Catone in segreteria

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Caro futuro Segretario del PD,

che tu sia verde o rosso, bianco o nero, Diesse o Margherita, maschio o femmina, o altro, c'è un solo consiglio che mi sento di darti.
Qualsiasi saranno le cause su cui ti spenderai (ecco, magari non spenderti più di tanto contro i rincari a Sky), qualsiasi saranno le parole che sceglierai di usare, io ti propongo semplicemente di terminare con un ritornello semplice e riconoscibile. Come Marco Porcio Catone, te lo ricordi quando al ginnasio si tirava fuori Marco Porcio Catone? le matte risate.

Va bene, caro futuro Segretario del PD, che tu abbia fatto il ginnasio o no; Marco Porcio Catone era quel vecchio senatore Romano col pallino di Cartagine. Che era già stata sconfitta non in una, ma in ben due Guerre Puniche; umiliata e sottomessa. Ma questo non era abbastanza per Marco Porcio Catone. Lui sapeva che per quanto la si potesse umiliare e sottomettere, Cartagine era lì, al centro del Mediterraneo, in una posizione strategica per il traffico marittimo. E quindi sarebbe tornata grande prima o poi. Sicché c'era soltanto una cosa da fare se si aveva a cuore il futuro di Roma: distruggere Cartagine.
I colleghi senatori lo prendevano per matto e rimbambito; e in effetti lo era; ma lui non demordeva e di qualsiasi cosa parlasse in aula terminava sempre con lo stesso ritornello: bisogna distruggere Cartagine. Sul serio, peccato non avere i resoconti stenografici:

FLACCO: “Chiedo al Senatore di avviarsi alla conclusione, grazie”.
CATONE: “Certo. E quindi, senatori, terminando il mio intervento sull'esigenza di migliorare la viabilità sulla Via Salaria, vi rammento che occorre distruggere Cartagine”.

Se poi non ti ricordi come andò a finire, caro futuro Segretario del PD, non c'è problema, te lo rammento io: dai e dai, alla fine il vecchio Catone li convinse. Trovarono un pretesto, fecero una terza guerra punica, distrussero Cartagine e sulle rovine sparsero il sale. Potenza dei ritornelli.

E quindi, caro futuro Segretario: quando t'inquadreranno e ti chiederanno di dire la tua sugli stupri, la criminalità, la crisi dei consumi, degli impieghi, dei parcheggi, la mafia, la camorra, i rifiuti, i malati terminali, gli atei, i gay, Sanremo, la commissione vigilanza, gli stupri... tu di' quello che devi dire, Futuro Segretario, e non aver paura di essere franco e sincero. Però cerca di mantenere l'attenzione fino alla fine, e alla fine piazza una frase che sarà sempre la stessa, la tua Delenda Carthago, e potrebbe suonare così: chi ha corrotto David Mills?

Per farti degli esempi:
“Segretario del PD, La Russa propone la castrazione chimica per gli stupratori, lei cosa ne pensa?”
“Per castrazione chimica s'intende una cura ormonale temporanea che di solito si scambia con uno sconto di pena, e che aumenta l'aggressività dei pazienti. Solo a La Russa potrebbe venire in mente di aumentare l'aggressività dei maniaci sessuali, magari facendoli uscire di galera un po' prima. Propongo una cura a base di sviluppina per il nostro Ministro della difesa, e nel frattempo mi domando: chi ha corrotto David Mills?”

“Segretario del PD, le è piaciuta la canzone di Povia?”
“Mah, la melodia mi sembra di averla già sentita... quanto al testo, è la storia di una persona che a un certo punto cambia il suo orientamento sessuale. Spero che in Italia si continui a garantire il diritto degli individui a interrogarsi sulla propria identità sessuale, e a cambiarla, e già che ci sono mi domando: chi ha corrotto David Mills?”

