una testata. Nessun controllo, nessun riscontro. Io ho detto Vita.it, ma se avessi detto: “Le Ore” o “Corna Vissute” avrei avuto lo stesso il mio bel pass. Se fosse passato Adolf Hitler coi suoi baffetti, un taccuino e la macchina fotografica, anche lui avrebbe staccato il suo pass. E perché mai, ora, qui, mi metto a fare una discussione con questi qui che sembrano le persone più tranquille del mondo? Ho voglia di litigare? Ho voglia di discutere? Cos’ho? Cosa mi prende? È tutto finito, no?
“Ragazzi, non sono io che ve lo dico, è lui. Un po’ di rispetto per il suo lavoro, dai”.
I tre abbozzano e se ne vanno. Bravi ragazzi. Da allora non faccio che chiedermi: sono andati via o sono entrati lì di fronte, alla Diaz, dove si poteva entrare senza pass? La mia stupida loquacità li ha salvati o li ha fregati? Non lo so. Ma mi vergogno.
“Insomma, Ric arriva o no? Sono stanco di dover aspettare le persone”.
“Ah, perché sei tu che aspetti le persone, adesso”.

…e invece non finisce mai.
C’è una birreria proprio dietro l’angolo delle scuole, l’unica che ha tenuto aperto anche le serate più difficili. C’è un paio di attivisti d’Indymedia, una comitiva in lingua inglese e una francofona. C’è un’ex compagna di liceo di Glauco poi emigrata in Belgio: lui la riconoscerà sentendola urlare. Hanno tutti fame, tranne me. Chiedo una birra strana, che non berrò mai, perché mentre aspettiamo le ordinazioni cominciamo a sentire le sirene e vediamo salire volanti, cellulari e ambulanze, alla spicciolata. E poi le urla di un signore:
“Andate indietro! Indietro! Quelli vi ammazzano! Non lo capite? Tornate indietro!”
Stanno entrando nelle scuole.

Alla prima sirena siamo tutti entrati all’interno del locale. Alla decima abbiamo tirato giù la saracinesca. Dentro è caldo, ma carino: c’è un paio di chitarre appese, la gente siede intorno alle botti. La gente sta telefonando agli amici nelle scuole, ascolta la paura di chi li sta vedendo entrare e picchiare. La gente ha paura ma non riesce a restare seduta. Sembra l’Argentina. Questo lo diranno in molti, da qui in poi.
Un tizio d’Indymedia è furioso, urla che vuole andare là. Alla fine lo lasciano andare. E poi, alla spicciolata, usciamo tutti. Lo sappiamo che è pericoloso, ce lo diciamo a vicenda, ma serve solo ad eccitarci, come insetti intorno a una lampada. Glauco vuole portare indietro la sua amica belga, io gli dico fermati e intanto gli vado dietro, Ric ci segue, e quando arriviamo scopriamo che Ponz è già là, è entrato nel Centro Media senza pass, ha visto la gente seduta per terra, i marescialli coi manganelli che litigano coi giornalisti e una parlamentare.
Fuori c’è già una colonna di otto ambulanze. Altre poi ne arriveranno, ma quelle otto erano già lì all’inizio dell’irruzione.
Dopo aver passato l’ultima ambulanza c’è la prima macchina della polizia, e c’è un poliziotto che passeggia avanti e indietro con un bandana sulla bocca, un altro cowboy. Cosa fa? Fa il palo.

Più avanti, nello spazio tra le due scuole, c’è una testuggine di agenti antisommossa: polizia e carabinieri. E un piccolo spazio dove litiga le gente: i giornalisti, i poliziotti in borghese, i registi italiani, i parlamentari, Agnoletto, i dimostranti… sono salito sul muretto del cancello per guardare meglio, e ho visto un attivista d’Indymedia (lo conoscevo già, mi era simpatico) accapigliarsi con un ragazzo straniero in tutina nera. E mi sono detto: Ci Siamo. Mi sono lasciato cascare dal muretto addosso a quel ragazzo, l’ho placcato alle spalle, e in un secondo ho capito che era un pesciolino, che potevo tenerlo fermo anch’io. In teoria gli stavo solo impedendo di nuocere. Ma l’altro era libero di muoversi, e un pugno in faccia gliel’ha piazzato. Poi ci siamo tutti calmati, tranne il ragazzo. Parlava inglese, e insisteva di voler parlare a quelli là, quelli con gli scudi e con i caschi. E intanto rischiava di farsi inquadrare dalle telecamere con la sua tutina e il suo cappuccetto nero. Non ti capiscono, gli abbiamo detto. Ma lui niente, era anche ubriaco. “Fuck Italiani! Merda!”. E piangeva. Dentro stavano ammazzando di botte i suoi amici. Ma lui era straniero, era vestito di nero, era stupido, e per un briciolo di secondo forse ho voluto pestarlo anch’io.

Sono tornato dentro, a scrivere in diretta. Ma da fuori ho sentito un boato di rabbia. Era stato un grosso sacco di plastica nero, trasportato da quattro agenti. Mi sono appeso a un cancello e non sono sceso più.
Ho visto uscire le ragazze e i ragazzi, alcuni in sacco a pelo sulle barelle, altri in piedi, scortati dai gendarmi, con le mani a tenersi un pezzo di testa dalla paura che gli scappasse via. Ho visto le cose che avete visto tutti, ma senza capire, perché non capivo più.

Mi ripetevo una sola cosa: hanno trovato dei black block alle Diaz. Gli amici di quel deficiente di prima. Ora non gli servono più e possono sfogarsi quanto vogliono. Certo, perché no? Chi controllava le entrate alle Diaz? Nessuno. Era una dépendance del Centro media, era stata occupata per evitare che gli squatter disturbassero le conferenze stampa e togliessero i computer ai giornalisti. Chiunque poteva entrare. La sera prima ero entrato lì per scrivere, ero rimasto colpito da due ragazzi seri che si leggevano un dossier inglese sulla strategia della tensione in Italia. Black Block? Perché no? Ma anche due ragazzini venuti a scrivere: ciao mamma, sto bene, non mi sono fatto niente. Perché no? Ciao papà, ora devo interrompere, è entrata la polizia e ci stanno facendo a pezzi.

Chi controllava le Diaz? Giovedì sera, la sera dell’alluvione, sfoggiavo il cartellino giallo dei volontari. Ho visto Kadija tutta sola con un minuscolo impermeabile cercare nel mazzo la chiave del cancello. Kadija è una nostra amica di Reggio: è arrivata con Barbara mercoledì sera, e giovedì sera aveva in mano le chiavi dei locali gestiti dal GSF.
La chiave non si trovava. Le avevano chiesto di far uscire tutti, che nessuno cercasse di rimanere lì a dormire. Questa cosa da principio non mi era andata giù. Il Carlini era una pozza di fango e centinaia di ragazzi non sapevano come arrivarci, perché non metterli lì? Ma avevo obbedito. C’era un gruppo di tedeschi che voleva finire uno striscione. “Five minutes, bitte!”. Sembravano tranquilli. Li avevo aspettati e poi avevo provato tutte le chiavi finché non era saltata fuori quella giusta.
Giovedì sera l’ho chiusa io, la scuola-palestra Diaz. Poi, guardando in alto, ho visto una luce accesa al terzo piano. E non ho detto niente. E non ho pensato niente. Coglione. Criminale e coglione. Quella è gente che occupa case e scuole di professione. Ci hanno giocato come bambini dell’asilo.

Non finisce mai.
Quanto sono rimasti lì davanti, con i loro scudi e i loro caschi, con le loro maschere antigas che li rendevano ancor più simili a goffe tartarughe? Io non riuscivo a odiarli. Davano le spalle alla scuola e forse non capivano nulla. I carabinieri specialmente, a ogni spostamento cozzavano tra loro e lasciavano dei buchi, facevano passare i giornalisti senza accorgersene. Ma quelli dentro, quelli che portavano fuori i prigionieri… E i pezzi grossi in casco, giacca e cravatta…
Per quanto sono rimasti ancora lì? Quanto ci hanno messo a ritirarsi da via Cesare Battisti, sempre in testuggine, sempre con le maschere, fronteggiando col completo antisommossa un gruppetto di non più di trenta persone? Cos’aspettavano? Speravano che li caricassimo? Che qualche idiota lanciasse un sasso? Nessuno ha lanciato niente. Eravamo stanchi, distrutti, esauriti dagli avvenimenti. Qualche invettiva urlata da dietro, nient’altro.

Poi ci sono entrato, nella Diaz distrutta. Qualcosa l’ho visto, ma non ricordo bene. Per esempio: l’ho visto il sangue? Non lo so, in televisione me l’hanno mostrato troppe volte per ricordarmi se l’ho visto anche là, coi miei occhi. Nulla mi ha spaventato come il buco nella porta del bagno. Un buco enorme, fatto non so se con un manganello o con cosa. Ho vissuto il terrore di chi si era chiuso in bagno e l’ha visto forzare in quel modo. Il terrore di trovarsi in trappola. E sono uscito. Potevo essere lì. A volte andavo lì, invece di passare al Centro Media. Lì in fondo si scriveva meglio, c’era meno confusione e c’era Windows. Potevo essere lì, a scrivere nel mio simpatico sito: salve a tutti, sto bene, è stata una grande manifestazione pacifica…
Potevo essere lì davanti, in strada, come Francesco, investito dalla carica. Giovedì mi aveva chiesto di fargli il pass per la Gazzetta di Modena. Mah, gli avevo detto io, non so se è regolare. “Per favore, a Praga senza pass mi menavano”. L’ho visto poi in televisione col pass al collo, mostrare i lividi sulla schiena. Quando si è scoperto che è consigliere comunale, il Questore gli ha chiesto scusa. Gentile da parte sua.

Mentre nelle Diaz andava in scena il Cile, nel Centro Media avveniva un’ispezione molto più raffinata. Gli agenti sapevano già a che piano salire e cosa sequestrare. I pc d’Indymedia, gli archivi del materiale filmato e fotografico. Le prove annunciate in conferenza stampa da Agnoletto. La lista degli scomparsi. La lista dei movimenti delle camionette.
Ed eccoci qui. Ci credevamo furbi, noi, credevamo di poter fare e dire qualsiasi cosa. Credevamo di poter denunciare le collusioni tra Black Block e polizia? La polizia sale da noi e trova un covo di Black Block. Armati, naturalmente. Eccoci qui. Noi simpatici manifestanti, che apriamo le porte a tutti. Noi libertari. Noi che non stiamo a fare i vigili urbani, figuriamoci. Noi che non schediamo nessuno, non divulghiamo l’identità di nessuno, noi col nostro orrore per le generalità e i documenti. Eccoci qua. Siamo o non siamo i più grandi coglioni della Storia?


Domenica, 22 luglio 2001

Sembra tutto finito, e invece non finisce mai.
Col senno del poi, penso che l’idea di tornare al mio campeggio per dormire sia stata una delle scelte più irrazionali e irresponsabili della mia vita. Non c’è giustificazione: non capivo più niente. I miei amici avevano deciso di restare al centro media, e giustamente: lì, per stasera, non si rischiavano più irruzioni. Ma il mio campeggio scottava, lo sapevo benissimo, da almeno tre giorni. Fino a quel mattino forse i black block erano intoccabili, ma adesso no, l’avevo visto coi miei occhi. Per la prima volta il campetto era sbarrato, con due cassonetti e una catena di bicicletta. Le belve del Diaz non si sarebbero fermati per questo. Di sentinella una ragazza italiana e un gruppo d’inglesi. Nel buio ho sentito un grido da ubriaco: “Sein Feinn are cowards!”. Un irlandese convinto che il Sein Feinn, il partito vicino all’IRA, sia composto da codardi. Questo per dire l’ambiente.

Perché sono tornato? Perché nelle scuole si stava stretti, e non mi andava di occupare un posto letto quando avevo la mia tenda piantata. Perché ero convinto che stavolta fosse tutto finito, che anche le belve andassero a letto alle tre del mattino. O forse perché ero stanco di vivere a pochi metri dal pericolo, e passarla liscia, sempre. Lo so che è assurdo, ma mi vergognavo di essermela cavata così a buon mercato. Ancora oggi un poco mi vergogno.
Fatto sta che quando al mattino, appena sveglio, ho sentito il grido: The police! The police!, mi sono detto, per l’ennesima volta: Ci Siamo. E invece no, neanche stavolta. Nel parchetto erano restati soltanto i pesci piccoli, con una coda di paglia enorme: panicavano appena vedevano un auto blu.

