Prima o poi lo prendono

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Il calcio è sicuramente molto cambiato dall'ultima volta che ho visto una partita (potrebbe essere stata un'altra finale europea, quindi nove anni fa). C'è tutta una nuova nomenclatura che mi sfugge, una religione del possesso palla e altre cose, però poi alla fine vedi dieci inglesi schiacciati nella loro tre quarti e mi sembra di sentirglielo dire: prima o poi un gol lo prendono, se continuano a giocare così. 

Io potrei anche obiettare che però si coprono bene, tanto che i nostri proprio spazi non ne trovano, e Immobile non si vede da due partite, e anche Insigne, ma lui non risponde nemmeno, ha già detto tutto quello che deve dirmi e ha ragione – quand'è che non ha avuto ragione? Prima o poi qualcuno gliela mette dentro, magari un centrale. Magari juventino. 

Anche se le partite le guardo da solo, non sono mai veramente da solo. A ogni passaggio, a ogni tiro, a ogni dribbling sento qualcuno commentare, gridare, sibilare, le voci di tutte le persone con cui ho visto una partita. Voci eccitate, arrabbiate, sorprese, tranquille. Molte volte dicono sciocchezze. Se la prendono da matti per falli inferti o simulati in quarti di finale di vent'anni fa. Tutto quello che so del calcio l'ho imparato da loro e quindi ne so veramente poco, in teoria. Ma se scavo sotto tutte quelle voci trovo come un brusio di fondo, una nota costante, la voce più tranquilla di tutte che non se la prende mai, tanto alla fine è un gioco. In effetti che ce ne viene in tasca a noi? (Tranne quella volta ad Atene, lì deve esserci restato male davvero se l'ho capito persino io, che ci stava male: ed è stata l'unica volta, l'unica che sono stato in pena per uno juventino). 

Lui non avrebbe dato a notare nessuna particolare attenzione, anzi si sarebbe seduto davanti al televisore qualche minuto dopo il fischio – magari si sarebbe perso il gol inglese, come ieri ho fatto io. Non se la sarebbe presa affatto, un gol nei primi minuti non vuol dire niente. Sarebbe rimasto tranquillo per tutta la partita regolare, senza esibire il fastidio per i gridolini che mi uscivano ogni volta che vedevo un tiro che per me poteva andare in porta. Si sarebbe illuminato per il gol di Bonucci, ma senza urlare, come di una cosa che doveva per forza succedere. Poco dopo forse avrebbe spento, perché supplementari e rigori sono troppo stress, e a una certa età bisogna starci attenti. E il baccano, quaranta minuti dopo, non l'avrebbe probabilmente svegliato. Avrebbe festeggiato il giorno dopo: si fa per dire, un sorriso e via.

Anche se le partite le guardo da solo, non sono mai veramente da solo. Di calcio ne ho imparato così poco, ma anche stavolta mi è bastato. Se avessimo perso non sarebbe stato un dramma: se avessimo vinto senza rigori sarebbe stata più meritata. Se lui ci fosse stato comunque ora sarebbe contento. Lui non c'è più, proverò a essere contento io. Anche se ho il dubbio che non abbia più importanza.

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Al fiol dal mecanic

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Nella macchina nuova si è accesa una spia enorme, una spia del motore. Al telefono il concessionario ci tranquillizza, se la luce è arancione non è niente, portatecela e fissiamo un appuntamento. Ma è enorme. È il motore. 

Apro il cofano, non sembra neanche un motore da tanto che è pulito, brilla quasi. Dov'è la lancia dell'olio? Sembra che non ci sia olio. Gripperà sulla strada del concessionario, io lo so, ero il figlio del meccanico, io. Sono cresciuto respirando nafta, capivo dal rumore se stava parcheggiando un diesel o un motore a scoppio, ma siete sicuri che non picchia in testa tra due isolati? Ma sì dai, fissiamo un appuntamento.

E dàgli col fissare gli appuntamenti, cosa siete diventati, parrucchiere? Adesso la porto e vediamo.

C'è un'officina enorme dietro la concessionaria, ma non puzza di officina. L'odore di olio frusto e benzina, la morchia, non si sente più. Non è neanche la prima officina dove non riesco a sentirlo, ma almeno qui le piastrelle del pavimento sono rettangolari e rosso mattone, almeno quello. Ci sono computer dappertutto, il tizio mi ascolta con un orecchio e con un altro ha già attaccato un laptop a uno spinotto misterioso sotto il volante. Un tizio lo sta tormentando perché ha testato il suo suv con tre tester diversi e continua a dargli un messaggio 404 "problemi al sistema cinematico", cos'è il sistema cinematico? mi vengono in mente gli avengers e mi vergogno.