Rideranno di te? Lasciali ridere. Ma non dar loro respiro. Questa domanda dev'essere la prima cosa che si ricordano al mattino. L'ultima cosa che si ripetono alla sera. Deve echeggiare nei loro sogni: chi ha corrotto David Mills? Finché un giorno, in un attimo di debolezza, proveranno a risponderti. Ma tu sai, ma noi sappiamo, che nessuna risposta li renderà liberi.

“Segretario del PD, come andranno le Europee?”
“Forse perderemo. Nel qual caso per Bruxelles partiranno altri allegri aeroplani imbottiti di leghisti che non capiscono l'inglese che i loro figli imparano all'asilo. Se è un modo per liberarsi dagli incapaci, pazienza. Ehi, a proposito, who corrupted David Mills?”

Che tu sia come quella canzone che al primo ascolto sai, che non potrai liberartene senza fartela piacere.
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parla a voce bassa, spiega cosa vuoi

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il disco dell'estate (2001)
Centro Operativo di Genova ftg. Valeria Rossi: Se hai dato, dato dato (mp3).
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Vizi italiani (2): pappagalli

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Non scriverò tormentoni
Non scriverò tormentoni
Non scriverò tormentoni
– ops.

La ragazza automatica

Dopo tanto, il video originale di Frangetta non lo avevo ancora visto. È carino.
Per i non iniziati: il pezzo è stato diffuso su internet, mesi fa, col passaparola con i nuovi fenomenali mezzi di condivisione del web 2.0. L’intenzione degli autori viene subito intesa e apprezzata: si tratta di stigmatizzare le abitudini e i tic linguistici di un determinato tipo umano, la ragazza-con-frangetta che studia a Milano e passa lunghe serate appoggiata al muro dei locali, a togliere e mettere gli occhiali grossi. Il suo discorse è una semplice enumerazione di cose che si fanno e di persone che si incontrano; l’ironia è evidente, ma non viene mai esplicitata. Con voce d’automa la ragazza descrive un mondo di abitudini e passatempi che dovrebbero descrivere una personalità originale, e invece sono terribilmente omologati. Ottimo. Gran pezzo, tra i capolavori della misoginia contemporanea. Finché...


Scrivo-una-“Frangetta”
La-mando-a-Radio-DeeJay


...Finché non è piaciuto anche a Linus, di radio Dj, che lo ha trasformato in un tormentone del suo programma, ed è arrivato al punto di lanciare una simpatica iniziativa: “mandateci le vostre frangette. Come parlano le ragazze snob di Roma, Torino, Bologna, Catania, Castellamare di Stabia?”. Linus è simpatico, e quello che ha fatto è molto interessante, ancorché perverso. Da buon intrattenitore italiano, ha ragionato così: se una cosa è divertente, moltiplichiamola per cento e sarà divertente cento volte; non solo, ma occorre tener presente del localismo italiano, perché i romani non ridono come i milanesi o i fiorentini o i goriziani. Tutti si devono sentire protagonisti, tutti hanno una parlata divertente. E non va sottovalutato il risultato finale: un atlante d’Italia dei ritrovi delle ragazze snob.
Ne è nato un vero e proprio genere letterario, che se in realtà ha smesso subito di essere divertente, ha continuato a lungo ad essere interessante; vedasi per esempio questo intervento di Roberto Moroni che confrontando la versione originale con la copia romana, definisce i ritardi dell’ironia romanesca (ancorata al vernacolo) rispetto al cosmopolitismo milanese.

E allora che male c’è nella proliferazione di frangette? Beh, è un paradosso enorme. La canzoncina nasceva per irridere l’omologazione culturale di un gruppo di persone, e si è trasformata in un tormentone super-omologato, con tanto di bollino di radio dj e varianti regionali. Ora la ragazza automatica potrebbe concludere il pezzo così: Scrivo-una-frangetta. La-mando-a-radio-Dj.