Nel fondo dello zaino ho trovato i picchetti della tenda. Pensavo proprio di non averli. Altro che boy scout. Un vecchio coglione, ecco cosa sto diventando.

Siamo partiti quel mattino. Con Glauco abbiamo ancora litigato per la direzione in autostrada. In autogrill le testate di “Libero” e del “Giornale” ci hanno quasi tolto l’appetito. Per la prima volta abbiamo visto gli otto Grandi in tv, tutti contenti in posa per le foto. E Berlusconi ai microfoni parlare compunto di connivenza. Di cosa? Siamo ripartiti in fretta.

E se vi siete detti: “Non sta succedendo niente
Le fabbriche riapriranno, arresteranno qualche studente”
Convinti che fosse un gioco a cui avremmo giocato poco
Anche se voi vi credete assolti…


Sembra sempre sul punto di finire, e non finisce mai.
Mi sono trovato nella mia casa, solo, a guardare allo specchio se mi riconoscevo: sì, ero io, un po’ abbronzato, o forse solo sporco. Mi sono messo in mutande, ho aperto una bottiglia, ho acceso il computer e il bollitore. Più o meno nell’ordine. Il mio sito ha triplicato gli accessi: quanto sono contento. E adesso che farò? Ho ancora una settimana di ferie. Una gita in Macedonia?
In tv cosa c’è? Niente. MeganGale: Vu Vu Vu, Mi Piaci Tu.
Sembra sempre sul punto di finire…
“Sì? Pronto?”
“Leo, son la Barbara, hai saputo di ***?”
“Oddio, no, cosa gli è successo?”
“L’hanno arrestato”.

E se nei vostri quartieri tutto è rimasto come ieri,
senza le barricate, senza feriti, senza granate,
se avete preso per buone le verità della televisione
anche se allora vi siete assolti…


Non finisce mai. Sono in mutande sul divano, e intanto un mio amico è torturato a Bolzaneto.
Non finisce mai. La questura convoca una conferenza stampa e mostra il bottino delle Diaz: decine di coltelli a serramanico, un piccone, telefoni e fazzoletti di carta, magliette nere.
Non finisce mai. Berlusconi denuncia la connivenza del Genoa Social Forum che “copriva i violenti”.
Non finisce mai. Ho imparato questo. Chi parla di vittoria o di sconfitta forse non si rende conto. Non è una guerra, non ci sono orizzonti di vittoria o di sconfitta. Ci siamo noi, soltanto, da una parte o da un’altra di una carica, e a volte spingiamo, a volte fuggiamo, ma anche dopo lo sbando non possiamo fare altro che raccoglierci e spingere di nuovo. Senza che tutto questo finisca mai. Se anche si vince non si vince per sempre. Se anche si perde non si perde per sempre. È una lotta continua, infinita.
Non finisce mai. Siamo in Italia, nel 2001. Una democrazia. Sono qui, stanotte, che batto su una tastiera, e sento le sirene. Mi fermo, faccio silenzio, e non sento più niente. Mi rimetto a scrivere, ed ecco di nuovo le sirene. Sono dentro di me. Ci resteranno per un po’, non ho intenzione di dimenticarle. Non è ancora finita. Forse non finisce mai. Comunque sia, non finisce così.

E se credete ora che tutto sia come prima
Perché avete votato ancora la sicurezza, la disciplina
Convinti di allontanare la paura di cambiare,
verremo ancora alle vostre porte
e grideremo, ancora più forte:
“per quanto voi vi crediate assolti
siete per sempre coinvolti,
per quanto voi vi crediate assolti
siete per sempre coinvolti…”.


Questa memoria è dedicata a Indro Montanelli.
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Ci si ritrova, in questi giorni, tra amici o anche tra semplici conoscenti, che per la prima volta si chiamano per nome, e si abbracciano, e si raccontano dov’erano in quel momento, e cosa gli è successo, e come hanno fatto a tornare. Si ascoltano e si raccontano storie di ogni tipo: alcune buffe, alcune terribili. Io, più ne ascolto, più mi convinco della mia fortuna. Ho passato cinque giorni a Genova, schivando per puro caso cariche e pestaggi che non ho visto. Il mio racconto è molto lungo, ma credo non renda giustizia agli avvenimenti. È successo molto di peggio a Genova, io ero lì per vederlo, e non l’ho visto: sono stato fortunato, ma ho vergogna a continuare. Non credo di essere stato più avveduto o più prudente di altri. Non credo nemmeno di avere avuto paura. Semplicemente ero altrove mentre altri pagavano anche per me il diritto a manifestare liberamente.

Con un gruppo di amici, che presto si darà un nome e un’organizzazione, abbiamo pensato di raccogliere testimonianze scritte su Genova. Testimonianze brevi (senti chi parla, ah?) di episodi visti e vissuti (non sentiti dire) che abbiano coinvolto manifestanti, cittadini e forze dell’ordine. C’impegniamo a raccogliere e a diffondere questo materiale, e a metterlo in comune con quello che altri stanno raccogliendo. Quando verranno – e verranno – le commissioni d’inchiesta, nazionali e internazionali, noi avremo il nostro contributo da offrire.

Se avete una testimonianza da condividere, potete scrivermi al solito indirizzo. Per favore, evitate qualsiasi tipo di retorica, o di commento politico. Amo la politica e adoro la retorica, ma ora chiedo soltanto testimonianze, in semplice italiano, su quanto avete visto e ascoltato.

Intanto finisco il mio racconto.


Genova, sabato 21 luglio 2001 (prima parte)

Il mattino

Al mattino il mal di testa è scomparso, come per miracolo. Dovunque siamo ci svegliamo, ci sentiamo un po’ meglio, pensiamo a ieri e ci chiediamo se tutto questo è davvero successo, se noi c’eravamo. Tranne uno, che non si sveglia più. E un altro, che si sveglia e ha ucciso un uomo.

Hanno distrutto anche la fontanella del parco Dalla Chiesa. Quella messa su apposta per noi. Dopo quattro giorni che sudiamo e camminiamo e corriamo senza lavarci. Hanno distrutto quello che potevano e sono ripartiti nella notte, coi loro furgoni, le loro bandiere e il loro nero ambiguo. Vigliacchi. Vigliacchi e sporchi.

Ma è un giorno di sole e sono di buon umore. Si vedono solo facce simpatiche in giro. Al telefono ho la conferma che altri amici stanno per arrivare. Sono molto fiero di loro. Era facile, martedì, mettersi uno zaino in spalla e venire a Genova, quando sembrava una festa. Ma per venire sabato, dopo la morte e i feriti, ci vuole coraggio e responsabilità. È una scelta difficile, e sull’altro piatto della bilancia non c’è soltanto la paura. Da casa le cose hanno un aspetto diverso, i buoni e i cattivi indossano le stesse magliette, le stesse divise.
I Ds si sono ritirati definitivamente, qualche dirigente invita a non sfilare, a “fermare la violenza”. Ma è stando a casa che si ferma la violenza? Cambiando canale?

C’è un peso incredibile sulle spalle di Agnoletto e degli altri portavoce stamattina. Da qui in poi saremo accusati di complicità. E non abbiamo alternative. Chi c’era a piazzale Kennedy ieri sera sa che sotto il tappo del Gsf c’è il magma ribollente di centinaia, migliaia di ragazzi incazzati, che oggi a Genova protesterebbero lo stesso, soli, disorganizzati, contro forze dell’ordine che hanno il colpo in canna e non ce l’hanno mandato a dire. Bisogna fare la marcia, non c’è alternativa. Anche se si sente già dire di disordini a Quarto, dove arrivano le corriere. Il Black Block, sempre lui. Ormai è una filastrocca per bambini e giornalisti.

La sala stampa non è mai stata così fitta. Sono così orgoglioso di essere arrivato a un terminale in tempo per la conferenza stampa che continuo a rimandare l’incontro con Pier e gli altri, che giù sul lungomare vanno avanti e indietro impazienti. Io prendo tempo, dico che sto aspettando qualcuno. Tutti questi giornalisti ufficiali col taccuino (ma da che secolo arrivate?), e io davanti a un terminale. Mi sento veramente figo. Trascrivo Agnoletto che strepita senza microfono ed è l’unico, come sempre, che riesce a farsi sentire. Il Gsf non può prendere le distanze dai violenti perché le ha già prese da tempo, il Gsf farà la manifestazione, il Gsf chiede che gli si riconosca questa assunzione di responsabilità.
Il Gsf sarà presente al funerale di Carlo Giuliani. Il ragazzo si chiama così. La Repubblica dice che era un “punk bestia”. Perché nei momenti più gravi certi giornalisti sembrano arrivare come avvolti in una vestaglia dell’Hilton dopo un idromassaggio? “Punk bestia”? Da che secolo arrivate, e da che mondo?
A un certo punto forse un maldestro iscritto all’albo inciampa su un cavo, fatto sta che tutti i terminali perdono la connessione. Non c’è più motivo per me di restare lì. Raggiungo gli amici.

Il corteo

Viale Italia stamattina sembra il viale Italia di tante città balneari, un bel mattino estivo: tanta gente passeggia su e giù, c’è animazione, non preoccupazione. Anch’io penso che il peggio sia passato, anzi ne sono sicuro. Abbraccio i miei amici, mi fa sorridere il dover passare per un veterano. Siete stati in pena? Non c’è motivo, non ho rischiato niente. Neanche voi rischiate niente oggi. Oggi è tutto sicuro. Non vi spaventerà mica l’elicottero?

Incrocio anche Barbara. “Ho visto ***, sai”.
“Oh, finalmente. Sta bene?”
Sta bene, è scosso per Giuliani, ma non si è fatto niente. Potrebbe però tenere il cellulare con sé. A che serve portarselo se lo lascia sulla borsa?
Ormai sono due giorni che non lo vedo. Cominciava il grande acquazzone e io stavo di guardia a un cancello, che non entrassero motorini. Posavo i gomiti su una transenna e avevo costantemente il cellulare in mano. Lui stava aspettando di parlarmi, ma pioveva e stava passando il bus per il Carlini. Mi ha solo detto: “Tiratela meno” e se n’è andato. Non ci siamo più visti, e sembra un secolo. Ma sta bene. È strano, non riesco a pensare che qualcuno che conosco possa essersi fatto male. Mi preoccupo, sì. Ma non riesco a crederci. Non ho abbastanza fantasia.

“Ehi, noi siamo già in marcia, e voi? Cerchiamo di stare assieme. Noi siamo dietro ad Attac, di fianco ai Curdi. Sì, certo, il PKK. Siamo piuttosto avanti. Vi aspettiamo? Aspetta… ho perso il campo”.
Il corteo è partito in anticipo. Agnoletto ha promesso che saremo in centomila, ma forse siamo qualcosa di più. Impossibile saperlo, standoci in mezzo. (E io resto bloccato nel solito dilemma: voglio fare il manifestante o il giornalista?)
Perdiamo il campo del cellulare passando davanti alla rocca dei Carabinieri: sì l’enorme caserma di fianco al mio campeggio. “Assassini”, gridano in tanti. Forse l’ho gridato anch’io. E loro stanno là, altissimi, dietro una rete, a guardare. Solo uno ha scavalcato ed è lì davanti a noi, a 20-40 metri d’altezza, con le mani davanti alle tasche. Guarda passarci a migliaia, si sente chiamare “assassino”, e ci guarda, in posa da cowboy. Si deve sentire molto potente.
Non vedremo molti altri carabinieri, fino a sera.