Dove sono i ripostigli a rotelle pieni di chiavi inglesi buttate alla cazzo, dove sono i crick mobili a forma di enormi monopattini di ghisa, dov'è il figlio deficiente del gestore che gira in skate in braghette in mezzo agli attrezzi dov'è la mia infanzia.

Non era neanche il Duemila quando m'imbattei in una delle prime barzellette on line, c'era Bill Gates re del mondo che spiegava che se la Mercedes negli ultimi dieci anni avesse fatto i progressi nel suo campo della Microsoft, le macchine volanti sarebbero state pronte a conquistare la luna. Al che gli ingegneri della Mercedes rispondevano che se avessero fatto nel loro campo i progressi della Microsoft, ogni auto si sarebbe fermata in mezzo all'autostrada con il segnale: spegnere e ricominciare l'autostrada dall'inizio. La trovavo molto divertente e oggi ci sono dentro.

Mio padre dopo una giornata di duro lavoro si grattava la morchia dalle mani con una pasta rugosa che non so nemmeno se è ancora in commercio. Quando confrontavo le mie mani con quelle degli adulti, mi sembravano strumenti completamente diversi e dubitavo che sarei mai cresciuto, anche mio padre suppongo dubitasse. Avevamo ragione.


Già fine anni Ottanta suo fratello non vedeva più il futuro nell'autoriparazione e lo convinse a investire in autogrù più grandi che caricavano qualsiasi cosa, alzavano i silos in mezzo alla pianura, arrivavano, puntavano sei piedi a terra ed estraevano questo braccio superfallico con scritto sopra: Tondelli. Alla Festa del Lambrusco il braccio svettava sopra il campanile, reggeva una vecchia botte di legno, voi lettori modenesi l'avete vista di sicuro ma con la ricordate. Con quel che bevevate. 

D'estate quando avevo vent'anni ogni tanto mi portava con sé in un cantiere, lo aiutavo a muovere qualche leva, una volta poi tornammo a casa e non so dov'era il resto della famiglia, forse al mare? Io tirai fuori dallo scantinato una boccia di bianco e vomitai tutto l'indomani. Tuttora non posso respirare nei dintorni di chi ha aperto un Bianco di Castelfranco (effettivamente un vino da sciagurati). Ero già allergico a tante cose, mio padre dovette concludere che lo ero anche al lavoro e non mi portò più. Spiegargli che ero semplicemente un ventenne coglione sarebbe stato troppo doloroso.

Ancora vent'anni dopo, mio padre mi controllava l'olio e non importa dove mi trovassi, a che ora e in che situazione, io sapevo che mi bastava chiamarlo e sarebbe arrivato, con una gru o un carro attrezzi o quel che serviva, mi avrebbe appeso un gancio e mi avrebbe sollevato di peso da qualsiasi fossato, da qualsiasi problema, senza dirmi niente, perché era mio padre e non doveva mai dirmi niente. Doveva salvarmi e basta. 

E ora eccomi qui. Alla fine con la macchina non era niente: uno scompenso di pressione in un affare, un falso positivo, invece l'olio era ok.
"Eh io temevo l'olio".
"Si preoccupano tutti per l'olio. Comunque se succede di nuovo telefona, e..."
"Fissiamo un appuntamento".
"Esatto sì grazie".
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Le autostrade

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(2000)

Vede ora il mondo con gli occhi di suo padre
Un grande esploratore di autostrade

Quella che porta al mare ha quattro strisce
Lisca di pesce in fondo alla pianura
Chi entra al casello a volte ha un po’ paura
Chi entra al casello a volte non ne esce

Danza la bambolina allo specchietto
ha un occhio ancora aperto
il collo è rotto

Vede ora il mondo come l'ha visto il padre
Ma come sono grandi le autostrade
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Ce la meritiamo.

