Vasco Rossi, Andrea Pazienza, un piccolo mistero

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Vergine di servo encomio, e inverecondo eccetera, io in questi giorni ho preferito pregare che tutto finisse bene; e senz'altro mi perdonerete se non sono passato di qui a scrivere che come un po' tutti Vasco l'ho odiato e poi amato e poi odiato e da un certo punto in poi era semplicemente parte del paesaggio.

Potrei anche aggiungere che questo concerto - con tutte le sue assurdità logistiche, traslochi di ospedali, caselli bloccati, vigili in trasferta da tutta la regione - è stato per me perfettamente coerente con quello che Vasco è stato sin dall'inizio: un personaggio un po' fuori, non cattivo no, ma vagamente molesto, imposto di prepotenza dai fratelli maggiori. È così oggi, era così trent'anni fa. Io non ho, in realtà, fratelli maggiori, ma i miei amici sì, ed erano quelli che sul pulmino ci imponevano Vasco nei rari momenti in cui avremmo voluto e potuto condividere qualcosa di culturalmente più rilevante, oh, niente di trascendentale, i Simple Minds o i Cure, ma no: bisognava ascoltare Vasco, perché c'erano le parolacce che facevano ridere, il negro e la troia e la nostra cultura doveva essere quella lì. (Il punto è che dieci anni dopo ci erano riusciti, eravamo intorno a un fuoco e cantavamo il negro e la troia e ridevamo, di Vasco e di noi).

La BBC era la radio di Red Ronnie, credo.
Magari nel frattempo avevamo messo su dei gruppi, cominciavamo a fare musica nostra - ma prima o poi ti toccava suonare Vasco. Perché funzionava, era davvero parte del paesaggio, veramente facile da eseguire e di presa sicurissima, insomma, dopo un po' ci si arrendeva a quella pronuncia strascicata che sui treni deliziava coetanee calabresi e pugliesi (siete di Modena? Ma vicino a Zocca?) Il fenomeno più inquietante però era una specie di rinvaschimento, una cosa delle cose più orribili a cui mi sia capitato di assistere: vedere una persona amica, in seguito a un trauma sentimentale o professionale, smettere di ascoltare, chessò, i Depeche Mode e i Joy Division, cambiare guardaroba e tornare a Vasco (il modo poi in cui Vasco è riuscito a passare da emblema del fattone drughè a cantore della medissima borghesia artigiana meriterebbe uno studio a parte: come un certo tipo di immaginario a un certo punto sia slittato dalla bohème alla birreria).

A tutti.
Di tutto questo probabilmente ho già parlato - colgo invece l'occasione per mettervi a parte di un enigma che mi ha tormentato per anni, e della sua banalissima soluzione. Tra le cose molto più culturalmente rilevanti che gli anni Ottanta emiliani hanno contribuito a produrre, c'era Andrea Pazienza. Ovviamente ai tempi di Colpa d'Alfredo non lo sapevamo - avrebbe dovuto morire perché io me ne accorgessi almeno un po'. Poi ci furono anni di immersione integrale - in un materiale che assomigliava stranamente ai miei ricordi pre-puberali: siringhe dappertutto, scoppiati misteriosi, un senso di crudeltà incombente che nei primi anni Novanta non sentivo più. Ne riaffiorai esausto, con la sensazione di aver ritrovato un tempo perduto e un curioso interrogativo: com'è che Pazienza non ha mai parlato di Vasco Rossi? Neanche in una vignetta - e se qualche fanatico qui ha presente la Prolisseide, sa che Pazienza una vignetta l'ha elargita a tutti. A Vasco no.

Da un punto di vista biografico, i due si dovevano essere incrociati per forza: non è poi così grande Bologna. Rossi (che in un primo momento avrebbe voluto iscriversi al Dams, poi optò per Economia e Commercio) la molla nel '75 perché a Modena i subaffitti costano meno, Pazienza era arrivato da un anno. Da un punto di vista antropologico, per quanto entrambi fuoricorso cronici, erano di due tribù diverse: Vasco è un provinciale di collina, radicato nel territorio; non diventerà nessuno finché non riscoprirà la sua gente, irrorandola con la radiolina locale. Pazienza è un fuorisede, sradicato e apparentemente più cosmopolita: e poi soprattutto non aveva fratelli maggiori che gli imponessero Siamo solo noi mentre lui voleva ascoltare The Torture Never Stops. E però, insomma, parliamo più o meno della stessa città, più o meno degli stessi anni, più o meno delle stesse droghe - possibile che non si siano incontrati mai? Neanche quando erano diventati famosi e Pazienza si era messo a disegnare copertine di 33 giri per Vecchioni, per la PFM, per Caputo, per tutti? O c'era qualcosa dietro, una rimozione? Quale orribile sgarbo avrebbe dovuto commettere VR ad AP, perché lui lo condannasse alla damnatio memoriae? E quale morale dovevamo trarre da una storia che aveva fatto sopravivere VR e morire giovane AP, gradito agli Dei ma sostanzialmente sconosciuto dai duecentomila spettatori di ieri sera?

