Che farai, Pier da Morrone?
19-05-2016, 00:54Il Post, pontefici, santi, StoriaPermalink19 maggio - San Celestino V, al secolo Pietro Angelario, il papa che abdicò.
Che farai, Pier da Morrone? Sei venuto al paragone. Ogni tanto capita, in Italia più spesso che altrove, che un ruolo di grande responsabilità sia affidato a un individuo senza esperienza, una persona universalmente riconosciuta e stimata per i suoi ideali, a volte anche per la coerenza con cui li persegue - ma digiuna di politica. Il che a volte è considerato un valore, e in Italia più che altrove: se non capisci niente di politica è meglio, è una cosa sporca, fidati, magari ci firmi due carte e ci pensiamo noi. Può essere un sovrano, un dittatore, un ministro, anche solo un sindaco. Capitò anche a qualche papa. E ogni volta sembra di risentire la strofetta sardonica di fra Jacopone, poeta-frate-combattente contemporaneo di Dante, meno raffinato ma altrettanto italiano: che farai, Pier da Morrone? Vederimo el lavorato che in cella hai contemplato. Vedremo come si realizza nella pratica quello contemplavi nella tua povera cella. Ma s’è ’l monno de te engannato, séquita maledezzone!
Pier da Morrone, lo sanno tutti, non avrebbe davvero voluto fare il Papa. Era un anziano eremita, senza esperienza di politica, né di liturgia. Non parlava neanche bene il latino, in un secolo e in una situazione in cui gli sarebbe davvero servito. Nel suo volgare molisano (Isernia e Sant'Angelo Limosano se ne disputano la paternità), Pier da Morrone avrebbe potuto rispondere subito "No" ai messaggeri che gli portavano la notizia: dopo 27 mesi di stallo, i dodici cardinali in conclave avrebbero scelto te. Te la senti? Bastava un no. Pietro non lo disse. Secondo Petrarca cercò addirittura di fuggire; secondo i suoi biografi fu un po' tirato per il saio dai monaci dell'ordine che aveva fondato, e che in suo onore si sarebbero poi chiamati celestini. Fratel Pietro, tu puoi cambiare tutto. Chi altri se non tu. Fratel Pietro, è Dio che lo vuole. Fratel Pietro, tu puoi risolvere i problemi che infangano la Chiesa, con una sola parola, che è il nostro motto: povertà. Povertà. Fratel Pietro, se i cardinali hanno scelto te, un motivo ci sarà.

Il segno più evidente lo diede Carlo d'Angiò detto lo Zoppo, re di Sicilia anche se sulla Sicilia propriamente detta non regnava: dal tempo dei Vespri l'isola era passata agli Aragona e Carlo doveva contentarsi della "Sicilia al di qua dello stretto", quella che oggi chiamiamo Italia meridionale. Da tempo Carlo lavorava a una soluzione diplomatica. Era persino riuscito a dividere il fronte degli aragonesi, alleandosi col fratello maggiore, Giacomo II che regnava a Barcellona, contro il fratellino Federico che era reggente a Palermo e non aveva intenzione di andarsene. Ma per firmare una pace seria aveva bisogno di un pontefice che la suggellasse. Se gli Orsini erano chiaramente dalla sua parte, i Colonna stavano con gli Aragona, forse perché finanziati da Federico o semplicemente per il gusto di mettere i bastoni nelle ruote degli Orsini.
A un certo punto Carlo d'Angiò decise di recarsi a Perugia, col manifesto proposito di metter fretta ai cardinali e allo Spirito Santo. Un gesto di arroganza inaudita. Quando irruppe nel conclave, i cardinali riuscirono a sbatterlo fuori, e pare che nell'occasione il più risoluto si mostrasse il cardinale di Anagni, Benedetto Caetani: sì, il futuro Bonifacio VIII. La discussione proseguì finché il decano, Latino Malabranca Orsini, non ebbe la pensata di mostrare una lettera che gli avevano recapitato. Il contenuto, una cosa del tipo 'se non vi sbrigate ci sarà l'apocalisse, sciagure e cavallette, ecc.' era forse la parte meno interessante. Di lettere così dovevano arrivarne di frequente, a tutti i presuli. Più stuzzicante era l'identità del mittente: Pier da Morrone. Non il solito eremita pazzo. Cioè. Eremita senza dubbio, e mediamente pazzo come tutti, ma universalmente conosciuto e stimato. Molto prima di varcare il Sacro Soglio, fratel Pietro era già una celebrità, un santo in terra, sin dai tempi in cui si era recato a piedi a Lione, per il concilio in cui Gregorio X sperava di sanare lo scisma d'oriente, nel 1273. Pietro poco o nulla sapeva di scismi, ma era preoccupato per la sorte del suo ordine, che come tutti quelli di più recente fondazione rischiava di essere sciolto. Tecnicamente si trattava di un ramo dei monaci benedettini, ma la povertà radicale che predicavano e praticavano li inseriva nel più vasto movimento pauperistico del Duecento.
Tutto questo comunque era successo vent'anni prima. Da lì in poi, nulla di particolarmente eclatante era successo nella vita di Pietro: era tornato negli Abruzzi, dove si divideva tra il suo eremo preferito sulla Majella (Santo Spirito) e quello un po' meno estremo, più accessibile a visitatori e fans: Sant'Onofrio al Morrone nei pressi di Sulmona. A parte digiunare e inviare ai potenti della terra qualche profezia di sventura, Pietro non è che facesse un granché, né nessuno si aspettava molto altro. Era idea corrente che l'uomo più santo e meno corruttibile della terra vivesse una vita di privazioni da qualche parte negli Appennini, pregando per i peccati di tutti. Finché al cardinale decano non viene l'idea: e se incoronassimo lui? Ha più di ottant'anni, che male vuoi che faccia. Monsignor Latino Malabranca aveva più fretta degli altri, forse sapeva che non avrebbe passato l'estate (morì in agosto).
A quel punto a Perugia erano rimasti in sei cardinali: gli altri accorsero quando ormai l'idea si era conquistata un nocciolo duro di sostenitori. Non avendo i verbali possiamo ricamare a piacere: immaginare i cardinali che sbattono il pugno sul tavolo e dicono basta, qui mentre chiacchieriamo i cristiani perdono ogni fiducia nelle istituzioni, è ora di dare un segnale forte. Pensiamo fuori dalla scatola, allarghiamo il quadro, e qualche altra di queste menate da consiglio d'amministrazione che in ogni secolo si scrivono in una lingua diversa senza perdere la loro fumosa consistenza. Bisogna mostrare che recepiamo le istanze della base, insomma, quelli non fanno altro che gridare povertà povertà, credono che sia la chiave di tutti i problemi, e noi diamogliela. Pietro è perfetto, non ha mai scritto o detto nulla di lontanamente eretico, e soprattutto... è anziano. Già, quanti anni ha? Non si sa, ma va per i novanta.
Non ci volle molto tempo per scoprirlo. Re Carlo lo Zoppo da Napoli andò a prenderlo direttamente alla Majella, e non lo avrebbe più mollato. Pietro non riuscì nemmeno a raggiungere i cardinali a Perugia: fu probabilmente Carlo a sconsigliarlo di uscire dai confini del suo regno. Papa Celestino V non risedette mai a Roma, né la cosa dovette dispiacergli troppo: c'era stato da giovane, per studiare, e se n'era andato appena aveva potuto. Fu incoronato nella cattedrale più vicina al suo eremo, all'Aquila: quella basilica di Santa Maria di Collemaggio che secondo la leggenda era stata costruita su sua richiesta (quand'era un semplice eremita aveva trovato riparo in una chiesa diroccata, e la Vergine in sogno gli aveva chiesto una Basilica più grande in loco). Celestino entrò all'Aquila come Gesù a Gerusalemme, a dorso di un asino a cui re Carlo teneva le briglie. La metafora si prestava a diversi piani di lettura (continua sul Post)
Che farai, Pier da Morrone? Sei venuto al paragone. Ogni tanto capita, in Italia più spesso che altrove, che un ruolo di grande responsabilità sia affidato a un individuo senza esperienza, una persona universalmente riconosciuta e stimata per i suoi ideali, a volte anche per la coerenza con cui li persegue - ma digiuna di politica. Il che a volte è considerato un valore, e in Italia più che altrove: se non capisci niente di politica è meglio, è una cosa sporca, fidati, magari ci firmi due carte e ci pensiamo noi. Può essere un sovrano, un dittatore, un ministro, anche solo un sindaco. Capitò anche a qualche papa. E ogni volta sembra di risentire la strofetta sardonica di fra Jacopone, poeta-frate-combattente contemporaneo di Dante, meno raffinato ma altrettanto italiano: che farai, Pier da Morrone? Vederimo el lavorato che in cella hai contemplato. Vedremo come si realizza nella pratica quello contemplavi nella tua povera cella. Ma s’è ’l monno de te engannato, séquita maledezzone!
Pier da Morrone, lo sanno tutti, non avrebbe davvero voluto fare il Papa. Era un anziano eremita, senza esperienza di politica, né di liturgia. Non parlava neanche bene il latino, in un secolo e in una situazione in cui gli sarebbe davvero servito. Nel suo volgare molisano (Isernia e Sant'Angelo Limosano se ne disputano la paternità), Pier da Morrone avrebbe potuto rispondere subito "No" ai messaggeri che gli portavano la notizia: dopo 27 mesi di stallo, i dodici cardinali in conclave avrebbero scelto te. Te la senti? Bastava un no. Pietro non lo disse. Secondo Petrarca cercò addirittura di fuggire; secondo i suoi biografi fu un po' tirato per il saio dai monaci dell'ordine che aveva fondato, e che in suo onore si sarebbero poi chiamati celestini. Fratel Pietro, tu puoi cambiare tutto. Chi altri se non tu. Fratel Pietro, è Dio che lo vuole. Fratel Pietro, tu puoi risolvere i problemi che infangano la Chiesa, con una sola parola, che è il nostro motto: povertà. Povertà. Fratel Pietro, se i cardinali hanno scelto te, un motivo ci sarà.
La tua fama alta è salita,I cardinali in realtà non sapevano più a che santo votarsi. Era una di quelle elezioni che non finivano mai: situazione molto incresciosa per i fedeli, giacché se da una parte è normale che dodici teste abbiano dodici priorità diverse, non si capisce perché lo Spirito Santo non debba esprimersi chiaramente in tempi brevi. Già in passato, per evitare situazioni del genere, erano state adottate misure estreme: nel 1268 i viterbesi esasperati avevano chiuso a chiave i cardinali nella grande sala del palazzo papale, dando luogo al primo vero "conclave". E siccome i porporati continuavano a litigare, avevano cominciato a scoperchiare il tetto. Alla fine era stato eletto un buon papa, Gregorio X, che aveva dato disposizioni molto dure onde evitare il ripetersi di un simile scandalo: dopo dieci giorni le porte dovevano essere sbarrate, e la dieta dei principi della Chiesa progressivamente ridotta fino al pane e all'acqua. Questo regolamento era poi caduto in disuso (sarebbe stato proprio Celestino a ripristinarlo), e così prima di eleggere Pietro da Morrone i porporati avevano già passato due anni a litigare, anche solo per decidere dove proseguire la discussione: a Roma, no che c'è la peste, a Rieti, anzi, facciamo a Perugia. Tra i dodici c'erano tre rappresentanti della famiglia Orsini, e due degli eterni avversari, i Colonna. L'equilibrio era quasi perfetto, al punto da suggerire l'idea che tirassero avanti sperando che qualche anziano morisse - un francese effettivamente morì. Nel frattempo i fedeli davano segni di impazienza.
en molte parte n’è gita:
se te sozzi a la finita,
ai bon’ sirai confusïone.

Il segno più evidente lo diede Carlo d'Angiò detto lo Zoppo, re di Sicilia anche se sulla Sicilia propriamente detta non regnava: dal tempo dei Vespri l'isola era passata agli Aragona e Carlo doveva contentarsi della "Sicilia al di qua dello stretto", quella che oggi chiamiamo Italia meridionale. Da tempo Carlo lavorava a una soluzione diplomatica. Era persino riuscito a dividere il fronte degli aragonesi, alleandosi col fratello maggiore, Giacomo II che regnava a Barcellona, contro il fratellino Federico che era reggente a Palermo e non aveva intenzione di andarsene. Ma per firmare una pace seria aveva bisogno di un pontefice che la suggellasse. Se gli Orsini erano chiaramente dalla sua parte, i Colonna stavano con gli Aragona, forse perché finanziati da Federico o semplicemente per il gusto di mettere i bastoni nelle ruote degli Orsini.
A un certo punto Carlo d'Angiò decise di recarsi a Perugia, col manifesto proposito di metter fretta ai cardinali e allo Spirito Santo. Un gesto di arroganza inaudita. Quando irruppe nel conclave, i cardinali riuscirono a sbatterlo fuori, e pare che nell'occasione il più risoluto si mostrasse il cardinale di Anagni, Benedetto Caetani: sì, il futuro Bonifacio VIII. La discussione proseguì finché il decano, Latino Malabranca Orsini, non ebbe la pensata di mostrare una lettera che gli avevano recapitato. Il contenuto, una cosa del tipo 'se non vi sbrigate ci sarà l'apocalisse, sciagure e cavallette, ecc.' era forse la parte meno interessante. Di lettere così dovevano arrivarne di frequente, a tutti i presuli. Più stuzzicante era l'identità del mittente: Pier da Morrone. Non il solito eremita pazzo. Cioè. Eremita senza dubbio, e mediamente pazzo come tutti, ma universalmente conosciuto e stimato. Molto prima di varcare il Sacro Soglio, fratel Pietro era già una celebrità, un santo in terra, sin dai tempi in cui si era recato a piedi a Lione, per il concilio in cui Gregorio X sperava di sanare lo scisma d'oriente, nel 1273. Pietro poco o nulla sapeva di scismi, ma era preoccupato per la sorte del suo ordine, che come tutti quelli di più recente fondazione rischiava di essere sciolto. Tecnicamente si trattava di un ramo dei monaci benedettini, ma la povertà radicale che predicavano e praticavano li inseriva nel più vasto movimento pauperistico del Duecento.
