Sanremo e il Grande Sonno
10-02-2023, 23:47musica, SanremoPermalinkProbabilmente non è Sanremo, sono io. Sanremo c'è sempre: a volte un po' meglio, più spesso peggio. Quest'anno non lo sopporto – e allora non guardarlo! Infatti non lo sto guardando – e allora come fai a dire che non lo sopporti? Il punto è proprio questo: quest'anno Sanremo mi aveva stancato una settimana prima che cominciasse. Succedeva nell'era di Pippo Baudo, quando comunque l'eventualità di restare a casa a guardarsi vecchi cantanti stonare brutte canzoni era fuori discussione. Negli ultimi anni, viceversa, avevo cominciato a registrare una specie di simpatia per la Kermesse, uno dei rari momenti in cui comunque ci trovavamo tutti davanti al televisore, compresi i giovani che non sanno da che parte si accende ma recuperavano i clippini su Youtube o altrove. Sanremo come l'unico ponte rimasto tra le generazioni – uno stringersi a coorte intorno a un ponte che in passato avevo sempre trovato architettonicamente discutibile e lo sarebbe tuttora, ma non c'è più scelta e non si tratta nemmeno di scegliere: si tratta di stare assieme, le canzoni servono anche a questo. Tutto giusto, e forse il motivo per cui Sanremo sta andando abbastanza bene è che la Rai lo ha capito.
Un'africana in Veneto
08-02-2023, 01:32razzismi, santiPermalink8 febbraio: Santa Giuseppina Bakhita (1869-1947)
Il rapporto tra santità e pelle nera è uno dei più bizzarri e forse meriterebbe di essere studiato meglio: in un continente in cui la nobiltà è associata (almeno a partire dall'Alto Medioevo) a carnagione chiara e capelli biondi, la santità assume attributi opposti molto più spesso di quanto sembrerebbe. Hanno la pelle scura le icone bizantine (forse perché annerite dal fumo delle candele); le statue di vescovi risalenti all'antichità, come Zeno a Verona. Hanno il colore del bronzo certe statue del monaco siciliano San Calogero, che quando vengono portate in processione brillano al sole e sembrano sudare; e proprio in Sicilia, nel basso medioevo nasce il fenomeno dei santi neri, frati di origine africana (a volte schiavi liberati) che vengono venerati in vita e dai quali la gente sembra che si aspetti i miracoli, finché a furia di insistere i miracoli non arrivano. Il caso di Giuseppina Bakhita è molto più recente, ma non così diverso: anche Giuseppina è diventata famosa senza averlo desiderato, semplicemente perché il colore della pelle richiamava l'attenzione di fedeli e curiosi ("Tuti i vole védarme: son propio na bestia rara!") In un mondo senza immagini fotografiche a colori, Giuseppina mostrava agli abitanti di Schio che sì, i neri esistevano: se poi apriva la bocca per parlare la sorpresa era doppia, perché Giuseppina parlava in dialetto veneto.Giuseppina deve la sua fama a un libro della canossiana laica Ida Zanolini, Storia meravigliosa: Giuseppina Bakhita, che negli anni Trenta ebbe un buon successo e fu una specie di italica Capanna dello Zio Tom; un racconto che ha senz'altro il pregio di mettere a fuoco gli orrori dello schiavismo, ma anche di confortare il lettore sul fatto che molti uomini bianchi lo avversino, in particolare gli illuminati esponenti della borghesia coloniale italiana. Come Callisto Legnani, console italiano a Khartoum, che comprava i bambini vittime della tratta per restituirle alle famiglie. Questa ragazzina che riscatta nel 1882, però, non può essere restituita perché non si ricorda nemmeno come si chiamava: il nuovo nome ("Fortunata"), glielo hanno dato i predoni. Potrebbe avere tredici anni. Probabilmente viene da un villaggio del Darfour: ricorda di avere avuto molti fratelli che forse sono stati fatti prigionieri anche loro; ha già cambiato padrone più volte; è stata al servizio di un generale turco che l'ha fatta tatuare; il tatuaggio successivamente è stato abraso e forse trattato col sale per creare una cicatrice permanente. Tutte queste cose le sappiamo dal libro della Zanolini: Giuseppina non ne parlava volentieri e a volte sosteneva che la storia era esagerata – può darsi che la Zanolini volesse condensare nel personaggio di Bakhita le sofferenze inflitte a più bambine, e documentate da altre fonti: così come può darsi che Bakhita avesse maturato una certa insofferenza per chi continuava a chiederle particolari riguardo i traumi della sua infanzia.
La ragazza resta per due anni al servizio del console – i biografi si affrettano a precisare che non era più considerata una schiava, ma comunque era una minore che svolgeva mansioni di servitù. La differenza che Bakhita percepisce è che non viene più picchiata e tanto basta perché sia la stessa Bakhita a chiedere a Legnani di portarla con lei, quando lascia Khartoum nel 1884 durante la rivolta del Mahdi. Ai Legnani si aggrega durante il viaggio un'altra famiglia italiana, gli albergatori Michieli. Giunti a Genova, il console cede Bakhita ai Michieli, che hanno una figlia che si trova bene con lei. Sono i Michieli a portare Bakhita in Veneto (a Mirano): tre anni dopo, quando ripartono per l'Africa, lasciano la figlia in un collegio canossiano di Venezia. Bakhita resta con lei, in qualità di catecumena, perché non è nemmeno battezzata e di cristianesimo ancora non sa quasi nulla. Quando intorno al 1889 la signora Michieli torna a prendere la figlia, Bakhita prende l'unica vera decisione della sua vita: non vuole tornare in Africa, preferisce restare nel convento delle canossiane. La Michieli ricorre ai legali, così che a un tribunale tocca sancire che la schiavitù in Italia non esiste: Bakhita è libera di restare nel convento.