A un certo punto mi ero anche affezionato all'enigma, una specie di versione emiliana di "perché Freud e Schnitzler, vivendo a Vienna, non andavano a bersi birre insieme?" Mi faceva in un certo senso comodo, per come chiudeva due immaginari potenzialmente sovrapponibili in due compartimenti stagni: '77 bolognese e anni Ottanta in provincia, nessuna comunicazione. Alla fine si trattava di due universi paralleli: in quello di Vasco, Pazienza non aveva mai disegnato Pentothal; in quello di Pazienza, Vasco è uno sballato che mastica nel buio in un angolo di vignetta e poi scompare. Le cose non potevano che stare così, finché qualche anno fa non incappo in un video che aveva tirato fuori Red Ronnie.

Avrei dovuto immaginarlo che l'anello mancante era Red Ronnie. A proposito di rimozioni: si vorrebbe sempre farne a meno di RR, mentre è figura centrale come poche: anche lui come Vasco dj radiofonico improvvisato, ma a Bologna; tutti gli anni che noi abbiamo avuto a disposizione per sottovalutarlo, Pazienza non li ha vissuti. Lui quando disegnava a Bologna ascoltava la diretta di Red Ronnie, e quando da Bologna se ne dovette andare, Red Ronnie andò a trovarlo e lo intervistò, nell'84. Secondo RR, Pazienza aveva proprio in quel giorno appreso che la sua ex compagna stava col migliore amico. Non è che dobbiamo crederci per forza. Sicuramente era molto scosso da una vicenda sentimentale. Quando RR se ne accorge, decide di infilare il dito nella piaga, ottenendo un risultato che per anni decise di non divulgare - forse un soprassalto di pudore, o forse troppo forte lo choc della scoperta: il fumettista cinico che aveva appena pubblicato le storie più crudeli di Zanardi, era un tenero ragazzo che si struggeva perché una ragazza lo aveva lasciato. Sosteneva di avere 28 anni, ne dimostrava meno. A un certo punto - e sembra un modo di cambiare argomento, ma non lo è - Red Ronnie gli domanda di Vasco Rossi e Andrea Pazienza (che nei suoi fumetti citava Zappa, i Sex Pistols, i Residents), risponde che gli piace; con un'intuizione folle, Red Ronnie gli chiede di intonare Albachiara di Vasco Rossi: e Andrea Pazienza, disperato, vergognandosi molto, lo fa.

E all'improvviso tutto è chiaro. Un caso, fin banale, di rinvaschimento. Andrea Pazienza non ha mai parlato di Vasco Rossi perché, probabilmente, gli piaceva davvero: e di questo piacere si vergognava. Per quanti motivi avesse, come noi per non sopportarlo, di fronte a un'Albachiara e a un cuore spezzato tutti i motivi del mondo sparivano. Respiri piano per non far rumore, ti addormenti di sera e ti risvegli col sole. Sei chiara come un'alba, sei fresca come l'aria. Diventi rossa se qualcuno ti guarda e sei fantastica a... 28 anni. Ci ho 28 anni. Non ne avrebbe compiuti 33. Forse gli sarebbe piaciuto rinvaschirsi, trasformare il suo materiale ancora tanto infiammabile in qualcosa di più commerciale, più popolare; gli sarebbe piaciuto invecchiare e diventare un monumento come quello che abbiamo ammirato in tv. Forse: ma qualcosa è andato storto; e non me ne faccio una ragione.
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Maestri di vita (11) - Andrea Pazienza

Gli italiani, lo sapete, si dividono in 57 milioni d’individui.
Ma fingiamo qui per comodità che si dividano soltanto in due categorie: (1) quelli che conoscono Andrea Pazienza, lo considerano un genio e credono che i suoi fumetti saranno una delle poche cose che resteranno degli anni Ottanta se non del Novecento, e (2) quelli che manco sanno chi è.
Ora, è a questi ultimi (la maggioranza, tralaltro) che io vorrei parlare adesso, pregando semmai i primi di ripassare un’altra volta. No, perché francamente di pezzi che spieghino quant’era bravo Andrea Pazienza a chi ama Pazienza, il mondo non ha più bisogno. Anzi.
Negli ultimi dieci anni è nato un vero e proprio genere letterario, la lode sperticata al genio e all’opera di Andrea Pazienza, molto praticata soprattutto nelle introduzioni. E va bene. Il fatto è che a 16 (16!) anni dalla morte sembra ancora impossibile riuscire a ‘criticare’ quello che ha fatto. Siamo ancora nella fase “o lo ami o lo odi”. Ma io non ho mai conosciuto nessuno in grado di odiare Pazienza. E allora le cose stanno proprio così: o lo ami o non lo conosci.