Como segno a saietta,La Chiesa ufficiale non si era mai trovata a suo agio coi pauperisti. Predicare la povertà radicale poteva portare a forme di ribellione contro la proprietà privata e l'ordine costituito - era da secoli che succedeva. Con alcuni pauperisti ci si poteva ragionare: ad esempio Francesco d'Assisi aveva ottenuto il via libera da Innocenzo III, e il suo estremismo iniziale era diventato minoritario nel suo stesso ordine (Francesco probabilmente non era contento della piega che avevano preso gli eventi, ma era morto presto). La differenza tra essere bruciati come eretici e venerati come santi era minima e poteva dipendere da un niente, magari dal sogno di un pontefice che ha fatto indigestione. Gregorio X non solo aveva accolto il povero fratel Pietro con tutti gli onori, ma gli aveva chiesto di celebrare una messa per tutti i padri conciliari. Nessuno ne era più degno di lui, aveva affermato. Gregorio era in contatto diretto con tutti i più grandi personaggi della Chiesa del suo tempo: Tommaso d'Aquino, Bonaventura da Bagnoregio, Alberto Magno, Luigi IX re di Francia: l'Europa brulicava di futuri santi e Gregorio li conosceva tutti. Per cui no, Pietro da Morrone non era il solito eremita convinto che tutti i problemi si possano risolvere digiunando. Perlomeno, era un eremita stimato da papa Gregorio.
tutto lo monno a te affitta:
se non ten’ belancia ritta,
a Deo ne va appellazione.

Tutto questo comunque era successo vent'anni prima. Da lì in poi, nulla di particolarmente eclatante era successo nella vita di Pietro: era tornato negli Abruzzi, dove si divideva tra il suo eremo preferito sulla Majella (Santo Spirito) e quello un po' meno estremo, più accessibile a visitatori e fans: Sant'Onofrio al Morrone nei pressi di Sulmona. A parte digiunare e inviare ai potenti della terra qualche profezia di sventura, Pietro non è che facesse un granché, né nessuno si aspettava molto altro. Era idea corrente che l'uomo più santo e meno corruttibile della terra vivesse una vita di privazioni da qualche parte negli Appennini, pregando per i peccati di tutti. Finché al cardinale decano non viene l'idea: e se incoronassimo lui? Ha più di ottant'anni, che male vuoi che faccia. Monsignor Latino Malabranca aveva più fretta degli altri, forse sapeva che non avrebbe passato l'estate (morì in agosto).
A quel punto a Perugia erano rimasti in sei cardinali: gli altri accorsero quando ormai l'idea si era conquistata un nocciolo duro di sostenitori. Non avendo i verbali possiamo ricamare a piacere: immaginare i cardinali che sbattono il pugno sul tavolo e dicono basta, qui mentre chiacchieriamo i cristiani perdono ogni fiducia nelle istituzioni, è ora di dare un segnale forte. Pensiamo fuori dalla scatola, allarghiamo il quadro, e qualche altra di queste menate da consiglio d'amministrazione che in ogni secolo si scrivono in una lingua diversa senza perdere la loro fumosa consistenza. Bisogna mostrare che recepiamo le istanze della base, insomma, quelli non fanno altro che gridare povertà povertà, credono che sia la chiave di tutti i problemi, e noi diamogliela. Pietro è perfetto, non ha mai scritto o detto nulla di lontanamente eretico, e soprattutto... è anziano. Già, quanti anni ha? Non si sa, ma va per i novanta.
Si se’ auro, ferro o rame,Che si trattasse di una soluzione transitoria, in attesa di mettersi d'accordo su un nome più importante, era forse chiaro allo stesso monaco, che dopo qualche esitazione scelse di ereditare il nome dal titolare di uno dei pontificati più brevi della storia: Celestino IV, nel 1241, aveva regnato per appena 17 giorni. Pietro non si aspettava di durare parecchio di più. Il fatto è che mentre certi pauperisti muoiono molto presto, stroncati dalle privazioni che si autoinfliggono (Francesco d'Assisi, Caterina da Siena), altri viceversa sono molto longevi (Francesco da Paola). Probabilmente azzeccano la dieta giusta, riducono le frustrazioni e passano la novantina in tutta tranquillità. Un papa povero, digiuno di tutto e quindi anche di politica, poteva essere facilmente manovrabile: ma da chi?
provàrite en esto esame;
quign’ hai filo, lana o stame,
mustàrite en esta azzone.
Non ci volle molto tempo per scoprirlo. Re Carlo lo Zoppo da Napoli andò a prenderlo direttamente alla Majella, e non lo avrebbe più mollato. Pietro non riuscì nemmeno a raggiungere i cardinali a Perugia: fu probabilmente Carlo a sconsigliarlo di uscire dai confini del suo regno. Papa Celestino V non risedette mai a Roma, né la cosa dovette dispiacergli troppo: c'era stato da giovane, per studiare, e se n'era andato appena aveva potuto. Fu incoronato nella cattedrale più vicina al suo eremo, all'Aquila: quella basilica di Santa Maria di Collemaggio che secondo la leggenda era stata costruita su sua richiesta (quand'era un semplice eremita aveva trovato riparo in una chiesa diroccata, e la Vergine in sogno gli aveva chiesto una Basilica più grande in loco). Celestino entrò all'Aquila come Gesù a Gerusalemme, a dorso di un asino a cui re Carlo teneva le briglie. La metafora si prestava a diversi piani di lettura (continua sul Post)
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Ma quindi, insomma, Renzi governa
12-05-2016, 00:55famiglie, omofobie, RenziPermalink
Ieri è stato uno dei giorni più belli del governo Renzi, che in teoria di cose ne ha già cambiate tante, ma appunto: in teoria. Ci vorrà del tempo per capire se il Jobs Act ha creato posti di lavoro (per ora sembra di no), se la Buona Scuola ha migliorato la qualità delle scuole italiane (vasto programma), se le riforme elettorali e costituzionali renderanno l'Italia più governabile. Invece da oggi le unioni civili esistono: e portano una serie di diritti (comunione dei beni, reversibilità, assistenza in ospedale) che una volta estesi alle coppie omosessuali, difficilmente potranno essere cancellati.
È un passo più corto di quello che molti si aspettavano - anche tra i renziani - ma indietro non si torna. Da qui in poi sarà anche più facile, per queste famiglie, ottenere quella stepchild adoption che i tribunali concedono sempre più spesso (come previsto), con buona pace degli ultras cattolici, alcuni dei quali questa legge l'hanno pure dovuta votare. Ieri è stata una splendida giornata, la dimostrazione che non tutti i governi sono uguali e non tutti i compromessi catastrofici. È un peccato che molti renziani non abbiano potuto godersela.
Stanno già pensando all'autunno, il referendum sulle riforme. Già difendono affannosamente l'assoluta necessità di un senato eletto dai consiglieri regionali, così come difesero l'ineluttabilità di quel bizzarro proporzionale con ballottaggio e premio elettorale - senza tutto ciò, ci spiegano, l'Italia è fottuta, ingovernabile, preda del trasformismo, dell'inciucio contronatura.
E ci potrebbe anche stare - però, scusate. I giorni pari il renziano dice che è impossibile governare l'Italia senza Italicum e riforma. I giorni dispari si sta spellando le mani per i prodigiosi risultati del governo Renzi. Ma quindi, insomma, Renzi sta governando. Con una maggioranza raccogliticcia, con la collaborazione di personaggi discutibili e indigesti a molti elettori del Pd, Renzi è in sella da due anni e più e ha fatto il Jobs Act, la Buona Scuola, le unioni civili, l'Italicum, le riforme costituzionali. Tutte queste cose con la complicità di Alfano, a volte anche di Verdini: e magari gli sono uscite male, ma siamo sinceri: non è che si possa dare la colpa ad Alfano, o a Verdini. Il Jobs Act non è un provvedimento di sinistra inquinato dai centristi: era proprio quella roba che i fan di Ichino sognavano ai tempi della Leopolda. La Buona Scuola di Renzi è proprio la Buona Scuola di Renzi, non di Alfano. L'Italicum, la riforma del senato, non sono pastrocchi a causa di compromessi o larghe intese. Addirittura a un certo punto Renzi ha chiuso con Berlusconi, ma poi le riforme gli sono venute brutte lo stesso: si vede che a lui garbano così. Lo stesso dl Cirinnà arriva al traguardo senza stepchild adoption non solo per l'opposizione di Alfano: sul tema era diviso anche il Pd. Non posso dimostrarlo, ma ho la sensazione che se due anni fa Renzi avesse vinto le elezioni e fosse arrivato a Palazzo Chigi sostenuto da una maggioranza monocolore del Pd, in capo a due anni avremmo più o meno lo stesso Jobs Act, la stessa Buona Scuola, lo stesso Italicum, lo stesso dl Cirinnà. Insomma, Renzi governa. È una buona notizia per i renziani. Già.
Non gli toccasse ripetere, nei giorni pari, che senza riforme questo Paese non si può governare.
Forse non è così vero che le istituzioni italiane condannino la nazione all'inerzia o all'immobilità. Se Berlusconi non ha fatto molto, forse era semplicemente un incapace. Certo, un centrosinistra a dieci partiti aveva un problema strutturale - ma con una coalizione di due o tre partiti anche l'Italia si governa. Il paradosso è che lo sta dimostrando proprio il leader che sostiene il contrario, che la costituzione vada cambiata. Il premio di maggioranza è una rarità nel mondo libero, con precedenti storici inquietanti - il premio assegnato con un ballottaggio nazionale, una specie di referendum, è proprio una novità assoluta. Secondo Renzi è necessario: eppure lo stesso Renzi ne sta brillantemente facendo a meno. Ci ha già fatto sapere che è un prendere-o-lasciare: che in autunno non voteremo per il futuro assetto costituzionale, ma per tenerlo in sella o mandarlo a casa. È un ricatto abbastanza puerile. Quando sarà ora di eleggere i miei rappresentanti in parlamento, esprimerò il mio giudizio su Renzi e il suo partito. Ma quando si parla di costituzione, occorre guardare un po' più in là. Un futuro monocolore Renzi non mi spaventa più di tanto, il tizio ha già dato del suo meglio e del suo peggio. Ma dopo? Qualcuno dovrà pur venire dopo.
È un passo più corto di quello che molti si aspettavano - anche tra i renziani - ma indietro non si torna. Da qui in poi sarà anche più facile, per queste famiglie, ottenere quella stepchild adoption che i tribunali concedono sempre più spesso (come previsto), con buona pace degli ultras cattolici, alcuni dei quali questa legge l'hanno pure dovuta votare. Ieri è stata una splendida giornata, la dimostrazione che non tutti i governi sono uguali e non tutti i compromessi catastrofici. È un peccato che molti renziani non abbiano potuto godersela.
Stanno già pensando all'autunno, il referendum sulle riforme. Già difendono affannosamente l'assoluta necessità di un senato eletto dai consiglieri regionali, così come difesero l'ineluttabilità di quel bizzarro proporzionale con ballottaggio e premio elettorale - senza tutto ciò, ci spiegano, l'Italia è fottuta, ingovernabile, preda del trasformismo, dell'inciucio contronatura.
E ci potrebbe anche stare - però, scusate. I giorni pari il renziano dice che è impossibile governare l'Italia senza Italicum e riforma. I giorni dispari si sta spellando le mani per i prodigiosi risultati del governo Renzi. Ma quindi, insomma, Renzi sta governando. Con una maggioranza raccogliticcia, con la collaborazione di personaggi discutibili e indigesti a molti elettori del Pd, Renzi è in sella da due anni e più e ha fatto il Jobs Act, la Buona Scuola, le unioni civili, l'Italicum, le riforme costituzionali. Tutte queste cose con la complicità di Alfano, a volte anche di Verdini: e magari gli sono uscite male, ma siamo sinceri: non è che si possa dare la colpa ad Alfano, o a Verdini. Il Jobs Act non è un provvedimento di sinistra inquinato dai centristi: era proprio quella roba che i fan di Ichino sognavano ai tempi della Leopolda. La Buona Scuola di Renzi è proprio la Buona Scuola di Renzi, non di Alfano. L'Italicum, la riforma del senato, non sono pastrocchi a causa di compromessi o larghe intese. Addirittura a un certo punto Renzi ha chiuso con Berlusconi, ma poi le riforme gli sono venute brutte lo stesso: si vede che a lui garbano così. Lo stesso dl Cirinnà arriva al traguardo senza stepchild adoption non solo per l'opposizione di Alfano: sul tema era diviso anche il Pd. Non posso dimostrarlo, ma ho la sensazione che se due anni fa Renzi avesse vinto le elezioni e fosse arrivato a Palazzo Chigi sostenuto da una maggioranza monocolore del Pd, in capo a due anni avremmo più o meno lo stesso Jobs Act, la stessa Buona Scuola, lo stesso Italicum, lo stesso dl Cirinnà. Insomma, Renzi governa. È una buona notizia per i renziani. Già.
