Monica non molla mai

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L'estate sta finendo, un anno se ne va,
sto diventanto grande, mia madre è sempre qua.
27 agosto - Santa Monica (331-387), madre e maestra di Sant'Agostino

Quell'ubriacona di tua madre. Di tutti i colpi bassi, quello che l'eretico Giuliano tentò con Agostino rimane memorabile. In mezzo a una lunga polemica sul peccato e la grazia, buttò lì quel dettaglio: tua madre beveva. L'hai scritto tu, no? In effetti era stato lo stesso Agostino ad aver raccontato l'aneddoto nelle Confessioni, con quel suo tipico gusto per le inezie e i peccatucci infantili che però rivelano la personalità più dei grandi gesti, che lo mette nel solco di Freud con quel millennio e mezzo d'anticipo: da bambina, quando i genitori la mandavano in cantina a prendere un'anfora di quello buono, Monica suggeva il vino di nascosto. Aveva iniziato per curiosità, vincendo la repulsione, per poi prenderci gusto - finché la tata non l'aveva presa di petto: uno choc. Il vino è dolce, ma non compensa la vergogna di una schiava che ti dà dell'ubriacona. Da lì in poi aveva smesso, quasi smesso di bere, e soprattutto di provare curiosità per i vizi di questo mondo. Per compiere una rinuncia simile suo figlio, il grande dottore della Chiesa, avrebbe dovuto aspettare i trentatré anni. Rispondendo a Giuliano, Agostino abbozzò qualcosa del tipo 'lascia stare mia madre, non ti ha fatto niente di male', quasi una finta, e poi il gancio sinistro: "Io al contrario tengo in onore i tuoi genitori come Cristiani cattolici e mi rallegro con essi che siano morti prima di vederti eretico".

Il figlio lo fa Alessandro Preziosi (poi invecchia e diventa Franco Nero).
Lei mi sembra nella parte, è Preziosi che boh
 (ma invecchiando diventa Franco Nero),
Monica non avrebbe potuto morire prima di vedere Agostino santo. E però fu proprio Monica a scegliere di non battezzarlo da bambino; decisione di cui il santo la rimprovera anche da morta. Dietro a questa scelta c'era probabilmente una consapevolezza: Agostino non era pronto. Il battesimo dei primi secoli non era una semplice formalità: poteva trasformare un peccatore in un santo. Ma cosa succedeva se poi il santo si rimetteva a peccare? C'erano varie opinioni, ma Monica non se la sentiva di rischiare. Conosceva troppo bene suo figlio. Io succhiai il cristianesimo con il latte materno, racconta Agostino (e anche qui il freudiano va in estasi). Ma forse succhiò anche quella curiosità per il proibito che Monica aveva sentito nelle vene sin da bambina. La famosa battuta di Agostino - Dio dammi la santità, ma non subito - in fondo è farina sua. Figlio mio, sarai dottore, sarai santo, ma tra un po': adesso studia, bevi, divertiti. Basta che non mi porti in casa quella lì.

L'estasi di Ostia. Conversando riuscirono ad avere un'idea di Dio, poi lei si mise a letto e decise che poteva morire. Monica, si è soliti dire, seguì Agostino dappertutto, anche quando lui fuggiva in Italia e la piantava in asso al porto di Cartagine con una scusa. Monica è l'unico vero amore della sua vita... Ma quando mai. Monica è solo quella che ha vinto, e ha ottenuto che delle altre si cancellasse il nome. Ma non è sempre stata quella presenza silenziosa e sollecita che ci immaginiamo in un angolo del suo studio, a rosicchiare paternostri, o in cucina a preparare gli snack per i compagni di meditazione. Quando il giovane Agostino era tornato da Cartagine con una laurea, non l'aveva voluto ricevere. È perché si era convertito al manicheismo, dicono. Sì, certo, un figlio manicheo era senz'altro una sciagura (erano i grillini del tempo, avevano un'opinione su tutto ed era quasi sempre una sciocchezza). Ma c'è anche quel piccolo dettaglio che nel frattempo Agostino si era preso una concubina e ci aveva fatto un figlio. Ecco.

Quella concubina, di cui nelle Confessioni non si fa il nome, fu la vera avversaria di Santa Monica... (continua ovviamente sul Post)
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Maestri di vita (12): Paul Newman siede al tavolo.

Ognuno di noi è figlio, oltre che di una madre e di un padre, anche di una talvolta complicata, talvolta banale serie di circostanze che hanno fatto incontrare queste due persone invece di chiunque altro. Io, per esempio, sento di dovere qualcosa a Paul Newman.

