Il fattore Fonz

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 Ma l'energia, ci pensate certe volte all'energia.

Anche quella delle piccole cose che fanno tutti, ad esempio: ci pensate a tutta l'energia che tiene i sostenitori di Trump in un limbo di speranza. L'energia che li fa svegliare un po' presto – milioni di persone – per andare a cercare su qualche canale di social un'altra pseudonotizia da sbattere in faccia agli avversari. L'energia che quelle pseudonotizie le produce: c'è gente che le scrive, gente che le diffonde, gente che in qualche modo abbastanza contorto ci guadagna, e intanto Trump le elezioni le ha perse da una settimana. Ci pensate a quanta straordinaria energia?

Non vi sembra così straordinaria.

Va bene, allora pensate a quelli che tutte le mattine (ma anche le sere, o i pomeriggi), si attaccano a qualche discussione sulla sicurezza delle scuole. Magari è un report che spiega, coi numeri, che le scuole sono un luogo di contagio, ma c'è un'energia che quasi li costringe a commentare: le scuole comunque sono sicure. Eppure da quando hanno riaperto il contagio ha ripreso quel suo ritmo esponenziale, il che è un fortissimo indizio che suggerirebbe non dico di cambiare idea, ma almeno un po' di prudenza, di diplomazia, ma perché mai? No, questi si attaccano ai commenti e continuano a dire che le scuole sono sicure, che nessuno si ammala nelle scuole e infatti di minori infetti ce ne sono pochi, dai. Uno per un po' prova anche a spiegare che in realtà son raddoppiati in poco tempo, e che comunque sappiamo già da molto che i minori contagiati tendono a essere asintomatici, il che non impedisce loro di spargere il virus ovunque vanno e soprattutto a casa: proprio come l'influenza stagionale, che in casa tua non c'era da vent'anni e poi i bambini hanno iniziato ad andare a scuola e da allora hai iniziato a riprendertela pure tu: funziona esattamente nello stesso modo, quindi, perché insistere che non è vero? Perché pestare i piedi? Quale misteriosa ma persistente fonte di energia ti mantiene in una discussione dove hai le stesse speranze di avere ragione che Trump ha di soggiornare alla Casa Bianca nel febbraio 2021? Persino se tu avessi ragione, nessuno te la pagherebbe, non c'è un premio su Facebook per chi vince le discussioni; aggiungi questo piccolo dettaglio che non hai ragione, che hai t...


Stai dicendo le stesse cose che dicevi in primavera: le scuole devono riaprire, le scuole sono sicure, Israele infatti le ha riaperte, il contagio si ferma al cancello della scuola (c'è gente che scrive questa cosa tutti i giorni: i ragazzi non si contagiano a scuola bensì immediatamente prima e dopo, nel piazzale!, aboliamo i piazzali). 

Stai dicendo le stesse cose che dicevi in primavera, ma è autunno e i fatti ti stanno dando torto.

E tu lo sai che hai torto.

Ma non lo vuoi ammettere.

Quale straordinaria energia te lo impedisce? 

Se solo potessimo canalizzarla – pensa ai negazionisti. Qualsiasi tipo di negazionista. Ma prendiamo quelli che non credevano al Covid. Ce n'è di ogni tipo. Quelli che è solo un'influenza, quelli che non esiste proprio, è uno strumento del Potere per toglierci il diritto alla felicità, quelli che esiste ma il lockdown è esagerato, quelli che esisteva in primavera e adesso no, quelli (e ho la sensazione che siano la maggioranza) che all'inizio la prendevano semplicemente sottogamba perché era una cosa che non sapevano paragonare a nessun'altra esperienza vissuta, ovvero un'emergenza: e l'Uomo Occidentale non crede nelle emergenze finché non gli levano il tetto dalla casa, e in molti casi neanche dopo; è convinto che il suo standard di vita sia un diritto fondamentale garantito dall'Onu e dalle leggi dell'universo. Dunque all'inizio una banale influenza, poi c'era da mettersi la mascherina ma era una gran rottura e quindi hanno iniziato a scrivere in giro che non ci credevano, qualcuno applaudiva e ci hanno creduto ancora meno, poi c'è stato il lockdown e a quel punto ormai avevano scelto la loro squadra, e si sono messi a cercare argomenti contro il lockdown. Quanta energia ci hanno messo. A quanti altri scopi avrebbero potuto destinarla, forse: o forse no, forse è un'energia che scaturisce soltanto in questi casi, non puoi trasferirla ad altri oggetti con una biella, non puoi accumularla dentro dischi di rame, non ci puoi far girare un mulino, l'unico mulino che gira è quello delle cazzate che scrivi e ogni giorno che passa gira più veloce, man mano che aumenta la distanza tra quel che succede e quello che sei costretto a scrivere per non ammetterlo, per non ammettere cosa?