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Quando ero un ragazzino non c'era solo la DC - che già di per sé era una disgrazia di ragguardevoli proporzioni - soprattutto c'era la sensazione che la DC ci sarebbe sempre stata. Sempre. Quando ero un ragazzino al limite si poteva sperare in una DC più moderna, in una DC meno cattolica (ma tutto sommato era già meno cattolica di quelle di adesso), un una DC tre gradi più a sinistra, due mezze latitudini più a nord, questo era tutto. Una DC disposta ogni tanto a farsi governare da un laico. Una DC più efficiente. Una DC un po' meno ladra, una DC non esageratamente mafiosa, questo per dire era l'orizzonte di speranza della generazione di mio padre. Che odiava Andreotti e votava la DC. Perché i veri nemici di Andreotti erano nella DC, pensava lui, ed effettivamente in quegli anni la cosa aveva un senso (in seguito chi per un motivo, chi per un altro, sono quasi tutti morti, i nemici di Andreotti).

Poi ci sono stati degli sviluppi imprevisti, inutile adesso mettersi qui a raccontare tutto da capo. No, sul serio, forse è davvero inutile. Guarda infatti dove siamo arrivati, il Partito della Nazione e tutto quanto.

Siamo arrivati al punto in cui non solo c'è la DC, più centrale che mai; ma c'è anche la sensazione che questa nuova DC sia un sofferto punto d'arrivo, al punto che perfino io mi scovo a pensare boh, mal che vada c'è pur sempre la DC - e mio padre mi ride in faccia dallo specchio. Ai suoi tempi la DC sembrava un dato naturale, ineliminabile, ma oggi forse è peggio.

Perché oggi è ormai chiaro a tutti che se la DC c'è, se dopo tanto tempo non abbiamo trovato niente di meglio che reinventarla, è proprio perché noi, la DC, ce la meritiamo.
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Il patrigno di Dio

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Lo sapevo, tutto sua madre.
19 marzo - San Giuseppe artigiano, padre putativo di Gesù (primo secolo)

Giuseppe, dice il messale romano, è l'ultimo patriarca della Bibbia. Buffo, lui che non era nemmeno un vero padre. Però pensando ai suoi predecessori - Noè che ubriaco si fa ridere dietro da Cam e lo maledice; Abramo che quasi sacrifica Isacco; Isacco che benedice Giacobbe ma solo perché è travestito da figlio maggiore; Giacobbe che ha 12 figli ma sembra curarsi solo di Giuseppe e Beniamino; il profeta Samuele che quasi adotta Saul, lo unge re e poi lo tratta da mentecatto; Saul che quasi adotta Davide e poi cerca di farlo fuori... la lista potrebbe continuare, ma insomma in fondo alla sequela di tutti questi padri e patrigni arrabbiati o distratti, talvolta paranoidi, schizzati, tutte proiezioni di un Dio padre geloso e irascibile... Giuseppe sembra di gran lunga il più tranquillo e accomodante. In realtà non conosciamo quasi nulla di lui; anche nel suo caso molte cose che crediamo di sapere sono incrostazioni di leggende e chiose che non hanno fondamento nella lettera dei Vangeli. Per esempio ci piace raffigurarcelo come un tizio avanti negli anni ("i vecchi quando accarezzano" cantava De Andrè, "hanno paura di far troppo forte"). L'anzianità di Giuseppe è un dettaglio che diventa sempre più nitido man mano che si chiarisce, nel corso dei primi secoli, l'altro dettaglio fondamentale della verginità di Maria: immaginare il marito anziano era il modo più semplice per spogliarlo di qualsiasi attributo sessuale.