Non gli toccasse ripetere, nei giorni pari, che senza riforme questo Paese non si può governare.
Forse non è così vero che le istituzioni italiane condannino la nazione all'inerzia o all'immobilità. Se Berlusconi non ha fatto molto, forse era semplicemente un incapace. Certo, un centrosinistra a dieci partiti aveva un problema strutturale - ma con una coalizione di due o tre partiti anche l'Italia si governa. Il paradosso è che lo sta dimostrando proprio il leader che sostiene il contrario, che la costituzione vada cambiata. Il premio di maggioranza è una rarità nel mondo libero, con precedenti storici inquietanti - il premio assegnato con un ballottaggio nazionale, una specie di referendum, è proprio una novità assoluta. Secondo Renzi è necessario: eppure lo stesso Renzi ne sta brillantemente facendo a meno. Ci ha già fatto sapere che è un prendere-o-lasciare: che in autunno non voteremo per il futuro assetto costituzionale, ma per tenerlo in sella o mandarlo a casa. È un ricatto abbastanza puerile. Quando sarà ora di eleggere i miei rappresentanti in parlamento, esprimerò il mio giudizio su Renzi e il suo partito. Ma quando si parla di costituzione, occorre guardare un po' più in là. Un futuro monocolore Renzi non mi spaventa più di tanto, il tizio ha già dato del suo meglio e del suo peggio. Ma dopo? Qualcuno dovrà pur venire dopo.
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Capitan America 3: una questione privata
10-05-2016, 01:06cinema, Cosa vedere a Cuneo (e provincia) quando sei vivo, fumettiPermalinkCaptain America: Civil War (Anhony e Joe Russo, 2016).
A ogni supereroe di segno positivo corrisponde una catastrofe di segno contrario. L'ipotesi che formula Visione all'inizio del film ('Da quando esistono gli Avengers non succedono che disastri. Vuoi vedere che c'è una correlazione?') nella versione a fumetti è dimostrata dal capo da Mr Fantastic con un'intera lavagnata di calcoli. Perché nei fumetti tutto è sempre un po' più complicato. In realtà la formula è semplicissima (eroe + catastrofe = 0) ed è un corollario di quanto il buon Umberto Eco aveva scoperto intorno al mito di Superman mezzo secolo fa. Ciò che rendeva interessante il supereroe, ai tempi ormai remoti in cui Eco cominciava a studiarlo, era il fatto che vivesse più o meno nel nostro mondo; che condividesse i valori di un buon cittadino americano; che si cambiasse nelle cabine telefoniche. E tuttavia un mondo non può rimanere simile al nostro a lungo, se è popolato da eroi potenti come Superman. Per ristabilire l'equilibrio, per evitare che Superman sconfigga i sovietici, risolva la crisi energetica e trasformi il suo mondo in qualcosa di troppo diverso dal nostro, egli deve costantemente essere sfidato da supercattivi potenti quasi quanto lui. Superuomini e supercattivi nascono più o meno nello stesso momento, a volte scaturiscono dallo stesso incidente; hanno poteri complementari e il loro scopo è annullarsi a vicenda, e impedire che il mondo invecchi. Sui fumetti in realtà le cose si sono molto complicate (già Eco stava notando il fenomeno delle realtà parallele, prima che esplodesse), però al cinema, cosa vuoi, cosa pretendi? In due ore devi caricare a molla i superbuoni, i supercattivi e sgomberare. A volte, per risparmiare tempo e idee, si fanno combattere i superbuoni tra loro. Di solito in mezzo c'è un equivoco che si può risolvere (vedi l'ultimo film di Batman e Superman). Altre volte no.
Quando la Disney divulgò il titolo del terzo film su Capitan America, molti lettori di fumetti in tutto il mondo ebbero un tuffo al cuore. La Civil War cartacea è una delle saghe più complesse mai intrecciate dalla Marvel; tanto più notevole quanto non è l'opera di qualche genio irregolare e solitario, ma un progetto su scala industriale, portato avanti da decine di sceneggiatori e disegnatori: prendiamo tutti gli eroi del nostro mondo fantastico e facciamoli scontrare tra loro - non per il solito equivoco che poi si risolve, ma per un problema fondamentale, una questione politica: gli eroi devono rispondere allo Stato o solo alla loro coscienza? Il solito problema: chi vigila sui supervigilantes? Facciamoli parlare di Libertà e di Responsabilità, mentre si tirano pugni e raggi cosmici. Manteniamo un'ambiguità di fondo e continuiamo a chiedere al lettore: tu da che parte stai? Fu un esperimento pazzesco e forse non del tutto riuscito. Certamente è una cosa che ha lasciato un segno.
Però nessuno, credo, nemmeno il più cieco fan della Marvel pretendeva davvero di ritrovarselo al cinema. Al cinema non c'è spazio per tutti quei discorsi. Non puoi intrecciare le nuvolette, piazzare didascalie dappertutto. Le scene d'azione rubano minuti al fondamentale dibattito, i pugni funzionano sempre meglio che le idee. E manca l'aspetto corale, che poi era anche quello più assurdo: non ci sono in giro per la sola New York migliaia di vigilantes mascherati, gli accumuli e i detriti di mezzo secolo di albi a fumetti; nei film ce n'è giusto una dozzina, più che una guerra ci fai una mischia di football. Insomma, non c'era un modo di fare una vera Civil War in un film. Il massimo che si poteva fare era ridurre i danni. Un bignami dignitoso con qualche buona scazzottata che non tradisse l'impianto problematico della storia originale. I fratelli Russo sembravano quelli giusti: col Soldato d'Inverno erano riusciti a problematizzare persino quel cetriolone blu che risponde al buffo nome di Capitan America. Ora si trattava di farlo litigare coi suoi amici, non per i soliti equivoci che poi si risolvono, ma per una questione di ideali e di politica. Com'è andata?
È andata che le scazzottate sono fantastiche. Hai detto poco: in film del genere le coreografie sono importanti più delle interpretazioni. Il genere supereroistico forse comincia ad accusare un po' di stanchezza: i due titoli migliori degli ultimi mesi (Antman, Deadpool) erano esplicitamente parodici. Nel frattempo I fantastici quattro hanno dimostrato che una grande produzione del genere può ancora sbagliare tutto e floppare (è quasi consolante), e Batman v Superman pur andando benissimo ha lasciato tutti un po' perplessi. Civil War, che tratta temi molto simili a BvS, è un film meno stritolato dalle ambizioni, molto più sicuro dei suoi mezzi. Ogni volta che vedo i Russo al lavoro mi viene questo aggettivo, "fluido". Scorre sempre tutto che è un piacere, non solo i combattimenti: l'intreccio, i dialoghi, il modo in cui i personaggi entrano ed escono e ognuno fa sempre il suo numero senza esagerare. Persino il grande Joss Whedon ogni tanto strappava, e tra una bella scena e un'altra necessaria ti trovavi un pezzo che sembrava attaccato con lo scotch alla sceneggiatura da un galoppino della Marvel. Coi Russo non succede mai, coi Russo va tutto liscio. Al massimo dopo una settimana ti dimentichi di cosa parlasse il film (continua su +eventi!)
Tra Civil War Batman v Superman c'è un po' la stessa differenza che corre tra un buon albo a fumetti regolare e la graphic novel dell'autore d'eccezione con pretese artistoidi e letterarie. Alla fine forse parlano della stessa cosa, ma BvS è il delirio di un profeta ubriaco, procede a tentoni tra illuminazioni geniali e crolli improvvisi nel ridicolo; CW è il compitino ben fatto di uno studente che non voleva assolutamente dirti qualcosa di diverso da quello che già sai. Di fronte a un film come questo, che è senza dubbio lo stato dell'arte del cinema di supereroi, a me capita davvero, non me ne voglia Raffaele Alberto Ventura, di "spegnere il cervello". Lo stesso cervello che davanti a BvS continuava a mandarmi messaggi stizziti: ma che succede? Ma che combinano? Ma questa cosa non ha senso! E quest'altra nemmeno!, dopo mezz'oretta di CW ha messo il pilota automatico. CW è sotto tutti gli aspetti un film più riuscito di BvS. Ma non è più intelligente. La mamma di Tony Stark non è più problematica della mamma di Batman. La verità è che la mamma è sempre la mamma, e che Capitan America e Iron Man non stanno litigando per una fumosa questione ideale, ma per i soliti banalissimi motivi: la mamma morta e l'amichetto che si ficca sempre nei guai. Sempre il solito amichetto. Sempre la solita mamma. E lo sanno entrambi che non ha senso: l'amichetto è francamente ingestibile e la mamma ormai è morta da un pezzo. Però guarda come se le danno di gusto.
Ripensandoci, non poteva che finire così. La Civil War dei fumetti metteva in crisi uno degli aspetti fondamentali dei supereroi di carta: l'identità segreta. In seguito a una catastrofe più insensata del solito, Casabianca e Campidoglio avrebbero deliberato la registrazione di tutti i supereroi mascherati: chi non avesse rivelato la sua identità al Presidente era da ritenersi fuorilegge (non a caso la storia girava intorno a Spiderman, il più geloso difensore della propria privacy, che viene convinto da Stark a rivelarla pubblicamente). In controluce c'era la guerra al terrorismo, il Patriots Act, eccetera. È passato qualche anno, ma il dibattito sulla privacy on line e fuori sarebbe ancora attualissimo: a quanti di noi è successo, negli ultimi anni, di perdere le nostre identità segrete on line, quelle che ci permettevano di scorrazzare liberi e di vendicarci delle frustrazioni quotidiane (anche se le identità invece che a Obama le abbiamo date a Zuckerberg)? Lo stesso Snowden, quanto assomiglia a un eroe tormentato che ha dovuto scegliere tra la fedeltà al suo Paese e ai suoi ideali, è stato costretto a rivelare la sua identità e ne ha pagato le conseguenze? Portare tutto questo al cinema, e nelle sale in cui si proiettano di solito film in calzamaglia, sarebbe stata una mossa davvero ammirabile.
Ma probabilmente impraticabile, perché le identità segrete, così tradizionalmente associate ai supereroi su carta, nell'universo cinematico Marvel sono quasi del tutto scomparse. Qui Stark ha fatto coming out già nel primo film: in generale, tutti sanno chi è chi. E quindi qual è il problema? Cosa sta chiedendo l'Onu ai Vendicatori? Devono stare attenti a fare meno danni? E sul serio: se un'invasione aliena minaccia New York, te la prendi con quei cinque o sei supereroi che l'hanno risolta da sola, mentre l'esercito era già pronto a deflagrare un'atomica? Lo capisce pure un ragazzino che è un pretesto. E i ragazzini che hanno visto il primo Iron Man a dieci anni, quest'anno votano.
Insomma no, CW non è quell'intrattenimento intelligente che vorrebbe farti credere di essere. Di solito i film Marvel alternavano ai combattimenti qualche sketch di commedia: i Russo hanno lubrificato il processo e ormai commedia e combattimento coincidono, è tutto un gran balletto in cui si scherza ma ci si può anche far male. Tra un numero e l'altro, qualche recitativo serioso manda avanti la trama. E anche qui, non è roba da buttare: vedere un supercattivo per una volta umanissimo, solitario, un modesto artigiano del Male invece del solito scienziato pazzo superaccessoriato - e immaginare tutti questi eroici yankee in corazza o calzamaglia manipolati dal buon vecchio Niki Lauda, pardon, Daniel Brühl... non era affatto una cattiva idea. Però, appunto, siamo al solito luogo comune: eroi che combattono non perché divisi da un'idea, ma perché un cattivone li ha manipolati. Si poteva osare di più? Se non ci è riuscita la Marvel, credo di no. Alla fine è un cinecomic, cosa pretendi? Certo, i bambini che festeggiarono il decimo anniversario al cinema con Iron Man I, quest'anno diventano maggiorenni. Tra un po' avranno bisogno di qualcosa di più. E forse ci arriveremo, al polpettone superoistico problematico. Ma che fretta c'è, dopotutto.
Le pagelle:
Capitan America. Se mi avessero detto che nella mia età adulta avrei visto non uno, ma ben tre film sul cetriolone blu, non ci avrei mai creduto. Se poi avessero aggiunto che a dare spessore al personaggio avrebbe contribuito l'umano carisma di Chris Evans, già odiosissima Torcia Umana, avrei iniziato a ridere forte. Pure, è andata così. Onore al Capitano.
Vedova Nera. Dopo cinque minuti Scarlett ha già salvato l'Africa da una pandemia mortale - e non si è ancora messa il costume. Poi vabbè, io non ce la faccio a essere oggettivo con Scarlett. Ormai ho accettato che è un personaggio secondario ambiguo e doppiogiochista, e mi sta bene così. Sta a tutti bene così. Se il film avesse un senso logico, a un certo punto Iron Man dovrebbe farla fuori. Non succede.
Black Panther. Secondo me è andata così: a un certo punto si sono accorti di aver dato un gregario nero sia a Iron Man che al Capitano, e che la cosa già discutibile in sé sarebbe riuscita ancora meno sopportabile in un film corale. A quel punto che fare? Ammazzarne uno? Peggio ancora. L'unica possibilità era infilarne un terzo che finalmente splendesse di luce propria. Storicamente, BP ha assunto questa funzione: è nero ma non è secondo a nessuno, tutti lo chiamano sua Maestà e s'inchinano, nelle edicole degli anni Settanta doveva essere uno choc. BP si conquista il suo spazio a unghiate, ma è un personaggio sostanzialmente ridondante, e tutta questa voglia di vedere un film su di lui non mi è venuta.