All’incrocio con corso Brigate Partigiane c’è un enorme contingente antisommossa. Com’era prevedibile: la Fiera, qui a lato, è la loro base, e anche se siamo lontanissimi, non ci avvicineremo mai alla zona Rossa più di così. Sfondare, cercare la rissa qui, è puro suicidio. Eppure ci sono tafferugli, volano oggetti. Tagliamo la curva e non indaghiamo. Sembra ancora poca cosa.
Marciando per Corso Torino, poi per Corso Sardegna, percorriamo a ritroso la devastazione del giorno prima: auto distrutte, vetrine infrante. Ma siamo tantissimi. Centocinquantamila, dicono. Noi ci siamo trovati in mano cartelli e mascherine di Attac France. I cartelli recano i nomi dei 180 e passa Paesi esclusi dal g8 (ma perché la Jugoslavia proprio a me?). Le mascherine non servono contro i gas, sono a forma di X e dicono: non possiamo parlare. Posiamo persino per i fotografi. Chissà se quelle foto sono poi state sviluppate. C’era ben altro da mostrare, il giorno dopo.

I pochi genovesi alla finestra, soprattutto anziane signore, ricevono immensi applausi. Alcune alzano il pugno. Ne ricordo una col bastone, che si reggeva appena, sotto quel sole.
A un certo punto ci capita di restare fermi, a lungo, senza spiegazioni. Poi un lungo applauso, grida di gioia.
“Cosa succede?”
“Pare che forse hanno sospeso il G8!”.
Possibile? E se anche fosse, cosa cambia? Carlo è già morto. I Grandi concluderanno in teleconferenza. Non cambia nulla. Eppure urliamo, applaudiamo anche noi.

Telefona Enzo. Ho scoperto che era lui a mandarmi i dispacci di guerra il giorno prima. Ha un occhio su Indymedia e un orecchio su Radio Gap, da Bologna la sa molto più lunga di noi.
“Dove siete? Già in Corso Sardegna? Bene. Perché dietro stanno caricando”.
“Come stanno caricando?”
“Sì, coi fumogeni e tutto il resto. Il corteo è spezzato in due. Voi cercate di restare davanti”.
Quanti siamo? Forse duecentomila. Lo hanno sospeso davvero il vertice? Non lo ha detto nessuno. È una bufala.

Sentiamo da lontano una donna al microfono. Dice “Carlo è vivo e lotta insieme a noi”. Ma questo non è vero. Per favore, Carlo è morto. Quando si è morti non si lotta, e non si è eroi. Si rimane in terra immobili e non si ha più niente da dire.
È Jo Squillo che parla, mi dicono. Secondo lei siamo trecentomila. Poi intona Imagine, tra tante una canzone che non sopporto. E iniziano i comizi. Agnoletto, Bové (che dà appuntamento in Qatar col WTO), il portavoce di Attac France, la madre dei desaparecidos (che come ieri si ritrova a urlare in un applauso ininterrotto). La portavoce italiana del Pkk, occasione al Ragno per sdegnarsi (“Ma non li hanno letti i rapporti di Amnesty sul Pkk?”). E altri che non ricordo, perché alcune cose comincio a dimenticarle. Ricordo che eravamo tanti, eravamo molto davanti, e faceva molto caldo. Dietro di noi probabilmente la gente non sentiva nulla: stava ferma e forse aspettava le cariche. Sul palco c’erano anche Casarini e un Bertinotti raggiante davanti alle sue bandiere rosse, che non ha parlato. Ancora condanne alle forze di polizia, che non hanno fermato i vandali. Si chiede al governo di pagare i danni, e le solite dimissioni di Scajola. Agnoletto saluta il nuovo soggetto (politico?) che ha portato a Genova 300.000 dimostranti pacifici e annuncia, per l’ultima volta: abbiamo vinto. Ma nessuno fa cenno alle cariche che premono il corteo di dietro. Una cosa alla volta.

(continua)

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Appello
Martedì manifestazioni in tutte le città
Protestiamo contro la gestione della sicurezza da parte delle forze dell'ordine durante il g8


Caro lettore.
Non so per quale motivo sei su questa pagina, e non conosco le tue opinioni sui fatti successi a Genova durante il g8.
Io c'ero, e in questa pagina puoi trovare un mio resoconto, ancora incompleto.
Ho assistito di persona a vari episodi, il più grave dei quali è stato l'irruzione di polizia e carabinieri nelle scuole Diaz e Pascoli sabato sera, che si è conclusa con vari arresti e 92 feriti. Tra i malmenati, anche diversi giornalisti.
Chi era presente, ha assistito sgomento a una scena che sembrava impossibile in uno stato democratico.
Tornando a casa, ha potuto assistere altrettanto sgomento, attraverso la tv, alla strumentalizzazione dell'episodio da parte delle forze dell'ordine e dello stesso Presidente del Consiglio.

Il ritrovamento di coltellini, picconi e altre 'armi' comproverebbe, secondo l'on. Berlusconi, la connivenza delle frange violente con il Genoa Social Forum.

Io ero presente, e ha partecipato al servizio d'ordine che controllava gli accessi delle scuole. Posso dire che, ammesso che ci fossero esponenti delle frange violente all'interno delle scuole al momento dell'irruzione, esse non avevano bisogno di nessuna connivenza col Genoa Social Forum per entrare e nascondere qualsiasi arma.

La Diaz (una scuola adibita a palestra) non era, come è stato detto, "la sede del GSF", bensì uno spazio pubblico dove chiunque poteva entrare e adoperare i computer. Chiunque. Anche infiltrati, di qualsiasi tipo.
Accusare il GSF di connivenza col "black block" e le altre frange estreme che hanno rovinato una città e la pacifica manifestazione di protesta di più di 200.000 persone, è un atto gravissimo e irresponsabile.

Caro lettore.
Qualsiasi sia la tua opinione sul G8, sui risultati del vertice, sulla protesta di questi giorni, ti chiedo un atto di fiducia. Non sono un attivista politico, ma un semplice osservatore. Alcuni quotidiani hanno riportato una versione distorta dei fatti. Ma le notizie su Genova che tra oggi e ieri sono state riportate, per esempio, dall'Unità e dal Manifesto, disegnano, a mio parere, il quadro verisimile dei fatti. Ti chiedo, se ne hai la possibilità, di leggere e far leggere questi giornali. E ti chiedo di partecipare alle manifestazioni di protesta di domani, a cui il Genoa Social Forum ha invitato in tutte le città d'Italia.

Occorre dare a questo governo, e ai membri delle forze dell'ordine (che non possiamo, non vogliamo credere tutti complici degli abusi commessi in questi giorni) un messaggio chiaro: in Italia esiste una società civile che non tollera di vedere sospesi i propri diritti, e non crede alla criminalizzazione di un movimento che sabato ha portato a Genova più di 200.000 persone che non hanno commesso alcun tipo di violenza.

Ti ringrazio per l'attenzione.
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Ho ripreso il filo del mio racconto, dalla mattina di venerdì. In seguito metterò anche il sabato e la domenica.
Per quelli che leggono dall’Italia: non aspettatevi di imparare cose che non abbiate visto già. Le informazioni viaggiano molto più veloci delle persone, e mentre io arrivavo, facevo la doccia, telefonavo, imprecavo, dormivo, in tv e in rete è stato detto e mostrato tutto.
La mia storia vale quel che vale: ero uno su duecentomila, forse trecentomila. La finisco perché le storie vanno finite.


Genova – Venerdì, 20 luglio 2001 (completata)

Non si può più scherzare, vero? Eravamo appena tornati dal corteo ieri sera. Avevamo appena saputo che "un ragazzo era morto". E proprio in quel momento l'altoparlante di piazzale Kennedy ha iniziato a far sentire "Genova per noi", la sigla abituale. Per poco non menavano il deejay.
Non si può più scherzare. A chi interessasse, la mia giornata di venerdì:

Ho fatto la notte al portone del Centro Media, e siccome continuava a venir gente, siccome nessuno immaginava di potermi dare il cambio, mi sono addormentato alle otto, sul materassino di Glauco, che si alzava per andare a visitare la tomba di Mazzini. Glauco è un attivista repubblicano, uno degli ultimi.

(La bandiera della “federazione giovanile repubblicana” è insospettabilmente rossa, rossissima, e mi hanno raccontato che la loro visita ha gettato scompiglio in cimitero: qualcuno ha anche chiamato la polizia).

Non credevo di essere così stanco. Mi sono svegliato a un quarto alle dodici, a pochi minuti dall'inizio delle manifestazioni. In palestra non c'era più nessuno, di fianco a me solo i calzini che Glauco mi aveva lasciato. La mia roba è sparsa tra il Centro e l'accampamento, non faccio in tempo a tornare, avrei preferito mettermi i jeans e non esporre troppa pelle in caso di gas, ma non c'è tempo. Mi hanno fregato la cartina e non trovo gli occhialini. Non così, non così volevo prepararmi alla giornata.

Mi ritrovo con Glauco o gli altri, e proviamo a raggiungere piazza Carignano. Dall'alto vediamo un corteo già partito. "Sono i Cobas". "Ma va là. I cobas sono sindacalisti, sono tranquilli..."
Invece questi hanno faccia coperta, oggetti contundenti in mano, e si divertono a buttar giù i cassonetti. Attraversiamo piuttosto in fretta.

Nel corso Brigate Partigiane la prima schiera di poliziotti antisommossa. Prima si schierano da una parte, poi dall'altra, ma non si muovono. Come se i casini nell'isolato di fianco non li riguardassero.

Raggiungiamo piazzale Carignano. E' il corteo di Attac, dell'Arci, di Rifondazione adulta (Rifondazione giovane è con le tute bianche al Carlini). Scopriremo in giornata che è uno dei cortei meglio organizzati, o forse uno dei più fortunati. Imbecilli se ne vedono anche qui. Ma il servizio d'ordine funziona.

Procediamo verso piazza Dante.
"E perché ci fermiamo ora?"
"Perché siamo davanti alla zona rossa"
"Ah, è quella lì?"
Inizia una rumorosa manifestazione di disturbo. Si urla e si picchia contro le grate.
A un certo punto dall'altra parte del reticolato si vede arrivare una camionetta in tutta velocità. Gettano qualcosa. La gente indietreggia, alcuni corrono. Ma si fermano subito: è solo un idrante. La prima fila resta appesa alle reti, si prende il getto d'acqua e mostra il dito.
"Hai visto? E' la forestale. Ci mandano contro la forestale..."

Gli attivisti di attac riescono a far entrare un grappolo di palloncini in zona rossa. Applausi. A dire il vero il mio gruppetto comincia ad annoiarsi. Chi vuole cercare da mangiare, chi andare verso le tute bianche. Intanto torniamo in p.za Carignano. C'è un ragazzo di Attac steso a terra, sembra abbia una distorsione. In realtà si è preso una pallottola di gomma mentre si attardava per recuperare sue compagni. Arriva il furgone della Pubblca assistenza, lui rifiuta di salire.

Sentiamo le prime brutte notizie. Il Black block sta facendo disastri nella zona di Corso Torino. Hanno dato fuoco a una macchina davanti alla sede di Attac. C'è una specie di assedio a Piazzale Kennedy (ma cosa c'entra con la Zona Rossa?), dove hanno ripiegato i Cobas.

Sale in piazza Carignano un corteo. Foulard rossi con pugno giallo, slogan in inglese (Resist! Revolt! Fuck Berlusconi!). E' un organizzazione internazionale, Socialist Work Party. Sono allegri e tranquilli. In mezzo a loro, un paio di scarafaggi neri col muso coperto.

"Andiamo via?"
A me non sembra prudente. E poi mi piace qui, me la sono scelta, è la mia manifestazione.

Incontro le amiche di Barbara: adesso sto molto di meglio. Non avevo notizie di loro da ieri sera. Tutto bene, non sanno neanche che strada hanno fatto, ma sono lì, e sembra il posto più sicuro. Hanno fatto una strada strana, hanno chiesto ai genovesi alla finestra, si sono incontrati con il pink bloc, che è un'altra garanzia di sicurezza. Davanti agli scudi Barbara ha srotolato uno striscione: Non avete caldo con le tute antisommossa?
"Si sono messi a ridere e ci hanno fatto segno di passare".