È per questo che mi volevo rivolgere a chi non lo conosce (non vergognatevi, c’è di peggio, per esempio io non ho mai letto prùst), e fare un po’ di pubblicità: in edicola, fino a venerdì, c’è un volume dei classici del fumetto di repubblica con alcune storie sue, un po’ a colori e un po’ no. Costa euro 4 e 90 più il quotidiano, ma forse, se non vi piace repubblica e conoscete il giornalaio, riuscite a procurarvelo sfuso. In ogni caso il rapporto qualità-prezzo non è mai stato così buono, per delle tavole di Pazienza. Alcune sono state un po’ rimpicciolite, ma ne vale ancora la pena: procuratevelo. Io, che conosco i fumetti di Pazienza (e quindi lo amo), ci terrei.
Sul serio, m’interessa il vostro parere. Vorrei che lo sfogliaste, che vi sforzaste di mettere a fuoco i disegni e le storie, anche se non è sempre facile. E poi che mi faceste sapere se piace anche voi o se no, non vi piace per niente, e perché. Credo che sia ora di fare uscire Pazienza dalla nicchia dei suoi estimatori, e di discuterne come si discute di un classico vero: parlandone anche male, se è il caso. Criticandolo.

Le prime 140 pagine contengono una cosa che si chiama “Le straordinarie avventure di Pentothal”, e che è molto difficile definire. Grosso modo è l’autobiografia in diretta dello studente Andrea Pazienza (si chiama proprio così), che si ritrova al DAMS di Bologna nel 1977. La prima puntata è del febbraio di quell’anno, e racconta di un’occupazione universitaria che sembra già essere naufragata tra pastoie assembleari e scontri con la polizia. Il 21enne Pazienza registra tutto e trasfigura tutto con un occhio impietoso. Impietoso soprattutto verso sé stesso: il 21enne Pazienza, prigioniero dei suoi sogni e del più banale dei problemi personali: la ragazza lo ha lasciato, è colpa sua.
Scrivere autobiografie in diretta comporta però un grave difetto: che le cose accadono in continuazione. Pochi giorni dopo aver spedito le tavole a Linus, la polizia uccide uno studente, Francesco Lorusso, e la rivolta che sembrava partita così male diventa il leggendario “77 bolognese”. Detto anche “dei carri armati”, perché il già stravagante Ministro degli Interni d’allora, Francesco Cossiga penserà di reprimerlo proprio coi carri armati. A questo punto Pazienza si precipita nella redazione di Linus con una tavola nuova, da sostituire all’ultima, per rimpiazzare un “allora è una fine” con “era invece un inizio. Evviva!” Ma in realtà la tavola è tutt’altro che gioiosa. Si vede un carro armato, appunto, lo striscione in cui “Francesco è vivo” e, naturalmente, “lotta insieme a noi”, e un Pazienza disperato che ascolta Radio Alice e conclude: “tagliato fuori… sono completamente tagliato fuori”. Autocritica un po’ ingiusta, perché in quei giorni Pazienza partecipò attivamente alle manifestazioni: ma questo è Pentothal: un delirio spietato in primo luogo con sé stesso. Poche pagine più in là comincerà ad autodenunciarsi: “Questo Andrea Pazienza è sinonimo di una strategia nuova. Lo muoveremo tra le file del nemico… ben programmato egli diffonderà presto quelle che sono le caratteristiche psichiche elette a fondamento del nostro ordine democratico: pigrizia, egoismo, paura, ignoranza, situazionismo, arrivismo, falsità, pressappochismo, prevedibilità, nevrosi”. La tenera faccia baffuta, che abbiamo imparato a riconoscere nelle prime tavole, si deforma, si distorce, invecchia, per poi ringiovanire all’improvviso: a un certo punto Andrea si fa catapultare nella savana per farsi picchiare a morte da uno scimpanzé. Nel frattempo passano le puntate (ma è difficile capire quando è come, perché da anni sono state raccolte in un volume solo senza nessuna spiegazione), e con le puntate i mesi del ’78, del ’79, dell’’80, dell’81. Ma il brio delle prime tavole (le prime pubblicate su una rivista) non tornerà più. L’“inizio” non era l’inizio, la quotidianità dello studente fuorisede Pazienza si fa sempre più sconfortante: tra i deliri, le file in mensa, le telefonate ai genitori, si fa strada l’altro leitmotiv di Pentothal: l’eroina. A un certo punto da una vignetta spunta un fumetto senza padrone, una specie di voce dal coro che fa: “uff. abbiamo capito che ti fai. Droga, droga, non pensi ad altro”. Pazienza, in realtà, continua a pensare e a mostrarci anche molte altre cose. Ma pochi sono riusciti a spiegare il fascino della droga, o meglio, della dipendenza, come ha fatto lui nelle ultime pagine più intense di Pentothal, quelle tra pag. 133 e 138.