Sarà che sono un ingenuo, che mi ostino a credere che la parola serva a cambiare le persone. Persino una canzoncina come questa, secondo me, avrebbe dovuto servire a smuovere la coscienza delle frangette. È la stessa folle idea che aveva Flaubert, mentre redigeva il dizionario dei luoghi comuni. Lui li enumerava tutti per consumarli, per impedire alla gente di usarli più. Ecco. Io credevo che la Frangetta originale servisse a far sì che le frangette smettessero di comprare Taschen come se fossero soprammobili. Ma in Italia non funziona così. In Italia le ragazze che ancora non si sentivano abbastanza frangette si sono messe ad ascoltare la canzone prendendo appunti sugli occhiali grossi e sui registi importanti da scaricare. Siamo un popolo di pappagalli. È sempre così.

Moretti-Ricci-De Beauvoir

Viene sempre in mente la stessa scena di Ecce Bombo: “Come campi?” “Faccio cose, vedo gente”. Il pubblico ride. Ma era una scena drammatica, di un film malinconico e moralista. La ragazza-automatica di quei tempi non portava la frangetta, viveva di espedienti e non aveva progetti per il futuro: Moretti la descriveva perché voleva consumarla, distruggere il modello, impedire che altre ragazze cominciassero a vivere così. E invece è stato ridotto a un tormentone, pure lui: ci siamo sorbiti trent’anni di ragazze divertenti che ti dicevano “faccio cose, vedo gente”, con la scusa dell’autoironia. L’autoironia. Ma essere autoironici a diciott’anni e un po’ come studiare sodo per diventare sfigati da grandi.

Poi mi viene in mente un altro italiano con la barba, Ricci. Lui secondo me ha cominciato con le migliori intenzioni. Voleva far ridere la gente sui fatti del giorno, non c’è missione migliore, anch’io ne sono convinto. Poi ha notato che la maggior parte del pubblico non rideva perché capiva le battute: rideva per simpatia, per imitare gli altri. La maggior parte in effetti non capiva nulla e rideva perché aveva paura che gli altri non se ne accorgessero. Al punto che rideva anche se lo sketch non era divertente, in effetti bastava una risata finta a farli scattare. Insomma, a un certo punto Ricci ha capito che gli italiani sono un popolo di pappagalli.

E ha tratto le sue conseguenze. Tormentoni facili da memorizzare e ripetere, e risate, risate finte ovunque. Se ogni tanto c’è anche una battuta, il comico te la spiega due volte. Se c’è una situazione buffa, te la ripete tre o quattro volte, perché è sicuro che la prima non ci arrivi. Se c’è una candid camera con un cane che salta per prendere un bastoncino e sbatte la testa contro un ramo, lui non si fida: qualcuno del pubblico potrebbe non capire che è divertente, meglio doppiare il cagnolino con una voce (dialettale, s’intende) che dice “Ahia che male”. Persino le tette devono essere molto evidenti, perché gli italiani fanno persino fatica ad arraparsi, e anche in quello si fidano molto del giudizio di chi hanno intorno. Persino il pupazzo è grosso, e di colore rosso acceso, perché i pappagalli reagiscono soprattutto ai colori.

Infine mi viene in mente qualcosa che non c’entrerebbe nulla con Ricci e Moretti; una vecchia prefazione a un romanzo della De Beauvoir che non ho in casa, e che diceva, se ricordo bene: state attenti. Voi questo romanzo lo leggete come una delle pietre miliari dell’esistenzialismo, e della questione femminile eccetera: ma al tempo serviva anche come manuale pratico sui locali da frequentare nel Quartiere Latino. Insomma, non c’è niente da fare. Ci sono persone – non necessariamente stupide – che leggono i libri, come noi. Che ascoltano la musica, come noi. Che vanno al cinema, magari con noi: ma tutto quello che ne tirano fuori è un campionario di vestiti da indossare, di locali da frequentare, di atteggiamenti da assumere. Esistono, queste persone. E molto spesso sono ragazze. Anche simpatiche. Ma un po' automatiche. Non so perché, ma accade, e me ne cruccio.
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Autoclip

La prima volta che vidi L'Odio (il film, intendo), ero con un mio amico, e a un certo punto mi resi conto che il mio amico credeva che si trattasse di un film storico, sul serio, una ricostruzione degli anni '70.