"Guarda, non si sta bene qui? Tu ti fai troppe storie".
Sono con Glauco e gli altri sul pratino in piazzale della Vittoria. La città è deserta. Da un lato e dall'altro, s'intravede il luccichio degli scudi antisommossa. Al cellulare mi arrivano, non so esattamente il perché, messaggi come da una battaglia ("Cobas Ko. Ripiegare p.za Kennedy). E io sono qui, nel silenzio. Mi sono tolto le scarpe e cammino sull'aiuola. Dopo aver mugugnato contro Glauco, che secondo me non era prudente, che dividersi in gruppetti è sconsigliato, ho deciso di accompagnarli. Ciascuno gestisce la sua inquietudine come può. E poi anch'io ho fame.

Alla fine della giornata rimarrà lo stupore per essere passato in tanti luoghi caldi nel momento 'sbagliato'. A sentire la conferenza stampa serale la battaglia c'è stata davvero a P.le Kennedy, come no. Ma quando arriviamo noi è tutto tranquillo, Legambiente fa degli ottimi panini, ci sediamo e rischiamo di non volerci alzare più.

Passa un tizio tutto nero. Chiede una maglietta. Dice che lavora in acciaieria, passava di lì col motorino e si è beccato un manganello in faccia. "Guardate, è uno di quelli neri!, dicevano. Cosa ci posso fare se mi piace il nero".
Un manganello in faccia. Mm. Come minimo gli avrebbero spaccato gli occhiali. Mi fido sempre di meno.
Decido di accompagnare un gruppetto che vuole tornare verso piazza Dante. E' prudente? Non so, mi sembra che il peggio sia passato. Sfiliamo davanti ai carabinieri, una signora con me ne incontra uno 'dal volto umano'.

"Vogliamo andare in P.za Dante, è sicuro?"
"Cosa le posso dire, signora, lei ha certo più anni di me".
"Sì, volevamo sapere soltanto se ci si può andare".
"E vabbene, se parte dai preconcetti, signora... guardi che io sono stato anche in missione in Africa, sa? Vi diciamo che c'è una brutta situazione, sarebbe meglio non andare da nessuna parte".
"Perché, non è sicuro da nessuna parte".
"No".
Un po' cafone. Un po' allarmista. Un volto umano, comunque.

A metà strada incontriamo il corteo da Piazza Dante che rientra. Più tardi sapremo il perché. Rivedo Jan, Barbara.
"Tutto bene?"
"Ci hanno caricati coi fumogeni alla fine, proprio mentre stavamo andando via"
Durante le azioni di disturbo, davanti alla rete, passava un agente con lo spray orticante. Mirava agli occhi e scappava.
Ma va tutto bene. Nessuno si è fatto male. Ripassiamo come ieri per via Saffi, dove la polizia coi container ci ha sbarrato la vista del mare. Torniamo a salutare le anziane signore che sorridono dai balconi, alcune alzano il pugno, altre gettano bottigliette d’acqua. È persino più bello di ieri, oggi che c’è il sole. Barbara ha ritrovato un suo amico francese. Il dj chiede se qualcuno ha dei cd, lui li ha finiti. Ci rifila poi l’ennesima Bella Ciao.
Sfiliamo senza problemi di fronte ai carabinieri, Attac fa un cordone per evitare sorprese. E quando arriviamo a piazzale Kennedy pensiamo che tutto sommato la giornata è finita bene. Le ragazze si mettono in coda per il gabinetto, io penso di meritarmi un panino di Manu Chao (c’è uno stand che distribuisce panini gratis, offre lui). Sto per avviarmi quando mi squilla il cellulare. È un amico da casa: ogni tanto chiamano, vogliono sapere se stiamo bene, ci chiedono conferma delle notizie, ci dicono dove non è prudente andare. Di solito sono meglio informati di noi.
“Va tutto bene”, dico io. È il ritornello di questi giorni. “Stiamo tutti bene”.
“Sì? Perché qui dicono che c’è un ragazzo morto”.

La notizia sta invadendo il piazzale da ogni direzione. C’è un ragazzo in fin di vita, c’è un ragazzo morto, sono in due, una è una ragazza, c’è anche una persona che è morta d’infarto. Chi la impara al cellulare, chi l’ha sentita dire, chi era lì. Come Glauco: cercando le Tute Bianche era proceduto in una zona lasciata deserta dalla battaglia. Finché non si era trovato davanti a un cordone di polizia, stretto intorno a un blindato.
“L’hai visto?”
“No, non si riusciva a vedere niente”.

Non ho più fame. Mi ritrovo in una folla seduta in cerchio: in fondo c’è Agnoletto che cerca di farsi sentire con l’altoparlante di un furgone. C’è molta tensione in giro, sui volti, negli sguardi. Agnoletto annuncia che, seguendo l’invito del sindaco (che ha ammesso che la situazione non è sotto controllo), il GSF ha richiamato i gruppi nel piazzale. Parla di vittime ma non conferma ancora il numero. E denuncia, per la prima volta, l’infiltrazione dei gruppi violenti nelle varie manifestazioni della giornata. Ma annuncia anche, inspiegabilmente, che “Abbiamo vinto”, anche se a un prezzo altissimo. Ma cosa abbiamo vinto, esattamente? “Una delegazione del GSF si recherà immediatamente a chiedere la sospensione del G8”. D’accordo. Ma se non lo sospenderanno, come appare più che plausibile?
La parola passa agli altri portavoce. Tutti, in ogni zona, hanno avuto una giornata difficile, e confermano: ci sono state infiltrazioni di gruppi “neri” e violenti, e le forze dell’ordine non hanno fatto nulla per evitarle. Anzi le hanno favorite.
All’appello mancano ancora alcuni gruppi, tra cui le Tute Bianche, che sono state caricate molto prima di raggiungere le barriere della zona Rossa. Si dice che la polizia li abbia accolti sparando. Si dice che le cariche continuino ancora. A un tratto vediamo una fumana grigia in direzione di Corso Sardegna.
“Sono lì! E noi cosa stiamo qui a parlare? Andiamo ad aiutarli!”
I portavoce fanno non poca fatica a farsi intendere. La gente è arrabbiata e non ragiona. È in quel momento che l’elicottero dei carabinieri decide di rimanere sopra di noi, per tre-quattro minuti. Col rumore delle pale è impossibile capirsi. Ci si può solo arrabbiare, urlare, mostrare il dito. Finché l’elicottero non se ne va via, lasciandoci più nervosi di prima.

Un’amica di Ric le chiede per telefono di controllare se la sua macchina è a posto. Lo accompagno nella zona di corso Torino. La mattina avevamo visto i scendere i neri di lì: ora vediamo i risultati. Vetrine, cassonetti, macchine, tutto distrutto. E in quella desolazione vediamo venire avanti un corteo arancione.
“Scusa, voi chi siete?”
“Siamo di Lilliput”.
“Ah, quindi delle tute bianche non ne sapete niente”.
“No, mi dispiace”.
Anche la rete di Lilliput non dovrebbe aver sofferto ingiurie. Questione di buona organizzazione, e forse anche di fortuna.
Proprio in quel momento un ragazzo, davanti a me, si avvicina all’ultima campana del vetro reciclabile rimasta in piedi e la scuote giù. Indossa la maglietta arancione di Lilliput. Ma non è italiano, si vede benissimo che non è italiano. E ha una faccia che dice: lasciatemi fare perché sono incazzato.
Intorno a lui gli altri lilliput sono allibiti. “Ma cosa fai?”. Altri applaudono per ironia. “Bravo, bravo. E adesso cos’hai risolto?”. Ma lui non è italiano, non capisce. E non si capisce come mai sia lì.
Risaliamo verso le scuole Pascoli-Diaz, la sede del Centro Media. Dall’alto vediamo una fumata nera su corso Italia, davanti a piazzale Kennedy. Hanno dato fuoco a una banca. Davanti a tutti.

In serata i miei amici si raccolgono, decidono di passare la serata nel campeggio di Lilliput. Io sono tentato di andare con loro: là c’è altra gente che conosco, poi si va a prendere una pizza… ma all’ultimo momento decido di no, riprendo lo zaino e torno alla mia tenda. Voglio rimanere qui, vicino agli avvenimenti. È un istinto puerile, è l’istinto della farfalla intorno alla lampadina, ma so che se succedesse ancora qualcosa e io non fossi qui non riuscirei più a perdonarmelo.
Torno al centro media, voglio provare a buttar giù qualcosa. Cosa? Fino a ieri ero qui per scrivere “pezzi di colore”. Ma ieri è come fosse un anno fa.
Invece di entrare nella sala stampa, dove hanno linux che mi si pianta spesso e bene, entro nella scuola di fronte. È lì che ho visto ragazzi con la faccia seria e intelligente consultare dossier sulla strategia della tensione in inglese, e le foto del ragazzo schiacciato dal blindato moltiplicate all’infinito. Italiani, tedeschi, nessuno sembra minaccioso. Il giorno prima era toccato a noi mandare via tutti verso mezzanotte e chiudere con un lucchetto e una catena da bicicletta. Avevamo mandato via qualche ragazzo che scriveva mail a casa, e un gruppo di tedeschi che preparava uno striscione. Tutti tranquilli. Tutti gentili.
È qui che quel venerdì, ho scritto:

“ci andrei piano con dichiarazioni del tipo: Abbiamo vinto. Intanto abbiamo perduto una persona. E forse abbiamo anche perso di vista i contenuti. Che il g8 si svolga o no, è veramente così importante? Eravamo qui per far sentire le nostre proposte, ora siamo schiacciati tra forze dell'ordine e black block. E dobbiamo urlare per capirci. Ma urlare non aiuta a calmarsi...”

Poi il mal di testa ha avuto il sopravvento e sono tornato al campeggio.
Il mio piccolo campeggio pieno di ragazzi stranieri. Voci francesi, tedesche, bandiere irlandesi, bandiere rosse, bandiere nere. Ma che gente è veramente? Perché sembrano essere arrivati per primi? Cosa c’è nei loro furgoni? E perché polizia e carabinieri, che fermano chiunque esca dal campeggio del Carlini (sede di tute bianche e altri) non è mai entrata lì? C’è la caserma dei Carabinieri proprio di fronte. Una grande caserma. Più grande del campeggio. Ma ha altro da fare, si vede.

Mi addormento di sasso, subito.
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Sono tornato a casa e sto bene.

Ieri - lo saprete già - c'è stata un'irruzione della polizia nelle scuole Diaz e Pascoli - quello che in questi giorni chiamavo "Centro Media". Noi eravamo lì. Cioè, no. Eravamo appena andati a prenderci una birra nel bar di fianco, sollevati nel constatare che tutto stava finendo. Da lì abbiamo visto passare le camionette della polizia. Poi una fila interminabile di autoambulanze posteggiate. Poi, pur dicendoci a vicenda che non era prudente, siamo andati a vedere.
Quel che abbiamo visto è duro da mandar giù.
Nelle prossime ore, con molta calma, cercherò di riprendere il filo e raccontare quello che ho visto io. Statemi bene.
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Genova - 16. Diretta dalla Conferenza stampa
Perché non ci sono più altoparlanti qui? Agnoletto ha una buona voce, è l'unico che riesce a farci sentire.
"Abbiamo portato le condoglianze alla famiglia Giuliani, abbiamo promesso un'affluenza di massa al funerale".
"Non è possibile che in questa città mille o duemila persone siano potute arrivare con bottiglie molotov, e la polizia non abbia fatto nulla per fermarli".
Ieri la polizia, invece di reprimere il black block, ha fatto il possibile per disperderli e mescolarli negli altri cortei".
"Per favore, nessuno ci chieda di prendere le distanze da questi gruppi. Sin dall'inizio noi avevamo dichiarato come ci saremmo mossi. Abbiamo dimostrato col nostro comportamento di non avere niente in comune con loro. La responsabilità noi la individuiamo nel governo".
"Cercheremo di investigare la composizione di questi gruppi, che sospettiamo più complessa di quanto non sembri".
"Com'è possibile che anche stamattina, dopo aver comunicato a tutti che i pullman arrivavano a Quarto, questi gruppi arrivino a Quarto e contiunuino nelle loro azioni di distruzione?"
"Appiamo notizia di azioni intimidorie e repressive delle forze dell'ordine contro persone isolate e disarmate.. Ci sono stati atti di violenza assolutamente ingiustificati".
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Genova - 15

Genova 15 raccontava la giornata di venerdì, scritta nella mattinata della giornata di sabato, dalla sala della conferenza stampa. Il racconto è stato ripreso e completato sopra.
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Genova - 14

Cosa posso dire. Guardate indymedia...

