la Storia si fa coi Se (e coi Ma)
16-10-2007, 10:01Americana, Bush, deliri, raccontiPermalinkIl mondo di Junior
HOUSTON – dal nostro inviato
Il premio Nobel 2007 accetta finalmente d’incontrarmi nello splendore neopalladiano della sua villa nel centro del Texas. La stanza in cui ci stringiamo le mani – ironia della sorte – è ovale. Quando glielo faccio notare, abbozza un sorriso di circostanza. Non ha capito il riferimento.
“Ovale, come l’ufficio del Presidente… sa, nella Casa Bianca”.
Ridacchia. Ha capito. “Ah, già… lo sa, ci penso così poco ultimamente. La vita è breve, e se dovessi alzarmi tutte le mattine pensando che stavo per diventare Presidente… E comunque ‘ste ville le fanno tutte uguali, ci ha fatto caso? Anche Washington è tutta così. È uno stile di architettura sudista, penso”.
Sto per interromperlo spiegandogli che il suo ‘stile sudista’ in realtà è neoclassico settecentesco di derivazione veneta… ma per fortuna riesco a controllarmi. Non sono venuto a dare lezioni di storia dell’arte, sono venuto a intervistare l’Uomo che ha Salvato il Mondo, secondo il Time dello scorso dicembre – e a quanto pare anche secondo i giurati di Stoccolma. E ho già commesso un imperdonabile errore. Eppure il suo staff me lo ha spiegato bene: quando si parla con Junior, meglio evitare le allusioni. Fa una certa fatica ad afferrarle. Non è un problema di intelligenza, ma la conseguenza di quella lieve forma di dislessia che gli è stata diagnosticata soltanto in età adulta. Un difetto congenito che non gli ha impedito di farsi eleggere governatore del Texas e di arrivare a un passo dalla poltrona più ambita del mondo: quella di Presidente degli Stati Uniti. Evidentemente i bei discorsi non sono tutto. Soprattutto se puoi contare sulla famiglia giusta.
“Mi sento ancora spesso con mio padre”, ammette Junior; “i suoi consigli sono stati molto preziosi. Quando Gore voleva invadere l’Iraq a tutti i costi, il suo parere ha contato più di qualsiasi cosa, per me”.
“Ma poi la ha diseredata, o sbaglio?”
“Stronzate. Tutte stronzate. Al tempo della campagna per l’autonomia i giornalisti hanno voluto dipingerci come nemici a tutti i costi… bastardi”.
“Eh-ehm”.
“Beh, sì, intendo i giornalisti yankees. Quelli che stanno a NY, o a Washington, a imbrattare la carta, ha presente?”
“Ma adesso stanno parlando molto bene di lei. Non ha letto…”
“Nooo. Io non leggo la carta. C’è il cavo, c’è internet, chi ha bisogno di tutta questa carta? È quel che rimane di un mondo vecchio”.
Mi guardo intorno – e improvvisamente, con un tuffo al cuore, realizzo che non ho visto un solo libro in tutta la villa. Non uno. George Bush Junior, premio Nobel per la Pace 2007, non ne ha bisogno. Ecco un’altra cosa dura da mandare giù.
Del resto, questa è la vita dell’Uomo che ha Salvato il Mondo. Una paradosso infinito, una continua sfida ai luoghi comuni. Il petroliere che ha chiuso col petrolio; il cow-boy che ha portato la pace nel mondo; il repubblicano amico dei palestinesi: l’ultima notizia che gli porto dai Territori è la proposta di intitolargli il corridoio autostradale Gaza-Gerusalemme. Lui finge di non averlo già letto su internet, e ci scherza sopra:
“Un’autostrada? Buffo, qui in Texas non intitoliamo le autostrade. Hanno solo dei numeri. In ogni caso mi sembra prematuro… voglio dire, sono ancora vivo. Dalle mie parti cominciano a dedicarti le cose soltanto quando sei sotto sei piedi di terra… beh, ma immagino che Barghouti sappia quel che fa. È un tipo a modo, lo ammiro molto”.
“Avrebbe mai pensato di dire una cosa del genere, otto anni fa?”
“No, perché? Otto anni fa non lo conoscevo. Per la verità tutta la faccenda degli ebrei e dei palestinesi a quei tempi non m’interessava molto. Guardavo soprattutto all’America, ai problemi interni. Sarei stato un presidente alla Monroe, l’america agli americani e via dicendo”.
“Fino all’11 settembre…”
Sospira. Conosce bene questa domanda – gli è stata posta da migliaia di giornalisti, negli ultimi sette anni.
“Senz’altro l’11 settembre mi avrebbe cambiato. Voglio dire, l’11 settembre mi ha cambiato, proprio come ha cambiato il presidente Gore. È come se ci fossimo svegliati tutti su una mina. Credevamo di essere i Numeri Uno. Credevamo che tutto il mondo ci amasse, che volesse diventare come eravamo noi. Invece è saltato fuori che il mondo ci odiava. Era invidia, era rabbia, era un ammasso di cose che non avevamo pensato. Comunque, cosa vuole sapere esattamente? Se io al posto di Gore avrei bombardato l’Afganistan? Senz’altro l’avrei fatto. Chiunque l’avrebbe fatto. Anche il reverendo Martin Luther King l’avrebbe fatto. Siamo americani, prima di ogni altra cosa. Se ci attaccano rispondiamo, è normale”.
“Magari lei avrebbe attaccato in un modo diverso”.
“Forse. Mah. Queste cose le decidono i generali, vede. Mi viene sempre da ridere quando sento che chiamano Gore il comandante in capo. Lui sì e no sa indicare l’Afganistan sulla cartina. Per mesi è andato dicendo che dall’Afganistan avrebbe attaccato l’Iraq, finché non gli hanno spiegato che i due Paesi non confinano”.
“Via, adesso esagera”.