Non aveva tutti i torti, perché in fin dei conti è un film in bianco e nero, e il bianco e nero mette sempre della distanza tra noi e le immagini. E all'inizio, se ricordo bene, c'è un bel reggae su scene di barricate. Il reggae, le barricate, ci sembravano cose lontane. Il bianco e nero ci aiutava a tenerle lontane.

Io, parlando di Genova, vorrei sforzarmi di non patinare nulla, di non virare tutto in bianco e nero, di non mettere nessuna cornice: perché queste cose sono successe a noi, proprio a noi, che eravamo pigri e accaldati tre anni fa, proprio come stasera. Ed è vero che sembrava il Cile, ma sembrava anche, terribilmente, un qualsiasi pomeriggio afoso di luglio, e si poteva essere incerti se andare alle barricate o andare al mare. Ed è vero che c'erano barricate e striscioni e scritte ai muri, ma sugli stessi muri, ovunque, sorrideva indifferente Megan Gale, proprio come stasera. Ed è vero che si cantava Manu Chao e Bella Ciao, ma la canzone che più si sentiva dalle finestre rimaneva sempre...

C’e solo una cura
io so che lo sai

2. Italiano. Percosso con pugni in faccia e calci alla schiena prima di entrare in cella, e poi in cella con pugni alle costole

è una stanza vuota
io mi fiderei
veniva ancora percosso all'interno della cella a opera di agenti che stringevano più forte i laccetti ai polsi, lasciati ingiustificamente mentre si trovava all'interno della cella
Bravo, puoi capire
cose che non vuoi
5. gli afferravano le dita della mano sinistra e poi tirando violentemente le dita stesse in senso opposto in modo da divaricarle, riportava lesioni: ferita lacero contusa di 5 cm. tra  il terzo e quarto raggio della mano sinistra
sei il tuo guaritore
sei nel tuo mondo...
minacciato: "Se non stai zitto, ti diamo le altre" mentre gridava per il dolore in seguito alla mancata anestesia durante la sutura della lacerazione "da strappo" alla mano.
RIT. Dammi tre parole: sole, cuore e amore
dammi un bacio che non fa parlare
42- Minacciata col manganello contro la bocca ferita, con la cantilena "Manganello, manganello", e derisa per la paura dimostrata 
è l’amore che ti vuole
prendere o lasciare
stavolta non farlo scappare
81. Subiva minacce anche a sfondo sessuale da persone che stavano all'esterno: "Entro stasera vi scoperemo tutte".
Solo le istruzioni per muovere le mani
non siamo mai così vicini
aaah, ahhh
36. Costretta a rimanere, senza plausibile ragione, numerose ore in piedi, con il volto rivolto verso il muro della cella, con le braccia alzate oppure dietro la schiena
Parla a voce bassa
spiegami che vuoi
sai ne è pieno il mondo
di mali come I tuoi
Percossa ripetutamente con manganellate alla testa  e alle spalle, caduta a terra, percossa con calci alla schiena e al petto, presa per i capelli e sollevata, calciata in mezzo alle gambe, sbattuta contro un muro
slacciati la faccia
ha rabbia il gatto che
gioca con la buccia
e gira in tondo
manganellata ancora e presa a calci al petto e al ventre, successivamente trascinata per i capelli lungo alcune rampe di scale, colpita ancora da tutti i lati con manganelli 
RIT. Dammi tre parole: sole, cuore e amore
dammi un bacio che non fa parlare
Uno due tre viva Pinochet
è l’amore che ti vuole
prendere o lasciare
stavolta non farlo scappare
(trauma toracico addominale, fratture costali con pneumotorace a destra e contusione polmonare, trauma cranico, contusioni multiple, lesioni gravi per il conseguente indebolimento del 30% della funzione respiratoria e della locomozione del braccio e del collo)
Solo le istruzioni per muovere le mani
non siamo mai così vicini
aaah, ahhh
49. Costretto a marciare nel corridoio della caserma e ad alzare il braccio destro in segno di saluto nazista
Tra la terra e il cielo
e in mezzo ci sei te
Carlo Giuliani è stato ucciso da un sasso scagliato da un manifestante, che ha deviato una pallottola sparata in aria da un carabiniere su un defender in movimento 
a volte è solo un velo
un giorno, un fulmine
Carlo Giuliani, il mattino del 20 luglio, voleva andare al mare 
se hai dato, dato, dato
avuto, avuto, avrai
oggi è già piovuto
dove sei, dove sei, dove sei..
Sin da bambino ho guardato video musicali, e a volte, quando ascolto una canzone, gioco ad associare le immagini, è come se montassi un video dentro la mia testa.
RIT. Dammi tre parole: sole, cuore e amore
dammi un bacio che non fa parlare
è l’amore che ti vuole
prendere o lasciare
stavolta non farlo scappare
Solo le istruzioni per muovere le mani
non siamo mai così vicini
Il mio video personale di questa canzone finisce con le immagini di Carlo, che il 20 luglio alla fine decide di  andare al mare, si tuffa, nuota, e vive, vive e prende il sole insieme a noi
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L’anno prossimo a Ponte Alto
(2 – gli anni dell’Ulivo)