Iron Man. Il passaggio da golden boy maledetto a leader tormentato non è che sia stato così lineare: ho perso il conto, ma forse è il quarto film in cui dice di volersi ritirare e non lo fa. In più, siccome hanno deciso di risparmiare tagliando Gwyneth Paltrow, gli viene attribuita un'abbastanza gratuita frustrazione sentimentale. In realtà Downey Jr è ancora uno dei pilastri di tutta la baracca: lo si vede nel siparietto col nuovo Spider Man.
Spiderman. Poi per carità a me va bene tutto. Anche Marisa Tomei zia, anzi, avercene. Questo Spidey giovanissimo ed entusiasta è perfetto per quello che deve fare qui. Però per favore non dite che era uguale all'originale. L'originale, quando calava la maschera, non guardava più in faccia a nessuno. Non si sarebbe ficcato in una zuffa solo perché Tony Stark gli dice che è giusto; non se la sarebbe presa coi nemici di Stark solo perché glielo dice Stark. Lo Spidey originale ha sempre fatto di testa sua e ha sempre preso le distanze da qualsiasi figura pseudopaterna.
Occhio di Falco. Jeremy Renner ha tre minuti tre a disposizione e anche stavolta li usa al meglio. Alla fine è il personaggio più vicino al papà che porta i suoi bimbi al cinema: un tizio che malgrado tutto non riesce a sentirsi troppo vecchio per queste stronzate. Forse non c'è niente di meglio del momento in cui con una freccina apparentemente sbagliata manda al tappeto Iron Man.
Antman. È un tipo a posto, dai. Non impegna, non ingombra, fa il suo numero e poi scompare.
Visione e Scarlet Witch. La verità è che li ho sempre un po' detestati sulla carta - oggettivamente, chi li ha progettati aveva un gusto tremendo. Non ho mai capito perché un sistema operativo incarnato debba avere la faccia magenta - a parte il fatto che in quadricromia veniva bene (lo sapete, vero, che Hulk è diventato verde perché stamparlo in grigio era troppo difficile?), però nei film, davvero, che motivo c'è. Hai tutta la sapienza del mondo e decidi di tenerti una faccia magenta? E il mantello? Invece la ragazza non ha ancora un costume. Spero che vada avanti così.
Il soldato d'inverno. Sta diventando imbarazzante. È il secondo film in cui la principale preoccupazione di Capitan America è salvare Bucky. Cosa ti chiami Capitan America a fare, se alla fine pensi soltanto a salvare il tuo amico Bucky? E da quel che ho capito potrebbe andare avanti così ancora a lungo. Io staccherei la spina.
Captain America: Civil War è al Citiplex di Alba (solo in 2D alle 20:30); al Cinelandia di Borgo San Dalmazzo (in 2D alle 20:30, 21:00, 22:10; in 3D alle 19:50, 22:45); all'Impero di Bra (solo in 3D alle 20:45); al Fiamma di Cuneo (solo in 2D alle 21:00); al Multilanghe di Dogliani (solo in 2D alle 21:15); ai Portici di Fossano (solo in 2D alle 18:30, 21:15); all'Italia di Saluzzo (solo in 2D alle 21:30); al Cinecittà di Savigliano (solo in 2D alle 21:30).
A ogni supereroe di segno positivo corrisponde una catastrofe di segno contrario. L'ipotesi che formula Visione all'inizio del film ('Da quando esistono gli Avengers non succedono che disastri. Vuoi vedere che c'è una correlazione?') nella versione a fumetti è dimostrata dal capo da Mr Fantastic con un'intera lavagnata di calcoli. Perché nei fumetti tutto è sempre un po' più complicato. In realtà la formula è semplicissima (eroe + catastrofe = 0) ed è un corollario di quanto il buon Umberto Eco aveva scoperto intorno al mito di Superman mezzo secolo fa. Ciò che rendeva interessante il supereroe, ai tempi ormai remoti in cui Eco cominciava a studiarlo, era il fatto che vivesse più o meno nel nostro mondo; che condividesse i valori di un buon cittadino americano; che si cambiasse nelle cabine telefoniche. E tuttavia un mondo non può rimanere simile al nostro a lungo, se è popolato da eroi potenti come Superman. Per ristabilire l'equilibrio, per evitare che Superman sconfigga i sovietici, risolva la crisi energetica e trasformi il suo mondo in qualcosa di troppo diverso dal nostro, egli deve costantemente essere sfidato da supercattivi potenti quasi quanto lui. Superuomini e supercattivi nascono più o meno nello stesso momento, a volte scaturiscono dallo stesso incidente; hanno poteri complementari e il loro scopo è annullarsi a vicenda, e impedire che il mondo invecchi. Sui fumetti in realtà le cose si sono molto complicate (già Eco stava notando il fenomeno delle realtà parallele, prima che esplodesse), però al cinema, cosa vuoi, cosa pretendi? In due ore devi caricare a molla i superbuoni, i supercattivi e sgomberare. A volte, per risparmiare tempo e idee, si fanno combattere i superbuoni tra loro. Di solito in mezzo c'è un equivoco che si può risolvere (vedi l'ultimo film di Batman e Superman). Altre volte no.
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War Machine ha sempre quell'aria da usato sicuro (e invece...) |
Quando la Disney divulgò il titolo del terzo film su Capitan America, molti lettori di fumetti in tutto il mondo ebbero un tuffo al cuore. La Civil War cartacea è una delle saghe più complesse mai intrecciate dalla Marvel; tanto più notevole quanto non è l'opera di qualche genio irregolare e solitario, ma un progetto su scala industriale, portato avanti da decine di sceneggiatori e disegnatori: prendiamo tutti gli eroi del nostro mondo fantastico e facciamoli scontrare tra loro - non per il solito equivoco che poi si risolve, ma per un problema fondamentale, una questione politica: gli eroi devono rispondere allo Stato o solo alla loro coscienza? Il solito problema: chi vigila sui supervigilantes? Facciamoli parlare di Libertà e di Responsabilità, mentre si tirano pugni e raggi cosmici. Manteniamo un'ambiguità di fondo e continuiamo a chiedere al lettore: tu da che parte stai? Fu un esperimento pazzesco e forse non del tutto riuscito. Certamente è una cosa che ha lasciato un segno.
Però nessuno, credo, nemmeno il più cieco fan della Marvel pretendeva davvero di ritrovarselo al cinema. Al cinema non c'è spazio per tutti quei discorsi. Non puoi intrecciare le nuvolette, piazzare didascalie dappertutto. Le scene d'azione rubano minuti al fondamentale dibattito, i pugni funzionano sempre meglio che le idee. E manca l'aspetto corale, che poi era anche quello più assurdo: non ci sono in giro per la sola New York migliaia di vigilantes mascherati, gli accumuli e i detriti di mezzo secolo di albi a fumetti; nei film ce n'è giusto una dozzina, più che una guerra ci fai una mischia di football. Insomma, non c'era un modo di fare una vera Civil War in un film. Il massimo che si poteva fare era ridurre i danni. Un bignami dignitoso con qualche buona scazzottata che non tradisse l'impianto problematico della storia originale. I fratelli Russo sembravano quelli giusti: col Soldato d'Inverno erano riusciti a problematizzare persino quel cetriolone blu che risponde al buffo nome di Capitan America. Ora si trattava di farlo litigare coi suoi amici, non per i soliti equivoci che poi si risolvono, ma per una questione di ideali e di politica. Com'è andata?
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Ma ha pure le ali sul casco, giuro non ci avevo mai fatto caso. |
È andata che le scazzottate sono fantastiche. Hai detto poco: in film del genere le coreografie sono importanti più delle interpretazioni. Il genere supereroistico forse comincia ad accusare un po' di stanchezza: i due titoli migliori degli ultimi mesi (Antman, Deadpool) erano esplicitamente parodici. Nel frattempo I fantastici quattro hanno dimostrato che una grande produzione del genere può ancora sbagliare tutto e floppare (è quasi consolante), e Batman v Superman pur andando benissimo ha lasciato tutti un po' perplessi. Civil War, che tratta temi molto simili a BvS, è un film meno stritolato dalle ambizioni, molto più sicuro dei suoi mezzi. Ogni volta che vedo i Russo al lavoro mi viene questo aggettivo, "fluido". Scorre sempre tutto che è un piacere, non solo i combattimenti: l'intreccio, i dialoghi, il modo in cui i personaggi entrano ed escono e ognuno fa sempre il suo numero senza esagerare. Persino il grande Joss Whedon ogni tanto strappava, e tra una bella scena e un'altra necessaria ti trovavi un pezzo che sembrava attaccato con lo scotch alla sceneggiatura da un galoppino della Marvel. Coi Russo non succede mai, coi Russo va tutto liscio. Al massimo dopo una settimana ti dimentichi di cosa parlasse il film (continua su +eventi!)
Tra Civil War Batman v Superman c'è un po' la stessa differenza che corre tra un buon albo a fumetti regolare e la graphic novel dell'autore d'eccezione con pretese artistoidi e letterarie. Alla fine forse parlano della stessa cosa, ma BvS è il delirio di un profeta ubriaco, procede a tentoni tra illuminazioni geniali e crolli improvvisi nel ridicolo; CW è il compitino ben fatto di uno studente che non voleva assolutamente dirti qualcosa di diverso da quello che già sai. Di fronte a un film come questo, che è senza dubbio lo stato dell'arte del cinema di supereroi, a me capita davvero, non me ne voglia Raffaele Alberto Ventura, di "spegnere il cervello". Lo stesso cervello che davanti a BvS continuava a mandarmi messaggi stizziti: ma che succede? Ma che combinano? Ma questa cosa non ha senso! E quest'altra nemmeno!, dopo mezz'oretta di CW ha messo il pilota automatico. CW è sotto tutti gli aspetti un film più riuscito di BvS. Ma non è più intelligente. La mamma di Tony Stark non è più problematica della mamma di Batman. La verità è che la mamma è sempre la mamma, e che Capitan America e Iron Man non stanno litigando per una fumosa questione ideale, ma per i soliti banalissimi motivi: la mamma morta e l'amichetto che si ficca sempre nei guai. Sempre il solito amichetto. Sempre la solita mamma. E lo sanno entrambi che non ha senso: l'amichetto è francamente ingestibile e la mamma ormai è morta da un pezzo. Però guarda come se le danno di gusto.
Ripensandoci, non poteva che finire così. La Civil War dei fumetti metteva in crisi uno degli aspetti fondamentali dei supereroi di carta: l'identità segreta. In seguito a una catastrofe più insensata del solito, Casabianca e Campidoglio avrebbero deliberato la registrazione di tutti i supereroi mascherati: chi non avesse rivelato la sua identità al Presidente era da ritenersi fuorilegge (non a caso la storia girava intorno a Spiderman, il più geloso difensore della propria privacy, che viene convinto da Stark a rivelarla pubblicamente). In controluce c'era la guerra al terrorismo, il Patriots Act, eccetera. È passato qualche anno, ma il dibattito sulla privacy on line e fuori sarebbe ancora attualissimo: a quanti di noi è successo, negli ultimi anni, di perdere le nostre identità segrete on line, quelle che ci permettevano di scorrazzare liberi e di vendicarci delle frustrazioni quotidiane (anche se le identità invece che a Obama le abbiamo date a Zuckerberg)? Lo stesso Snowden, quanto assomiglia a un eroe tormentato che ha dovuto scegliere tra la fedeltà al suo Paese e ai suoi ideali, è stato costretto a rivelare la sua identità e ne ha pagato le conseguenze? Portare tutto questo al cinema, e nelle sale in cui si proiettano di solito film in calzamaglia, sarebbe stata una mossa davvero ammirabile.
Ma probabilmente impraticabile, perché le identità segrete, così tradizionalmente associate ai supereroi su carta, nell'universo cinematico Marvel sono quasi del tutto scomparse. Qui Stark ha fatto coming out già nel primo film: in generale, tutti sanno chi è chi. E quindi qual è il problema? Cosa sta chiedendo l'Onu ai Vendicatori? Devono stare attenti a fare meno danni? E sul serio: se un'invasione aliena minaccia New York, te la prendi con quei cinque o sei supereroi che l'hanno risolta da sola, mentre l'esercito era già pronto a deflagrare un'atomica? Lo capisce pure un ragazzino che è un pretesto. E i ragazzini che hanno visto il primo Iron Man a dieci anni, quest'anno votano.
Insomma no, CW non è quell'intrattenimento intelligente che vorrebbe farti credere di essere. Di solito i film Marvel alternavano ai combattimenti qualche sketch di commedia: i Russo hanno lubrificato il processo e ormai commedia e combattimento coincidono, è tutto un gran balletto in cui si scherza ma ci si può anche far male. Tra un numero e l'altro, qualche recitativo serioso manda avanti la trama. E anche qui, non è roba da buttare: vedere un supercattivo per una volta umanissimo, solitario, un modesto artigiano del Male invece del solito scienziato pazzo superaccessoriato - e immaginare tutti questi eroici yankee in corazza o calzamaglia manipolati dal buon vecchio Niki Lauda, pardon, Daniel Brühl... non era affatto una cattiva idea. Però, appunto, siamo al solito luogo comune: eroi che combattono non perché divisi da un'idea, ma perché un cattivone li ha manipolati. Si poteva osare di più? Se non ci è riuscita la Marvel, credo di no. Alla fine è un cinecomic, cosa pretendi? Certo, i bambini che festeggiarono il decimo anniversario al cinema con Iron Man I, quest'anno diventano maggiorenni. Tra un po' avranno bisogno di qualcosa di più. E forse ci arriveremo, al polpettone superoistico problematico. Ma che fretta c'è, dopotutto.