Sono veramente frastornato. Non credo di poter raccontare nulla stasera. E poi a me non è successo praticamente niente, e qui invece è successo di tutto. Rimando forse a domani.

Qui di fianco a me quasi tutti i computer mostrano le foto del ragazzo sparato e investito. Due tedeschi stanno leggendo un dossier in inglese sulla strategia della tensione. E proprio ora indymedia ci informa che qua fuori la polizia 'controlla' le persone.
Tutto sommato qui la gente ha facce attente e sveglie. Giù a Piazzale Kennedy invece sulle facce si leggeva soprattutto rabbia e stanchezza.

La conferenza stampa di stasera è stata messa su con mezzi di fortuna, attorno a un camper dell'Arci, con una pessima acustica. E' lì che, tra uno slogan e l'altro, è partita la richiesta ufficiale di sospendere il vertice. E delle dimissioni di Scajola. (Leggo che Fini lo sta già coprendo. E non abbiamo ancora finito di contare le vittime. E' ributtante). Ha preso la parola anche Bové, per dire che non ha mai visto una repressione poliziesca così. Lui, arrestato in Francia e in Israele. Intanto dalla città si vedeva salire uno sbuffo di fumo grigio. Forse dalla zona delle tute bianche.

E poi, mentre qualcun altro parlava, il solito elicottero si è fermato proprio sopra di noi, per un paio di minuti. Per darci un'occhiata, per darci fastidio, per evitare che ci ascoltassimo, cosa che già facciamo con difficoltà. La voglia di cedere alla rabbia era molto forte. Ma per fare cosa?

Vediamo domani. Nel frattempo ci andrei piano con dichiarazioni del tipo: Abbiamo vinto. Intanto abbiamo perduto una persona. E forse abbiamo anche perso di vista i contenuti. Che il g8 si svolga o no, è veramente così importante? Eravamo qui per far sentire le nostre proposte, ora siamo schiacciati tra forze dell'ordine e black block. E dobbiamo urlare per capirci. Ma urlare non aiuta a calmarsi...

Forse butterò via questo appunto domattina. Sono stanco e non ragiono bene. Di regola dovrei limitarmi a raccontare quel che vedo e quel che vivo, senza troppe considerazioni generali. Purtroppo quel che ho visto e vissuto è veramente insignificante rispetto alla gravità dei fatti. Ringrazio tutti quelli che mi hanno chiamato, e che sono passati dal sito, veramente tanti. Ringrazio anche i miei compagni di oggi, Glauco incluso, anche se ci siamo presi contro tutto il giorno. Buona notte e speriamo per domani.
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Appunti da Genova - 13
Cari amici vicini e lontani

Mi hanno chiamato in tanti. Ringrazio tutti. Tra le domande: stai bene? Sto bene. Ho solo i piedi un po' umidi. E' possibile avere una maglietta gialla? Mah, io per esempio ne ho una. Fatemi un prezzo. Cos'è quel rumore che si sente in sottofondo come un elicottero? E' un elicottero. E le ragazze come sono? Veramente simpatiche e alla mano. Esempio: ho dettato a una ragazza californiana un paio d'indirizzi (avevo fretta che lasciasse il PC, stavo chiudendo), e lei: io sto a L.A., se vuoi ti lascio la mail, così se passi di lì puoi dormire da me. Ma sì, perché no, se passo di lì...
E mi fa piacere che mi troviate divertente. Non che sia stata tutta da ridere, finora, ma la commedia è l'unico genere che mi riesce bene. Non voglio neanche pensare cosa succederebbe se da domani fossi forzato a cambiare di tono. No. Spero di proseguire con la commedia per altri due giorni.
Vi saluto, da Modena stanno arrivando Glauco e Ponz, e devo pilotarli fin qui. Portano rinforzi. Portano calzini freschi. Sono contento.
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Appunti da Genova - 12
Piove sul G8

Piove. Per il secondo giorno. Molto più che il primo giorno. Piove con insistenza, con determinazione. Piove, e tutto diventa più difficile. Perché, perché deve sempre piovere? Perché perché. Perché sono in ferie.
C'è poco da fare i fighetti con la tenda ben piantata stasera. Questo non è un acquazzone qualunque. Già tanto se riesco a fare un pezzo di strada con un sacco di nylon addosso, due buchi per le braccia e uno per la faccia. A piazzale Kennedy hanno fatto di tutto per fare il concerto, cinque o sei pezzi li hanno pure suonati, ma il pubblico è rimasto stipato sotto il capannone, nel fragore dei bonghi e delle danze irlandesi.

Lì sotto ho raccolto qualche voce senza riscontro, come quel gruppo di tedeschi alla manifestazione che avrebbe menato un infiltrato della digos. Molto più divertente è il comunicato stampa che annuncia l'iniziativa "Garlic for peace": una distribuzione gratuita di aglio ai presso i check point della zona rossa. Pare infatti che nelle scorse settimane si sia sviluppata una leggenda metropolitana secondo la quale sarebbe stato impossibile trovare aglio durante il G8 nella zona proibita. Leggenda che aveva portato all'accaparramento e all'effettiva scarsità di questo fondamentale ingradiente del pesto.

Molto più brutte le notizie dai campi. Il Carlini sembra una pozza di fango. La gente è rimasta bloccata al Piazzale, gli autobus non passano più e la linea dei taxi è sempre occupata. Io passo a scaldarmi presso il Centro Media, e decido di restare lì come volontario. La mia tenda è piuttosto umida...
Fatte le debite proporzioni, mi è venuto in mente un passo di Fenoglio, dove racconta della piena del fiume durante l'assedio di Alba. Cito a memoria: "Smisero di avere paura dei tedeschi e cominciarono ad avere paura del fiume".
Domani è la giornata più difficile, lo sappiamo tutti. Ma ora il problema è passare la nottata. E a domani ci penseremo domani.
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Appunti da Genova - 11
La marcia internazionale dei migranti

I primi poliziotti in tenuta antisommossa li vediamo raggiungendo P.le Carignano.
Da lì si gode di un buon colpo d'occhio: siamo in tanti, molti di più di quanto mi sarei aspettato dopo il concerto di ieri.
Il piazzale è sovrastato da un enorme chiesa: sul frontone la Madonna alza le braccia al cielo, come a dire: ma dove arriveremo di questo passo, Signore. Ai fianchi San Pietro esprime un genuino stupore, mentre S. Paolo si gratta la testa penseroso mentre ci guarda metterci in fila, striscione dopo striscione, un gruppo dopo l'altro. Ce n'è parecchi, e di tutti i tipi. C'è anche un ragazzo con la bandiera della Roma. E alcuni signori con un paio di striminzite bandiere della quercia. Li vediamo e passiamo avanti.

In un modo o nell'altro finiamo nel codazzo dei giovani di Rifondazione, che hanno sostituito quasi del tutto gli slogan con il sound system ambulante. Il clima è disteso, c'è solo da segnalare un imbecille che si ferma a bruciare una bandiera USA raccattata in strada, a rischio di bruciare i compagni. E' nuvolo, ma fa caldo, e prima d'imboccare il tunnel di Piazzale Palermo iniziamo a rovesciarci addosso l'acqua dalle bottiglie. Non sappiamo ancora quanta acqua ci riserva il destino, da lì a poco.

Ogni tanto si vede qualche genovese alla finestra, che saluta con la manina o col pugno chiuso, o porge una bottiglia d'acqua, e si prende l'applauso delle migliaia di persone che passano di lì.

Ma perché su via Saffi ci hanno tolto con un muro di container la vista del mare? Che altro c'era che non potevamo vedere? Forse avevano paura che ci buttassimo sotto dalla diperazione?

Solo una volta imboccato il tunnel, in lieve discesa, riusciamo a farci una vaga idea di quanti siamo. Ci guardiamo dietro e vediamo una folla di persone che non finisce mai, forse là in fondo non hanno ancora svoltato dal corso Brigate Partigiane. Siamo tantissimi. La Rai dirà ventimila, il Secolo XIX cinquantamila. Io starei con la seconda stima (pur curioso di conoscere i dati della questura: diecimila?). Siamo molti di più di quanto non si aspettassero: il tragitto si allunga. Arriveremo un'ora più tardi.

Fino al corso Brigate Partigiane la polizia stazionava a tutte le uscite a rischio. Poi non s'è più vista (a parte i due elicotteri che ci ronzavano sopra continuamente): perché? Da quel momento l'atmosfera è cambiata. E' vero che molte vetrine erano chiuse (e dopotutto è giovedì), ma se il movimento facesse davvero paura ai genovesi, questi non terrebbero i bar aperti lungo il tragitto (hanno fatto buoni affari, quei bar). Sarà anche per la presenza di tutti questi punti di ristoro che la marcia, una volta arrivati sul lungomare, ha cominciato a sfilacciarsi. Ma insomma, l'atmosfera era serena. Diciamo pure festosa.
Ci avrebbe pensato la pioggia a rovinarci la festa.
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Appunti da Genova - 10
Testimoni contro il G8

Perdonate quel che scrivo d'ora in poi - sono quasi le cinque del mattino e sto montando una specie di guardia al media-centre (anche in questo caso, bisogna stare attenti, ma alla fine si fa entrare tutti...)

Come sta Genova? Com'è andata la marcia dei migranti? E' difficile capirlo dal di dentro. Molte cose le sto imparando adesso dai giornali.

Genova è desolata. Non l'avrei mai capito continuando a circolare nel solito triangolo tra Piazzale Kennedy, Public Forum e Centro Media, brulicante di manifestanti. Ma basta cambiare la sponda della strada per accorgersi che le cose sono più sinistre di quel che sembrano: molte vetrine sono sbarrate con fogli di compensato. E se provi ad allontanarti dalle solite vie, ti ritrovi terribilmente solo. Passa giusto qualche volante. Dove sono tutti? Sbarrati dietro le finestre?

Mi sono imbattuto soltanto in un signore elegante che mi offriva un volantino. Io nicchiavo, indovinando in lui un testimone di Geova. Ma alla fine il disegno (raffigurante una tigre con dieci dentature, stile Apocalisse), ha finito per catturarmi.
Il volantino dimostrava, Bibbia alla mano, che il G8 segna l'inizio dell'età della Bestia, quel mostro il cui nome cifrato è 666, e che sarebbe in realtà un'allegoria del WTO, l'Organizzazione Mondiale del Commercio.. Seguiva un'astrusa teoria per dimostrare come tutti i codici a barre del mondo nascondono la stessa cifra. Il volantino era attribuito ai Testimoni di Geova contro il G8.
Anche Geova è dalla nostra...
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toh, sono su Vita.it...
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Appunti da Genova - 9

Mi piace Agnoletto, il suo stile. Basso e incazzoso. Non lo smuovi. Se la traduttrice non ce la fa si traduce da solo, e via che andiamo.

Comincia la conferenza stampa strigliando i giornalisti: il suo intervento presso i sindacati è stato travisato. Nessuno ha parlato della standing ovation che ne è seguita, invece è stato dato rilievo a una frase mai detta da Cofferati: "dal GSF non ho niente da imparare". E le pallottole al sindaco, non erano contro il sindaco, come ha riportato qualcuno: erano contro Agnoletto e Casarin.

Intorno a lui alcuni personaggi. Quando si presentano ho un sussulto: a sinistra c'è Susan George, a destra Walden Bello. Tra gli altri. Mi volto indietro, c'è un ragazzo a torso nudo. E poi uno col pass del G8 ufficiale e un'orrida camicia a righine, Gad Lerner. Resta 20 minuti e poi scompare.

La George ha un buon italiano e una certa fretta: "non siamo contro la globalizzazione: siamo contro le politiche neoliberiste espresse dal G8". Bello è una sorpresa: urla e batte i pugni: "La Banca Mondiale non è una parte della soluzione, è una parte del problema! Banca Mondiale e Fondo Monetario Internazionale devono essere smantellati. Hanno parlato di ridurre il debito, e non c'è stata alcuna diminuzione del debito. Hanno parlato di riforma della Banca Mondiale e non c'è stata nessuna riforma!