“Non lo so. Posso dire che avrei dato più soldi all’intelligence: in fin dei conti ho sempre pensato che se ci serviva la testa di Bin Laden non era necessario destabilizzare mezza Asia per ottenerla. In realtà dopo l’11 settembre i talebani erano terrorizzati. Bastava bombardarli un po’, e poi fare un’offerta. Mio padre le guerre le faceva così: bastone e carota. E a volte gli andava bene. Non sempre, eh… Ma Gore… lo sa anche lei com’è fatto Gore. È… un democratico. Non gli bastava arrestare i terroristi, lui voleva scaraventare tutto il fottuto Afganistan dal medioevo tribale alla democrazia, trasformare quel paese di montanari musulmani in una Svizzera. In fondo ragionava come i Sovietici, e infatti le ha prese per un bel po’, proprio come i sovietici”.
Non è la prima volta che sento paragonare la politica di esportazione della democrazia di Al Gore all’imperialismo sovietico. “Lo sa”, replico “in Europa prima dell’11 settembre molti pensavano che i i veri guerrafondai in America fossero i repubblicani”.
“Che stronzata”, sbotta lui. “Pensi a Roosvelt. O a quello della Prima Guerra, come si chiamava?”
“Woodrow Wilson”.
“Esatto. Tutti democratici”.
“Ma hanno salvato il mondo”.
“Sì, e questo gli ha dato un po’ alla testa. Pensi al Vietnam. Kennedy ci ha portato nel Vietnam, e Nixon ha fatto quel che ha potuto per portarci via. Noi repubblicani non abbiamo mai amato la guerra. Ovvio che la facciamo, se ci trascinano. Ma chi è così pazzo da amare la guerra? Io ho fatto carte false per non andare in Vietnam, e non me ne vergogno. Tutti questi reduci democratici che mostrano le cicatrici per un seggio al congresso mi fanno vomitare. Dicono di odiare la guerra, e a momenti ci riportavano in Iraq”.
Per essere un Nobel per la Pace, Bush Jr sceglie le parole con ben poca diplomazia. Ci vuole molto fiuto per annusare dietro il cafone texano in camicia a quadri l’aristocratico wasp, nato e cresciuto dalle parti di Yale. In fondo Bush è l’esatto contrario del sogno americano: invece di farsi da solo, sembra aver voluto disfare (da solo) tutta l’eredità culturale che la sua ricca famiglia gli deve pure aver trasmesso. Da laureato in Storia a cow-boy dislessico, da petroliere ad ambientalista. Il vero giro di boa fu probabilmente lo scandalo Enron. “Un vero disastro. L’11 settembre ci ha fatto arrabbiare col mondo, ma Enron e Kathrina ci hanno fatto arrabbiare con noi stessi. Non c’era un Bin Laden a portata di mano su cui scaricare le colpe”.
Per certi osservatori è sorprendente come Bush Jr sia uscito pulito dallo scandalo Enron, all’inizio del 2002. L’azienda che mandò sul lastrico migliaia di risparmiatori americani aveva finanziato pesantemente la sua campagna presidenziale. “Cosa posso dire? Quando corri per la Casa Bianca accetti soldi da tutti. Anche Gore fece lo stesso. È uno dei problemi di questo Paese: bisogna essere maledettamente ricchi per fare i presidenti, e ancora non basta. Devi fare i debiti. Poi ti ritrovi seduto in cima al mondo con un sacco di debiti da pagare, di favori da ricambiare. Non è sano, neanche un po’. Anche se volesse sbaraccare da Kabul, in questo momento Gore è legato mani e piedi all’Halliburton e alla Blackwater. E anch’io probabilmente sarei stato un pupazzo nelle loro mani, se avessi vinto”. Ma ‘per fortuna’ aveva perso: la temporanea assenza dalla vita politica gli permise di rifarsi una verginità che gli elettori texani avrebbero molto apprezzato. Di lì a pochi mesi avrebbe stravinto le elezioni di mid-term, con una campagna imperniata sulla questione morale, approdando al Congresso come speaker della maggioranza repubblicana. A questo punto, quando tutti i principali commentatori politici americani davano ormai per scontata la ripetizione del duello presidenziale del 2000, Bush stupì tutti con la prima proposta di legge sull’autonomia energetica e l’opposizione alla guerra in Iraq. Due grossi colpi alla sua popolarità presso i repubblicani, che alla fine preferirono candidare Rudolph Giuliani. “Ho la massima simpatia per Rudie”, dice Bush, “e non ho mai pensato di ricandidarmi una seconda volta. Non m’interessava battere Gore, ed ereditare i suoi problemi. Lui era impastoiato con la sua guerra in quelle sabbie mobili afgane, non so nemmeno se ci siano le sabbie mobili laggiù, ma ho reso l’idea, no? L’impressione è che i talebani fossero invincibili sul campo. Avremmo potuto mandare laggiù il doppio di marines e il doppio di tank, e avremmo soltanto sprecato tutto quanto. Io ho cominciato a domandarmi se la guerra non si potesse risolvere in un altro modo. Perché i musulmani continuavano ad arrivare da tutto il mondo per combattere in quel buco… in quel Paese dimenticato? Chi li riforniva? Per dirla in parole povere: Where’s the money? Chi finanzia tutto quanto?”
Rampollo di una dinastia di petrolieri, Bush non doveva faticare molto a trovare una risposta. “È chiaro che dietro a tutta la jihad c’erano i petrodollari. Gli emirati del Golfo, quegli inferni ad aria condizionata… sanno di essere seduti su una mina peggiore della nostra. Hanno la disperazione di chi sta per finire la benzina e restare al buio. In più hanno una paura matta della rivoluzione islamica. Così finanziano gli sceicchi alla Bin Laden, che almeno la rivoluzione la fanno all’estero. D’improvviso tutto mi è parso così sciocco e inutile… da una parte mandavamo i nostri ragazzi a morire, dall’altra continuavamo a comprare benzina per i nostri Suv e a finanziare i terroristi che li avrebbero uccisi… dovevamo uscirne, e alla svelta. Così feci quella prima proposta sull’autonomia: l’America doveva bloccare le importazioni e re-imparare a vivere delle proprie risorse energetiche”. All’inizio Bush fu accusato di voler semplicemente favorire il petrolio texano per questioni di lobby. Ma le aperture sulla propulsione a idrogeno e sul biodiesel brasiliano spiazzarono anche i suoi più accesi detrattori. “Anche i nostri pozzi stanno finendo, è tempo di ammetterlo e cominciare a diversificare. Guardi quello che è riuscito a fare Lula in Brasile col biodiesel… una cosa fantastica. E i pannelli solari, perché no? Il giorno che in Texas non riusciremo a pompare più petrolio, resterà ancora sole in abbondanza per tutti. So che mio padre non la pensa così, ma io continuo a credere che il petrolio non sia il destino dell’America”.