Le pagelle:
Capitan America. Se mi avessero detto che nella mia età adulta avrei visto non uno, ma ben tre film sul cetriolone blu, non ci avrei mai creduto. Se poi avessero aggiunto che a dare spessore al personaggio avrebbe contribuito l'umano carisma di Chris Evans, già odiosissima Torcia Umana, avrei iniziato a ridere forte. Pure, è andata così. Onore al Capitano.
Vedova Nera. Dopo cinque minuti Scarlett ha già salvato l'Africa da una pandemia mortale - e non si è ancora messa il costume. Poi vabbè, io non ce la faccio a essere oggettivo con Scarlett. Ormai ho accettato che è un personaggio secondario ambiguo e doppiogiochista, e mi sta bene così. Sta a tutti bene così. Se il film avesse un senso logico, a un certo punto Iron Man dovrebbe farla fuori. Non succede.
Black Panther. Secondo me è andata così: a un certo punto si sono accorti di aver dato un gregario nero sia a Iron Man che al Capitano, e che la cosa già discutibile in sé sarebbe riuscita ancora meno sopportabile in un film corale. A quel punto che fare? Ammazzarne uno? Peggio ancora. L'unica possibilità era infilarne un terzo che finalmente splendesse di luce propria. Storicamente, BP ha assunto questa funzione: è nero ma non è secondo a nessuno, tutti lo chiamano sua Maestà e s'inchinano, nelle edicole degli anni Settanta doveva essere uno choc. BP si conquista il suo spazio a unghiate, ma è un personaggio sostanzialmente ridondante, e tutta questa voglia di vedere un film su di lui non mi è venuta.
Iron Man. Il passaggio da golden boy maledetto a leader tormentato non è che sia stato così lineare: ho perso il conto, ma forse è il quarto film in cui dice di volersi ritirare e non lo fa. In più, siccome hanno deciso di risparmiare tagliando Gwyneth Paltrow, gli viene attribuita un'abbastanza gratuita frustrazione sentimentale. In realtà Downey Jr è ancora uno dei pilastri di tutta la baracca: lo si vede nel siparietto col nuovo Spider Man.
Altro che "Stark ha detto questo, Stark ha detto quello". |
Spiderman. Poi per carità a me va bene tutto. Anche Marisa Tomei zia, anzi, avercene. Questo Spidey giovanissimo ed entusiasta è perfetto per quello che deve fare qui. Però per favore non dite che era uguale all'originale. L'originale, quando calava la maschera, non guardava più in faccia a nessuno. Non si sarebbe ficcato in una zuffa solo perché Tony Stark gli dice che è giusto; non se la sarebbe presa coi nemici di Stark solo perché glielo dice Stark. Lo Spidey originale ha sempre fatto di testa sua e ha sempre preso le distanze da qualsiasi figura pseudopaterna.
Occhio di Falco. Jeremy Renner ha tre minuti tre a disposizione e anche stavolta li usa al meglio. Alla fine è il personaggio più vicino al papà che porta i suoi bimbi al cinema: un tizio che malgrado tutto non riesce a sentirsi troppo vecchio per queste stronzate. Forse non c'è niente di meglio del momento in cui con una freccina apparentemente sbagliata manda al tappeto Iron Man.
Antman. È un tipo a posto, dai. Non impegna, non ingombra, fa il suo numero e poi scompare.
Visione e Scarlet Witch. La verità è che li ho sempre un po' detestati sulla carta - oggettivamente, chi li ha progettati aveva un gusto tremendo. Non ho mai capito perché un sistema operativo incarnato debba avere la faccia magenta - a parte il fatto che in quadricromia veniva bene (lo sapete, vero, che Hulk è diventato verde perché stamparlo in grigio era troppo difficile?), però nei film, davvero, che motivo c'è. Hai tutta la sapienza del mondo e decidi di tenerti una faccia magenta? E il mantello? Invece la ragazza non ha ancora un costume. Spero che vada avanti così.
Il soldato d'inverno. Sta diventando imbarazzante. È il secondo film in cui la principale preoccupazione di Capitan America è salvare Bucky. Cosa ti chiami Capitan America a fare, se alla fine pensi soltanto a salvare il tuo amico Bucky? E da quel che ho capito potrebbe andare avanti così ancora a lungo. Io staccherei la spina.
Captain America: Civil War è al Citiplex di Alba (solo in 2D alle 20:30); al Cinelandia di Borgo San Dalmazzo (in 2D alle 20:30, 21:00, 22:10; in 3D alle 19:50, 22:45); all'Impero di Bra (solo in 3D alle 20:45); al Fiamma di Cuneo (solo in 2D alle 21:00); al Multilanghe di Dogliani (solo in 2D alle 21:15); ai Portici di Fossano (solo in 2D alle 18:30, 21:15); all'Italia di Saluzzo (solo in 2D alle 21:30); al Cinecittà di Savigliano (solo in 2D alle 21:30).
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Fascista io, fascista tu
09-05-2016, 01:31costituzione, fascismo, RenziPermalink
In questi mesi sapete quante volte avrei potuto tirar fuori tutto il nero che mi cresceva dentro, e invece no.
Tutte le volte in cui si parlava di premio di maggioranza, e avrei potuto far notare che l'inventore del concetto "premio di maggioranza" si chiama Benito Mussolini, e non l'ho (quasi) mai fatto, perché... boh, perché era troppo facile, forse un po' sleale.
Tutte le volte in cui ho sentito dire che la governabilità è importante, e che ovunque nel mondo se arrivi al 40% ti fanno governare lo stesso, salvo che non è vero, tranne forse in Grecia e in Ispagna; e avrei potuto far notare che in comune con questi due Paesi mediterranei abbiamo anche un passato di regimi totalitari; e non l'ho fatto.
E avrei potuto chiamare l'Italicum Acerbo-bis, ma non l'ho fatto, perché non sono tanto accecato dal mio antirenzismo da non notare la differenza tra la soglia del 25% prevista da Giacomo Acerbo nel 1923 e quella del 40% a cui Renzi si è fermato (certo, all'inizio voleva il 35%...)
E quella volta che in una bozza di riforma la Boschi aveva ribattezzato il Senato "Camera delle Autonomie", e aveva previsto che ne facessero parte ventuno membri nominati direttamente dal Presidente della Repubblica “per altissimi meriti nel campo sociale, scientifico, artistico e letterario". Ventuno. E avrei potuto scrivere ehi ehi ehi, guardate che l'Accademia d'Italia l'aveva già fondata Mussolini: sarebbe stato un goal a porta vuota, e non ho tirato (almeno ai tempi di Mussolini il Capo di Stato non avrebbe potuto usare un pacchetto così consistente per assicurarsi la rielezione, perché era già sovrano a vita).
E quando la Camera delle Autonomie è ridiventata il Senato, ma comunque un senato assurdo pieno di consiglieri provinciali nominati per cooptazione, quanto sarebbe stato facile parlare di Camera dei Fasci e delle Corporazioni? Ma non l'ho fatto: anche lì, troppo facile. Ma fuorviante.
E tutte le volte che ho letto un titolo sull'"ira di Renzi", e ho pensato che a quasi un secolo di distanza, il trucchetto di Mussolini funzionava ancora, e mi sono chiesto se Renzi fosse consapevole di copiarlo: ma me lo sono chiesto tra me e me, e non l'ho scritto da nessuna parte; perché pensavo che il mondo non avesse bisogno di un altro pezzo dove Renzi era paragonato a Mussolini.
Perché alla fine io non credo che Renzi sia un fascista, o più precisamente un Mussolini.
Certo, è sospinto da un'ambizione ugualmente smisurata. E tende, più o meno come tutti gli autocrati, a circondarsi di mediocri e allontanare i migliori. Ma non si è formato su Nietzsche e Sorel, non disprezza (così tanto) la democrazia parlamentare, non crede nel destino del popoli, non è un violento. Sulla crisi dei profughi, fin qui, è stato persino bravo. Quindi no, non ha senso cogliere nel mucchio tutti i piccoli dettagli che il renzismo ha in comune con quell'altra cosa. E di solito non lo faccio.
Poi un giorno il ministro Boschi mi fa notare che se voto no alla sua riforma costituzionale la penso come Casa Pound.
E quindi, insomma.
Cara ministra, se io la penso come Casa Pound, lei la pensa come quel tale Giacomo Acerbo che preparò un premio elettorale per far vincere le elezioni a Mussolini. Mus-so-li-ni. Lo sa chi è stato il primo a vincere un'elezione col premio? Mus-so-li-ni. E allora sa cosa le dico, rispettosamente? la sua Camera dei Fasci e delle Corporazioni - pardon, il suo Senato di cooptati dalle regioni, se lo vota lei. Mi dispiace che non è riuscita a reintrodurre gli accademici d'Italia con le loro belle feluche, ma sarà per la prossima volta. Tenga duro, lo sa quanto ci mise Bottai? Ma forse preferisce che le dia del Voi.
Rispettosamente vostro, Eja eja, eccetera.
Tutte le volte in cui si parlava di premio di maggioranza, e avrei potuto far notare che l'inventore del concetto "premio di maggioranza" si chiama Benito Mussolini, e non l'ho (quasi) mai fatto, perché... boh, perché era troppo facile, forse un po' sleale.
Tutte le volte in cui ho sentito dire che la governabilità è importante, e che ovunque nel mondo se arrivi al 40% ti fanno governare lo stesso, salvo che non è vero, tranne forse in Grecia e in Ispagna; e avrei potuto far notare che in comune con questi due Paesi mediterranei abbiamo anche un passato di regimi totalitari; e non l'ho fatto.
E avrei potuto chiamare l'Italicum Acerbo-bis, ma non l'ho fatto, perché non sono tanto accecato dal mio antirenzismo da non notare la differenza tra la soglia del 25% prevista da Giacomo Acerbo nel 1923 e quella del 40% a cui Renzi si è fermato (certo, all'inizio voleva il 35%...)
E quella volta che in una bozza di riforma la Boschi aveva ribattezzato il Senato "Camera delle Autonomie", e aveva previsto che ne facessero parte ventuno membri nominati direttamente dal Presidente della Repubblica “per altissimi meriti nel campo sociale, scientifico, artistico e letterario". Ventuno. E avrei potuto scrivere ehi ehi ehi, guardate che l'Accademia d'Italia l'aveva già fondata Mussolini: sarebbe stato un goal a porta vuota, e non ho tirato (almeno ai tempi di Mussolini il Capo di Stato non avrebbe potuto usare un pacchetto così consistente per assicurarsi la rielezione, perché era già sovrano a vita).
E quando la Camera delle Autonomie è ridiventata il Senato, ma comunque un senato assurdo pieno di consiglieri provinciali nominati per cooptazione, quanto sarebbe stato facile parlare di Camera dei Fasci e delle Corporazioni? Ma non l'ho fatto: anche lì, troppo facile. Ma fuorviante.
E tutte le volte che ho letto un titolo sull'"ira di Renzi", e ho pensato che a quasi un secolo di distanza, il trucchetto di Mussolini funzionava ancora, e mi sono chiesto se Renzi fosse consapevole di copiarlo: ma me lo sono chiesto tra me e me, e non l'ho scritto da nessuna parte; perché pensavo che il mondo non avesse bisogno di un altro pezzo dove Renzi era paragonato a Mussolini.
Perché alla fine io non credo che Renzi sia un fascista, o più precisamente un Mussolini.
Certo, è sospinto da un'ambizione ugualmente smisurata. E tende, più o meno come tutti gli autocrati, a circondarsi di mediocri e allontanare i migliori. Ma non si è formato su Nietzsche e Sorel, non disprezza (così tanto) la democrazia parlamentare, non crede nel destino del popoli, non è un violento. Sulla crisi dei profughi, fin qui, è stato persino bravo. Quindi no, non ha senso cogliere nel mucchio tutti i piccoli dettagli che il renzismo ha in comune con quell'altra cosa. E di solito non lo faccio.
Poi un giorno il ministro Boschi mi fa notare che se voto no alla sua riforma costituzionale la penso come Casa Pound.
E quindi, insomma.
Cara ministra, se io la penso come Casa Pound, lei la pensa come quel tale Giacomo Acerbo che preparò un premio elettorale per far vincere le elezioni a Mussolini. Mus-so-li-ni. Lo sa chi è stato il primo a vincere un'elezione col premio? Mus-so-li-ni. E allora sa cosa le dico, rispettosamente? la sua Camera dei Fasci e delle Corporazioni - pardon, il suo Senato di cooptati dalle regioni, se lo vota lei. Mi dispiace che non è riuscita a reintrodurre gli accademici d'Italia con le loro belle feluche, ma sarà per la prossima volta. Tenga duro, lo sa quanto ci mise Bottai? Ma forse preferisce che le dia del Voi.
Rispettosamente vostro, Eja eja, eccetera.
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I libri da distruggere della settimana
06-05-2016, 17:52autoreferenziali, nazismo, segnalazioniPermalink
A chiunque volesse distruggere i libri - so che c'è questa nuova tendenza di andare alle fiere e rovesciarli, o in libreria a strapparli, azioni che io non condivido nel modo più assoluto; tuttavia segnalo a chiunque fosse barbaramente interessato a distruggere libri, che è ancora possibile trovare in commercio un pregevole volume su Filippo Tommaso Marinetti, intitolato Futurista senza futuro. L'ho scritto io, che sono una persona abbastanza brutta, con tanti trascorsi francamente discutibili. Dunque insomma non che io voglia istigarvi a commettere un gesto così nazista ma - cos'aspettate a recarvi nelle migliori librerie e a domandare Futurista senza futuro? Facile che non sia a scaffale, ma si può comodamente ordinare, spesso anche per telefono, su Amazon o IBS, o dal vostro rivenditore di fiducia. Se siete insegnanti usate il Bonus. Poi potete farlo a pezzi anche a casa.