In realtà i pochi versetti che ce ne parlano hanno dato filo da torcere a chi voleva saltare a certe conclusioni. Di Giuseppe parla soprattutto Matteo, l'evangelista più legato al mondo ebraico dove Gesù era nato e vissuto; Luca, come abbiamo visto, è più liberal, scrive subito in greco e mette donne e proletari in primo piano, il suo Giuseppe è un semplice custode di Maria: è lei che viene visitata dall'angelo, è lei che acconsente, è lei che intona il Magnificat, che medita le cose nel suo cuore, Giuseppe è una semplice scorta. Matteo tratta il marito con più considerazione: nel suo vangelo è lui a ricevere più volte istruzioni dall'angelo. Il problema è che proprio in Matteo (1,25) c'è una parolina maledetta, che anche San Girolamo a malincuore dovette tradurre con "donec", "finché": Giuseppe "non ebbe con lei rapporti coniugali finché Maria non ebbe partorito un figlio". Non vi dico le arrampicate sugli specchi dei padri della Chiesa per dimostrare che quel finché in realtà non è quel che sembra, e che Maria restò vergine anche in seguito. Arrampicate rese ancor più disagevoli da quel che Matteo combina nel capitolo 13: mette per iscritto una lista di fratelli di Gesù, nientemeno. Hanno tutti nomi familiari. C'è da dire che a parlare è la folla, e si sa, la folla è sempre male informata. Ma comunque:
Non è questi il figlio del falegname? Sua madre non si chiama Maria e i suoi fratelli, Giacomo, Giuseppe, Simone e Giuda?
Anche qui si sono spesi in centinaia per dimostrare che "fratelli" non vuol dire proprio "fratelli", che al tempo di Gesù si diceva "fratelli" anche ai cugini, agli amici, ai conoscenti, come no, la Galilea era una specie di Bronx dove tutti si dicevano Hey Bro. Giusto per mettere il dito sulla piaga, anche Luca negli Atti degli Apostoli e Paolo nella Lettera ai Galati menzionano un personaggio importante della prima comunità di Gerusalemme chiamandolo Giacomo, "il fratello del Signore" (ne parleremo). Un'altra spiegazione è che i fratelli fossero in realtà fratellastri, e che Giuseppe avesse sposato Maria da vedovo. Ecco un'altra buona ragione per immaginarlo vecchietto incanutito (ma è anche un tizio che quando l'angelo gli dice in sogno: adesso prendi su con la tua sacra famigliola e ti rechi in Egitto per tot anni fino a nuovo ordine, lui lo fa; non era proprio un viaggetto di piacere da raccomandare a un pensionato).

Il versetto sopra è fondamentale anche per determinare la professione di Giuseppe: falegname. Di questo almeno siamo sicuri, o no? No, nemmeno di questo. (Continua sul Post...)
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Maestri di vita (12): Paul Newman siede al tavolo.

Ognuno di noi è figlio, oltre che di una madre e di un padre, anche di una talvolta complicata, talvolta banale serie di circostanze che hanno fatto incontrare queste due persone invece di chiunque altro. Io, per esempio, sento di dovere qualcosa a Paul Newman.

Questa verità l’avevo sempre sentita tenuta dentro di me, senza riconoscerla, fino al ritrovamento, in un cassetto, di una fototessera di mio padre del 1970. Era come la tessera mancante di un puzzle. La verità, banale e sconvolgente insieme, mi investì di colpo. Tante domeniche pomeriggio d’infanzia, passate a giocare ai lego sul tappeto, mentre in tv davano un film di quell’attore un po’ sbruffone. Perché mi ricordavo solo i suoi film? Perché solo il suo nome? Di colpo ogni tessera andava al suo posto.

Mia madre, da giovane, non si perdeva un film di Paul Newman. Mio padre, da giovane, era l’articolo più somigliante a Paul Newman che la bassa padana potesse offrire. Naturalmente la carnagione era un filo più scura e il formato era ridotto, perché l’altezza media di un popolo è proporzionale al benessere, e la bassa padana fu zona depressa fino al 1950.

Ora, prima che vi mettiate strane idee in testa, è giusto che lo sappiate: io assomiglio a mio padre, ma a Paul Newman, neanche un po’. Ingiusto, ma è così.

E tuttavia a volte mi chiedo se questa assurda, banale circostanza, non potrebbe spiegare qualche aspetto del mio carattere. Io in fin dei conti potrei essere definito una persona pacifica e conciliante, proprio come mio padre (che non mi ha mai detto quei famosi No che aiutano a crescere). D’altro canto, è evidente che io non sono davvero una persona pacifica e conciliante, bensì un egocentrico sbruffone. Da chi ho preso? Da mia madre no, da mio padre nemmeno. E allora?

Credo che Paul Newman sia il mio attore preferito. Di lui ricordo molto bene due film. Il secondo, in italiano, si chiamava Lo Spaccone (The Hustler, 1961). Il ruolo perfetto per lui, no? Ma era uno dei suoi primi, in bianco e nero.
Lo Spaccone, a memoria, mi sembra il film più alcolico che io abbia mai visto. Ci si ubriaca solo a guardarlo, ti alzi dalla poltrona che ti gira la testa. Peggio di così c’è solo Morire a Las Vegas, ma a Las Vegas Nicholas Cage sa benissimo che beve per uccidersi; invece nello Spaccone la gente beve senza neanche rendersi conto che nuoce gravemente alla salute. Si fuma anche molto. È un film di altri tempi (mi ricordo un dialogo pomeridiano tra lui e lei: “Cosa fai oggi?” “Niente”. “Ti va di bere?”)