“Invece sull’Iraq andavate d’accordo”.
“Le faccio vedere una cosa”. Mi mostra un quadro. A ben vedere si tratta di una mappa. Di solito si appendono ai muri mappe antiche: questa invece è ingiallita, sgualcita, ma moderna. “È una delle cartine di lavoro di mio padre. Se guarda bene, ci trova le ditate del generale Schwarzkopf. Ora: la vede questa macchia verde scuro? Sono le zone a maggioranza sciita. Lei lo sa cosa sono gli sciiti?”
“Una setta musulmana, direi”.
“Ecco, bravo, lei è uno preparato. Sa cosa sono gli sciiti. Magari sa anche che in Iraq e in Iran sono la maggioranza. Beh, posso garantirle che nel 2003 a Washington ancora nessuno sapeva chi fossero. E volevano andare a Bagdad! Esportare la democrazia! Se fossimo andati a Bagdad, gli sciiti sarebbero venuti a gettare fiori sui nostri carri armati, e il giorno dopo avrebbero sgozzato tutti i sunniti, e votato l’annessione all’Iran. A quel punto gli ayatollah iraniani avrebbero avuto libero accesso ai laboratori atomici di Saddam Hussein, e magari anche al suo uranio – ammesso che Saddam Hussein fosse davvero in grado di procurarsi dell’uranio”.
“Tony Blair ne è convinto”.
“Tony Blair è un socialista. Hanno tutti questa mania di cambiare il mondo, con l’amore o con la forza. Sono molto fiero di aver fatto il possibile per evitare quel disastro. Ho preso questa fottuta carta di mio padre e ho convinto tutti i pezzi grossi repubblicani: se andiamo in Iraq, tempo un anno e gli iraniani fanno una buca radioattiva in Israele: sul serio volete passare alla storia per questo? io non sono molto bravo a fare i discorsi, ma si vede che Dio mi ha aiutato, perché li ho convinti”.
“E così alla fine si è preso la sua rivincita morale su Gore”.
“Non la vedo in questo modo. In realtà dovrebbe soltanto ringraziarmi. A quest’ora avrebbe già perso due guerre – non un bel bilancio. Invece tutto sommato ormai l’Afganistan è pacificato, anche se non assomiglia ancora molto alla Svizzera, devo dire”. Sorride sornione. “Ma il progetto oppio per cibo sta dando buoni risultati. E in sovrappiù abbiamo avuto anche la testa di Bin Laden”.
Un bel trofeo per la Bush Foundation. Ma c’è chi dice che sia un falso. Su internet continuano a circolare nuovi video dello sceicco del terrore.
“Non so cosa dire. Abbiamo il Dna, le impronte dentali, abbiamo tutto. Ma ci sarà sempre qualcuno convinto che è una montatura. C’è anche chi dice che le torri gemelle le ho fatte buttare giù io. Non è che posso replicare a tutte queste stronzate”.
Nel 2004 l’astro di Bush sembra già appannato. Alcune sue iniziative – la partecipazione a un summit informale tra israeliani e palestinesi – non sono comprese dai suoi compagni di partito. Nel frattempo Giuliani sfida Gore giocando la carta del patriottismo dell’11 settembre, ma gli americani gli preferiscono il Commander in Chief. “Rudie si è difeso bene, ma ha pagato il fatto di non avere una posizione netta sulla guerra”. L’anno successivo, il secondo grande shock della recente Storia americana: l’uragano Kathrina. Stavolta Bush è implacabile nell’accusare tutti i responsabili del disastro, dal sindaco di New Orleans fino al Presidente. “I democratici hanno chiacchierato per anni di riscaldamento globale”, dice, “e al primo uragano tropicale hanno reagito come dei boy scout di città. Il vero uragano che ha distrutto New Orleans non è stato Kathrina, ma l’incompetenza”. Da Kathrina in poi Bush è riuscito ad accreditarsi come il leader del nuovo ambientalismo. In pochi ricordano che ai tempi della campagna 2000 era Bush, e non Gore, a respingere il protocollo di Kyoto. “In effetti Kyoto non mi ha mai convinto”, ammette, “perché è troppo poco. Una misura omeopatica. Occorre darsi molto più da fare. Tagliare le emissioni di gas serra del 90% entro il 2009. Possiamo farcela. È alla nostra portata”. Fino al 2005 Bush non escludeva la necessità di cercare nuovi pozzi “autarchici” nell’incontaminata Alaska. Oggi non ne parla più. “Solo gli stupidi non cambiano mai idea. Fino a qualche anno fa non ero sicuro che il riscaldamento globale fosse colpa dell’uomo. A dire il vero non ne sono sicuro nemmeno oggi, ma chi se ne frega? Forse non siamo stati noi a scaldare il mondo, ma possiamo pur sempre dare una mano a raffreddarlo. Questo è come la penso io”.
Prima di abbandonare il Congresso nel 2006, Junior ha avuto la soddisfazione di vedere trasformata in legge federale la sua seconda proposta sull’“autonomia sostenibile”. I fatti dei mesi successivi gli hanno dato ragione in modo spettacolare. L’intensità della guerriglia afgana è calata drasticamente. In Egitto e in Iran gli scioperi di massa hanno costretto i governi a indire nuove elezioni. In Iraq la nuova giunta militare sta negoziando l’estradizione di Saddam Hussein. Qualche effetto positivo c’è stato anche per l’Europa, quando il blocco delle importazioni di petrolio negli USA ha abbattuto i prezzi al barile. L’altra faccia della medaglia sono gli attentati: l’esplosione del Boeing dirottato nei cieli di Philadelphia lo scorso settembre (intercettato da un missile prima che puntasse su Washington , secondo alcuni) e le fiale di gas nervino rinvenute nella subway di New York, fortunatamente senza conseguenze. “So che è terribile quello che sto per dire. Ma gli attentati sono una prova che avevamo ragione. Sono colpi di coda. Bisogna andare avanti a domare il bronco”.