Se qualcuno però preferisse distruggere i libri in cui parlo di terremoti senza averne competenza, direi che il titolo di riferimento è La scossa, edizioni Chiarelettere. Purtroppo esiste solo in versione epub o pdf (anche su Amazon), però se uno veramente ci tiene al limite se lo stampa e se lo distrugge con comodo anche a casa - che so, ci dà fuoco nel camino e magari nel frattempo gira la scena su youtube, nel qual caso vi prego condividetelo, magari diventa virale. Certo, uno che ce l'abbia davvero con me potrebbe frullarlo direttamente in un Kindle o in un Ipad - quello fa il botto di sicuro, milioni di visualizzazioni, insomma pensateci.
Per quelli che mi odiano sul serio, ho una chicca: le ultime copie di un volume introvabile, Storia dell'Italia a rovescio (2006-2001). Non lo trovate in libreria - neanche su Amazon - dovete scrivermi in privato e vi mando il pacchetto, diciamo trenta euro - lo so che è un furto ma guardate che ne ho pochissimi, e una volta distrutti basta, nessuno al mondo potrà più leggere Storia dell'Italia a rovescio. Questo è di carta, per cui bruciarlo o strapparlo è più immediato. Spese di spedizione escluse.
E questo è tutto per quel che mi riguarda, però ne approfitto per segnalare un paio di volumi di Pierpaolo Ascari, che in passato ha contribuito in modo occulto a questo blog - se volete distruggerlo in quanto pensatore, il titolo di riferimento è Ebola e le forme, uscito qualche mese fa per il Manifesto Libri. Se preferite il suo coté più creativo e cazzone, richiedete Il manichino della politica, un libro nato su facebook, dettato da una quotidiana esigenza di prendere per il culo il sindaco di Modena che è godibilissimo anche per chi non conosca Modena, io per dire ormai mi perdo tra Rua Freda e Rua Stella ma il libro mi fa ridere lo stesso. È sottile, si strappa che è un piacere, però credo che per procurarsene uno sia necessario recarsi presso Hiro Proshu in Sant'Eufemia, onde affrettatevi. Insomma questi sono i libri da distruggere della settimana, arrivederci alla prossima con tante infiammabilissime novità.
Se qualcuno però preferisse distruggere i libri in cui parlo di terremoti senza averne competenza, direi che il titolo di riferimento è La scossa, edizioni Chiarelettere. Purtroppo esiste solo in versione epub o pdf (anche su Amazon), però se uno veramente ci tiene al limite se lo stampa e se lo distrugge con comodo anche a casa - che so, ci dà fuoco nel camino e magari nel frattempo gira la scena su youtube, nel qual caso vi prego condividetelo, magari diventa virale. Certo, uno che ce l'abbia davvero con me potrebbe frullarlo direttamente in un Kindle o in un Ipad - quello fa il botto di sicuro, milioni di visualizzazioni, insomma pensateci.
Per quelli che mi odiano sul serio, ho una chicca: le ultime copie di un volume introvabile, Storia dell'Italia a rovescio (2006-2001). Non lo trovate in libreria - neanche su Amazon - dovete scrivermi in privato e vi mando il pacchetto, diciamo trenta euro - lo so che è un furto ma guardate che ne ho pochissimi, e una volta distrutti basta, nessuno al mondo potrà più leggere Storia dell'Italia a rovescio. Questo è di carta, per cui bruciarlo o strapparlo è più immediato. Spese di spedizione escluse.
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Compresa nel prezzo potete bruciare una copertina illustrata da Alessandro Formigoni. |
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Francesco Merlo non capisce; non vuole capire; non vuole che nessuno capisca
06-05-2016, 00:30giornalisti, giustizia, internet, invettivePermalink
Qualche anno fa i computer erano ancora oggetti personali, custodi delle informazioni più preziose che avessimo. Ci scaricavamo tutto quello che era più intimo e compromettente: la posta, le fatture, gli estratti conto, le foto, eccetera. Perdere un portatile era diventato una catastrofe sociale - se ci fosse stato permesso di scegliere tra smarrire il portafoglio e il laptop, non avremmo avuto dubbi. Nei film i killer a pagamento rovistavano nei cassetti per depistare il detective, ma in realtà si portavano via le memorie fisse - l'ultima situazione del genere l'ho vista al cinema tre anni fa, ed era un film italiano. Altrove avevano smesso da un po'.
Perché ormai le cose sono cambiate, e lo sappiamo. Un bel giorno - a me è successo più o meno dieci anni fa - abbiamo smesso di scaricare la posta. Poi le fatture, gli estratti conto; persino le foto. Adesso la maggior parte delle cose preziose e imbarazzanti non stanno più in una minuscola porzione di silicio che teniamo sulla scrivania - magari anche lì, ma una loro copia è da qualche parte, frammentato e distribuito tra non si sa esattamente quanti server da qualche parte nel mondo, protetto da password che cambiamo e dimentichiamo con una certa regolarità. È successo ai vostri figli, è successo pure ai vostri genitori. È stata un'evoluzione naturale, inevitabile; poter accedere a un documento personale (una bozza, un'immagine, un documento) da qualsiasi computer sia connesso in rete, per chi come me lavora in cinque o sei ambienti e anche a casa propria, è semplicemente necessario. Non mi ricordo neanche più quando ho iniziato: so solo che non potrei più smettere. È troppo comodo.
Ma è anche qualcosa di inquietante, per più di un motivo.
L'arresto di Simone Uggetti ci offre l'opportunità di soppesarne uno. Fino a qualche anno fa, per impedire a un indagato di inquinare le prove, sarebbe bastato tenerlo fuori dal suo ufficio. Sequestrargli qualche strumento di lavoro: computer, dischetti, chiavi usb, quel tipo di cose che fino a qualche anno fa i killer rubavano e i detective cercavano nei film. Ma adesso l'ufficio di Uggetti è un luogo virtuale da cui può accedere con qualsiasi smartphone al mondo. Quindi che si fa? Chiedo, perché non ho un'opinione forte in materia, né mi ritengo particolarmente giustizialista o garantista: mi piacerebbe che nessuno fosse tratto in stato di arresto prima di una condanna, ma vorrei anche che i crimini fossero perseguiti con efficienza. Quando le prove stanno nella Nuvola, come puoi impedire a un indagato di inquinarle senza rinchiuderlo, senza impedire che acceda a un qualsiasi dispositivo connesso in rete? A me non vengono in mente alternative, e purtroppo nemmeno ai magistrati. Certo, potrebbe capitare anche a noi - a chiunque. È un problema. Enorme. Parliamone.
Ma per favore, teniamo lontano Francesco Merlo: visto che evidentemente non ha capito di cosa stiamo parlando (secondo lui bastava impedire a Uggetti "di esercitare le funzioni, sequestrargli i computer, mettergli un braccialetto elettronico e, al massimo, costringerlo agli arresti domiciliari": benvenuto nel 2005), e soprattutto non ha nessuna intenzione di capirlo - figurarsi di spiegarlo ai lettori. Ne abbiamo già parlato, mi tocca ribadire: c'è una specie di diaframma linguistico tra Merlo e il mondo. Se si parla di abolire le province, lui scriverà una paginata intera sulla nozione di provincialismo. Se si parlerà di crisi del liceo classico, lui obietterà che la classicità è una cosa irrinunciabile. Dovessero sospendere le Olimpiadi di Rio per una questione di sicurezza, state ben certi che non ci parlerà dei problemi della sicurezza e di come sia più giusto combattere il terrorismo, ma scioglierà un cantico alla gloria immortale di Milone di Crotone, Eurimene di Samo. Non è tanto il fatto che non capisca niente: succede a tutti.
Ma il fatto di non porsi nemmeno il problema di dover capire qualcosa: come se in quel caos di parole che è il mondo avesse deliberato di attaccarsi perpetuamente ai significanti, ai suoni e non ai contenuti; di perdersi in definizioni che non sono mai quelle giuste e citazioni che quasi mai c'entrano un c. - fossero almeno originali, ma no, si parla di San Vittore e lui deve intonare Ma mì, sempre quei due o tre luoghi comuni che girano nel bar di paese che per caso è il quotidiano più prestigioso d'Italia (davvero, ormai lo è per caso). Noi vorremmo vivere in uno Stato di diritto che tuteli i nostri diritti - pricacy inclusa - vorremmo anche condividere tutto ciò che abbiamo e sappiamo su server in giro per il mondo: le due esigenze sono in conflitto? È una domanda fondamentale che la Repubblica non si pone perché deve dare spazio a Merlo e Merlo ha altre priorità, Merlo ha letto il provvedimento del Gip e ne disapprova lo stile - Merlo è convinto di essere un maestro di quella cosa, lo stile.
Non che abbia dimestichezza coi tecnicismi dei magistrati, sia mai: Merlo legge "decisa verosimiglianza" e si domanda: "va distinta dalla verosimiglianza indecisa?"; legge "abietto" e si chiede se ne esista il superlativo. Lo vedi sempre lì che ripete sillabe a caso convinto di essere un D'Annunzio e non un bambino nella fase della lallazione. Raccomanda ai magistrati sobrietà, raccomanda asciuttezza - nel frattempo evoca Stalin, Robespierre e la Mesopotamia, scrive "il tuono etico sul clic delle manette", definisce sobriamente San Vittore "l'Inferno", e a un certo punto ci spiega la "verità", precisamente: sulla Repubblica c'è un editorialista che ha le "verità", come sul blog di Beppe. "La verità è che il sindaco di Lodi non dovrebbe stare in carcere". Probabilmente lo scrive su un dispositivo connesso - magari nel frattempo scarica la posta, o un file infetto. C'è un enorme problema che ci portiamo ogni giorno in tasca, in borsa, che ci guarda dalle scrivanie: Merlo non lo vede. È a tre palmi dal suo naso. Niente.
Abbiamo messo la nostra libertà nella Rete, e ora non possiamo staccarci dalla Rete senza rinunciarvi: è un dilemma straordinario, ne va forse della nostra civiltà, ma su Repubblica se ne parla un'altra volta, su Repubblica c'è Francesco Merlo che deve dimostrare di averlo più grosso del Gip, il vocabolario. Allora, visto che certi problemi evidentemente sono più grandi di noi, risolviamone almeno uno un po' più piccolo; la Repubblica sta facendo schifo, si può far qualcosa? Si può evitare di avere in prima pagina un tizio che quasi mai sa di cosa parla? Io ho smesso di comprarla da un po', non mi sembra di esser l'unico.
Perché ormai le cose sono cambiate, e lo sappiamo. Un bel giorno - a me è successo più o meno dieci anni fa - abbiamo smesso di scaricare la posta. Poi le fatture, gli estratti conto; persino le foto. Adesso la maggior parte delle cose preziose e imbarazzanti non stanno più in una minuscola porzione di silicio che teniamo sulla scrivania - magari anche lì, ma una loro copia è da qualche parte, frammentato e distribuito tra non si sa esattamente quanti server da qualche parte nel mondo, protetto da password che cambiamo e dimentichiamo con una certa regolarità. È successo ai vostri figli, è successo pure ai vostri genitori. È stata un'evoluzione naturale, inevitabile; poter accedere a un documento personale (una bozza, un'immagine, un documento) da qualsiasi computer sia connesso in rete, per chi come me lavora in cinque o sei ambienti e anche a casa propria, è semplicemente necessario. Non mi ricordo neanche più quando ho iniziato: so solo che non potrei più smettere. È troppo comodo.
Ma è anche qualcosa di inquietante, per più di un motivo.
L'arresto di Simone Uggetti ci offre l'opportunità di soppesarne uno. Fino a qualche anno fa, per impedire a un indagato di inquinare le prove, sarebbe bastato tenerlo fuori dal suo ufficio. Sequestrargli qualche strumento di lavoro: computer, dischetti, chiavi usb, quel tipo di cose che fino a qualche anno fa i killer rubavano e i detective cercavano nei film. Ma adesso l'ufficio di Uggetti è un luogo virtuale da cui può accedere con qualsiasi smartphone al mondo. Quindi che si fa? Chiedo, perché non ho un'opinione forte in materia, né mi ritengo particolarmente giustizialista o garantista: mi piacerebbe che nessuno fosse tratto in stato di arresto prima di una condanna, ma vorrei anche che i crimini fossero perseguiti con efficienza. Quando le prove stanno nella Nuvola, come puoi impedire a un indagato di inquinarle senza rinchiuderlo, senza impedire che acceda a un qualsiasi dispositivo connesso in rete? A me non vengono in mente alternative, e purtroppo nemmeno ai magistrati. Certo, potrebbe capitare anche a noi - a chiunque. È un problema. Enorme. Parliamone.
Ma per favore, teniamo lontano Francesco Merlo: visto che evidentemente non ha capito di cosa stiamo parlando (secondo lui bastava impedire a Uggetti "di esercitare le funzioni, sequestrargli i computer, mettergli un braccialetto elettronico e, al massimo, costringerlo agli arresti domiciliari": benvenuto nel 2005), e soprattutto non ha nessuna intenzione di capirlo - figurarsi di spiegarlo ai lettori. Ne abbiamo già parlato, mi tocca ribadire: c'è una specie di diaframma linguistico tra Merlo e il mondo. Se si parla di abolire le province, lui scriverà una paginata intera sulla nozione di provincialismo. Se si parlerà di crisi del liceo classico, lui obietterà che la classicità è una cosa irrinunciabile. Dovessero sospendere le Olimpiadi di Rio per una questione di sicurezza, state ben certi che non ci parlerà dei problemi della sicurezza e di come sia più giusto combattere il terrorismo, ma scioglierà un cantico alla gloria immortale di Milone di Crotone, Eurimene di Samo. Non è tanto il fatto che non capisca niente: succede a tutti.