Lo Spaccone sarebbe un film sul biliardo, ma, come si dice in questi casi, il biliardo non è che una metafora della vita. All’inizio Paul Newman è convinto di essere il più grande giocatore del mondo, e non smetterà di crederci per tutto il film. Ma gli va tutto male, perché? Perché è uno spaccone. A biliardo si gioca così: si gioca con un pollo e si finge di essere più polli di lui: si perde un po’, e quando il pollo è cotto a puntino lo si spenna. Ci vuole concentrazione, sangue freddo, killer instinct. Paul Newman non ha nulla di tutto questo. Invece di cercarsi polli giù al molo, va davanti al più grande giocatore di biliardo vivente e lo sfida a regolar tenzone. E per dimostrare che è sicuro del fatto suo, tra un colpo di stecca e l’altro beve bourbon come una spugna. E vince, stravince, e beve, perché è un genio. Finché dopo dodici ore di stecca non succede qualcosa. Il suo agente gli consiglia di ritirarsi, ma lui deve andare avanti. Non si è accorto che il vecchio maestro lo sta per spennare, da pollo che è.
Dodici ore dopo lo svegliano, abbracciato al termosifone, e lo avvertono che la partita è finita, e lui ha perso tutto. Ma tranquilli, questo è solo l’inizio del film.

Ora, però, visto che non siete degli sprovveduti, e film americani ne avete visti tanti, con un piccolo sforzo potete immaginarvi da soli come continua. È il solito canovaccio: all’inizio del film il giovane di belle speranze fa una brutta figura, cade in disgrazia, ma poi capisce quali sono stati i suoi errori, e verso la fine del film torna sui suoi passi e trionfa nel luogo dove era stato umiliato. In mezzo, di solito, incontra anche una bella ragazza.
Così vanno i film, in America, e così vorremmo che fosse la nostra vita: siamo persone eccezionali che hanno fatto degli errori, ma con qualche piccolo aggiustamento…

Lo Spaccone però non ce la fa. Resta Spaccone fino alla fine, e anche quando vince, in realtà perde tutto. Insomma, è un completo disastro. E un paio di volte alzandomi dalla poltrona coi postumi di una sbronza, mi sono chiesto: ma non avrò per caso preso da lui?

Per fortuna poi penso al primo film che mi ricordo di lui, che è La Stangata (The Sting,1973: abbiamo la stessa età). Per me non ci sono film più belli, ma è anche vero che sono anni che non vado a ricontrollare.
In questo film, se ci fate caso, Paul Newman assume un ruolo vagamente paterno nei confronti del vero protagonista, che sarebbe Robert Redford: lo spettatore tende a immedesimarsi in quest'ultimo. All’inizio del film, poi, Newman non sembra altro che un alcolizzato di mezza età, come se avessero chiuso Lo Spaccone in una cantina e lo avessero tirato fuori dopo quindici anni. Ma poi c’è la scena del poker sul treno.
Newman e Redford sono saliti su un treno per tendere un tranello a un gangster che gioca a poker in un vagone (ma che, ve lo devo raccontare?) È Newman che va a gettare l’esca. Prima però entra in una toilette e si mette a fare gargarismi col bourbon. Che fai, gli chiede Redford. Non lo vedi? Risponde lui. Ci metto un po’ d’acqua. Altrimenti non lo reggo.

Anche se so che non è vero, mi piace pensare che La Stangata sia il seguito dello Spaccone. Che il protagonista sia sempre lo stesso, solo che ora ha finalmente capito il trucco fondamentale della vita (lo stesso che ha salvato i Guns’n’Roses dalla cirrosi epatica): allungare il bourbon. Nella vita non bisogna essere sbronzi. Bisogna sembrare sbronzi. Chi non lo capisce è un fallito, anche se è il miglior giocatore di stecca del mondo. Chi lo capisce non ha più nient’altro da imparare.

Quando Paul Newman arriva nel vagone del poker, col colletto aperto e scravattato, la bottiglia di bourbon in mano e l’aria da imbecille, la partita è sua.
Nello stesso modo (occhi socchiusi, aria da scemo, vestiti spiegazzati: e riflessi pronti, sangue freddo, e lo stesso freddo nel cuore) vorrei sapermi sedere anch’io un giorno al tavolo della vita.
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My daddy was a friendly user
(...down in New Orleans)

Mio papà, che non ne parlo mai.
Mio papà ieri è uscito con in tasca il telecomando e ha cercato di usarlo per chiamare un cliente. Risate.