Nel 1890 viene battezzata Giuseppina Margherita Fortunata: sei anni dopo prende i primi voti. Nel 1893 è trasferita nel convento di Schio dove passerà quasi tutto il resto di una vita tutto sommato abbastanza tranquilla, scandita dalle normali mansioni di una suora canossiana: in cucina, in sagrestia, anche in infermeria quando durante la Prima Guerra Mondiale il convento diventa un ospedale delle retrovie. La situazione cambia quando nel 1902 Giuseppina viene spostata in portineria, diventando il volto che le canossiane di Schio offrono al mondo esterno: è un volto sorridente, ma davvero inusuale, che richiama perfino scolaresche in visita d'istruzione. I concittadini la chiamano Madre Moreta e se non si aspettano da lei espliciti miracoli (una portinaia nera a Schio è già un piccolo miracolo), comunque in un qualche modo reclamano che un volto così diverso dal solito si carichi di un senso, renda testimonianza su un continente lontano che forse Giuseppina non ricordava volentieri.
Le canossiane decidono di scriverci un libro, che si ristampa varie volte e che più che a raccontare la sua lagrimevole storia serve a sensibilizzare il pubblico sulla necessità di sostenere le opere missionarie: una canossiana di ritorno dalla Cina la porta con sé in un tour di conferenze in tutt'Italia, che fanno il pieno di pubblico perché sul palco c'è anche la suora nera, che non parla molto (il dialetto veneto in effetti rovina un po' l'effetto esotico), ma insomma, è nera. Non una cosa che si vede tutti i giorni – e a differenza che al circo, alle conferenze missionarie non si paga il biglietto. Il gusto per l'esotico del resto è quello che porta migliaia di giovani volontari in Abissinia, dove a sentire le canzoni è pieno di faccette nere che non vedono l'ora di sorridere ai liberatori. Nel 1936 Giuseppina accompagna a Roma una delegazione di missionarie che prima di partire per Addis Abeba vanno a salutare Mussolini. Le faccette nere però, ora che sono suddite dell'impero, fanno meno tenerezza. Anzi occorre scongiurare che i soldati contraggano matrimoni misti: si è appena scoperto che l'italianità è una razza che va difesa dalle impurità. Può essere solo una coincidenza, ma proprio nel 1837 Giuseppina viene spostata dal convento di Schio e si ritrova in Lombardia, a Vimercate. Anche lì però viene collocata in portineria: si vede che era una portinaia veramente brava, o che alle canossiane non dispiaceva quel particolare tipo di attenzione che attirava. Nel 1939, malata, ottiene di tornare a Schio dove si spegne l'otto febbraio del 1947.
Giuseppina è stata beatificata nel 1992. Non ha fondato conventi né scritto meditazioni; stava in portineria, sorrideva e nemmeno faceva i miracoli, almeno in vita. Quello necessario alla sua canonizzazione lo ha fatto a una signora brasiliana diabetica, a cui stavano per amputare le gambe. Chissà quante sante e quante beate avrà invocato: Bakhita ha funzionato, e così al termine di un processo abbastanza rapido è stata canonizzata da Giovanni Paolo II. Di sé stessa diceva: "Mi son on povero gnoco, come i gha fato a tegnerme in convento?"
Carcere duro a chi ne vuol parlare
06-02-2023, 19:11giornalisti, giustizia, governo Meloni, PdPermalink(Una modesta proposta)
Io non ho un'opinione forte sul regime carcerario previsto dal 41bis – il pezzo potrebbe finire qui, in effetti. Non ho un'opinione nemmeno così debole, diciamo che è oscillante e che dipende molto da chi mi fa la domanda. In linea di massima posso dire che oscilli tra il punto di vista A ("È tortura") e il punto B ("abbiamo sconfitto Cosa Nostra, insomma è utile"). Su questa oscillazione traballa tutta la mia coscienza democratica, il dubbio di vivere in uno Stato che non sempre riesce a garantire i diritti fondamentali a tutti i suoi cittadini. Mi consolo pensando che almeno non oscillo mai verso il punto C ("Se lo meritano"): lo lascio volentieri aa Meloni e ai suoi garzoni, che in questo caso stanno mostrando tutta l'impreparazione che avevamo largamente previsto.A tal proposito, la linea del(la) presidente mi sembra la più vittimista possibile, il che non sorprende di certo: l'attacco frontale al PD ricorda quasi una certa strategia bannoniana di demonizzazione dell'avversario, che a ben vedere non è che abbia molto giovato alle destre negli Usa e nel mondo. I bannoniani hanno provato a descrivere una moderata come la Clinton in una satanista: nel medio-termine però è la destra bannoniana che si è trasformata in una specie di setta dai comportamenti ingestibili (l'attacco al Campidoglio). Cercare di vendere al proprio pubblico il PD, un partito di mediocri amministratori, come il braccio politico dell'insurrezionalismo anarchico, è una mossa talmente bannoniana che lascia perplessi, insomma è uno schema che fin qui non ha funzionato: e però, e però io sto in Emilia, uno dei pochi posti in cui il PD esiste ancora, puoi vedere gli iscritti in giro per la strada e nemmeno per un istante puoi credere che siano bombaroli; nella maggior parte del territorio ormai è una sigla abbastanza esotica, per cui non è detto che la demonizzazione non funzioni, o che il PD non dovrebbe immediatamente reagire con una prontezza di riflessi che purtroppo non ha (non ha nemmeno un organo di stampa: scommette sulla benevolenza di una classe imprenditoriale che l'ha abbandonato da mò).