Ma il fatto di non porsi nemmeno il problema di dover capire qualcosa: come se in quel caos di parole che è il mondo avesse deliberato di attaccarsi perpetuamente ai significanti, ai suoni e non ai contenuti; di perdersi in definizioni che non sono mai quelle giuste e citazioni che quasi mai c'entrano un c. - fossero almeno originali, ma no, si parla di San Vittore e lui deve intonare Ma mì, sempre quei due o tre luoghi comuni che girano nel bar di paese che per caso è il quotidiano più prestigioso d'Italia (davvero, ormai lo è per caso). Noi vorremmo vivere in uno Stato di diritto che tuteli i nostri diritti - pricacy inclusa - vorremmo anche condividere tutto ciò che abbiamo e sappiamo su server in giro per il mondo: le due esigenze sono in conflitto? È una domanda fondamentale che la Repubblica non si pone perché deve dare spazio a Merlo e Merlo ha altre priorità, Merlo ha letto il provvedimento del Gip e ne disapprova lo stile - Merlo è convinto di essere un maestro di quella cosa, lo stile.
Non che abbia dimestichezza coi tecnicismi dei magistrati, sia mai: Merlo legge "decisa verosimiglianza" e si domanda: "va distinta dalla verosimiglianza indecisa?"; legge "abietto" e si chiede se ne esista il superlativo. Lo vedi sempre lì che ripete sillabe a caso convinto di essere un D'Annunzio e non un bambino nella fase della lallazione. Raccomanda ai magistrati sobrietà, raccomanda asciuttezza - nel frattempo evoca Stalin, Robespierre e la Mesopotamia, scrive "il tuono etico sul clic delle manette", definisce sobriamente San Vittore "l'Inferno", e a un certo punto ci spiega la "verità", precisamente: sulla Repubblica c'è un editorialista che ha le "verità", come sul blog di Beppe. "La verità è che il sindaco di Lodi non dovrebbe stare in carcere". Probabilmente lo scrive su un dispositivo connesso - magari nel frattempo scarica la posta, o un file infetto. C'è un enorme problema che ci portiamo ogni giorno in tasca, in borsa, che ci guarda dalle scrivanie: Merlo non lo vede. È a tre palmi dal suo naso. Niente.
Abbiamo messo la nostra libertà nella Rete, e ora non possiamo staccarci dalla Rete senza rinunciarvi: è un dilemma straordinario, ne va forse della nostra civiltà, ma su Repubblica se ne parla un'altra volta, su Repubblica c'è Francesco Merlo che deve dimostrare di averlo più grosso del Gip, il vocabolario. Allora, visto che certi problemi evidentemente sono più grandi di noi, risolviamone almeno uno un po' più piccolo; la Repubblica sta facendo schifo, si può far qualcosa? Si può evitare di avere in prima pagina un tizio che quasi mai sa di cosa parla? Io ho smesso di comprarla da un po', non mi sembra di esser l'unico.
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Perché Accorsi sembra uno sballato
04-05-2016, 02:21auto, cinema, Cosa vedere a Cuneo (e provincia) quando sei vivo, drogarsi, Emilia paranoica, OttantaPermalinkVeloce come il vento (Matteo Rovere, 2016)
O ma lo sai che stai facendo un film di merda?
Ma come lo stai girando, tutto perfettino, con gli stacchi giusti, le curve tonde, soccia, che due balle fai venire. Ma te, ti diverti mai quando giri?
C'è un momento, diobono, in cui non pensi alla postproduzione, alla distribuzione, all'ipoteca che ti mangerà la casa se il film va di merda e tutte le altre balle? C'è un momento in cui ti gasi e basta? Lo sai di cos'hai bisogno, te?
Di benzodiazepina. Dodici gocce e poi vai liscio.
No, scherzo.
Te hai bisogno di Loris. E sei fortunato, eccomi qua.
(Però anche la benza non ti farebbe mica male sai, anzi, se hai venti carte ci passo io in farmacia, all'Operaia mi fanno gli sconti).
Ho visto Veloce come il vento e ora nessuno potrà convincermi che Stefano Accorsi non abbia passato gli anni del suo apprendistato a imitare Vasco Rossi per far ridere i compagni; se non era proprio Vasco era lo scoppiato del quartiere. Poi da cosa nasce cosa, uno spot qua, un Muccino là e vent'anni dopo Stefano Accorsi è attore di livello quasi internazionale. Il primo a crederci poco è probabilmente lui, e questo è il motivo per cui in fondo è impossibile volergli male. Ogni tanto ci pensiamo: ma che fine ha fatto? Quand'è che torna a farsi vivo, con una delle sue genialate?
(Hanno tutti fatto uno spot ridicolo ma quello di Accorsi non ce lo dimentichiamo. Prima o poi hanno tutti avuto un'"idea", ma solo "un'idea di Stefano Accorsi" è diventato un tormentone. Non c'è un perché, Accorsi non sarà un grande attore ma non è nemmeno il più cane di tutti. Non diremmo mai di Accorsi quel che si dice di solito a scuola, che uno è bravo ma non s'impegna. Accorsi s'impegna pure, Accorsi non puoi mai dire che non ci stia provando).
Veloce come il vento era, sulla carta, un film suicida. Una storia vecchia come la Turbosedici nascosta nel casolare, implausibile come un manga fine anni Settanta, o una storia di Bug Barri di Basari e Giovannini, nessuno sa di cosa sto parlando. Una ragazza minorenne al volante di una Granturismo, che durante la prima gara resta orfana (il padre si piglia un infarto nei box, la madre è fuggita anni prima) e con un fratellino a carico. Tutto questo poteva forse essere verosimile sulle pagine del Corrierino o del Giornalino, ma verso il 2015 lo spettatore italiano è ormai abituato a standard di verosimiglianza molto diversi. Poi però succedono due cose.
La prima è che Jeeg Robot, un film ancora meno plausibile su un borgataro che beve la monnezza radioattiva del Tevere e diventa Supercoatto tiene le sale per un mese intero e si presenta alla consegna dei David di Donatello col carrello della spesa. E lo riempie. Segno che il pubblico e persino la critica stanno cominciando a fottersi della verosimiglianza e a manifestare interesse per qualcosa di diverso che in mancanza d'altro chiamiamo "film di genere" (ma ha ancora senso chiamarlo così come se fossero gli anni Settanta e lo spettatore medio andasse al cinema una volta alla settimana? (Continua su +eventi!)
La seconda è che la sceneggiatura di Veloce come il vento a un certo punto è arrivata ad Accorsi, che magari non ha sempre voglia di recitare e lo capisco, ma stavolta aveva voglia di divertirsi a fare lo Scoppiato Anni Ottanta per un'ora e mezza. Perché con tanto rispetto per il giovane Rovere che ha talento, e gira sorpassi e curve e inseguimenti che Ron Howard, per dirne una, non ne ha fatti di migliori; con tanta ammirazione per la giovanissima Matilda De Angelis che regge il volante e la scena senza sbavare, Veloce come il vento non filerebbe così bene - Veloce come il vento non filerebbe nemmeno se Accorsi non riempisse ogni buco e fessura di trama. Il suo sporc-drughè, struggente ed esilarante e completamente fuori le righe, chi ha condiviso un po' di anni Ottanta nei parchetti dell'Emilia-Romagna non potrà trovarlo famigliare - quando spalanca le braccia ti sembra di sentirlo puzzare. Non so se chi è nato a nord del Po e a sud degli Appennini possa sentire lo stesso turbamento: ma qui ce l'abbiamo tutti un fratello, cugino, zio maggiore ridotto così. Cioè: ce l'avevamo. E in un qualche modo lo rimpiangiamo. Perché è vero che era un deficiente e ci ha rubato pure le posate. Però era nel nostro sangue, e quando se ne è andato è come se ci avesse tolto il divertimento. Quello non torna più, le posate si ricomprano.
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Ma come lo stai girando, tutto perfettino, con gli stacchi giusti, le curve tonde, soccia, che due balle fai venire. Ma te, ti diverti mai quando giri?
C'è un momento, diobono, in cui non pensi alla postproduzione, alla distribuzione, all'ipoteca che ti mangerà la casa se il film va di merda e tutte le altre balle? C'è un momento in cui ti gasi e basta? Lo sai di cos'hai bisogno, te?
Di benzodiazepina. Dodici gocce e poi vai liscio.
No, scherzo.
Te hai bisogno di Loris. E sei fortunato, eccomi qua.
(Però anche la benza non ti farebbe mica male sai, anzi, se hai venti carte ci passo io in farmacia, all'Operaia mi fanno gli sconti).
Ho visto Veloce come il vento e ora nessuno potrà convincermi che Stefano Accorsi non abbia passato gli anni del suo apprendistato a imitare Vasco Rossi per far ridere i compagni; se non era proprio Vasco era lo scoppiato del quartiere. Poi da cosa nasce cosa, uno spot qua, un Muccino là e vent'anni dopo Stefano Accorsi è attore di livello quasi internazionale. Il primo a crederci poco è probabilmente lui, e questo è il motivo per cui in fondo è impossibile volergli male. Ogni tanto ci pensiamo: ma che fine ha fatto? Quand'è che torna a farsi vivo, con una delle sue genialate?
(Hanno tutti fatto uno spot ridicolo ma quello di Accorsi non ce lo dimentichiamo. Prima o poi hanno tutti avuto un'"idea", ma solo "un'idea di Stefano Accorsi" è diventato un tormentone. Non c'è un perché, Accorsi non sarà un grande attore ma non è nemmeno il più cane di tutti. Non diremmo mai di Accorsi quel che si dice di solito a scuola, che uno è bravo ma non s'impegna. Accorsi s'impegna pure, Accorsi non puoi mai dire che non ci stia provando).
Veloce come il vento era, sulla carta, un film suicida. Una storia vecchia come la Turbosedici nascosta nel casolare, implausibile come un manga fine anni Settanta, o una storia di Bug Barri di Basari e Giovannini, nessuno sa di cosa sto parlando. Una ragazza minorenne al volante di una Granturismo, che durante la prima gara resta orfana (il padre si piglia un infarto nei box, la madre è fuggita anni prima) e con un fratellino a carico. Tutto questo poteva forse essere verosimile sulle pagine del Corrierino o del Giornalino, ma verso il 2015 lo spettatore italiano è ormai abituato a standard di verosimiglianza molto diversi. Poi però succedono due cose.
La prima è che Jeeg Robot, un film ancora meno plausibile su un borgataro che beve la monnezza radioattiva del Tevere e diventa Supercoatto tiene le sale per un mese intero e si presenta alla consegna dei David di Donatello col carrello della spesa. E lo riempie. Segno che il pubblico e persino la critica stanno cominciando a fottersi della verosimiglianza e a manifestare interesse per qualcosa di diverso che in mancanza d'altro chiamiamo "film di genere" (ma ha ancora senso chiamarlo così come se fossero gli anni Settanta e lo spettatore medio andasse al cinema una volta alla settimana? (Continua su +eventi!)
La seconda è che la sceneggiatura di Veloce come il vento a un certo punto è arrivata ad Accorsi, che magari non ha sempre voglia di recitare e lo capisco, ma stavolta aveva voglia di divertirsi a fare lo Scoppiato Anni Ottanta per un'ora e mezza. Perché con tanto rispetto per il giovane Rovere che ha talento, e gira sorpassi e curve e inseguimenti che Ron Howard, per dirne una, non ne ha fatti di migliori; con tanta ammirazione per la giovanissima Matilda De Angelis che regge il volante e la scena senza sbavare, Veloce come il vento non filerebbe così bene - Veloce come il vento non filerebbe nemmeno se Accorsi non riempisse ogni buco e fessura di trama. Il suo sporc-drughè, struggente ed esilarante e completamente fuori le righe, chi ha condiviso un po' di anni Ottanta nei parchetti dell'Emilia-Romagna non potrà trovarlo famigliare - quando spalanca le braccia ti sembra di sentirlo puzzare. Non so se chi è nato a nord del Po e a sud degli Appennini possa sentire lo stesso turbamento: ma qui ce l'abbiamo tutti un fratello, cugino, zio maggiore ridotto così. Cioè: ce l'avevamo. E in un qualche modo lo rimpiangiamo. Perché è vero che era un deficiente e ci ha rubato pure le posate. Però era nel nostro sangue, e quando se ne è andato è come se ci avesse tolto il divertimento. Quello non torna più, le posate si ricomprano.