Questa verità l’avevo sempre sentita tenuta dentro di me, senza riconoscerla, fino al ritrovamento, in un cassetto, di una fototessera di mio padre del 1970. Era come la tessera mancante di un puzzle. La verità, banale e sconvolgente insieme, mi investì di colpo. Tante domeniche pomeriggio d’infanzia, passate a giocare ai lego sul tappeto, mentre in tv davano un film di quell’attore un po’ sbruffone. Perché mi ricordavo solo i suoi film? Perché solo il suo nome? Di colpo ogni tessera andava al suo posto.

Mia madre, da giovane, non si perdeva un film di Paul Newman. Mio padre, da giovane, era l’articolo più somigliante a Paul Newman che la bassa padana potesse offrire. Naturalmente la carnagione era un filo più scura e il formato era ridotto, perché l’altezza media di un popolo è proporzionale al benessere, e la bassa padana fu zona depressa fino al 1950.

Ora, prima che vi mettiate strane idee in testa, è giusto che lo sappiate: io assomiglio a mio padre, ma a Paul Newman, neanche un po’. Ingiusto, ma è così.

E tuttavia a volte mi chiedo se questa assurda, banale circostanza, non potrebbe spiegare qualche aspetto del mio carattere. Io in fin dei conti potrei essere definito una persona pacifica e conciliante, proprio come mio padre (che non mi ha mai detto quei famosi No che aiutano a crescere). D’altro canto, è evidente che io non sono davvero una persona pacifica e conciliante, bensì un egocentrico sbruffone. Da chi ho preso? Da mia madre no, da mio padre nemmeno. E allora?

Credo che Paul Newman sia il mio attore preferito. Di lui ricordo molto bene due film. Il secondo, in italiano, si chiamava Lo Spaccone (The Hustler, 1961). Il ruolo perfetto per lui, no? Ma era uno dei suoi primi, in bianco e nero.
Lo Spaccone, a memoria, mi sembra il film più alcolico che io abbia mai visto. Ci si ubriaca solo a guardarlo, ti alzi dalla poltrona che ti gira la testa. Peggio di così c’è solo Morire a Las Vegas, ma a Las Vegas Nicholas Cage sa benissimo che beve per uccidersi; invece nello Spaccone la gente beve senza neanche rendersi conto che nuoce gravemente alla salute. Si fuma anche molto. È un film di altri tempi (mi ricordo un dialogo pomeridiano tra lui e lei: “Cosa fai oggi?” “Niente”. “Ti va di bere?”)

Lo Spaccone sarebbe un film sul biliardo, ma, come si dice in questi casi, il biliardo non è che una metafora della vita. All’inizio Paul Newman è convinto di essere il più grande giocatore del mondo, e non smetterà di crederci per tutto il film. Ma gli va tutto male, perché? Perché è uno spaccone. A biliardo si gioca così: si gioca con un pollo e si finge di essere più polli di lui: si perde un po’, e quando il pollo è cotto a puntino lo si spenna. Ci vuole concentrazione, sangue freddo, killer instinct. Paul Newman non ha nulla di tutto questo. Invece di cercarsi polli giù al molo, va davanti al più grande giocatore di biliardo vivente e lo sfida a regolar tenzone. E per dimostrare che è sicuro del fatto suo, tra un colpo di stecca e l’altro beve bourbon come una spugna. E vince, stravince, e beve, perché è un genio. Finché dopo dodici ore di stecca non succede qualcosa. Il suo agente gli consiglia di ritirarsi, ma lui deve andare avanti. Non si è accorto che il vecchio maestro lo sta per spennare, da pollo che è.
Dodici ore dopo lo svegliano, abbracciato al termosifone, e lo avvertono che la partita è finita, e lui ha perso tutto. Ma tranquilli, questo è solo l’inizio del film.

Ora, però, visto che non siete degli sprovveduti, e film americani ne avete visti tanti, con un piccolo sforzo potete immaginarvi da soli come continua. È il solito canovaccio: all’inizio del film il giovane di belle speranze fa una brutta figura, cade in disgrazia, ma poi capisce quali sono stati i suoi errori, e verso la fine del film torna sui suoi passi e trionfa nel luogo dove era stato umiliato. In mezzo, di solito, incontra anche una bella ragazza.
Così vanno i film, in America, e così vorremmo che fosse la nostra vita: siamo persone eccezionali che hanno fatto degli errori, ma con qualche piccolo aggiustamento…

Lo Spaccone però non ce la fa. Resta Spaccone fino alla fine, e anche quando vince, in realtà perde tutto. Insomma, è un completo disastro. E un paio di volte alzandomi dalla poltrona coi postumi di una sbronza, mi sono chiesto: ma non avrò per caso preso da lui?