Negli ultimi due anni, Bush è diventato un battitore libero. Ufficialmente è ancora iscritto al Partito Repubblicano, anche se ha preferito non candidarsi al Congresso. “Mi sono stancato di parlare per gli altri. Troppi compromessi. Oggi preferisco parlare per me”. In effetti le sue ultime uscite su Cina e Russia sono state particolarmente ruvide anche per un tipo come lui. “Io la vedo molto semplice: quelle non sono democrazie. Non basta aprire i mercati per creare una democrazia. Sono ancora due regimi a partito unico, dove gli oppositori vengono perseguitati e uccisi. Gli americani non dovrebbero avere nulla a che fare con questa gente. Ma i cinesi ci tengono per… i cinesi hanno queste enorme riserve di dollari, che m’impensieriscono molto. Non è giusto che ci possano ricattare in questo modo. Il solo pensiero è umiliante. Fossi ancora un politico, chiederei a gran voce il boicottaggio delle Olimpiadi. Fortuna che non lo sono”.
Cos’è, oggi, George W. Bush? Tante cose. Per esempio, il coproduttore dell’ultimo chiacchieratissimo film di Michael Moore sulla riforma sanitaria. “Lo sa che Moore era di sinistra? È uno dei tanti radicali che sono rimasti stomacati dalla gestione del conflitto in Afganistan. Ma le sue idee sulla riforma sanitaria o sul porto d’armi non sono né di destra né di sinistra, sono ragionevoli e basta. Quando parlavo di conservatorismo compassionevole, molti storcevano il naso. Ma continuo a pensare che ‘compassione’ sia una bellissima parola. Sa cosa significa?”
“Soffrire insieme”.
“Ehi, lei conosce l’inglese in un modo fantastico per essere un… un…”.
“Un italiano. Grazie”.
“Voi italiani conoscete l’importanza della sofferenza. Non vi vergognate a piangere. Vede, il problema di noi americani è che ci siamo costruiti un’immagine di noi stessi come… come il primo della classe che non piange mai, il terzino di football che non cede un metro. E poi davanti all’11 settembre siamo crollati. Abbiamo iniziato a soffrire e ci siamo vergognati della nostra sofferenza. Non dovevamo vergognarci. Solo attraverso la sofferenza possiamo capire gli altri. In fondo Dio si è fatto uomo per questo, no? per cercare di soffrire con gli uomini. Quando sono andato in Palestina, la prima volta, non ci capivo un fottuto accidente. Non riuscivo a capire perché si litigassero quelle colline spelacchiate. Ho chiesto in giro, ho provato a farmi spiegare. E ho sofferto. Ho provato a soffrire con loro. Ho capito che una guerra di sessant’anni è una cosa che non si può cancellare in un giorno.”. Junior è anche l’uomo che al termine di un’estenuante trattativa ha fissato i confini del nuovo Stato Federale di Israele in Palestina. “Ci siamo ispirati a quello che ha fatto Clinton con la Bosnia. Come dire: un gran pasticcio, sempre meglio della guerra, però. Gli israeliani possono continuare a chiamarlo Israele, i palestinesi hanno finalmente un pezzo di terra che si chiama Stato. E Gerusalemme è la capitale bilingue, come Bruxelles. Durerà? E che ne so io? Anche la Bosnia, del resto, sta in piedi per miracolo. Mi piace pensare che il tempo giochi a favore della pace”.
Dopo la missione di Bush in Israele, Bush è stato nominato Uomo dell’Anno dal Time, anzi “L’Uomo che ha salvato il Mondo”. “Beh, mi piacerebbe provarci, non dico di no. Ma in realtà i tempi erano maturi per la pace. Ho sempre pensato che una volta risolta la questione palestinese, il Medio Oriente si sarebbe calmato da sé. Resta molto da fare, certo. Iraq e Siria non sono ancora democrazie. Neanche Roma è stata fatta in un giorno. Ma sono felice di poter dire che oggi è un giorno migliore dell’11 settembre 2001. E ne sono fiero”.
“È sicuro di non avere rimpianti?”
“Rimpianti? No, per cosa?”
“Vede, lei si è dato molto da fare in questi anni. Eppure ogni volta che lei fa qualcosa, c’è sempre qualcuno come me che si chiede… che le chiede… perché non ha vinto nel 2000? Oggi il mondo sarebbe molto migliore se lei avesse vinto nel 2000, non trova?”
Sorride. “La Storia non si fa con i Se. Ma le voglio mostrare un’altra cosa”. Apre un cassetto della scrivania. Tiro un sospiro di sollievo: quello che ha tra le mani è un libro. Di carta.
“È un memorandum scritto da Al Gore quando era vicepresidente. Lo sa di cosa parla? Del riscaldamento globale. In quel periodo Gore era un maniaco dell’argomento, lo sapeva?”
“Mi pare di averne sentito parlare, ma…”
“Aveva fatto delle ricerche, si era consultato con gli esperti. Le sue conclusioni erano già piuttosto catastrofiche. Poi ha vinto le elezioni e… puf, tutto scomparso. Troppo impegnato a dar la caccia a Bin Laden. Lo sa una cosa? Molta gente pensa che Gore sia uno stupido. Io lo conosco un po’. È senz’altro un fighetto di città, ma non è uno stupido. È quella sala di Washington che ti rende stupido. La gente non ci crede quando ripeto che preferisco non esserci mai stato. Ma è così”.
“E quindi non si candiderà”.
“No, assolutamente. Non ha visto la spilletta?”
“Ma davvero pensa che Moore abbia qualche chance?”
“Perché no? Abbiamo già avuto un attore alla Casa Bianca, e se l’è cavata piuttosto bene. Certo, non ha il fisico di Schwarzenegger. Ma è 100% americano. Sarà un ottimo presidente”.