Tornando al 41bis, e in particolare al punto A ("è tortura"), ammetto che dipenda molto dal mio temperamento: benché io ami relativamente la solitudine, devo assolutamente trovarmi qualcosa da fare, altrimenti credo di poter impazzire in pochi minuti. Poche cose mi ispirano più orrore dell'isolamento carcerario, e in particolare il pensiero che i reclusi non possano nemmeno leggere mi risulta intollerabile. Non solo ingiusto: intollerabile. Così ho questa proposta: chiunque sostenga di avere un'opinione forte sul 41bis, che passi almeno due settimane in una stanza sempre illuminata, senza libri e materiale audiovisivo e insomma nella stessa condizione in cui vivono per anni i carcerati al 41bis. Quindici giorni, e poi se proprio volete condividere la vostra opinione, vi ascolteremo.
Con questo non m'illudo di cambiare idea a gente che è pagata per avere la più trucida possibile – sparo un nome a caso: Mario Giordano. Probabilmente anche dopo due settimane di carcere duro continuerebbe a dire o scrivere cazzate: ma almeno per due settimane non dovremmo sentire le sue cazzate, un vantaggio collaterale vedete che c'è, e io mi accontenterei. E poi chissà, magari uno o due li troviamo, che hanno la testa meno dura del carcere.
San Gilberto di Limerick (oh!)
04-02-2023, 02:01anglistica, poesia, santiPermalink4 febbraio: San Gilberto vescovo di Limerick (XII secolo)
C'era a quei tempi un presule in Irlanda
che trovava la sua Chiesa esecranda,
con riti problematici
e diciamolo, scismatici,
scandalizzanti il presule d'Irlanda.
Quest'uomo, che chiamavano Gilberto,
affrontava i suoi avversari a volto aperto:
"L'unica Chiesa sana",
dicea, "è la gregoriana:
le altre sono eretiche, vi avverto".
Alla riforma di Papa Gregorio
si riferiva (credo sia notorio)
che uniformò la Chiesa:
ben meritoria impresa
in cui si cimentò Papa Gregorio.
Gilberto fu seguace suo e buon chierico,
ma poiché egli era vescovo a Limerick (oh!)
per lui ho scritto una sciocca
insensata filastrocca,
che è cosa invero indegna di un buon chierico.
Si fosse egli chiamato Arnolfo, o Ambrogio,
non dico che avrei scritto un buon elogio:
però ci avrei provato;
né è colpa del prelato
se Arnolfo non chiamavasi, né Ambrogio.
La colpa in parte cade su Edward Lear
che queste strofe scrisse a non finir:
"limerick" le chiamò,
perché io non lo so:
non credo lo sapesse neanche Lear.
Brigida e il barile senza fine
01-02-2023, 09:34repliche, santiPermalink(2013) Appena dico “Santa Brigida”, vi sento già sbuffare: “Massì, lo sappiamo, patrona di Svezia e d’Europa: ebbe otto figli, fondò una settantina di monasteri e riempì otto volumi di visioni estatiche”. Tutto questo è vero e anche di più, ma si tratta di Brigitta di Uppland, 23 luglio. Il primo febbraio ricorre un’altra Santa Brigida, quella di Kildare (Irlanda). Perché l’Irlanda non è solo San Patrizio, sapete.
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E sai cosa bevi |
Brigida forse era figlia di un capotribù e di una schiava convertita da Patrizio, forse no; forse esisteva già sotto forma di Brighid, importante divinità celtica, a cui erano dedicate alcune fontane sacre che poi passarono in blocco al cristianesimo quando questo espugnò anche l’Irlanda e Brighid si rassegnò a vestire i panni da badessa, riuscendo però nella trattativa a spuntare qualcosina di più: un pallio. Siccome non siete dei lettori qualunque, ma siete i lettori della rubrica dei Santi sul Post, non c’è bisogno di spiegarvi cosa sia il pallio e quanto sia straordinario che Brigitta ne vestisse uno. Solo i vescovi portano il pallio, e i vescovi, di solito, anzi sempre, sono maschi. Invece Brigitta lo portava, e lo portarono tutte le badesse che si succedettero a lei nella guida del monastero di Kildare (che forse all’inizio ospitava monaci di ambo i sessi, ancorché segregati; ma il boss era una donna). La cosa andò avanti per 500 anni, al punto che qualcuno cominciò a chiedersi il perché, e nacquero divertenti spiegazioni: si narra ad esempio che Brigitta fosse stata ordinata badessa da un vescovo molto anziano, che forse aveva sbagliato formula e invece di chiamarla “badessa” l’aveva chiamata “vescovo”: ma un ordine sacerdotale è una cosa seria, indissolubile, come il matrimonio; se per dire un prete molto anziano e presbite ti sposa per errore con un’acquasantiera, tu e l’acquasantiera restate marito e moglie per l’eternità – oppure vi appellate alla Sacra Rota, che in un caso del genere non avrebbe molte difficoltà ad annullare il sacramento – ma nel caso di Brigida nessuno si era appellato e così la badessa avrebbe ottenuto la dignità di vescovo, unica donna al mondo, per lei e per le sue success… le sue successoress… buffo, in italiano non c’è una parola per le donne che succedono ad altre donne in un ruolo di responsabilità. Curiosa lacuna.