Ma riflettiamo un attimo: mio padre appartiene a una generazione eroica, per la tecnologia. Nessuna, prima o dopo, ha sperimentato tante interfacce utente diverse.
Mio padre ha dovuto acquisire familiarità con la luce elettrica, il motore a scoppio, il telefono, la mietitrebbia, (strumento per nulla user friendly), e un aggeggio caseario di cui so che ha il patentino. A vent’anni ha messo su un’autofficina, a cinquanta si è convertito in conducente di gru idrauliche; ha imparato a maneggiare svariati elettrodomestici, tutti con un’interfaccia utente diversa: la cucina economica, la lavastoviglie, il tv: in pratica è arrivato fino al micro-onde e al telefono cellulare. Mi sembra decisamente il massimo di flessibilità tecnologica che si può pretendere da un uomo.

Al suo confronto, io, il presunto giovane high-tech, cos’ho scoperto? Non ho fatto che passare da una pulsantiera all’altra, e comunque erano tutte molto simili. Mai letto un manuale d’istruzioni in vita mia, eppure sopravvivo. Tanto so già che se un giorno comprerò un dvd, sui tasti ci saranno gli stessi disegnini del registratore portatile che mi regalarono alla prima Comunione (triangolo = play; cerchio = rec; due trattini paralleli = pause).

Se ora inventeranno il cellulare che legge il pensiero, prepara il caffè, cambia la programmazione tv, io sarò molto stupito. Mio padre no. Lui non può stupirsi per così poco, dopo tutto quello che ha vissuto. Mio padre è già pronto alla prossima evoluzione, il portatile-telecomando.

E potrei seguitare con altre riflessioni molto interessanti, ma vi devo salutare. Mi sta suonando il frontalino dell’autoradio.
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Quel signore là
Stavo pensando a Dio - com'è inevitabile, no? - e soprattutto alla mia famiglia, che è una famiglia normale, con le sue croci piccole e grandi un po' su tutti i muri, e nei cuori, e qualche parente prete, che non guasta.
Stavo pensando che io ho sempre avuto una certa diffidenza per chi si riempie troppo la bocca con questa parola, Dio. Dio qua, dio là, Dio ci salva, Dio ci ama, Dio ci ascolta... ho sempre avuto paura di parlare troppo a Dio, perché col tempo si rischia di farsi ciascuno un Dio su misura, che ci ascolta, ci risponde e alla fine ci dà sempre ragione (e torto agli altri).
Ma chi l'ha detto che poi Dio dev'essere come ce lo immaginiamo - anzi, qualche teologo avrà senz'altro concluso che Egli è Inimmaginabile, e imperscrutabili sono le sue vie. E io aggiungo: magari è solo un pasticcione, che è sì Onnipotente, ma che appunto con tutta questa onnipotenza si trova un po' impacciato, e nella furia di far tutto bene gli scappano dei disastri. Perché no? Proprio come certe persone tanto buone e impegnate, che senza volere combinano un guaio dopo l'altro, io sono pronto a credere che Dio parta sempre con le migliori intenzioni.

Ma non volevo parlare di questo. Volevo parlare un po' della mia famiglia, che è una famiglia normalissima, con qualche sprazzo di saggezza ogni tanto.
Per esempio l'altra sera ho sentito dire a mio padre: "adesso speriamo almeno che quel Signore là..."
E mi son detto: ma dio, con tutte le messe che si è preso papà, credo che potrebbe anche parlarne con più familiarità.
E invece no, mio padre è fatto così, e anche mia madre, ed evidentemente anch'io. Noi al Signore ci crediamo, gli vogliamo anche bene, però non ci sentiamo molto in confidenza. Sarà perché veniamo dalla campagna? Noi non chiediamo mai favori a nessuno, mica perché non ne avremmo bisogno, ma così, perché non sta bene. E poi probabilmente ci sentiamo in colpa per un motivo o per un altro, i motivi ci sono sempre. Così le preghiere le diciamo (io un po' meno), a Messa ci andiamo (io un po' meno) e le offerte le diamo (io... ahem), però Dio per noi rimane sempre "Quel signore là". Che se qualche volta vuol venirci a vedere e a darci una mano, sarebbe certo un gran piacere e un grande onore; noi però non pretendiamo niente. E' già tanto quello che ha fatto per noi, o no?
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