“E non diventerà anche lui più… stupido?”
“Più di così? Naaah, difficile”.
HOUSTON – dal nostro inviato
Il premio Nobel 2007 accetta finalmente d’incontrarmi nello splendore neopalladiano della sua villa nel centro del Texas. La stanza in cui ci stringiamo le mani – ironia della sorte – è ovale. Quando glielo faccio notare, abbozza un sorriso di circostanza. Non ha capito il riferimento.
“Ovale, come l’ufficio del Presidente… sa, nella Casa Bianca”.
Ridacchia. Ha capito. “Ah, già… lo sa, ci penso così poco ultimamente. La vita è breve, e se dovessi alzarmi tutte le mattine pensando che stavo per diventare Presidente… E comunque ‘ste ville le fanno tutte uguali, ci ha fatto caso? Anche Washington è tutta così. È uno stile di architettura sudista, penso”.
Sto per interromperlo spiegandogli che il suo ‘stile sudista’ in realtà è neoclassico settecentesco di derivazione veneta… ma per fortuna riesco a controllarmi. Non sono venuto a dare lezioni di storia dell’arte, sono venuto a intervistare l’Uomo che ha Salvato il Mondo, secondo il Time dello scorso dicembre – e a quanto pare anche secondo i giurati di Stoccolma. E ho già commesso un imperdonabile errore. Eppure il suo staff me lo ha spiegato bene: quando si parla con Junior, meglio evitare le allusioni. Fa una certa fatica ad afferrarle. Non è un problema di intelligenza, ma la conseguenza di quella lieve forma di dislessia che gli è stata diagnosticata soltanto in età adulta. Un difetto congenito che non gli ha impedito di farsi eleggere governatore del Texas e di arrivare a un passo dalla poltrona più ambita del mondo: quella di Presidente degli Stati Uniti. Evidentemente i bei discorsi non sono tutto. Soprattutto se puoi contare sulla famiglia giusta.
“Mi sento ancora spesso con mio padre”, ammette Junior; “i suoi consigli sono stati molto preziosi. Quando Gore voleva invadere l’Iraq a tutti i costi, il suo parere ha contato più di qualsiasi cosa, per me”.
“Ma poi la ha diseredata, o sbaglio?”
“Stronzate. Tutte stronzate. Al tempo della campagna per l’autonomia i giornalisti hanno voluto dipingerci come nemici a tutti i costi… bastardi”.
“Eh-ehm”.
“Beh, sì, intendo i giornalisti yankees. Quelli che stanno a NY, o a Washington, a imbrattare la carta, ha presente?”
“Ma adesso stanno parlando molto bene di lei. Non ha letto…”
“Nooo. Io non leggo la carta. C’è il cavo, c’è internet, chi ha bisogno di tutta questa carta? È quel che rimane di un mondo vecchio”.
Mi guardo intorno – e improvvisamente, con un tuffo al cuore, realizzo che non ho visto un solo libro in tutta la villa. Non uno. George Bush Junior, premio Nobel per la Pace 2007, non ne ha bisogno. Ecco un’altra cosa dura da mandare giù.
Del resto, questa è la vita dell’Uomo che ha Salvato il Mondo. Una paradosso infinito, una continua sfida ai luoghi comuni. Il petroliere che ha chiuso col petrolio; il cow-boy che ha portato la pace nel mondo; il repubblicano amico dei palestinesi: l’ultima notizia che gli porto dai Territori è la proposta di intitolargli il corridoio autostradale Gaza-Gerusalemme. Lui finge di non averlo già letto su internet, e ci scherza sopra:
“Un’autostrada? Buffo, qui in Texas non intitoliamo le autostrade. Hanno solo dei numeri. In ogni caso mi sembra prematuro… voglio dire, sono ancora vivo. Dalle mie parti cominciano a dedicarti le cose soltanto quando sei sotto sei piedi di terra… beh, ma immagino che Barghouti sappia quel che fa. È un tipo a modo, lo ammiro molto”.
“Avrebbe mai pensato di dire una cosa del genere, otto anni fa?”
“No, perché? Otto anni fa non lo conoscevo. Per la verità tutta la faccenda degli ebrei e dei palestinesi a quei tempi non m’interessava molto. Guardavo soprattutto all’America, ai problemi interni. Sarei stato un presidente alla Monroe, l’america agli americani e via dicendo”.
“Fino all’11 settembre…”
Sospira. Conosce bene questa domanda – gli è stata posta da migliaia di giornalisti, negli ultimi sette anni.
“Senz’altro l’11 settembre mi avrebbe cambiato. Voglio dire, l’11 settembre mi ha cambiato, proprio come ha cambiato il presidente Gore. È come se ci fossimo svegliati tutti su una mina. Credevamo di essere i Numeri Uno. Credevamo che tutto il mondo ci amasse, che volesse diventare come eravamo noi. Invece è saltato fuori che il mondo ci odiava. Era invidia, era rabbia, era un ammasso di cose che non avevamo pensato. Comunque, cosa vuole sapere esattamente? Se io al posto di Gore avrei bombardato l’Afganistan? Senz’altro l’avrei fatto. Chiunque l’avrebbe fatto. Anche il reverendo Martin Luther King l’avrebbe fatto. Siamo americani, prima di ogni altra cosa. Se ci attaccano rispondiamo, è normale”.
“Magari lei avrebbe attaccato in un modo diverso”.
“Forse. Mah. Queste cose le decidono i generali, vede. Mi viene sempre da ridere quando sento che chiamano Gore il comandante in capo. Lui sì e no sa indicare l’Afganistan sulla cartina. Per mesi è andato dicendo che dall’Afganistan avrebbe attaccato l’Iraq, finché non gli hanno spiegato che i due Paesi non confinano”.
“Via, adesso esagera”.