Veloce come il vento ce lo resuscita a tradimento come fanno i ricordi d'infanzia, tirando una coperta pietosa sugli aspetti più crudi. Sembra veramente una storia restata in garage per vent'anni: ambientata prudentemente in un casolare lontano dalla Storia, e in un'Imola dove ai tavolini del bar ci sono ancora dei "gran disgraziati" in chiodo che sembrano usciti da un Frigidaire o un Lancio Story. L'unico adeguamento è stato sostituire alle siringhe le bottiglie di plastica: per il resto, c'è l'idea che nessuna elettronica potrà migliorare quella bara volante che era la Turbosedici Peugeot; nessuna sopraggiunta mafia bielorussa potrà correre più forte dei disperati col fegato-fegato-fegato spappolato. Senza Accorsi Veloce sarebbe il compitino rigoroso ma freddo di un regista che prova a fare il film-di-genere-nel-2016, e per carità, tiferemmo comunque per lui, come abbiamo tifato per Jeeg. Però se il film vince, sulla distanza, è per quell'odore di salciccia e roulotte. Certo, in Veloce come il vento c'è anche la minorenne più cazzuta del cinema italiano ("Prendo le curve ai duezento all'ora e ti preoccupi se mi faccio una scopata in macchina?") e - colpo di autentico genio - il bambino meno empatico mai visto. Il che è fantastico, perché quel bambino siamo tutti noi, che tifiamo per la brava giovanissima attrice, tifiamo per il talentuoso giovane regista - ma in realtà abbiamo solo voglia di rivedere Loris, solo lui ci ha fatto divertire.
Alla quarta settimana di programmazione, Veloce come il vento regge ancora al Comunale di Barge (21:15), al Cinelandia di Borgo San Dalmazzo (20:10, 22:40); al Nuovo Lux di Centallo (21:00). Vai, vai, ballerino.
Alla quarta settimana di programmazione, Veloce come il vento regge ancora al Comunale di Barge (21:15), al Cinelandia di Borgo San Dalmazzo (20:10, 22:40); al Nuovo Lux di Centallo (21:00). Vai, vai, ballerino.
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Ma non riuscirete a toglierci Creep
02-05-2016, 18:19internet, musicaPermalink"Ma se pensano che li dimenticheremo, si sbagliano".
"Chi?"
"I così, lì".
"I cosi chi?"
"Quel gruppo, dai... quelli che hanno chiuso il loro sito".
"Un gruppo di che?"
"Un gruppo rock, ma non ti ricordi?"
"Ma quali?"
"Quelli famosissimi, dai... hanno chiuso il loro sito, e adesso magari inizieranno a togliere le canzoni, ma credono davvero di potersi cancellare?"
"Cancellare da cosa?"
"Dalla memoria collettiva? Credono che sia tutta sulla nuvola, ormai? No, esiste anche la nostra memoria fissa, individuale".
"Dici?"
"Esistiamo noi, coi nostri ricordi. Noi continueremo a ricordarci di loro".
"Ma di loro chi?"
"Ma quelli famosi, dai... i come si chiamano... ce li ho sulla punta della lingua..."
"Dimmi almeno una canzone".
"Beh ma sai loro non erano il gruppo di cui ti ricordi solo una canzone... ogni disco era un concetto a parte, cioè, tutto andava contestualizzato..."
"Una canzone almeno te la ricorderai".
"Come no".
"Senza andare a vedere i cd".
"Non li posso più andare a vedere, stanno in cantina".
"Ecco, appunto".
"Ma insomma, dai, sono il gruppo più famoso del..."
"Ottanta? Novanta? Zero?"
"Più Novanta, anche se è riduttivo..."
"Ma dimmi almeno un pezzo".
"Mi viene in mente solo quello sbagliato..."
"Perché sbagliato?"
"Perché non li rappresenta, insomma, fu un grande successo, ma..."
"Tu dimmelo".
"Creep".
"Ah, ecco, che ci voleva".
"Quindi te la ricordi Creep".
"Certo che me la ricordo Creep".
"Volevo ben dire".
"Chi è che non si ricorda Creep".
"È un pezzo che ha cambiato tutto".
"Anche se non è proprio il più rappresentativo".
"No, però, accidenti".
"E vogliono cancellare Creep? Poveri illusi".
"Non si può cancellare Creep".
"Chi?"
"I così, lì".
"I cosi chi?"
"Quel gruppo, dai... quelli che hanno chiuso il loro sito".
"Un gruppo di che?"
"Un gruppo rock, ma non ti ricordi?"
"Ma quali?"
"Quelli famosissimi, dai... hanno chiuso il loro sito, e adesso magari inizieranno a togliere le canzoni, ma credono davvero di potersi cancellare?"
"Cancellare da cosa?"
"Dalla memoria collettiva? Credono che sia tutta sulla nuvola, ormai? No, esiste anche la nostra memoria fissa, individuale".
"Dici?"
"Esistiamo noi, coi nostri ricordi. Noi continueremo a ricordarci di loro".
"Ma di loro chi?"
"Ma quelli famosi, dai... i come si chiamano... ce li ho sulla punta della lingua..."
"Dimmi almeno una canzone".
"Beh ma sai loro non erano il gruppo di cui ti ricordi solo una canzone... ogni disco era un concetto a parte, cioè, tutto andava contestualizzato..."
"Una canzone almeno te la ricorderai".
"Come no".
"Senza andare a vedere i cd".
"Non li posso più andare a vedere, stanno in cantina".
"Ecco, appunto".
"Ma insomma, dai, sono il gruppo più famoso del..."
"Ottanta? Novanta? Zero?"
"Più Novanta, anche se è riduttivo..."
"Ma dimmi almeno un pezzo".
"Mi viene in mente solo quello sbagliato..."
"Perché sbagliato?"
"Perché non li rappresenta, insomma, fu un grande successo, ma..."
"Tu dimmelo".
"Creep".
"Ah, ecco, che ci voleva".
"Quindi te la ricordi Creep".
"Certo che me la ricordo Creep".
"Volevo ben dire".
"Chi è che non si ricorda Creep".
"È un pezzo che ha cambiato tutto".
"Anche se non è proprio il più rappresentativo".
"No, però, accidenti".
"E vogliono cancellare Creep? Poveri illusi".
"Non si può cancellare Creep".
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L'anno che ci colpì in testa
28-04-2016, 12:031500 caratteri, Beppe Grillo, coccodrilli, elezioni 2013PermalinkNel gennaio del 2014 Pierluigi Bersani fu ricoverato - emorragia cerebrale. Tutto sommato gli andò bene, e un mese dopo era già in grado di votare la fiducia al governo Renzi. In aprile fu Gianroberto Casaleggio ad accusare dolori al capo. Anche lui prontamente operato per un edema, anche lui sembrò rimettersi. Bersani è del '51, Casaleggio del '54. Entrambi venivano da un anno molto complicato: la campagna elettorale, la crisi al buio, la sofferta rielezione di Napolitano, la tremolante parabola del governo Letta. In mezzo a tutto questo, la trasformazione del M5S da movimento di opinione a principale forza d'opposizione parlamentare, con le inevitabili defezioni ed estromissioni.
A distanza di qualche anno forse cominciamo a dimenticarci di quanto fu pesante il 2013. Lo fu per me, che avevo un posto fisso e scribacchiavo - lo fu senz'altro molto di più per personaggi pubblici e leader che si trovarono, contemporaneamente, alla berlina sui media, e soli davanti alle decisioni più importanti. Non è così assurdo ipotizzare che lo stress pre- e post-elettorale sia stato una delle cause del malore di Bersani: e Casaleggio forse negli stessi mesi era sottoposto a una tensione ancora maggiore. In più, doveva far fronte alla curiosità faziosa dei media: un'esposizione a cui Bersani era abituato per formazione, mentre per un consulente-imprenditore come lui si trattava di una relativa, e sgradita, novità.
Certo, Beppe Grillo la taglia un po' troppo semplice quando dice: l'avete ammazzato voi giornalisti. Ed è abbastanza indicativo che di fronte all'intrusione dei media, il cosiddetto guru delle nuove tecnologie abbia reagito alla vecchia maniera, accumulando querele. Diciamo che trasformare un'idea un po' vaga di democrazia dal basso in quella macchina da guerra che è diventato il M5S richiedeva uno sforzo di energia che qualcuno ha pagato. A un certo punto anche Grillo si sentiva "stanchino": Casaleggio era già stato operato almeno una volta. La politica è sangue, sudore, riflessi nervosi, materia cerebrale. I giornalisti certo non usano i guanti, ma in generale è il pubblico che non ha pietà. Io perlomeno nel mio piccolo non ne ha avuta, e lo sfogo di Grillo un po' lo capisco.
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Per la Z era forse previsto un secondo volume (zuzzurellone! zimbello! zozzo!) |
Certo, Beppe Grillo la taglia un po' troppo semplice quando dice: l'avete ammazzato voi giornalisti. Ed è abbastanza indicativo che di fronte all'intrusione dei media, il cosiddetto guru delle nuove tecnologie abbia reagito alla vecchia maniera, accumulando querele. Diciamo che trasformare un'idea un po' vaga di democrazia dal basso in quella macchina da guerra che è diventato il M5S richiedeva uno sforzo di energia che qualcuno ha pagato. A un certo punto anche Grillo si sentiva "stanchino": Casaleggio era già stato operato almeno una volta. La politica è sangue, sudore, riflessi nervosi, materia cerebrale. I giornalisti certo non usano i guanti, ma in generale è il pubblico che non ha pietà. Io perlomeno nel mio piccolo non ne ha avuta, e lo sfogo di Grillo un po' lo capisco.
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Tutti nazisti anche quest'anno, buon 25 aprile
27-04-2016, 18:0425 aprili, ebraismo, Israele-Palestina, manifestaiolismi, resistenzaPermalinkÈ un discorso che si è già fatto, ma se ripetere non sempre aiuta, sicuramente non nuoce: i rappresentanti della Brigata Ebraica hanno tutto il diritto di partecipare ai cortei del 25 aprile senza essere fischiati.
A chi li contesta - non sono poi in tantissimi - manca senz'altro un po' di educazione, non tanto nel senso di buone maniere. Da qualche parte c'è una lezione sulla memoria e sulla Resistenza che qualcuno avrebbe dovuto studiare meglio; ci sono concetti come sionismo ed ebraismo che non dovrebbero essere così fumosi. E così via. È una responsabilità che ci dobbiamo prendere un po' tutti sulle spalle, come educatori o anche solo come gente che scrive on line - visto che siamo tutti nel nostro piccolo educatori, siamo tutti gente che scrive on line. Nella nostra ideale festa del 25 aprile è invitato chiunque voglia ricordare i combattenti contro il nazifascismo, e se proprio si vuole contestare qualcuno, si contesta chi rimane a casa.
Ah, e il Gran Muftì non c'entra niente.
Perché se prendersela con tutti gli ebrei per l'occupazione della Palestina è un gesto ignorante e arrogante, accusare tutti i filopalestinesi di intelligenza col nazismo è più o meno sullo stesso livello di ignoranza e arroganza. Anche questo, mi rendo conto, è un discorso trito e ritrito: durante la Seconda Guerra Mondiale ci furono palestinesi che combatterono Hitler e altri (un po' di più) che collaborarono con lui - qualcosa di simile a quel che successe in Italia, tutto sommato. Questo toglie agli italiani il diritto di festeggiare il 25 aprile? Questo dovrebbe impedire ai palestinesi di chiedere la liberazione da un'occupazione militare? Lo sfogo di Peppino Caldarola mi sembra indicativo di un atteggiamento lievemente autoreferenziale: le contestazioni tra filopalestinesi e rappresentanti della Brigata avranno coinvolto al massimo qualche centinaia di persone. È senz'altro un incidente fastidioso e - parlo almeno per me - di una prevedibilità mortale. Si può fare qualcosa per evitarlo in futuro? Non lo so. Ma il punto è che per Caldarola non vale nemmeno la pena: se succede qualcosa del genere, va chiuso il 25 aprile, fine. Ah: e chi sventola una bandiera palestinese è un nazista.
Ecco: io sarei disponibile anche a scrivere tutti gli anni lo stesso pezzo in cui spiego che chi sventola la bandiera della Brigata Ebraica non è responsabile dell'incancrenirsi della questione israelo-palestinese. Ma se dall'altra parte, ogni volta, mi tocca sentire che tutti palestinesi sono nazisti, e anche tutti i loro amici, e anche gli amici dei loro amici... mi sa che ogni anni ripartiremo da zero.
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www.combattentiliberazione.it |
Ah, e il Gran Muftì non c'entra niente.
Perché se prendersela con tutti gli ebrei per l'occupazione della Palestina è un gesto ignorante e arrogante, accusare tutti i filopalestinesi di intelligenza col nazismo è più o meno sullo stesso livello di ignoranza e arroganza. Anche questo, mi rendo conto, è un discorso trito e ritrito: durante la Seconda Guerra Mondiale ci furono palestinesi che combatterono Hitler e altri (un po' di più) che collaborarono con lui - qualcosa di simile a quel che successe in Italia, tutto sommato. Questo toglie agli italiani il diritto di festeggiare il 25 aprile? Questo dovrebbe impedire ai palestinesi di chiedere la liberazione da un'occupazione militare? Lo sfogo di Peppino Caldarola mi sembra indicativo di un atteggiamento lievemente autoreferenziale: le contestazioni tra filopalestinesi e rappresentanti della Brigata avranno coinvolto al massimo qualche centinaia di persone. È senz'altro un incidente fastidioso e - parlo almeno per me - di una prevedibilità mortale. Si può fare qualcosa per evitarlo in futuro? Non lo so. Ma il punto è che per Caldarola non vale nemmeno la pena: se succede qualcosa del genere, va chiuso il 25 aprile, fine. Ah: e chi sventola una bandiera palestinese è un nazista.
Ecco: io sarei disponibile anche a scrivere tutti gli anni lo stesso pezzo in cui spiego che chi sventola la bandiera della Brigata Ebraica non è responsabile dell'incancrenirsi della questione israelo-palestinese. Ma se dall'altra parte, ogni volta, mi tocca sentire che tutti palestinesi sono nazisti, e anche tutti i loro amici, e anche gli amici dei loro amici... mi sa che ogni anni ripartiremo da zero.
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