Dalla scuola di fronte uno strepito improvviso. Nessun problema, è un'esercitazione. Due file di ragazzi impersonano a vicenda poliziotti e dimostranti. "Attenti a dove tenete le mani. Tenerle nelle tasche e minaccioso: chi vi guarda non sa cosa avete in tasca. C'è chi le tiene alzate: fate come volete, ma c'è il rischio di spingerle senza volere, e può essere interpretato come un gesto violento".
"Pronti? Ora una nuova situazione. Voi a destra state cercando di spostare la merda del vostro cane. Voi a sinistra siete nel parco, vedete il ragazzo col cane e cercate di mandarlo via. Via".

Torno alla conferenza stampa. Agnoletto ha messo via la traduttrice e risponde a braccio alle domande.
"Abbiamo saputo dell'adesione dei DS alla marcia del 21. Ogni nuova adesione è benvenuta. Aspettiamo comunque di sentire le motivazioni, che non ci sono ancora arrivate. Quella del 21 comunque non è una manifestazione neutra. Ci aspettiamo che questa adesione segni una rottura con la politica neoliberista degli ultimi anni: la politica del centrosinistra che ci ha portato alla guerra con la Jugoslavia. Now I'll try to translate".

"We are not surprised by the declaration of Tony Blair, E' un noto guerrafondaio. If he says we're nothing, this means he's surprised of how strong we are. Farebbe meglio a spiegare come mai in una situazione di agreement con la Francia i francesi bloccano i treni dall'Inghilterra alla frontiera".

"It is obvious that in stadium carlini there are disobedient persons! They are tute bianche, rifondazione and other ones, they are not armed, they will disobey with us!".

Quanto a me:
stamattina due buone notizie: il sole picchia, e ai cancelli c'era una fila di persone in uniforme. Erano vigili urbani che avevano montato una fontanella. Adesso va molto meglio. Certo, una doccia è un'altra cosa.
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Appunti da Genova - 8

Sono molto fiero della mia tenda. L'ho piantata senza picchetti, con dei rametti di bambù, in questo maledetto terriccio ligure, secco e tutto sassi. E lei se n'è rimasta lì, sotto la pioggia battente di ieri, senza fare una piega. Piccole soddisfazioni di ex scout.

Sono stanco. Sono anche piuttosto sporco. E pensare che in realtà non è ancora successo niente. Le "tre giornate di genova" cominciano domani, con la marcia dei migranti. Una marcia, già. E io ho già un accenno di vesciche ai piedi.
Speriamo bene. Speriamo che domani sia bello. Speriamo che nessuno si faccia niente. Questo l'ho sentito dire veramente da tutti. Speriamo che serva.

Speriamo che i poliziotti non si facciano prendere dalla sindrome degli sceriffi. E' vero che può colpirti in qualsiasi momento, ma loro dovrebbero esserci allenati.

Speriamo che Marto, il ragazzo che durante il concerto è venuto a chiedermi la maglietta gialla del Genoa Social Forum, se la cavi senza problemi.

"Io lavoro al G8, sai?", mi diceva.
"Anche noi".
"No, no, io lavoro a quello vero!" E mi ha mostrato il pass. Fa il barista nella zona rossa. Se passa Bush e ordina un caffè lui glielo prepara. Al mattino lo fermano come minimo in due tra polizia e carabinieri.
"E domattina vuoi entrare con la maglietta del GSF?"
"Voglio vedere cosa mi fanno".
"Ma cosa vuoi che ti facciano... è solo una maglietta".
E' solo una maglietta. Speriamo non gli facciano niente. Speriamo.
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Appunti da Genova - 7

Ah, mi ero dimenticato di parlare delle bombe.
Ogni tanto si sente dire: hanno trovato una bomba qui, hanno trovato una bomba là. Ieri sera parlavano di un autobus che era stato evacuato. O addirittura fatto saltare. Stamattina sui giornali non ne parla nessuno.

Sì, c'è un po' di psicosi, da una parte e dall'altra. Un appello a tutti: non lasciate sacchetti o cartoni in giro. Ieri sera, mentre sistemavamo le transenne, abbiamo visto un muletto che passava in mezzo al piazzale. Reggeva una panchina. Sulla panchina stava un cartone, trovato sotto il tendone delle piadine.

"Ma che, è una bomba quella?"
Attorniatro da un grappolo di ragazzi con le telecamere, il muletto è arrivato sugli scogli e lì ha posato la panchina, con delicatezza. Proprio sulla corsia dei gabinetti.
"E adesso cosa fanno? La lasciano lì?"
"Stanno chiamando gli artificieri, sempre che si degnino".
"E se qualcuno vuole andare alla toilette?"
"Gli dite di non toccare".

Gli artificieri sono arrivati subito, senza neanche farsi pregare. Però all'entrata del piazzale hanno trovato qualcuno che non li ha fatti passare. Proprio così. Anche noi abbiamo i nostri sceriffi ottusi...
Alla fine due signori si sono fatti forza, hanno preso la panchina per i piedi e l'hanno buttata a mare. Fine dell'incidente.
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Appunti da Genova - 6

"No, guarda, mi dispiace, da qui non si può passare".
"O, ma vaff... cos'è, la zona rossa?"
No, è il concerto di Manu Chao.

Martedì mi avevano chiesto di fare il volontario al concerto. E io: ma mi avete guardato bene? Vi sembro il tipo che fa la sicurezza al concerto? Chiunque sopra il metro e 65 mi può pisciare in testa...
"Dai, per favore, abbiamo veramente bisogno."

Alla fine ci siamo trovati in quattro (più o meno tutti m. 1,65) nell'angolo più lontano, tra le transenne e il mare, con l'ordine di non far passare di lì. Perché, scusa, ma il concerto non è gratis? Non proprio, è a sottoscrizione. Insomma, paga chi vuole. Però - ci fanno capire - più gente paga meglio è. Ma soprattutto bisogna tenere lo spazio sgombro per l'ambulanza, dovesse mai servire.

Ed eccoci qui: c'è una riga, una transenna, noi siamo da una parte, la gente dall'altra, e non li dobbiamo far passare. C'è di che riflettere.

"Please! You should not come in here!"
"?"
"On peut pas entrer par ici!"
"?"
"Warnung! H'raus!"

La febbre dei confini imperversa. Come da bambini: adesso faccio una riga e se provi a passare ti picchio. Cinquecento metri più lontano, dalla parte della Fiera (dove da due giorni stazionano le camionette della polizia), una gru sta costruendo un muraglione coi container. Li mette uno sopra l'altro come fossero mattoncini di Lego. Chissà poi perché. La polizia sta lì per guardarci, no? Se ci mettono un muro, cosa gli resta da guardare?
Possibile che abbiano paura di noi? Ma ci hanno guardato bene in faccia?

"No, scusa, qui non si può, è per l'ambulanza. Dovresti passare dal centro".
"Ma c'è una fila così... io poi non ho un soldo".
"Se non hai un soldo non paghi, ma non si può passare di qui".

Col passare delle ore cominci a diventare convincente. Il piccolo sceriffo che è in ognuno di noi prende il sopravvento.
Là in fondo intanto si divertono. Prima i Meganoidi, poi i 99 Posse. Poi Agnoletto, un piccolo uomo che s'improvvisa oratore da piazza (con buoni risultati). Quando comincia Manu Chao pensiamo di averne per un'ora o poco più. E invece resta per più del doppio, e ci rovescia addosso qualcosa come una quarantina di canzoni, senza soluzione di continuità, senza pietà. Cambia i testi, cambia le musiche, è inesauribile. In scaletta manca soltanto il successo del momento, il tormentone di mtv che anche il mio vicino sa a memoria.

"Mi fai passare?"
"Sarebbe meglio di no".
"Ma dai, ormai è finito il concerto".
"Non è per questo, è che qui deve restare libero per l'ambulanza, sai... "

Finisce prima delle due. La gente è felice, ma esausta, non chiede neanche il bis. Ho rinunciato a capire quanti siamo: il piazzale era pieno a metà, ma bello fitto, quasi impenetrabile. E tutto sommato è sorprendente che non ci stati disordini, neanche un provocatore, nessun rompipalle. Il più nervoso che ho visto era un volontario alle transenne un po' stanco, totalmente in preda al piccolo sceriffo che è in ciascuno di noi.

Io sono contento, anche se forse il mio lavoro è stato inutile. Anzi, proprio per quello. Non è passata nessuna ambulanza.
"O! Mi fai passare?"
"Guarda che è finita".
"Vabe', vado sugli scogli".
"Solo non farti male".
"Tranquillo"
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Appunti da Genova - 5

Niente doccia. Ieri sera dicevano che l'avrebbero aperta stamattina, invece niente. Le tende qui fuori sono più di quattrocento, potremmo anche essere duemila persone qui. Se insistono per tenere chiuse le strutture del piccolo stadio di fianco al giardino, basterà farsi un giro in centro per invadere la zona rossa colle nostre puzze. Berlusconi ci faccia un pensiero.

Ora sono qui, al media-centre. Stavo scrivendo dei fatti miei, quando si è riunita la conferenza stampa del Genoa Social Forum. E io lieto come una pasqua, mi sono messo a buttar giù notizie fresche. La foto di Agnoletto spedita al sindaco con annesse pallottole. I parenti degli annegati della nave fantasma di due anni fa che marceranno in testa alla marcia dei migranti...

...quando il sistema, un esotico sistema operativo in linux, ha fatto un bel crash, e ho perso tutto. (Nel frattempo la Repubblica dava la notizia di Agnoletto, e in sovrappiù la busta esplosiva recapitata a Retequattro).

Al termine della conforenza, mentre i giornalisti si mettevano a uscire in disordine e confusione, ha preso le parole un *rappresentante* inglese di Indymedia (Indymedia in realtà non ha *rappresentanti*). Nella quasi totale inattenzione, ha fatto presente alcuni aspetti della vicenda delle ragazze tedesche fermate dalla polizia con "spranghe, coltelli, taniche di gasolio, torce, catene, maschere e un'ascia" (La Repubblica). Pare che si trattasse del normale armamentario di una compagnia circense da strada. Ma non è questo il punto. Secondo Indymedia:

- Nel cortile della questura le ragazze sono state costrette a guidare il furgone e calpestare ripetutamente i loro oggetti personali, fino a ridurli in poltiglia, mentre erano insultate ("insulti razzisti e sessisti").

- Sono state interrogate in una stanza decorata con simboli nazisti e fasisti (la foto di Mussolini) e striscioni con slogan razzisti.
Le ragazze sono tutte incensurate. Per ora sono in cella.
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Appunti da Genova - 4

"Sembra una festa dell'Unità, qui".
"Vero?"

Il posto dove mi hanno messo è un piccolo parco intorno a un campo da tennis, due fontanelle, e più o meno un migliaio di accampati. Si parla soprattutto tedesco, francese, inglese, e uno spagnolo che sembra catalano. Solo quelli di fianco a me erano di Verona (ed erano rimasti senza picchetti, esattamente come me).

Per la cena, ho pensato che il tonno poteva attendere. Sotto il capannone di Piazzale Kennedy c'è una mensa a prezzi modici, un sacco di spine da birra (tedeschi e inglesi gradiscono, a quanto vedo), e pure la piadina originale romagnola, colla salsiccia o col kebab. Tu vai, ti siedi a un tavolo e ti metti a parlare con qualcuno. Una festa dell'unità come tante (a parte il mare sullo sfondo e la tramontana addosso).

"Tu di dove sei?"
"Di Modena"
"Ti va di fare un giro in Centro? Ti mostriamo come l'hanno ridotto".

Sì, credo di essere stato nella zona rossa ieri sera. La cosa più impressionante sono le barriere che chiudono i carrugi. Vere e proprie barricate. Pensavo: ma da quando in qua le forze dell'ordine hanno iniziato a fare le barricate? Una volta erano quelli che le buttavano giù.
Un varco comunque era ancora aperto. Sedeva a lato un poliziotto stanco, l'unico che ho visto giocherellare con ben due manganelli in mano. Ci ha fatto passare senza neanche guardarci.