Brigida è simpatica. Faceva miracoli molto semplici e di sicura presa: ottenne lo spazio per un convento stendendo il suo velo su un campo. Il proprietario le aveva detto che le avrebbe dato solo la terra coperta dal suo velo ma Brigida riuscì ovviamente a dilatarlo fino ad ottenere un bel lotto fabbricabile. Non ebbe particolari visioni estatiche, e di monasteri ne fondò assai meno dell’omonima principessa di Svezia – ma nell’isola ancora si parla di quella volta che nel Meath “spillò birra da un solo barile per diciotto chiese, in quantità tale che bastò dal Giovedì Santo alla fine del tempo pasquale” (Breviario di Aberdeen). Perciò gli irlandesi la ricordano con una preghiera che dice:
I would like a great lake of beer
for the King of Kings.
I would like to be watching Heaven’s family
drinking it through all eternity.
(Vorrei un lago di birra
per il Re dei Re.
Vorrei guardare la famiglia celeste
che ne beve per l’eternità)
Questa visione del paradiso come un pub dove la famiglia degli angeli e dei santi trinca per l’eternità, la dobbiamo a Santa Brigida di Kildare, che Dio l’abbia in gloria. E quando il giorno verrà, che si apriranno le saracinesche del cielo, fa che sia Santa Brigida ad attenderci al bancone celeste. E se la Madonna vorrà offrirci il vino di Cana, noi le diremo: “Tuo figlio ci ha messo l’acqua”, ma solo per scherzo, e Brigida spinerà una scura anche per lei, e i protestanti sciacqueranno i bicchieri in cucina, dove sarà pianto e stridore di piatti in eterno nei secoli dei secoli, amen.
La monaca antipatica
30-01-2023, 01:40santiPermalink30 gennaio: Santa Giacinta Marescotti (1585-1640), monaca antipatica
Se il destino dell'uomo è il suo carattere, non si può dire che Giacinta Marescotti partisse avvantaggiata. Ognuno ha la sua croce: può essere una malattia o una condizione sociale. In molti casi la santità coincide con l'eroica sopportazione di questa condizione. Giacinta era nobile e bella, ma una croce comunque l'aveva: meno visibile di altre, più imbarazzante da condividere, ma comunque nota a tutti i biografi che non possono fare a meno di rilevarla: Giacinta era insopportabile."Mostravasi tanto ritrosa e acerba che da pochi era amata e da molti fuggita" (Francesco Maria de Amatis), "cupa, intrattabile, grave alla famiglia" (un'altra biografia citata da Alfredo Cattabiani). Sarebbe stato proprio questo carattere difficile ad alienarle la simpatia del padre nel momento fatale in cui il marchese Paolo Capizucchi fece capire che era interessato a imparentarsi coi Marescotti. Paolo a Giacinta piaceva, ma il padre decise che Capizucchi si sarebbe fidanzato con la sorellina Ortensia, mentre Giacinta sarebbe tornata dalle suore del convento di San Bernardino, dov'era andata a scuola (ma ci era resistita un anno appena). I biografi fanno balenare il sospetto che la decisione del padre dipendesse dal cattivo carattere di lei; tuttavia il suo nome secolare (Clarice, "di Chiara") tradiva già il proposito dei genitori di sbolognarla alle clarisse – proprio come la Gertrude di Manzoni, che era stata chiamata così perché il nome suonava adatto al chiostro.
Nel chiostro Clarice ci entra a vent'anni, non come suora clarissa, ma come terziaria francescana: non prende dunque il voto di clausura, può ricevere visite, ma deve pur sempre vivere nel convento, seppure in un bilocale al piano nobile finemente arredato. La famiglia le passa 40 scudi l'anno, che in un convento di Viterbo sono più che sufficienti a fare una bella vita: ma che bella vita si può fare in un convento a Viterbo? Respinta dalla famiglia, isolata dal mondo, Giacinta non può nemmeno contare sulla solidarietà delle consorelle, che in effetti non sono sue consorelle. A questo punto della storia il romanziere farebbe irrompere un Egidio o qualche altra complicazione peccaminosa, ma a Giacinta non succede nemmeno questo, è come se nemmeno Satana la sopportasse. A trent'anni si ammala – è un brutto momento, nel giro di pochi mesi le erano morti la madre, un fratello e la cara sorella Ortensia.
Giacinta si mette a letto; un frate predicatore che sale per confessarla, Antonio Bianchetti, vede i bei mobili e se ne va sdegnato esclamando "Il Paradiso non è fatto per le persone superbe e vanitose". È uno choc, o se preferite, la vocazione: Giacinta decide di cambiare stile. Rinnega i bei mobili e i vestiti, sceglie una cella spoglia in cui si incatena a un letto di di assi di legno, ma non può rinnegare il suo carattere: insopportabile era prima e insopportabile resta. I suoi eroici atti di penitenza innervosiscono le clarisse, che la penitenza la fanno per tutta la vita e non sopportano la sua ansia di recuperare il tempo perduto, con gesti teatrali più adatti a una leggenda di santi che a un convento vero: una volta che per chiedere perdono si inginocchia per baciare il sandalo di una sorella, si prende un calcio in faccia.