A pagina 134 fa capolino una faccia che non c’entra niente: è un personaggio di altre storie, a cui Pazienza stava lavorando in quegli anni. In partenza anche lui era una caricatura di sé stesso: una copia più giovane e ghignante, col naso e il mento enormi a disegnare in profilo una grande Z. Si chiama Zanardi, come una strada di Bologna, e anche lui vive a Bologna, ma è più giovane. Mentre Pazienza ha ormai finito il DAMS ed è un fumettista e illustratore noto e onnipresente (quasi tutti i cantanti italiani del periodo hanno almeno un LP disegnato da lui), Zanardi è ancora al Liceo, che frequenta con scarso impegno. Mentre “Andrea Pazienza” è un personaggio discutibile, che non ne combina una buona, suscettibile di qualunque ironia e caricatura, Zanardi è un personaggio scolpito nella roccia a colpi netti, come è netto il suo profilo: capisce al volo qualsiasi situazione e sa rivolgerla in suo favore, e del suo mondo interiore non riusciamo a capire niente. E mentre “Andrea Pazienza”, malgrado tutte le sue autodenunce, era un bonaccione incapace di far male a una mosca, Zanardi è il Male personificato. Io vi consiglierei di partire da “Verde matematico” che comincia senza dir nulla a pag. 146, ed è un capolavoro. Nelle prime pagine fate la conoscenza di un altro personaggio memorabile: Petrilli, detto Pietra. Un altro nasone. È un compagno di classe di Zanardi, un suo “amico”, in realtà uno zimbello di cui Zanardi si prende gioco in continuazione. Per altro non è uno stupido, e se ne rende conto. Ma è un debole, e ha bisogno di Zanardi tanto quanto forse anche Zanardi ha bisogno di lui.
Anche Pazienza probabilmente non amava Petrilli, e per ben due volte gli fa fare delle morti orribili. Salvo poi resuscitarlo, perché evidentemente anche lui ne aveva bisogno. Quando leggiamo le storie di Zanardi, è facile mettersi al suo posto. Siamo in un mondo violento e spietato: un liceo bolognese dei primi anni 80. Di personaggi buoni non ce ne sono, e l’unico che sembri dare qualche appiglio è lui.
Credo che “Verde Matematico” dopo “Pentothal" debba fare uno strano effetto. Pentothal è un’improvvisazione totale, con tante tavole senza capo ne coda che han l’aria di essere state messe assieme giusto per far numero. Si può leggere tranquillamente saltellando qua e là, e forse è meglio. (Per farvi un esempio, pagina 114 e pag. 115 sono state pubblicate invertite vent’anni fa, e da allora nessuno sembra essersene accorto, visto che continuano a ristamparle così in tutte le edizioni). Al contrario, “Verde Matematico” è un’opera di alta ingegneria. Non c’è una vignetta che non serva a qualcosa: non c’è un solo tratto di penna che non sia funzionale al racconto. Anche il naso di Zanardi si allarga o si restringe in funzione della trama. E la trama, complicatissima, racconta di un giorno qualunque a Bologna in cui nessuno riuscirebbe a immaginarsi una storia, e invece, che storia. Ma anche solo il cielo nuvolo di Bologna, con gli aeroplani sullo sfondo, i muretti imbrattati, i motorini e i telefoni che suonano a ora di pranzo, danno a quel giorno un tale senso di realtà che ci sembra di esserci stati.
In quel giorno, Zanardi gioca d’azzardo con le vite di un paio di persone. Non gli va sempre bene, ma alla fine tutto si mette come voleva lui. C’è anche una festa pomeridiana nell’appartamento dell’“ing. Cinti”, quelle con la tapparella abbassata come nel coevo Tempo delle Mele: ma al posto della spuma c’è un “tirello” di coca pronto in cucina. I compagni di Zanardi vanno all’ospedale con l’epatite, si prostituiscono, si giocano le ragazze ai dadi, organizzano furti e ricettazione, e intanto a scuola devono sorbirsi le prediche dei prof che credono di avere qualcosa da insegnare. Non mi pare che ci sia stato niente di più cattivo di Zanardi, dopo Pazienza. Altri ci hanno provato, ma erano troppo autoindulgenti per riuscire a essere davvero cattivi. Pazienza – questa è la sua lezione – si era ucciso un milione di volte prima di cominciare a mordere gli altri.