Per fortuna poi penso al primo film che mi ricordo di lui, che è La Stangata (The Sting,1973: abbiamo la stessa età). Per me non ci sono film più belli, ma è anche vero che sono anni che non vado a ricontrollare.
In questo film, se ci fate caso, Paul Newman assume un ruolo vagamente paterno nei confronti del vero protagonista, che sarebbe Robert Redford: lo spettatore tende a immedesimarsi in quest'ultimo. All’inizio del film, poi, Newman non sembra altro che un alcolizzato di mezza età, come se avessero chiuso Lo Spaccone in una cantina e lo avessero tirato fuori dopo quindici anni. Ma poi c’è la scena del poker sul treno.
Newman e Redford sono saliti su un treno per tendere un tranello a un gangster che gioca a poker in un vagone (ma che, ve lo devo raccontare?) È Newman che va a gettare l’esca. Prima però entra in una toilette e si mette a fare gargarismi col bourbon. Che fai, gli chiede Redford. Non lo vedi? Risponde lui. Ci metto un po’ d’acqua. Altrimenti non lo reggo.

Anche se so che non è vero, mi piace pensare che La Stangata sia il seguito dello Spaccone. Che il protagonista sia sempre lo stesso, solo che ora ha finalmente capito il trucco fondamentale della vita (lo stesso che ha salvato i Guns’n’Roses dalla cirrosi epatica): allungare il bourbon. Nella vita non bisogna essere sbronzi. Bisogna sembrare sbronzi. Chi non lo capisce è un fallito, anche se è il miglior giocatore di stecca del mondo. Chi lo capisce non ha più nient’altro da imparare.

Quando Paul Newman arriva nel vagone del poker, col colletto aperto e scravattato, la bottiglia di bourbon in mano e l’aria da imbecille, la partita è sua.
Nello stesso modo (occhi socchiusi, aria da scemo, vestiti spiegazzati: e riflessi pronti, sangue freddo, e lo stesso freddo nel cuore) vorrei sapermi sedere anch’io un giorno al tavolo della vita.
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Quel signore là

Stavo pensando a Dio - com'è inevitabile, no? - e soprattutto alla mia famiglia, che è una famiglia normale, con le sue croci piccole e grandi un po' su tutti i muri, e nei cuori, e qualche parente prete, che non guasta.
Stavo pensando che io ho sempre avuto una certa diffidenza per chi si riempie troppo la bocca con questa parola, Dio. Dio qua, dio là, Dio ci salva, Dio ci ama, Dio ci ascolta... ho sempre avuto paura di parlare troppo a Dio, perché col tempo si rischia di farsi ciascuno un Dio su misura, che ci ascolta, ci risponde e alla fine ci dà sempre ragione (e torto agli altri).
Ma chi l'ha detto che poi Dio dev'essere come ce lo immaginiamo - anzi, qualche teologo avrà senz'altro concluso che Egli è Inimmaginabile, e imperscrutabili sono le sue vie. E io aggiungo: magari è solo un pasticcione, che è sì Onnipotente, ma che appunto con tutta questa onnipotenza si trova un po' impacciato, e nella furia di far tutto bene gli scappano dei disastri. Perché no? Proprio come certe persone tanto buone e impegnate, che senza volere combinano un guaio dopo l'altro, io sono pronto a credere che Dio parta sempre con le migliori intenzioni.

Ma non volevo parlare di questo. Volevo parlare un po' della mia famiglia, che è una famiglia normalissima, con qualche sprazzo di saggezza ogni tanto.
Per esempio l'altra sera ho sentito dire a mio padre: "adesso speriamo almeno che quel Signore là..."
E mi son detto: ma dio, con tutte le messe che si è preso papà, credo che potrebbe anche parlarne con più familiarità.
E invece no, mio padre è fatto così, e anche mia madre, ed evidentemente anch'io. Noi al Signore ci crediamo, gli vogliamo anche bene, però non ci sentiamo molto in confidenza. Sarà perché veniamo dalla campagna? Noi non chiediamo mai favori a nessuno, mica perché non ne avremmo bisogno, ma così, perché non sta bene. E poi probabilmente ci sentiamo in colpa per un motivo o per un altro, i motivi ci sono sempre. Così le preghiere le diciamo (io un po' meno), a Messa ci andiamo (io un po' meno) e le offerte le diamo (io... ahem), però Dio per noi rimane sempre "Quel signore là". Che se qualche volta vuol venirci a vedere e a darci una mano, sarebbe certo un gran piacere e un grande onore; noi però non pretendiamo niente. E' già tanto quello che ha fatto per noi, o no?
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