Col tempo la situazione migliora – non è affatto chiaro il perché: d'altronde siamo stati quasi tutti ragazzini insopportabili, e poi a un certo punto cosa ci è successo? Niente di speciale, la vita ci ha preso a schiaffi, ma nemmeno tanti. Forse Giacinta comprende che la santità si può conquistare anche con le opere di bene, e che di bene con quei 40 scudi al mese se ne può fare parecchio. Fondamentale sembra essere stato l'incontro con Francesco Pacini, ex soldato di ventura (anche lui un carattere difficile) che racconta di essersi convertito grazie alle assidue preghiere di Giacinta. Pacini e la Marescotti fondano due confraternite dedite all'assistenza di poveri e malati, i Sacconi e gli Oblati di Maria. L'immagine di Giacinta migliora al punto che quando muore (a 53 anni) i concittadini vogliono a tutti i costi ritagliarne un lembo delle sue vesti per averne una reliquia, e le clarisse devono rivestirla tre volte. Insomma anche per gli antipatici c'è speranza – certo bisogna lavorarci molto, più coi fatti che con le parole.
Il santo parricida e matricida
29-01-2023, 09:04famiglie, miti, santiPermalink29 gennaio: San Giuliano l'Ospedaliere, parricida e matricida
Vi è mai capitato, tornando a casa tardi ragazzini, di pensare: quelli adesso mi ammazzano, mi aspettano dietro la porta e me ne danno finché – per cui girate la chiave nel modo più lento possibile, come ladri nella casa dei vostri genitori, ma dietro la porta non c'è nessuno, nessuno nemmeno in cucina, nessuno in salotto a sonnecchiare davanti alla tv, nessuno da nessuna parte e questo non era mai successo, al punto che vi spaventate e aprite pure la porta di camera loro, dov'è giusto che fossero, ma non era giusto per voi trovarli lì. Questa cosa, se ci riflettete, non ha senso: che i vostri genitori dividano un letto e un'intesa sessuale non solo è giusto, ma è il motivo stesso per cui voi siete al mondo a domandarvi: perché? Perché ciò che mi ha dato la vita mi mette tanto a disagio?
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Masolino da Panicale |
Al giovane Giuliano, nobile cacciatore, un cervo ormai braccato avrebbe detto: Come osi inseguirmi, tu che ucciderai il padre e la madre? Sconvolto, Giuliano avrebbe abbandonato i genitori e la terra d'origine, non si sa nemmeno quale (in alcune versioni Ath, oggi in Belgio), peregrinando per monti e per valli fino a far carriera alla corte di un principe che ne apprezzava le corti cavalleresche, sposare una vedova e intitolarsi il di lei castello. Un mattino molto presto, tornando stanco da un viaggio di lavoro, Giuliano entra nella sua camera e nella penombra trova nel letto una persona in più. Già sicuro di avere scoperto un tradimento della moglie, non perde tempo ad accendere una candela e ammazza a fil di spada i due dormienti. Il lettore a questo punto ha già capito, ma Giuliano no: immaginate il suo sbigottimento quando uscendo dal castello vede giungergli incontro la moglie tutta contenta: hai visto chi ti è venuto a trovare? I tuoi genitori che ti hanno cercato in lungo e in largo perché li avevi abbandonati senza spiegare il motivo! Siccome erano molto stanchi li ho accomodati nella nostra camera e me ne sono venuta alla prima messa del mattino... ma perché sei così pallido? Giuliano, devastato dal compiersi del suo destino, decide su due piedi di abbandonare ogni suo avere e mendicare per il mondo. La moglie, che almeno secondo Iacopo di Varazze conosceva la profezia e (chioso io) forse un po' si sentiva colpevole di non aver allestito la camera degli ospiti, decide di accompagnarlo. Nelle loro peregrinazioni arrivano a un grande fiume che secondo gli abitanti di Macerata è il Potenza, ma più facilmente l'autore aveva in mente i grandi fiumi tra Reno e Senna, dove fondano un ospedale per i pellegrini che arrivavano lì dopo un guado evidentemente molto difficile. Molti anni dopo, quando un pellegrino assiderato bussa alla porta, Giuliano non esita a ospitarlo nel suo letto malgrado mostri i sintomi della lebbra. Si tratta in realtà di un angelo ben camuffato che annuncia a Giuliano e consorte il perdono di dio: la coppia morirà pochi giorni dopo. Si direbbe che per tornare nella grazia di Dio, Giuliano, che non aveva tollerato i genitori nel proprio letto, abbia dovuto accogliere nello stesso letto la malattia più orribile alla vista, il disfacimento della pelle e della carne. Non aveva accettato chi gli aveva dato la vita, doveva accettare chi gli dava la morte. È una storia ben strana e non sappiamo chi l'ha inventata.