Prolisso, inconcludente, insomma saltate

Nel 1995 Gloria cominciò a dipingere i pannelli del ristorante tipico modenese, con quei trompe-l’oeil che erano la sua specialità. Ci chiese di aiutarla, più per la compagnia che per le nostre capacità.
A quel tempo noi due prendevamo molti treni assieme, perché la sua Accademia e la mia Facoltà erano nelle stessa città, anzi nello stesso spiazzo, e quindi l’accompagnavo fino all’ingresso, parlando dei vecchi tempi. Lei si era appena messa con Giorgio, e secondo me non poteva durare, ma non glielo dissi mai. Feci bene.
In quel periodo, del resto, ero pieno di amiche e confidenti, per le quali facevo cose ora difficilmente spiegabili, come quella volta che mi spinsi fino al Festival di Reggio a trovare la Simona che lavorava come cassiera (quella sera Capossela cantava Non è l’amore che va via), e magari dissi pure una frase del tipo “Passavo di qui per caso, vuoi uno strappo a tornare?” Anche lei era in una fase tormentata e una sera ci sbronzammo a brachetto.
Che fossero compagne di università, o ex compagne di liceo, oggettivamente io mi fermavo a salutare un sacco di ragazze carine, e, benché non battessi chiodo, intorno a me si stava creando un’aura leggendaria. Me la fece notare Giai una sera, mentre curiosavamo in uno stand. Giai aveva sentito parlare di una Banca Etica e voleva metterci dei soldi. Un signore con una grande barba bianca ci spiegò che la Banca non esisteva ancora, bisognava raccattare tot miliardi con una sottoscrizione. Giai sottoscrisse. Io non avevo un soldo.
Io studiavo, macinavo esami, e intanto scrivevo nel giornalino del Circolo, quello di Glauco e Ric. Ma quei due li vedevo sempre meno, si stavano preparando al progetto Erasmus. Come tutte le mie amiche carine, del resto: tutti non facevano che parlare di quando sarebbero partiti per l’erasmus, lasciandomi solo.