Sì che non eravamo un gruppetto molto rassicurante. Le mie due guide cercavano fumo nei loro posti abituali. Io ho anche provato a spiegargli che secondo me non era una buona idea, ma certa gente in certi casi è davvero testarda. Non ci hanno creduto finché non si sono visto ogni angolo di strada pattugliato dalla "madama".

Se per questo c'era anche la finanza, i carabinieri... in una piazzola stazionava una camionetta dei pompieri, istintivamente ho pensato a una fuga di gas o un'irruzione, e me la sono data... mi sono allontanato con rapidità.

Tornando a piazzale Kennedy, ho dato un'occhiata più smaliziata agli agenti che prendevano una boccata d'aria, tra volanti e camionette. Un sacco di gente, anche loro. Che faranno tutto il tempo? S'incontrano - pattuglie di tutt'Italia, una festa - si raccontano di quella volta a Bologna, a Ventimiglia a Napoli?
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Appunti da Genova - 3

Oggi non è ancora chiaro se Genova Brignole e Genova Piazzale Principe chiuderanno o no. La voce ufficiale è che saranno aperte solo per i treni speciali.

Ma perché volevano chiudere le stazioni? Per non far entrare i manifestanti? E allora perché decidono di far passare solo i treni dei manifestanti?

Fate finta di essere chiunque... siete una casalinga di Voghera e avete una cugina a Genova che non sta bene. Dovreste arrivare in treno, ma il treno non ferma. A meno che non siate un manifestante anti G8: per loro c'è il treno apposta. Cosa fate? Vostra cugina ha proprio bisogno di voi. Non vi resta che manifestare anche voi contro il G8! Controllare su internet se non c'è un collettivo casalinghe che organizza il viaggio...

"Genova", leggevo ieri, "si sta riempiendo di manifestanti e svuotando di Genovesi". Forse si voleva ottenere proprio questo? Stamattina davanti al centro-media è passata una signora in BMW. Ha abbassato il finestrino e ha chiesto se qualcuno sapeva qualcosa sui caselli dell'autostrada bloccati. I genovesi se ne andrebbero anche, ma forse è tardi.
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Appunti da Genova - 2

Scendendo da Genova Brignole (ieri ancora aperta) lungo il corso che porta alla fiera, passando flemmatici col proprio enorme sacco sulle spalle proprio davanti all'affollatissima questura (quasi tutti in borghese), arrivi a un punto in cui si svuota l'orizzonte e ti aspetti di vedere il mare. E invece no: sono dieci camionette blu che fronteggiano piazzale Kennedy.

A piazzale Kennedy c'è il centro di raccolta per i manifestanti: se pensate di venire a Genova e non sapete ancora bene cosa fare e dove dormire venite lì. Vi presentate, spiegate cosa potete fare, e una ragazza simpatica vi darà una cartina (geografica), con su un indirizzo dove accamparvi, e se insistete anche un lavoro per i prossimi giorni.

Fosse sempre così nella vita, che appena arrivi ti sorridono e ti mettono al tuo posto... per ora non si sta così male a Genova. Venite.
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Diario da Genova - 1
(contiene pubblicità occulta)

Pensavo di resistere di più, ma alla fine sono partito. Pensavo di avere molte cose ancora da fare a casa, molti amici da aspettare, ma alla fine non ho salutato nessuno e ho preso il treno. Scusate, ma non ce la facevo proprio più.

Se l'alternativa era starsene sbarrato in casa, col ventilatore al massimo e la tv accesa nel tentativo di capirci qualcosa... chiudono le stazioni? Le riaprono solo per i treni speciali? Il carabiniere ferito sta bene? Hanno trovato altre bombe? E intanto memorizzare lo spot di Megan Gale in bikini, vuvuvu... mi piaci tu... adesso poi, francamente...

Se l'alternativa era scendere al bar e farsi venire la gastrite coi titoli dei giornali ("Arriva la multinazionale del caos"!), insomma, tanto valeva mettere tutto in un sacco e partire.

Cosa mi mancava? La tenda ce l'ho. Mancano i picchetti. Pazienza. Cibo? Devo avere delle scatolette di tonno da qualche parte. E per il gas? (Io ho il terrore del gas). Ho sentito dire che ci si può proteggere gli occhi con gli occhialini da piscina... faccio un salto alla piscina e ne compro.

Il treno l'ho preso all'ultimo momento, naturalmente. E una volta dentro ho tirato fiato. E mi sono addormentato, placidamente, come non mi succedeva da giorni.
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Indice ragionato dei servizi gratuiti promossi da realtà libere, indipendenti e impegnate sul fronte della globalizzazione
Gentile signor Merlo,
Ho letto il suo editoriale stamattina (ma ormai è già ieri mattina), e devo dirLe, sinceramente, che La compatisco.

Sono stato anch’io, nel mio piccolo un giornalista (pur senza essere affiliato o coscritto a nessun albo), ho tenuto anch’io le mie rubriche, e so cosa vuol dire dover essere divertente a tutti i costi.
Mettersi ogni tanto un naso finto e uscirsene sulla pubblica piazza. Magari c’è appena stata una tragedia, e non ne sappiamo niente, e per contratto dobbiamo far ridere la gente. Che non sempre può averne voglia. E si rimediano anche certe brutte figure…

Dicevo, ho letto il suo editoriale di lunedì mattina, che sin dal calembour iniziale (Il compromesso stoico) prometteva scintille. E chissà, forse l’avrei trovato pure divertente, non fosse che avevo già saputo di quel povero carabiniere che si era una busta esplosiva in faccia. Per cui non ero molto dell’umore, capisce. Pensavo a quel ragazzo di 21 anni, che forse avrebbe perso la vista, e al vigliacco che da qualche parte di quest’Italia aveva spedito quella busta. Forse un pazzo isolato. Forse un geniale esperto di strategia della tensione. In ogni caso – mi perdoni la retorica – un vigliacco.

Lei naturalmente non poteva sapere la piega tragica degli avvenimenti, quando domenica sera aveva buttato giù il suo fondo. C’era uno spunto interessante (il vademecum per i poliziotti redatto dal capo della polizia di Gennaro) e Lei voleva soltanto farci un po’ di ironia. Un colpo al cerchio (i soliti aggressivi e temerari rambo antiguerriglia...) e un colpo alla botte (il coro dei contestatori). E tutti a casa contenti, in perfetto stile Corriere.

Il problema è che questa smania di rendersi divertente a tutti i costi suonava, alla luce delle notizie del mattino, terribilmente fuori luogo. È chiaro che lei non è dalla parte dei manifestanti di Genova: sta bene, ormai cortigiani plaudenti ne troviamo fin che vogliamo, e certo non sentiamo la Sua mancanza. Ma perché mai prendersi gioco delle forze dell’ordine, proprio quando, dopo i tanti passi falsi degli ultimi giorni (le perquisizioni immotivate, la chiusura delle stazioni, ecc.) dimostrano un vero senso di responsabilità?

Il decalogo di De Gennaro è ispirato dal buon senso. Una vera boccata d’aria, per chi ha sentito parlare dei fatti accaduti durante il Global Forum di Napoli questa primavera (fatti duramente condannati da Amnesty International). È un piacere sapere che per i poliziotti “coloro che dimostrano non sono i nemici”. Perché dall’altra parte è da mesi che si lavora per far passare lo stesso concetto: i poliziotti non sono i nemici, non sono gli obiettivi, sono lì per fare il loro mestiere e non vanno disturbati. Questa, che è la logica del buon senso, sembra ormai prevalere da entrambe le parti. Certo, ci sarà pure qualche pazzo, qualche stratega della tensione, qualche vigliacco, che proverà a rovinare tutto con una carica ben piazzata. E allora sarà importante essere lì insieme e dimostrare che non siamo bambini, e non ci lasciamo intimorire, né ci facciamo mettere gli uni contro gli altri.

Ma lei, signor Merlo, doveva scrivere il suo pezzo divertente. Doveva per forza trovare la comicità della situazione. Lei già pregusta i tafferugli e le cariche, e il rimbrotto che rivolgerà a poliziotti e dimostranti: dov’è finita la vostra flemma? La vostra stoica comprensione del nemico? Non vedete? Siete soltanto cani e gatti…

E va bene signor Merlo, e lei cos’è? Mah, tante cose. Per esempio, lei è la perfetta dimostrazione del male che ha fatto il Liceo Classico a tante generazioni d’italiani. Che hanno studiato tanto latino, tanto greco, tanto cinismo e poca o punta educazione civica. Lei ci tiene a citare il suo Lucio Anneo Seneca, a citare la sua Stoà, e non gliene frega poi granché se intanto la società civile va a puttane: ci scriverà sopra qualche salace calembour. Per lei le cose in fondo sono semplici: i manifestanti sono violenti, e gli “sbirri” li devono sprangare. Gli “sbirri”, dico! È lei a chiamarli così! Senza il minimo rispetto per chi rischia sulla sua pelle! Fosse il “Manifesto”, passi anche. Ma il “Corriere”! Non si vergogna?

Lei certamente non è un violento. Lei non fa recapitare una busta di plastico a un povero ragazzo. Si limita a spargere un po’ di veleno per le edicole d’Italia. È un mestiere come un altro, e non mi sento di condannarla. Soltanto la compatisco. Sinceramente.

Nei prossimi giorni sarò a Genova, da una parte di una nota linea rossa (che in tutta franchezza non vorrei neanche oltrepassare). Dall’altra parte ci saranno persone come me, alcuni più giovani di me, e sicuramente più esaltati di me. So quanto lei che tra le forze dell’ordine non sono tutti lettori di Seneca (e forse neanche di De Gennaro), che anzi ce n’è parecchi che bruciano dalla voglia di sprangarci, e ce l’hanno anche già mandato a dire. Bene, signor Merlo, le dico una cosa: quei ragazzi, quegli uomini, non sono miei nemici. Non ho nulla contro di loro. Ho molto più rispetto per il più esaltato di loro di quanto potrò mai averne per lei, che seduto davanti al suo pc scorrerà i drammi del giorno chiedendosi: vediamo cosa posso buttar giù di divertente, oggi. In tutta franchezza, signor Merlo.

Ps:
Toscana in tedesco si scrive Toskana.
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Ci prendono per imbecilli
«Al Tesoro c'è la scrivania di Quintino Sella. Sarebbe immediatamente liberata se non ci fosse il pareggio del bilancio nel 2003». Giulio Tremonti...

Ah, è così? Al Tesoro c'è la scrivania di Quintino Sella? E Tremonti cosa aspetta a cambiarla? Ha paura di scialare comprandone una nuova? Suvvia, non si può farlo passare come un investimento produttivo?

Io fossi in lui la rottamerei. Ah, se le scrivanie potessero parlare… certo, non erano tempi di stagiste, quelli. Ma qualche servetta, ogni tanto, tra un taglio alla spesa e un'imposta indiretta...

Aspettando con ansia la nuova tassa sul macinato, restiamo comunque ammirati dalla passione antiquaria che circola negli edifici istituzionali. Che Quirinale e Palazzo Chigi fossero veri e propri musei lo sapevamo già. E quei presidenti costretti a lavorare tra stucchi e arazzi ci facevano anche un po' compassione. Ma i ministeri sono una nuova frontiera. Chissà che tesori da scoprire, che trofei.

Magari agli interni c'è qualche granata di Bava Beccaris. Magari ai Beni Culturali c'è qualche velina di Starace (non Storace).

Tutto questo accade a metà luglio. Un tempo in estate non accadeva mai niente, e qualsiasi boutade andava bene per riempire un giornale. Un personaggio come Buttiglione poteva saltare su con la prima cretinata che gli passava in mente, non so, tipo "Cambiamo l'Inno di Mameli", e tenere banco per intere settimane.

Adesso non è più così. Colpi di scena tutti i giorni. Siamo alla soglia di un nuovo miracolo italiano. Anzi, no, siamo in bancarotta. E la sicurezza? Come la mettiamo con la sicurezza? Hanno perquisito la casa dei genitori di Fiorino Iantorno, rappresentante di Attac Italia. Dite: ma come, non si può perquisire così, senza mandato? Si può, in base all'Art 41 delle leggi antiterrorismo, che prevede questa misura straordinaria in caso di "segnalazione sulla presenza di armi ed esplosivi". Un anonimo ha chiamato la Digos e ha detto: ma lo sapete che in quella casa là ci tengono gli esplosivi del G8?
E quelli della Digos cosa ci dovevano fare? Sono andati a vedere.