La paginetta su questo Santo che Iacopo di Varazze infila nella sua Legenda aurea, in mezzo alle biografie di altri vescovi e martiri recanti lo stesso nome, diventa così popolare da 'mangiarsi' gli altri Giuliani – compreso ad esempio il patrono di Macerata, che nei primi secoli era un omonimo martire istriano. È una leggenda spuntata all'improvviso nel tardo medioevo (non se ne trovano tracce prima del XIII secolo), che sicuramente ricorda il mito di Edipo, ma sposta l'attenzione dal tabù dell'incesto al senso di disagio che possiamo provare nel sorprendere i nostri genitori a letto assieme. Flaubert troverà la leggenda su una vetrata della Cattedrale di Rouen e ci scriverà quel capolavoro di novella. Giuliano è un santo troppo leggendario per risultare nel Martirologio romano: la più comprensiva Bibliotheca Sanctorum lo ricorda il 29 gennaio, riprendendo la tradizione attestata da Iacopo di Varazze; a Macerata festeggiano il 31 agosto, prima di tornare al lavoro.
La macarena sulle vostre tombe
26-01-2023, 21:06cinema, film italiani bruttini, generazione di fenomeni, scuola, tvPermalinkVi vedo tutti immotivatamente entusiasti per un monologhetto sull'entusiasmo immotivato, un pezzo appiccicato alla benemeglio in un prodotto seriale per far contenta la guest star che se l'è scritto. Non c'entra niente con lo sviluppo della trama, è uno sbrego diegetico, è un attore che esce dal personaggio e ci intrattiene sui fatti suoi che secondo lui sono divertenti. Anche secondo voi sono divertenti – del resto sembra fatto apposta per essere trasformato in story e girare sui vostri smartofoni. È una variazione sul tema delle chat scolastiche, nel 2023, ci vuole coraggio, no? Non sono mica tutti pronti all'ironia contro un avversario potente come le chat scolastiche. È un pezzo che si crede Mattia Torre, come probabilmente capita a tanti cartocci nel cestino della writing room della Littizzetto. È un pezzo che se la prende con l'entusiasmo dei genitori che vogliono fare qualcosa per migliorare l'offerta educativa del loro istituto. Hanno tutti una passione (la batteria, la danza, il ciclismo) e vogliono comunicarla, con tanto entusiasmo, che secondo il regista (appollaiato su una terrazza che dà su Piazza del Popolo) è "il sentimento più orrendo dell'essere umano". Non l'odio, non l'intolleranza, non l'impulso dell'audista che ti sorpassa a destra sull'A1: no, per il regista italiano il sentimento più orrendo è la voglia di insegnare qualcosa ai propri piccoli, e già che ci siamo ai piccoli degli altri. Capace che poi crescono più socievoli, ciò è sbagliato! Il regista italiano nel 2023 vuole stare in un angolo imbronciato, perché in questo consiste la sua coolness, in sostanza il regista italiano è una Mercoledì cinquantenne che si crede Nanni Moretti, e voi siete entusiasti di questa cosa.
I genitori,per una volta che invece di lamentarsi dei compiti, dell'insegnante, del bullo o dell'insegnante bullo, provano a proporre cose, magari con un po' di ingenuità ma un minimo di buona volontà; i genitori che vedono i figli passare i pomeriggi senza staccare l'occhio dallo smartofono e la cosa li spaventa; i genitori si domandano se non c'è qualcosa di non scrollabile che potrebbe coinvolgere questi benedetti ragazzi; e invece di scrivere accorati appelli a Gramellini fanno un'assemblea con tante proposte, ognuno porta la sua cosa, a me sembra quasi commovente – ma al regista no.
I genitori sono anche preoccupati per il traffico, in una città così complicata come Roma il ciclismo è ancora una scelta difficile (gli audisti ti menano se provi a usare le ciclabili) ma presto o tardi ineludibile, bisogna preparare i ragazzi a un mondo che sarà per forza diverso dal nostro, ma il regista dal terrazzo su Piazza del Popolo tutto questo traffico mica lo vede, e poi lui al pomeriggio giocava per i fatti suoi ed è cresciuto bene, i suoi figli idem, e questo chiude la questione: tutto è già come dev'essere, anche questi smartofoni prima o poi passeranno. Di questo, siete entusiasti.
Se i vostri figli lo sapessero vi soffocherebbero nel sonno – ah, ma lo sanno, vi leggono sullo smartofono. La macarena verranno a ballare: sulle vostre tombe.
Sleep upon my shoulder as we creep
25-01-2023, 22:52essere donna oggi, famiglie, musicaPermalinkMagari mi sbaglio, non perché io non conosca le donne. Cioè. È chiaro che le conosco poco, ma se per questo anche gli uomini. Comunque.
Non ho mai avuto forti opinioni su come si debbano far nascere i bambini. Buffo, no? Sembra che io ci tenga ad avere opinioni su tutto e invece sul parto (che a causa di un fatto molto triste è il tema del giorno) io un parere non ce l'ho, me ne sono sempre disinteressato. No, non è disinteresse, è proprio fastidio, insomma secondo me è orribile il modo in cui nascono i bambini. È come se la natura si opponesse alla cosa – cranio troppo grosso, uscita troppo piccola, è una violenza inaudita. Quando ne mostrano uno in un film mi chiudo gli occhi, per me un parto naturale è già Cronenberg e io non riesco proprio a guardarlo, Cronenberg.