Invece l’anno dopo ero meno solo che mai. Era successo di tutto nel frattempo. L’Ulivo aveva vinto le elezioni, d’accordo. E il partito stava cambiando nome, ma questo non interessava veramente nessuno. La vera novità era la mia ragazza. Essa mi voleva bene. Essa veniva a trovarmi in gelateria. Essa amava me e le cose che scrivevo nel mio giornalino. Anche quando stroncavo questi scrittori giovani e minimalisti. Che pena, ‘sto minimalismo! Ma leggetevi Lauzier! (Lauzier l’avevo scoperto sugli scaffali del Festival, mi ero letto tutto il Ritratto di Artista senza pagare).
Devo dire, per puro amore di cronaca, che la mia ragazza non era la sola, che c’era un gruppetto di giovani che quel giornalino a mille lire lo comprava, e lo leggeva abbastanza volentieri. Non erano tante: alcune decine di persone che si conoscevano, quasi tutte per interposta persona e quasi nessuno per nome, e finivano per salutarsi a furia di vedersi sempre negli stessi posti, in particolare al Festival, nello Spazio Giovani. Tra questi c’era una banda di filosofi un po’ più giovani di me, come Johnny, che cantava hardcore melodico in un complesso, e Ivo, a cui una sera chiesi la differenza tra Jungle e Trip Hop (c’era molta differenza).
Il 1996 fu l’ultimo anno di Modena Nord, il Festival si trasferiva a Ponte Alto, quasi un’altra città. Io credevo che nulla sarebbe stato come prima.

Nel 1997 ero disperato. La mia ragazza mi aveva lasciato per un giovane scrittore minimalista. Non riuscivo a stare fermo, ero tarantolato. Andavo a Ponte Alto tutte le sere. Del resto da fare ce n’era.
Facevo volontariato nella piadineria della Pubblica Assistenza. Facevo volontariato nello stand del Commercio Equo e Solidale (dove avevo ritrovato il tale dalla barba bianca, Mario Cavani). Perfino nel bar del Florida, perché? Niente, qualcuno me l’aveva chiesto. Meglio stappar birre tra la salsa e il merengue che restare nel chiuso della mia stanza, con la tesi a mezzo, un virus nel pc e mille vermi nei pensieri.
“O, middai una bud?”
“Pronta la bud… la bad”.
Una sera, non so se sotto l’influsso del ritmo cubano o friggendo una salsiccia, ebbi nel mio piccolo l’equivalente della mela di Newton: i significanti visivi nelle tavole parolibere potevano essere distinti in fonogrammi, spaziogrammi e tassogrammi.
“Forse ci sono anche gli psicogrammi”, spiegai a Glauco che era lì vicino, “non so, ci devo pensare”.
“Gli psicodrammi?”
“No, niente a che vedere. PsicoGrammi, con la G”.
“Ma dove li hai trovati?”
“Da nessuna parte. Li sto inventando io”.
Funzionarono. Infine, a darmi pace, tornò dalla Calabria Giovanna che, con la scusa che non si trovava più a suo agio col fidanzato, l’undici settembre mi portò sopra l’argine del laghetto artificiale e ruzzolammo fino alle quattro del mattino, quando i custodi videro arrivare un ventiquattrenne con gli occhiali deformati e una scarpa sola.
“Scusate, non avreste una torcia elettrica? Perché ho perso una scarpa”.
Anche col loro aiuto la scarpa non si trovava, così tirai fino all’alba, pensando che Modena Nord, certo, era stata importante, ma anche Ponte Alto sarebbe andata benissimo.

Nel 1998 non avevo più voglia di fare volontariato, per una ragione banale: ero obiettore. Quello che fino a quel momento avevo fatto per amore, ora dovevo farlo per forza, e manco mi pagavano. Per giunta il Commercio Equo e Solidale batteva la fiacca. Tutti gli stand commerciali battevano la fiacca, intorno a noi c’era un gran brontolìo di esercenti. Io sedevo alla cassa e mi leggevo i libri in vendita, in particolare uno tedesco in cui si parlava di “società dei quattro quinti”: un quinto produce, gli altri quattro si passano il tempo come possono, vanno ai concerti, fanno volontariato, fondano riviste, complessi musicali, e intanto consumano. In un altro capitolo spiegava che il novanta e rotti per cento del commercio mondiale è pura speculazione, che per frenare questa speculazione basterebbero piccoli accorgimenti, come una minuscola imposta sulle transazioni di grande entità: un’idea che era già venuta a rispettabili economisti, come il professor Tobin.
In quel momento la radio stava diffondendo un pezzo ipnotico, un po’ curioso, con un chitarrista che sembrava assunto per suonare una sola nota in sordina, un doing! ogni quattro battute, e nient’altro. Era un pezzo del nuovo album di Manu Chao, spiegò il diggei, precisando subito: l’ex voce dei Mano Negra. Toh, pensai, chi non muore si risente.