“Non lo so. Posso dire che avrei dato più soldi all’intelligence: in fin dei conti ho sempre pensato che se ci serviva la testa di Bin Laden non era necessario destabilizzare mezza Asia per ottenerla. In realtà dopo l’11 settembre i talebani erano terrorizzati. Bastava bombardarli un po’, e poi fare un’offerta. Mio padre le guerre le faceva così: bastone e carota. E a volte gli andava bene. Non sempre, eh… Ma Gore… lo sa anche lei com’è fatto Gore. È… un democratico. Non gli bastava arrestare i terroristi, lui voleva scaraventare tutto il fottuto Afganistan dal medioevo tribale alla democrazia, trasformare quel paese di montanari musulmani in una Svizzera. In fondo ragionava come i Sovietici, e infatti le ha prese per un bel po’, proprio come i sovietici”.
Non è la prima volta che sento paragonare la politica di esportazione della democrazia di Al Gore all’imperialismo sovietico. “Lo sa”, replico “in Europa prima dell’11 settembre molti pensavano che i i veri guerrafondai in America fossero i repubblicani”.
“Che stronzata”, sbotta lui. “Pensi a Roosvelt. O a quello della Prima Guerra, come si chiamava?”
“Woodrow Wilson”.
“Esatto. Tutti democratici”.
“Ma hanno salvato il mondo”.
“Sì, e questo gli ha dato un po’ alla testa. Pensi al Vietnam. Kennedy ci ha portato nel Vietnam, e Nixon ha fatto quel che ha potuto per portarci via. Noi repubblicani non abbiamo mai amato la guerra. Ovvio che la facciamo, se ci trascinano. Ma chi è così pazzo da amare la guerra? Io ho fatto carte false per non andare in Vietnam, e non me ne vergogno. Tutti questi reduci democratici che mostrano le cicatrici per un seggio al congresso mi fanno vomitare. Dicono di odiare la guerra, e a momenti ci riportavano in Iraq”.
Per essere un Nobel per la Pace, Bush Jr sceglie le parole con ben poca diplomazia. Ci vuole molto fiuto per annusare dietro il cafone texano in camicia a quadri l’aristocratico wasp, nato e cresciuto dalle parti di Yale. In fondo Bush è l’esatto contrario del sogno americano: invece di farsi da solo, sembra aver voluto disfare (da solo) tutta l’eredità culturale che la sua ricca famiglia gli deve pure aver trasmesso. Da laureato in Storia a cow-boy dislessico, da petroliere ad ambientalista. Il vero giro di boa fu probabilmente lo scandalo Enron. “Un vero disastro. L’11 settembre ci ha fatto arrabbiare col mondo, ma Enron e Kathrina ci hanno fatto arrabbiare con noi stessi. Non c’era un Bin Laden a portata di mano su cui scaricare le colpe”.
Per certi osservatori è sorprendente come Bush Jr sia uscito pulito dallo scandalo Enron, all’inizio del 2002. L’azienda che mandò sul lastrico migliaia di risparmiatori americani aveva finanziato pesantemente la sua campagna presidenziale. “Cosa posso dire? Quando corri per la Casa Bianca accetti soldi da tutti. Anche Gore fece lo stesso. È uno dei problemi di questo Paese: bisogna essere maledettamente ricchi per fare i presidenti, e ancora non basta. Devi fare i debiti. Poi ti ritrovi seduto in cima al mondo con un sacco di debiti da pagare, di favori da ricambiare. Non è sano, neanche un po’. Anche se volesse sbaraccare da Kabul, in questo momento Gore è legato mani e piedi all’Halliburton e alla Blackwater. E anch’io probabilmente sarei stato un pupazzo nelle loro mani, se avessi vinto”. Ma ‘per fortuna’ aveva perso: la temporanea assenza dalla vita politica gli permise di rifarsi una verginità che gli elettori texani avrebbero molto apprezzato. Di lì a pochi mesi avrebbe stravinto le elezioni di mid-term, con una campagna imperniata sulla questione morale, approdando al Congresso come speaker della maggioranza repubblicana. A questo punto, quando tutti i principali commentatori politici americani davano ormai per scontata la ripetizione del duello presidenziale del 2000, Bush stupì tutti con la prima proposta di legge sull’autonomia energetica e l’opposizione alla guerra in Iraq. Due grossi colpi alla sua popolarità presso i repubblicani, che alla fine preferirono candidare Rudolph Giuliani. “Ho la massima simpatia per Rudie”, dice Bush, “e non ho mai pensato di ricandidarmi una seconda volta. Non m’interessava battere Gore, ed ereditare i suoi problemi. Lui era impastoiato con la sua guerra in quelle sabbie mobili afgane, non so nemmeno se ci siano le sabbie mobili laggiù, ma ho reso l’idea, no? L’impressione è che i talebani fossero invincibili sul campo. Avremmo potuto mandare laggiù il doppio di marines e il doppio di tank, e avremmo soltanto sprecato tutto quanto. Io ho cominciato a domandarmi se la guerra non si potesse risolvere in un altro modo. Perché i musulmani continuavano ad arrivare da tutto il mondo per combattere in quel buco… in quel Paese dimenticato? Chi li riforniva? Per dirla in parole povere: Where’s the money? Chi finanzia tutto quanto?”
Rampollo di una dinastia di petrolieri, Bush non doveva faticare molto a trovare una risposta. “È chiaro che dietro a tutta la jihad c’erano i petrodollari. Gli emirati del Golfo, quegli inferni ad aria condizionata… sanno di essere seduti su una mina peggiore della nostra. Hanno la disperazione di chi sta per finire la benzina e restare al buio. In più hanno una paura matta della rivoluzione islamica. Così finanziano gli sceicchi alla Bin Laden, che almeno la rivoluzione la fanno all’estero. D’improvviso tutto mi è parso così sciocco e inutile… da una parte mandavamo i nostri ragazzi a morire, dall’altra continuavamo a comprare benzina per i nostri Suv e a finanziare i terroristi che li avrebbero uccisi… dovevamo uscirne, e alla svelta. Così feci quella prima proposta sull’autonomia: l’America doveva bloccare le importazioni e re-imparare a vivere delle proprie risorse energetiche”. All’inizio Bush fu accusato di voler semplicemente favorire il petrolio texano per questioni di lobby. Ma le aperture sulla propulsione a idrogeno e sul biodiesel brasiliano spiazzarono anche i suoi più accesi detrattori. “Anche i nostri pozzi stanno finendo, è tempo di ammetterlo e cominciare a diversificare. Guardi quello che è riuscito a fare Lula in Brasile col biodiesel… una cosa fantastica. E i pannelli solari, perché no? Il giorno che in Texas non riusciremo a pompare più petrolio, resterà ancora sole in abbondanza per tutti. So che mio padre non la pensa così, ma io continuo a credere che il petrolio non sia il destino dell’America”.
