PD e 5Stelle, separati alla nascita
12-09-2019, 16:375Stelle, avercela con D'Alema, Pd, TheVision, VeltroniPermalink
Ammesso che sia possibile, chissà se ne vale la pena. Pd e M5S potrebbero riallontanarsi tanto velocemente quanto si sono avvicinati. A farli convergere per un istante sarebbero mere considerazioni tattiche, in un tentativo più o meno disperato di resistere a un Salvini trionfante nei sondaggi. Ecco l’unica cosa che avrebbero in comune, gli elettori dem e grillini: il nemico. In politica è normale trovarsi a letto col nemico del proprio nemico, ma non significa che devi andarci d’accordo tutto il giorno. Non resta che stringere i denti e ricordare che Di Maio-Zingaretti è meno peggio di Di Maio-Salvini. Con queste premesse, è chiaro che l’alleanza potrà durare fino a un calo di Salvini nei sondaggi, o il nodo di qualche inchiesta su di lui non giunge al pettine. Dopodiché, o si troverà un altro nemico in comune, oppure addio. Potrebbe anche essere tutto qui.
Oppure democratici e cinquestelle potrebbero approfittare di questo strano flirt estivo per rimettersi in discussione. Per qualche anno si sono odiati e disprezzati, come se fosse la cosa più naturale del mondo. Ma quando è cominciato tutto questo, e chi l'ha deciso?
Quella tra elettori del M5S e del Pd non è la tipica contrapposizione ideologica che separa – per fare un esempio – fascisti e comunisti. Non è nemmeno una nuova forma di lotta di classe: i bacini sociali dei due elettorati sono contigui, forse sono gli stessi. Anche l’interpretazione che va per la maggiore (Pd elitista contro M5S populista) convince fino a un certo punto: il Pd ha molto spesso assorbito spinte populiste (specie nella fase rottamatrice della segreteria Renzi), mentre il M5S sembra essere il partito più votato dai laureati. Fingiamo di essere appena arrivati in Italia da un altro pianeta: di fronte a due partiti che si odiano e si spartiscono gli stessi serbatoi elettorali, non potremmo che concludere che si tratta del risultato di una scissione. Non abbiamo mai pensato di analizzarla da questo punto di vista, ma forse potremmo.


Oggi forse si è chiarito il perché: quel favoloso centro in realtà non esisteva, non era una piana sconfinata ma uno spazio residuale. Tutt'altro che moderati erano gli elettori del sedicente centrodestra: tutt'altro che moderati i toni con cui Berlusconi li aveva attirati e sedotti, raccontando di un pericolo rosso incarnato persino nelle forme rassicuranti e democristiane di Romano Prodi. Berlusconi non sarebbe stato sconfitto dalla moderazione: se solo qualcuno l'avesse capito prima del 2008. Beh, in realtà qualcuno l'aveva capito.
No, in realtà lo avevano capito in molti. Marco Travaglio, per esempio, che sull'antiberlusconismo aveva già costruito una carriera e che di lì a poco ne avrebbe fondato l'organo di stampa. Antonio Di Pietro, che stava portando il suo piccolo partito giustizialista a conduzione famigliare a sfiorare il 5%. Gian Antonio Stella e Sergio Rizzo, i due giornalisti del Corriere autori del caso editoriale del 2007, La Casta, in cui la classe politica italiana veniva accusata di una voracità insaziabile. E Beppe Grillo, che nel settembre di quell'anno celebrò a Bologna il suo primo V Day, un fluviale comizio a pagamento. Il pretesto era una raccolta firme per una legge di iniziativa popolare che conteneva già in nuce uno dei cardini del futuro movimento 5 Stelle: il tetto massimo di due legislature per i parlamentari.
Alla fine dell'estate 2007 insomma la situazione era chiara a chiunque la volesse capire: gli elettori non stavano cercando contenuti moderali, anzi. Da tredici anni Berlusconi catalizzava l'opinione pubblica, polarizzandola tra due schiere di fan e haters. Se tra i fan cominciava a serpeggiare la delusione per un nuovo miracolo italiano mai realizzato, la rabbia accumulata degli haters ormai tracimava verso nuovi obiettivi: non più soltanto Berlusconi, ma anche tutti i politici che non erano riusciti a batterlo, anzi non ci avevano nemmeno provato: e in effetti né D'Alema né Prodi erano riusciti a far approvare una legge sul conflitto d'interessi; quanto a Veltroni, stava promettendo che Berlusconi non lo avrebbe nemmeno nominato.
La scissione avvenne in quel momento, anche se non ce ne accorgemmo subito e forse non ce ne siamo ancora accorti. Eppure sapevamo che la folla accorsa a Bologna per firmare le proposte di legge di Grillo era formata in gran parte da elettori di centrosinistra. Elettori sempre meno interessati ai discorsi moderati di un Veltroni alla vana ricerca di un Centro che alla fine coincideva con sé stesso. Nel 2008 prese comunque 15 milioni di voti (alla Camera), un dato mai più raggiunto dal PD ma inferiore di 4 milioni al risultato dell'Unione di Prodi due anni prima: anche stavolta la conquista del Centro era rimandata. A quel punto si dimise, ci furono nuove primarie e Beppe Grillo chiese di partecipare. Era soltanto una provocazione: stava già iniziando ad approvare liste locali con le cinque stelle nel simbolo.
In quell'occasione Piero Fassino pronunciò la famigerata frase che gli sopravvivrà: "Il Pd non è un taxi su cui chiunque può salire. Se Grillo vuole fare politica fondi un partito. Metta in piedi un'organizzazione, si presenti alle elezioni e vediamo quanti voti prende". Nel 2013 ne avrebbe presi più di otto milioni, superando di misura il PD di Pierluigi Bersani. Il partito che era nato per conquistare il centro moderato lo aveva completamente perso, e oggi sappiamo perché: sappiamo che non era affatto moderato. Sappiamo che sotto la cenere covava un risentimento che abbiamo chiamato prima antipolitica e dopo populismo, e che Grillo ha cavalcato un po' per buona fede un po' per calcolo, finendone quasi travolto. Sappiamo che è un magma in cui si trovano ormai fuse assieme istanze che una volta erano di pura sinistra (l'ecologismo, la questione morale) e veleni di estrema destra. Con questo magma, il PD ora dovrebbe tentare di costruire un'alternativa al sovranismo eterodiretto di Salvini e camerati. Forse è impossibile, probabilmente è troppo tardi, purtroppo non ci sono alternative.
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