Però magari mi sbaglio e in generale preferisco non condividere questa cosa, che più che un'opinione è una fobia. La mia compagna invece aveva opinioni molto precise e nessuna reticenza a esprimerle: voleva l'epidurale e l'avrebbe avuta a ogni costo. In effetti ci costò un po', il che nella mia regione è abbastanza strano. È stata in parte pura sfortuna – se ricordo bene, un anno prima l'epidurale era mutuabile da qualche parte e qualche mese dopo lo divenne da qualche altra parte ancora, ma insomma io la pagai: e siccome me la fecero pagare poche ore dopo che avevo assistito al travaglio, la pagai senza battere ciglio, anzi spiaciuto di non aver potuto pagare di più ed evitato maggiore sofferenza. Eravamo nell'ospedale di una città che non conosco tanto: eravamo lì perché dopo esserci guardati un po' in giro, a lei era sembrata la situazione migliore. Ma il corso prenatale lo avevamo fatto al mio paese, e una lezione prevedeva proprio la visita all'ospedale locale. A noi non passava nemmeno per l'anticamera del cervello di far nascere qualcuno lì – era un periodo in cui la percentuale di nati morti in quel reparto era sinistramente alta – però a dare un'occhiata ci andammo lo stesso, per buona educazione.
Adesso probabilmente è tutto cambiato (in meglio). Del resto è passato tantissimo tempo, non avete idea di quanto tempo è passato. È così tanto tempo che non riesco più a sollevarlo da terra – se penso a quanto l'ho tenuto in braccio, e sulle spalle, ma adesso è diventato troppo, è un mezzo quintale di tempo, è pazzesco. Non posso ricordarmi tutto, e purtroppo tendo a ricordarmi i dettagli più strambi, ad esempio in una sala, in mezzo a tutti i ferri del mestiere, forcipi, pinze, tenaglie, (no, sto esagerando) c'era uno stereo e questo cd di Antonella Ruggiero.
(C'erano anche maniglie per appendersi al soffitto).
(Oppure alle pareti, non voglio esagerare, non lo so. Le maniglie me le ricordo).
C'era anche, se ricordo bene, una vasca per partorire nell'acqua – ma non c'era l'acqua calda perché in quel periodo avevano un problema al bollitore, ma tanto si poteva fare benissimo senza. E se ci pensate la visita poteva terminare lì, voglio dire, persino io che chiudo gli occhi nei film ogni volta che si rompono le acque, persino io l'ho sentito dire che bisogna portare l'acqua calda: non ho mai capito a cosa serva ma nei film c'è sempre e invece in quell'ospedale no, dicevano che non ce n'era così bisogno. Insomma, prima di entrare in quel reparto sapevo soltanto che negli ultimi mesi c'erano stati alcuni incidenti. Forse niente di statisticamente rilevante, ma insomma il reparto natalità andava un po' troppo spesso sul giornale. Dopo averlo visitato sapevo che non avevano l'acqua calda (e non la rimpiangevano), ed erano favorevoli a sistemi 'naturali' che prevedevano ad esempio l'appendersi alle pareti. E ascoltavano un cd di Antonella Ruggiero.
Ora si dà il caso che io quel cd di Antonella Ruggiero lo conoscessi.
È un bel disco – niente di incredibile, ma se vi piace la Ruggiero è necessario. Si chiama Big Band! perché lei canta standard da big band con una big band. Siccome è la Ruggiero, li canta benissimo, persino troppo bene. In particolare c'è una Caravan trascinantissima in cui lei non ci prova nemmeno a trattarla come una canzone, alla Ella Fitzgerald per intenderci: no, lei semplicemente urla per tutto il tempo. Gorgheggi, scat, tutto il repertorio, col volume a undici. È un brano fantastico.
È esattamente quello che metterei su uno stereo mentre sto torturando una persona. Lei urla, Antonella Ruggiero urla di più.
Lei piange, Antonella Ruggiero ride.
Lei dice basta, Antonella Ruggiero ricomincia.
Allora capite che non potevamo partorire lì, non era proprio cosa.
Ma il punto è: perché era successa questa cosa? Perché un reparto che fino a qualche anno prima era un punto di riferimento in tutta la provincia era diventato un posto dove torturavano le persone, no anzi: un posto dove mostravano orgogliosi gli strumenti con cui le torturavano? Un posto dove non solo non ti davano l'epidurale, ma ti facevano capire che era sbagliato prenderla? Un posto dove si reagiva al dolore alzando il volume dello stereo? Cosa era successo ai dottori, agli ostetrici?
Magari mi sbaglio, e voi mi scriverete che sbaglio, ma questa ossessione per i parti dolorosi, questa idea che la maternità debba battezzarsi col sangue... non riesco a ricondurla al patriarcato. Perché non ci riesco? Non lo so, ma non ho mai sentito degli uomini parlare dei dolori del parto. Questo potrebbe anche non voler dire nulla, io coi maschi ci discuto sempre meno. Magari esistono cenacoli di tizi barbuti che si vantano dei dolori sofferti dalle reciproche partner. Può darsi: ma non ci credo. Forse proietto, ma secondo me alla maggior parte di noi il parto fa schifo e paura, e se ci fosse un modo per accelerare la cosa e renderla brevissima e indolore, non avremmo nessuna difficoltà ad accettarla. Magari mi sbaglio: ma la religione del Parto Doloroso è una tradizione tutta femminile. Forse è postmoderna e nasce come reazione a novità introdotte troppo velocemente; forse è l'affiorare di una corrente sotterranea antica quanto l'umanità: cose che le donne si ripetono tra loro da anziana nutrice a giovane levatrice, mentre gli uomini fanno altro e soprattutto pensano ad altro, a qualsiasi altra cosa tranne che a quella.