Mama was king of the mambo
Papa was king of the jungle…


Alla piadineria della Pubblica Assistenza avevamo organizzato un incontro per presentare la nostra rivista, che si chiamava “Energie Nuove” in omaggio a Gobetti, aveva la copertina patinata in quadricromia ed era finanziata dalla Pubblica Assistenza, appunto. Purtroppo la stessa sera c’era la Melandri da una parte e Rigoberta Menchù da un’altra.
Giù allo Spazio Giovani scambiai due parole con un ragazzo francese, che lavorava al Comune. Mi spiegò che si trattava di un progetto chiamato Servizio Volontario Europeo. La parola “Volontario” ormai stava diventando onnicomprensiva, come qualche anno prima la parola “progetto”. Figuratevi un “progetto di volontariato europeo”: praticamente doveva includere tutto, il contrario di tutto e il contrario del contrario di tutto, e ci si poteva girare l’Europa…

Nei mesi successivi girai effettivamente un po’ di Europa, ma dovunque andassi, Manu Chao mi precedeva. Divenne un incubo. Tra l’altro io sono convinto che Clandestino sia un bel disco, ma, come dire, un po’ ripetitivo. E nel 1999 lo ascoltavano tutti: in Italia, in Francia, in Scozia, ovunque tornava di moda. La gente che non mi vedeva da mesi non vedeva l’ora di farmi sentire l’ultimissima novità:

King of the bongo
King of the bongo bong
Here me when I come


L’altra moda del 1999 erano i matrimoni. Si sposò Gloria, con Giorgio, e io tornai in Italia per fare il testimone; si sposò Simona, e come facevo a non tornare di nuovo. Al Festival ci andai un paio di sere, giusto per vedere gli Asiandubfoundation, e constatare che anche senza di me tutto sarebbe rimasto come prima.

Quando tornai nella mia cittadina in Francia, ci fu una specie di fiera, e io invitai fuori una mia collega danese.
C’erano due o tre stand, una lotteria, un tirassegno, l’autoscontro. C’era un concerto gratuito nel parco, e ai bordi del parco un sacco di gente poco rassicurante. Gli stessi ragazzi con cui avevamo a che fare di giorno, la sera ci mettevano soggezione.
Eppure lei era entusiasta. Diceva di non aver mai visto una festa di paese così, con tanta gente fuori, le famiglie, i bambini, e tutto all’aperto. Io facevo sì con la testa, anche se non ci trovavo niente di così straordinario. Poi capii qual era il problema.
Il problema è che sì, quella festa non era male, ma nella mia città, giù in Italia, sarebbe durata venti giorni, e tutti sarebbero potuti entrare, senza aver paura di nessuno. Infatti, in tanti anni non mi era mai capitato di vedere una rissa. Mai una. Ci feci caso, per la prima volta, a mille chilometri di distanza.

(Coraggio, continua)
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Le case han cento palpebre abbassate: / Sonnecchiano. Un vecchio giradischi / Gracchia ancora il successo dell'estate…

Il successo dell'estate

Non so esattamente cosa, ma qualcosa di male devo averlo fatto veramente, perché passerò di nuovo l'agosto a Modena, lavorando, senza air conditioning, la casa vuota, tre stereo ma nessuno che funzioni bene.

Mi rassegno ancora una volta a vivere in città il mese del silenzio: chiude la fonoteca, i dj della mia radio preferita vanno in vacanza, sostituiti da tristissime playlist.