Iantorno io l'ho visto. È vero che ha una barba un po' insurrezionalista, ma non mi sembra proprio il tipo del bombarolo. Se anche fosse, sarebbe un triste tipo di bombarolo, che nasconde le munizioni a casa dei genitori. Tenendo conto anche del fatto che Iantorno vive a Siena, il vertice è previsto a Genova, e i suoi stanno a Taranto. Comodo no?
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La meglio gioventù?
Forse c'è chi spera che alla fine l'anti G8 si trasformi in qualcosa di simile al giubileo dei giovani dell'anno scorso, con le tute bianche al posto dei papaboys, con qualche inevitabile incidente di frange estreme e subito stigmatizzate, ma un'analoga copertura mediatica che dimostri quanto sono bravi e buoni in fin dei conti 'sti ragazzi.
È quel che si augura Ruggiero, quello che in fondo "le vostre battaglie sono le nostre" (ma Ruggiero non era uomo del WTO, quell'organizzazione che multa l'Unione Europea se questa si rifiuta d'importare alimenti biotecnologici?). È quello che sotto sotto mi auguro anch'io, che ormai ho detto a tutti che ci vado (e mi ci gioco 3-4 giorni di ferie estive su 10), e mi piacerebbe, onestamente, che ci fosse il sole, per prenderne un po', mi piacerebbe potermi portare la chitarra, approfittarne per stare un po' coi miei amici, e poi magari conoscere gente nuova, che poi da cosa nasce cosa… Potrebbe anche finire così, no? Sarebbe un male?
Ma non andrà così. Tutto il Genoa Social Forum è d'accordo sul "non rispetto" della zona rossa. Personalmente resto scettico, ma a due settimane il tempo dei sottili distinguo è finito. Siamo mobilitati. Oh, che brutta sensazione. Scoprire di avere un sacro terrore dei fumogeni. E se sono allergico? Io riesco a essere allergico a qualsiasi cosa. Se mi viene uno choc anafilattico? Chi mi porta all'ospedale?

Pensiamo ad altro. Ai bei risultati ottenuti senza ancora aver marciato un passo. Per esempio, il dibattito di oggi alla Camera. Non amo il lessico militare, non mi sembra il caso di parlare di "vittoria". Ma di un buon risultato sì. Non pienamente soddisfacente, ma visti i tempi che corrono… Alla camera si è discusso di protocollo di Kyoto, di riduzione del debito, di cooperazione ai Paesi in via di sviluppo. Si è parlato anche di Tobin tax e, guarda caso, proprio lì è cascato l'asino: l'Ulivo spaccato, il centrodestra scandalizzato. Così adesso lo sappiamo, ministro Ruggiero: le nostre battaglie non sono le sue. Ma un mese, anche solo venti giorni fa, tutto questo era immaginabile? Il dibattito politico del giorno era la revisione della legge 194 e la tassa sui figli di Stato o no, queste amenità da Buttiglione. Il protocollo di Kyoto era dato ormai per cartaccia, si temeva che Berlusconi potesse aprire una falla nell''UE. Chi ha alzato il livello del dibattito? Chi ha fatto presente che Kyoto non si tocca più? Il Genoa Social Forum. E Bossi può latrare in lontananza che vuole gli immigrati a tempo, non riesce a farsi prendere sul serio neanche un po'. Il tormentone dell'estate (che l'anno scorso fu il Ggiubileo dei Ggiovani) quest'anno è l'anti G8. Se la posta in gioco fosse solo mediatica, avremmo già vinto.
Naturalmente non è così. Ma è già un buon risultato. Nei suoi ultimi anni (i peggiori) il governo e la maggioranza parlamentare di centrosinistra si sentivano succubi di un'opinione pubblica sensibile solo a temi 'di destra': la sicurezza, la famiglia, ecc.. Vediamo se adesso ci riesce di fare il contrario: di far sentire alla maggioranza del Paese che c'è una minoranza attiva che non è contenta, che non è fatta di ggiovani sorridenti, ma di persone civili insoddisfatte e preoccupate, e che queste insoddisfazioni e preoccupazioni sono i veri problemi del nostro Paese (e non solo del nostro).

Ah, e poi la Camera ha anche bocciato una mozione di Rifondazione Comunista che proponeva l'abolizione del G8. Cattivoni, cattivoni.
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'we will genoa'? ma si dice così? mah...Sembra che ci siano dei fortunati signori che detengono il potere, che in una torre d'avorio, protetti dalle forze dell'ordine, discutono dei loro problemi mentre fuori c'è una moltitudine che protesta e che le forze dell'ordine contrastano con i mezzi del potere
Silvio Berlusconi ("La Repubblica", 16/6)

A Goteborg il morto c'è scappato, o forse no, non si è capito ancora. In ogni caso c'è stato un poliziotto che ha sparato per uccidere – perché non si spara un proiettile di piombo alle spalle per motivi di ordine pubblico.
In tv sono passati in rotazione i filmati dei 'neri' che spaccavano le vetrine: quanti siano i 'neri' nessuno può dirlo, ma senz'altro sono numerosissime le telecamere che li filmavano.
Per altro tra i due episodi (il vandalismo dei 'neri' e la sparatoria della polizia) non sono collegati fra loro, come forse il telespettatore è portato a pensare. Sono cose successe in momenti diversi e in luoghi diversi. Le pallottole se le sono beccate dei giovani a un concerto: nessuno ha sparato contro i 'neri' del black block (che in seguito li ha sconfessati).
(Viene il sospetto che la cosa più prudente da fare in una manifestazione del genere sia… rompere le vetrine! Nessuno ti disturba, se sei fortunato ti inquadrano anche in tv. Viceversa, a star buoni e a voltare le spalle quando ti caricano rischi di beccarti una pallottola).

Questo è successo a Goteborg, Svezia. La polizia svedese si prenderà le sue responsabilità.
Quanto alla polizia italiana, le notizie di questi giorni sono inquietanti. Non accade tutti i giorni che una manifestazione di operai si concluda con dei contusi, com'è successo a Genova la settimana scorsa. Anche il caso di Buffon (pestato a un controllo della polizia senza un preciso motivo) è un pessimo segno. Si tratterà anche di teste calde isolate: ma i fatti di Napoli (Global Forum) ci hanno dimostrato che anche le teste calde della polizia si danno ritrovo a questo tipo di vertici.

Tanto peggio, perché a Genova bisogna andarci.
Ci sono mille buoni motivi, e cento buone organizzazioni, per manifestare contro il vertice del G8. Per quanto mi riguarda – e per quanto possa interessare – resto scettico sulla pratica dello 'sconfinamento' nella zona rossa, che all'atto pratico si traduce nell'andare a cercarsi le manganellate là dove c'è chi è ansioso di darle. Ma appunto, questa è la mia posizione, e conta veramente poco quando a Genova sono attese decine di migliaia di persone da decine di Paesi. È chiaro che non tutti hanno intenzioni pacifiche, e allora? Bisogna lasciare loro la piazza? Nominarli nostri rappresentanti al vertice anti-G8? No, bisogna andare là ed essere più di loro. Veramente molti di più.

Personalmente non amo andare in battaglia, a meno che la supremazia non sia schiacciante e la vittoria sicura. Questo è appunto il caso. Sul piano mediatico la vittoria è già stata ottenuta, senza colpo ferire. Da una parte il Genoa Social Forum, con la sua Dichiarazione di Pace si è presentato come interlocutore credibile, e da settimane ha chiesto al governo garanzie per i cittadini e i dimostranti. Dall'altra il governo è inciampato in una serie di cattive figure (per esempio scaricare la responsabilità sul governo Amato, quando gli stessi parlamentari della CdL votarono per ospitare il G8 a Genova), ma intanto ha accusato il colpo. Berlusconi sul protocollo di Kyoto ha già fatto marcia indietro, e rilascia dichiarazioni sorprendenti, come quella qui sopra. E vediamo individui insospettabili come Casini o Ruggiero cercare il dialogo, neanche loro sanno bene con chi.
Questo non significa che a Genova non si correranno rischi. Ci saranno manganelli, pistole, idranti. Ci saranno tentativi di strumentalizzazione da una parte e dall'altra. Ci sarà Bertinotti. E allora? Sono rischi che vale la pena di correre. Credo.

Il sito delle Tute Bianche. Non si può condividere tutto, nella vita (il referendum, ad esempio): ma i Wu Ming stanno diventando i più grandi agit-prop della storia. Vederli all'opera è uno spettacolo avvincente (non mancate il progetto Garibaldi).
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Aspettando il G8
Quando si vota si è costretti a fare scelte nette, e ad assumersene le responsabilità. Questo mi piace, questo no, questo può ancora andare, questo proprio no. Non è così semplice: di solito ci piace conservare opinioni più sfumate.
Io sono contento di non dover votare tutti i giorni, ed evito come la peste i sondaggini ormai imperanti sul web. Vedi la Repubblica di oggi: con un click puoi votare il segretario dei DS, curare i pedofili con non meglio precisati "farmaci", e rispondere all'interessante quesito: "Bastano le vittorie di Cipollini per risollevare un Giro noioso?"
Con questo tipo di sondaggi 'chiusi' (qualcuno ha già scelto le opzioni per te) è più facile farsi un'idea delle opinioni di chi pone i quesiti, piuttosto di quelle di chi sceglie di rispondere. Una caricatura piuttosto ridicola della democrazia.
È stata una triste sorpresa, perciò, trovare un simile sondaggio sul sito delle Tute bianche che si organizzano per il G8 di Genova. Ecco qui:

Siamo tornati dal Messico con la determinazione di seguire l'insegnamento zapatista del "Camminare domandando".
Bene, ci chiediamo adesso cosa dovremo fare a Genova nei giorni del G8. Piuttosto che risponderci da soli preferiamo rivolgere la domanda ai compagni di viaggio che abbiamo incontrato e che ancora dobbiamo incontrare.
Così il 26 maggio 2001 al Palazzo Ducale di Genova apriremo con 3 domande le nostre consultazioni:

1-E' giusto praticare la disobbedienza civile?
2-E' giusto esprimerla con l'invasione dei nostri corpi nelle zone off-limits?
3-E' giusto pensare a forme di autodifesa se la polizia cercherà di massacrarci e violerà palesemente i diritti umani?


Se i quesiti sono posti in questo modo, come si fa rispondere "no"? Certo che è giusto praticare la disobbedienza civile. Certo che la si può esprimere invadendo zone ingiustamente chiuse al pubblico. Certo che se i celerini si fanno avanti coi manganelli, bisogna difendersi. Dovrei quindi votare "sì". E avvallare un'altra guerriglia urbana.
È una responsabilità che non mi prendo. Odio questo tipo di sondaggi chiusi che ti mettono davanti il fatto compiuto. E rispondo così.

1: È giusto mandare a puttane un'opportunità di protesta e disobbedienza civile per giocare a fare i guerriglieri a Genova, Italia?
2: È utile cercare di oltrepassare una barriera soltanto perché è stata messa lì a bella posta?
3: È intelligente andare a cercare i manganelli proprio lì dove vi aspettano?

Genova, come il Global Forum a Napoli due mesi fa, è uno spettacolo annunciato. La polizia già si lecca i baffi. Il ministro in pectore degli interni della Casa delle Libertà (chiunque sia) non vede l'ora di far sentire che la musica è cambiata. È stato visto Fede dire "Gliela facciamo vedere noi…". Le tute bianche almeno sappiano che vanno a Genova a dar spettacolo per Fede.
Chi invece è molto critico nei confronti di tutto ciò che il G8 rappresenta, ma preferirebbe partecipare a una protesta civile, non solo correrà il rischio di trovarsi in mezzo a una battaglia che non vuole, ma dovrà anche patire la marginalizzazione da parte di stampa e tv.
Tanto per loro sono solo i soliti "giovanideicentrisociali"...
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