Certo, la violenza è parte della natura. Una parte molto rilevante. E così come per decine di migliaia di anni i giovani maschi hanno dovuto dimostrare di saperla infliggere, può darsi che per le giovani donne fosse un vantaggio evolutivo, saperla sopportare. Può anche darsi che i primi rimedi proposti dalla scienza medica avessero effetti collaterali che suscitavano sospetto e causavano un rifiuto. Ma oggi no. Oggi nessuno dovrebbe soffrire così tanto. Non c'è un vero motivo per soffrire così tanto. O se c'è, è il solito vecchio motivo economico, mascherato sotto l'ennesimo mito posticcio di un'età dell'oro in cui le donne urlavano e poi erano contente di avere urlato.
Chi spaccia questo mito – negli ospedali, negli ambulatori, nei comprensori – sta dando una mano a torturare donne colpevoli di nulla, se non di aver voluto essere madri. È una cosa orribile, uno scandalo. Io la penso così. Magari mi sbaglio. Ma non riesco più ad ascoltare Caravan (la versione della Ruggiero).
La barella accanto
22-01-2023, 22:28santiPermalink23 gennaio – Beata Benedetta Bianchi Porro (Forlì 1936 – Sirmione 1964), sofferente
Questa vorrebbe essere una pagina divertente, ma ridere dei santi non è quasi mai giusto. Al limite si può sorridere su quelli antichi, ormai ridotti a leggende – anche se sotto tutte le leggende c'è quasi sempre qualcuno che ha sofferto davvero. Quanto ai più recenti, ridere sembra proprio la cosa più sbagliata da fare, ed ecco la mia confessione: leggendo una biografia di Benedetta Bianchi Porro mi è successo, mi sono messo a ridere.
È stato solo un istante, ma non ne vado fiero. Probabilmente si trattava di una risata nervosa, perché la storia della vita di Benedetta Bianchi Porro è straziante – lo stesso Dickens avrebbe avuto qualche esitazione a concentrare tante sfighe su un solo personaggio letterario. Infatti BBP non è un personaggio: è esistita davvero, e ha sofferto davvero, più di quanto ritengo che una persona possa soffrire. Ancora neonata contrae la poliomielite, che le deforma la schiena e le lascia una gamba più corta dell'altra. Però ne guarisce, il che forse le infonde quella fiducia nella scienza che la spinge dopo il liceo a iscriversi a medicina – anche se a partire dai 13 anni ha cominciato a perdere l'udito. A 20 anni invece un'ulcera della cornea le indebolisce sensibilmente la vista. È il dopoguerra, una disabile che vuole laurearsi e diventare medica non può contare sulla sensibilità degli insegnanti, alcuni dei quali a quanto pare la trattano in modo sprezzante. Benedetta insiste, e studiando arriva ad autodiagnosticarsi il morbo di Recklinghausen. È una neurofibromatosi, una malattia rara con possibili complicanze oculistiche, ortopediche, neurologiche: tutto combacia col quadro sintomatologico di Benedetta (e gli specialisti lo confermeranno). È curabile? Benedetta ci prova – i giornalisti di oggi direbbero che "combatte" – ma a ogni operazione chirurgica la situazione sembra peggiorare e nel 1959 Benedetta, dopo un intervento al midollo, rimane paralizzata.
A questo punto Benedetta è a letto, quasi completamente sorda, quasi completamente cieca, quasi completamente immobile. Le biografie ci dicono che pensa sempre più a Gesù e la cosa non sorprende. Ce n'è una in particolare che ci informa di un primo viaggio a Lourdes, ed è da questa che riporto la seguente frase:
"Nel 1962 la portano a Lourdes, alla ricerca di un miracolo. Che avviene, ma per la malata coricata sulla barella accanto".
Ecco, ripeto, non ne vado fiero, ma a questo punto mi sono messo a ridere.
È stata una risata breve e nervosa, perché alla fine cosa c'è da ridere in una ragazza di 26 anni, deformata da una malattia contratta alla nascita, che nella sua breve vita ha fatto in tempo ad acquisire abbastanza conoscenza da capire di dover morire di lì a poco, ma non rapidamente: diventando giorno dopo giorno sempre più sorda, sempre più cieca, sempre più rigida: cosa c'è da ridere se un giorno si ritrova su una barella a Lourdes, a pregare senza poter muovere nemmeno le labbra, e se il miracolo le passa di fianco? Benedetta ha creduto nella medicina, e la medicina le ha solo spiegato di cosa soffriva e quanto ancora avrebbe sofferto; ha creduto in Dio, ma Dio guarisce un po' a casaccio, a quanto pare. Ho riso di tutto questo perché sono un essere umano e come tale cerco di trovare il senso al dolore, e più cerco e meno lo trovo, così a volte ne rido. Due anni dopo Benedetta ha smesso di soffrire, circondata dall'affetto di persone che nella sua sofferenza trovavano una specie di speranza. Nel 1986, una madre che ha letto da qualche parte la stessa storia che ho letto io, le dedica una novena di preghiera perché ha un figlio in coma: il ragazzo si sveglia, tanta sofferenza per un attimo sembra avere un senso. Benedetta Bianchi Porro è stata beatificata nel 2019.