Il finale del libro è un’altra sorpresa: Pazienza, sapete, era un grande fumettista, ma si guadagnava da vivere facendo la satira. Le vignette, sì, come Forattini. Le sue però facevano ridere.
Uno dei suoi personaggi preferiti era Pertini, a cui dedicò un volume intero. Ma anche quando lo ridicolizzava, Pazienza tradiva una gran simpatia per il presidente. Come tanti italiani, Pazienza aveva capito che il vecchietto arrivava direttamente da un altro mondo: la Resistenza. E la Resistenza era un altro sogno di Pazienza. Una delle sue storie più strambe e spietate si chiama proprio: “Il partigiano”. Comincia così: i sovietici invadono San Severo di Puglia e la ribattezzano Cafograd. Pazienza decide di fuggire nella foresta umbra e di cominciare la resistenza. Ma, tutto solo, si sente triste, e comincia a rollarsi una, due, tre canne… finché i sovietici non lo sgamano. E la storia continua così, sempre più deludente: il “partigiano” di Pazienza è soltanto un altro eterno studente incapace di combinare qualcosa che non sia, come dice alla fine “soltanto un’altra puttanata”. Non è più tempo per la Resistenza.
Quando però Pertini precipita sul Quirinale, Pazienza ha un’intuizione folle: trasforma il nanetto con la pipa nel protagonista di assurdi sketch sulla resistenza, con lo stesso Paz nel ruolo di spalla comica. Io non so se tutti li troveranno divertenti, ma alcuni non riesco a rileggerli senza scoppiare.
Il volume “Pertini”, però, non finiva qui. Repubblica ha tagliato una lunga tirata finale, in cui Pertini tornava bambino, e una creatura misteriosa lo prendeva per mano e gli mostrava gli orrori della prima repubblica. Alla fine la creatura spiegava al bambino di chi era la colpa, e puntava il dito fuori del foglio: la colpa è tutta sua, di uno dei tanti che vedono e lasciano fare. Non del lettore, no. La colpa era proprio di chi stava disegnando quella tavola in quel momento: la colpa era di Andrea Pazienza. Che infatti si precipitava a cancellare, inutilmente. Proprio come in quella vecchia puntata di Pentotahl: ancora una volta il colpevole di tutto era lui, con nome e cognome.

Pochi anni dopo, nel 1988, Andrea Pazienza è morto, credo che si possa dire di overdose: aveva trentadue anni. Fino a quel momento era stato una giovane promessa del fumetto, destinato a diventare un Grande, se solo si fosse impegnato di più e avesse rispettato le consegne e avesse scritto storie con un capo e una coda. Poi, una volta morto, la gente che lo conosceva cominciò a mettere insieme le cose che aveva dipinto (sin da giovanissimo), disegnato, scritto, illustrato: e ci si cominciò a rendere conto che Pazienza aveva lavorato come un matto, facendo mille cose, senza nessuno forse in grado di consigliargli veramente cosa continuare e cosa smettere. Nel frattempo, non aveva smesso di drogarsi e disperarsi quando una ragazza lo lasciava. Non aveva mai smesso, probabilmente, di odiarsi e autodistruggersi, com’era implicito sin dai tempi di Pentothal. Di solito ogni “lode sperticata di Andrea Pazienza” finisce con la contemplazione di quante belle cose avrebbe potuto fare e dire Pazienza se fosse ancora tra noi. Sperando che non si sarebbe rassegnato a disegnare culetti come Manara, o commercializzare i suoi incubi un tanto al chilo e un tanto al mese come Sclavi. C’è mancata, per tutto questo tempo, la lucida cattiveria di Zanardi: qualcuno in grado di spiegarci quanto siamo stronzi e di farcela pagare. Ma non era così facile, essere Zanardi, essere Pentothal, essere Pompeo, essere il Partigiano. Tanto che c’è riuscito solo lui. Ma non c’è riuscito a lungo.
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