“Invece sull’Iraq andavate d’accordo”.
“Le faccio vedere una cosa”. Mi mostra un quadro. A ben vedere si tratta di una mappa. Di solito si appendono ai muri mappe antiche: questa invece è ingiallita, sgualcita, ma moderna. “È una delle cartine di lavoro di mio padre. Se guarda bene, ci trova le ditate del generale Schwarzkopf. Ora: la vede questa macchia verde scuro? Sono le zone a maggioranza sciita. Lei lo sa cosa sono gli sciiti?”
“Una setta musulmana, direi”.
“Ecco, bravo, lei è uno preparato. Sa cosa sono gli sciiti. Magari sa anche che in Iraq e in Iran sono la maggioranza. Beh, posso garantirle che nel 2003 a Washington ancora nessuno sapeva chi fossero. E volevano andare a Bagdad! Esportare la democrazia! Se fossimo andati a Bagdad, gli sciiti sarebbero venuti a gettare fiori sui nostri carri armati, e il giorno dopo avrebbero sgozzato tutti i sunniti, e votato l’annessione all’Iran. A quel punto gli ayatollah iraniani avrebbero avuto libero accesso ai laboratori atomici di Saddam Hussein, e magari anche al suo uranio – ammesso che Saddam Hussein fosse davvero in grado di procurarsi dell’uranio”.
“Tony Blair ne è convinto”.
“Tony Blair è un socialista. Hanno tutti questa mania di cambiare il mondo, con l’amore o con la forza. Sono molto fiero di aver fatto il possibile per evitare quel disastro. Ho preso questa fottuta carta di mio padre e ho convinto tutti i pezzi grossi repubblicani: se andiamo in Iraq, tempo un anno e gli iraniani fanno una buca radioattiva in Israele: sul serio volete passare alla storia per questo? io non sono molto bravo a fare i discorsi, ma si vede che Dio mi ha aiutato, perché li ho convinti”.
“E così alla fine si è preso la sua rivincita morale su Gore”.
“Non la vedo in questo modo. In realtà dovrebbe soltanto ringraziarmi. A quest’ora avrebbe già perso due guerre – non un bel bilancio. Invece tutto sommato ormai l’Afganistan è pacificato, anche se non assomiglia ancora molto alla Svizzera, devo dire”. Sorride sornione. “Ma il progetto oppio per cibo sta dando buoni risultati. E in sovrappiù abbiamo avuto anche la testa di Bin Laden”.
Un bel trofeo per la Bush Foundation. Ma c’è chi dice che sia un falso. Su internet continuano a circolare nuovi video dello sceicco del terrore.
“Non so cosa dire. Abbiamo il Dna, le impronte dentali, abbiamo tutto. Ma ci sarà sempre qualcuno convinto che è una montatura. C’è anche chi dice che le torri gemelle le ho fatte buttare giù io. Non è che posso replicare a tutte queste stronzate”.
Nel 2004 l’astro di Bush sembra già appannato. Alcune sue iniziative – la partecipazione a un summit informale tra israeliani e palestinesi – non sono comprese dai suoi compagni di partito. Nel frattempo Giuliani sfida Gore giocando la carta del patriottismo dell’11 settembre, ma gli americani gli preferiscono il Commander in Chief. “Rudie si è difeso bene, ma ha pagato il fatto di non avere una posizione netta sulla guerra”. L’anno successivo, il secondo grande shock della recente Storia americana: l’uragano Kathrina. Stavolta Bush è implacabile nell’accusare tutti i responsabili del disastro, dal sindaco di New Orleans fino al Presidente. “I democratici hanno chiacchierato per anni di riscaldamento globale”, dice, “e al primo uragano tropicale hanno reagito come dei boy scout di città. Il vero uragano che ha distrutto New Orleans non è stato Kathrina, ma l’incompetenza”. Da Kathrina in poi Bush è riuscito ad accreditarsi come il leader del nuovo ambientalismo. In pochi ricordano che ai tempi della campagna 2000 era Bush, e non Gore, a respingere il protocollo di Kyoto. “In effetti Kyoto non mi ha mai convinto”, ammette, “perché è troppo poco. Una misura omeopatica. Occorre darsi molto più da fare. Tagliare le emissioni di gas serra del 90% entro il 2009. Possiamo farcela. È alla nostra portata”. Fino al 2005 Bush non escludeva la necessità di cercare nuovi pozzi “autarchici” nell’incontaminata Alaska. Oggi non ne parla più. “Solo gli stupidi non cambiano mai idea. Fino a qualche anno fa non ero sicuro che il riscaldamento globale fosse colpa dell’uomo. A dire il vero non ne sono sicuro nemmeno oggi, ma chi se ne frega? Forse non siamo stati noi a scaldare il mondo, ma possiamo pur sempre dare una mano a raffreddarlo. Questo è come la penso io”.
Prima di abbandonare il Congresso nel 2006, Junior ha avuto la soddisfazione di vedere trasformata in legge federale la sua seconda proposta sull’“autonomia sostenibile”. I fatti dei mesi successivi gli hanno dato ragione in modo spettacolare. L’intensità della guerriglia afgana è calata drasticamente. In Egitto e in Iran gli scioperi di massa hanno costretto i governi a indire nuove elezioni. In Iraq la nuova giunta militare sta negoziando l’estradizione di Saddam Hussein. Qualche effetto positivo c’è stato anche per l’Europa, quando il blocco delle importazioni di petrolio negli USA ha abbattuto i prezzi al barile. L’altra faccia della medaglia sono gli attentati: l’esplosione del Boeing dirottato nei cieli di Philadelphia lo scorso settembre (intercettato da un missile prima che puntasse su Washington , secondo alcuni) e le fiale di gas nervino rinvenute nella subway di New York, fortunatamente senza conseguenze. “So che è terribile quello che sto per dire. Ma gli attentati sono una prova che avevamo ragione. Sono colpi di coda. Bisogna andare avanti a domare il bronco”.