(C'è qualcosa di così tetro nelle playlist estive… Le canzoni continuano a ruotarsi come niente fosse, ma sanno già di vecchio. Sono morte. Sono tutti morti lì in radio, la playlist è la marcia funebre, proseguirà per l'eternità coi suoi grandi successi a rotazione).

Insomma non resta che il ronzio del ventilatore, il brontolio dei piccioni, il silenzio. Non fosse che da un'imposta malchiusa, o dall'altoparlante in un parcheggio, sta sempre in agguato il terribile Successo dell'Estate. Probabilmente sapete cosa intendo…

Il Successo dell'Estate è quell'idiota combinazione di note e parole deliberatamente escogitata per entrare nella tua testa al primo ascolto e non lasciarla più. È un virus senza antidoto: non resta che soccombere e canticchiare. L'unico modo di scacciarlo è sostituirla con una combinazione ancor più idiota e penetrante.

Come ogni virus, il Successo ha origini misteriose. Ma chi scriva questa roba? Chi la canta? Non si sa. Personaggi misteriosi che appaiono dal nulla, si fanno un giro al festivalbar e in settembre ritornano dov'erano venuti. Ma chi se lo guarda il festivalbar, con questi caldi?

Il Successo dell'estate non è necessariamente un successo.
L'anno scorso l'hit "Vamos a Bailar / na na na na na na", ruppe le palle in tutti i supermercati per tre mesi buoni con risultati miseri. È il buon senso stesso a suggerire che se tutte le radio italiane programmano lo stesso Successo una volta ogni mezz'ora, dopo due giorni persino il più maniaco degli ascoltatori ha perso ogni velleità di acquistarlo. Che tanto poi i negozi sono chiusi.
Insomma, chi se la compra, questa roba? Gli stessi discografici, per piazzarsi nelle classifiche. Ma chi se le guarda, le classifiche in agosto? I discografici, probabilmente. Ma i peggiori: quelli che si sono comportati così male da dover restare tutto l'agosto in ufficio.

Si parla spesso di 'musica commerciale', come se bastasse produrre musica di bassa qualità per vendere bene. Invece no. Manu Chao vende più di Paola e Chiara, questo potrà anche risultare fastidioso, ma le cose stanno così.

Il Successo dell'estate è un fenomeno strano.
Per esempio, ci sono ritornelli celeberrimi di cui non sono mai riuscito a intendere la strofa. Sei solo al mondo in una striscia d'asfalto arsa dal sole, quand'ecco all'improvviso da una finestra senti sbucare un ritornello: Solo Tre Parole: Sole Cuore Amore (e non c'è più speranza: fossi anche il Maestro Muti, fino a sera la sentirai rimbalzarti in testa). Beh, ma ce l'ha una strofa quella canzone lì? C'è una storia dietro, un contenuto? O circola nell'etere soltanto in forma di ritornello scemo?

Il Successo dell'Estate forse è un segno dei tempi, ma dubito.
L'anno scorso si sentiva nell'aria che qualcosa non andava. Nel silenzio della città udivi come un lamento soffuso e subliminale, una desolata querela: "È un Mondo Difficile". Perché? Non si sapeva, non si capiva.
Quest'anno è tutto diverso, senti nell'aria una maggior concretezza, una sana spigliatezza, insomma un'esigenza di venire subito al sodo. E così tu sei lì, che contempli dalla finestra il tuo angolo di cielo in affitto, quando improvvisamente da un muro troppo sottile irrompe nella tua stanza un invito perentorio: "Ho Bisogno Di Te / Per Fare l'Amore!" Così, su due piedi? Senza neanche un movente? No, anzi, "Per Mettere Al Mondo Un Figlio Migliore". Ma va là, chi ci crede. Lei vuole fare l'amore perché Le garba, signorina. Che male c'è, basta dirlo.


(...come va?
sto cercando di rimettermi a scrivere cose divertenti
apprezzate almeno lo sforzo...)
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