Negli ultimi due anni, Bush è diventato un battitore libero. Ufficialmente è ancora iscritto al Partito Repubblicano, anche se ha preferito non candidarsi al Congresso. “Mi sono stancato di parlare per gli altri. Troppi compromessi. Oggi preferisco parlare per me”. In effetti le sue ultime uscite su Cina e Russia sono state particolarmente ruvide anche per un tipo come lui. “Io la vedo molto semplice: quelle non sono democrazie. Non basta aprire i mercati per creare una democrazia. Sono ancora due regimi a partito unico, dove gli oppositori vengono perseguitati e uccisi. Gli americani non dovrebbero avere nulla a che fare con questa gente. Ma i cinesi ci tengono per… i cinesi hanno queste enorme riserve di dollari, che m’impensieriscono molto. Non è giusto che ci possano ricattare in questo modo. Il solo pensiero è umiliante. Fossi ancora un politico, chiederei a gran voce il boicottaggio delle Olimpiadi. Fortuna che non lo sono”.
Cos’è, oggi, George W. Bush? Tante cose. Per esempio, il coproduttore dell’ultimo chiacchieratissimo film di Michael Moore sulla riforma sanitaria. “Lo sa che Moore era di sinistra? È uno dei tanti radicali che sono rimasti stomacati dalla gestione del conflitto in Afganistan. Ma le sue idee sulla riforma sanitaria o sul porto d’armi non sono né di destra né di sinistra, sono ragionevoli e basta. Quando parlavo di conservatorismo compassionevole, molti storcevano il naso. Ma continuo a pensare che ‘compassione’ sia una bellissima parola. Sa cosa significa?”
“Soffrire insieme”.
“Ehi, lei conosce l’inglese in un modo fantastico per essere un… un…”.
“Un italiano. Grazie”.
“Voi italiani conoscete l’importanza della sofferenza. Non vi vergognate a piangere. Vede, il problema di noi americani è che ci siamo costruiti un’immagine di noi stessi come… come il primo della classe che non piange mai, il terzino di football che non cede un metro. E poi davanti all’11 settembre siamo crollati. Abbiamo iniziato a soffrire e ci siamo vergognati della nostra sofferenza. Non dovevamo vergognarci. Solo attraverso la sofferenza possiamo capire gli altri. In fondo Dio si è fatto uomo per questo, no? per cercare di soffrire con gli uomini. Quando sono andato in Palestina, la prima volta, non ci capivo un fottuto accidente. Non riuscivo a capire perché si litigassero quelle colline spelacchiate. Ho chiesto in giro, ho provato a farmi spiegare. E ho sofferto. Ho provato a soffrire con loro. Ho capito che una guerra di sessant’anni è una cosa che non si può cancellare in un giorno.”. Junior è anche l’uomo che al termine di un’estenuante trattativa ha fissato i confini del nuovo Stato Federale di Israele in Palestina. “Ci siamo ispirati a quello che ha fatto Clinton con la Bosnia. Come dire: un gran pasticcio, sempre meglio della guerra, però. Gli israeliani possono continuare a chiamarlo Israele, i palestinesi hanno finalmente un pezzo di terra che si chiama Stato. E Gerusalemme è la capitale bilingue, come Bruxelles. Durerà? E che ne so io? Anche la Bosnia, del resto, sta in piedi per miracolo. Mi piace pensare che il tempo giochi a favore della pace”.
Dopo la missione di Bush in Israele, Bush è stato nominato Uomo dell’Anno dal Time, anzi “L’Uomo che ha salvato il Mondo”. “Beh, mi piacerebbe provarci, non dico di no. Ma in realtà i tempi erano maturi per la pace. Ho sempre pensato che una volta risolta la questione palestinese, il Medio Oriente si sarebbe calmato da sé. Resta molto da fare, certo. Iraq e Siria non sono ancora democrazie. Neanche Roma è stata fatta in un giorno. Ma sono felice di poter dire che oggi è un giorno migliore dell’11 settembre 2001. E ne sono fiero”.
“È sicuro di non avere rimpianti?”
“Rimpianti? No, per cosa?”
“Vede, lei si è dato molto da fare in questi anni. Eppure ogni volta che lei fa qualcosa, c’è sempre qualcuno come me che si chiede… che le chiede… perché non ha vinto nel 2000? Oggi il mondo sarebbe molto migliore se lei avesse vinto nel 2000, non trova?”
Sorride. “La Storia non si fa con i Se. Ma le voglio mostrare un’altra cosa”. Apre un cassetto della scrivania. Tiro un sospiro di sollievo: quello che ha tra le mani è un libro. Di carta.
“È un memorandum scritto da Al Gore quando era vicepresidente. Lo sa di cosa parla? Del riscaldamento globale. In quel periodo Gore era un maniaco dell’argomento, lo sapeva?”
“Mi pare di averne sentito parlare, ma…”
“Aveva fatto delle ricerche, si era consultato con gli esperti. Le sue conclusioni erano già piuttosto catastrofiche. Poi ha vinto le elezioni e… puf, tutto scomparso. Troppo impegnato a dar la caccia a Bin Laden. Lo sa una cosa? Molta gente pensa che Gore sia uno stupido. Io lo conosco un po’. È senz’altro un fighetto di città, ma non è uno stupido. È quella sala di Washington che ti rende stupido. La gente non ci crede quando ripeto che preferisco non esserci mai stato. Ma è così”.
“E quindi non si candiderà”.
“No, assolutamente. Non ha visto la spilletta?”
“Ma davvero pensa che Moore abbia qualche chance?”
“Perché no? Abbiamo già avuto un attore alla Casa Bianca, e se l’è cavata piuttosto bene. Certo, non ha il fisico di Schwarzenegger. Ma è 100% americano. Sarà un ottimo presidente”.
“E non diventerà anche lui più… stupido?”
“Più di così? Naaah, difficile”.
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