Che ti sei sbagliato.

Manco fosse un reato, eh? No, non è un reato. Persino se tu fossi un chirurgo, o un giudice, o un amministratore nell'esercizio delle rispettive funzioni. Persino in quei casi non sempre sbagliare è proibito. Ma sospetto che tu non sia un chirurgo col bisturi in mano, né un giudice col martelletto. Sei un tizio che nove mesi fa hai scritto: questo covid è una montatura, e poi non sei più potuto tornare indietro. Quell'energia incredibile, che ogni giorno ti trascina verso discorsi sempre più deliranti, ed è la stessa che porterà qualche migliaio di trumpelettori a radicalizzarsi e a sparacchiare in qualche sobborgo – del resto non è la stessa energia di chiunque si sia radicalizzato, in qualsiasi contesto? Se ancora credi che a Maometto freghi qualcosa delle vignette, se ancora credi che una vignetta su Maometto segni un punto nella fondamentale guerra per la libertà del pensiero. Che poi dà un'occhiata alla finestra, probabilmente hai visto un campanile. Pensa che tutto è cominciato con una dozzina di poveracci che non si rassegnavano al fatto che avessero ammazzato il loro leader politico-religioso, crocefisso dalle guardia come uno schiavo, pensa che energia hanno scoperto, che sia per caso l'energia che ci rende esseri umani? E d'altro canto è la stessa energia che ha fatto scrivere su milioni di giornali in tutto il mondo che il riscaldamento globale non esiste, insomma è l'energia che ci fotterà come specie, come la mettiamo?


Voi dite: fake news, sì, certo, c'è mercato per qualsiasi cosa, e quindi qualcuno produce fake news. Ma perché la gente ne ha bisogno? Voi dite: la gente è stupida, cerca le spiegazioni semplici, ma la maggior parte delle fake news sono molto più contorte della realtà: richiedono studio, applicazione. Io dico (e non credo di sbagliarmi): c'è qualcosa a cui la gente tiene più che alla realtà. Καὶ ἠγάπησαν οἱ ἄνθρωποι μᾶλλον τὸ σκότος ἢ τὸ φῶς. Questo qualcosa è, il più delle volte, l'opinione che esprimevano ieri. Ieri gli è scappato detto che tutte le pecore sono bianche, nel frattempo ne è passata una nera, loro non lo ammetteranno. È solo sporca. No, non si può pulire, perché... potrebbe essere una malattia, potrebbe essere contagiosa. Ok, non è sporca e non è malata, ma evidentemente non è una pecora: prova ne è che è nera. Il veterinario dice che è una pecora perché si è messo d'accordo con voi, è un complotto alle mie spalle. Sentite, potrebbe effettivamente essere una pecora, ma accuratamente selezionata da un pool di operatori zootecnici attraverso orribili esperimenti, tutta una massoneria di operatori zootecnici disposti persino a votarsi a Satana pur di dimostrare che l'altro giorno mi sb.

Mi sb.

(Lo chiamerei "fattore Fonz", ma temo si tratti di un riferimento culturale ormai troppo remoto: in ogni caso è una delle energie che ci tiene eretti in piedi da quando siamo scesi dagli alberi, e diciamola tutta: i primi tizi che sono scesi dagli alberi avrebbero avuto mille motivi per ammettere di essersi sbagliati, ma ormai era fatta, indietro non si tornava, sui rami non si risaliva. O meglio: chi è stato furbo è risalito, noi siamo i discendenti degli altri).  


Forse tutta la letteratura dalla Bibbia in poi. Forse tutta la filosofia da Platone (mi hanno condannato a morte il maestro, eppure era il più intelligente! Perché non li ha sistemati con una delle sue ironie?) Si sbagliava Cristoforo Colombo a non dar retta a Eratostene. Si sbagliava pure Galileo, sulle maree almeno. Su quante cose si sbagliava Newton; e anche Einstein, probabilmente, qualche cantonata qua e là l'avrà presa. Marx ne ha prese parecchie; Freud ha passato la vita a sbagliare. Se ha sbagliato tutta questa gente, ma si può sapere chi cazzo siete voi. 

Si fa per dire, lo so benissimo. Esseri umani. Padri o madri di famiglia. Lottiamo per ottenere un minimo di autorità, e quando finalmente l'abbiamo, i piccoli cominciano a farci domande: molto prima che noi sappiamo le risposte. E allora facciamo quel tipo di muso duro che avevano i nostri progenitori sugli alberi, e non ci muoviamo. Non mi frega niente di quel che pensi tu, figliolo. Se io ho detto che non è una pecora, quella non è una pecora. In discussione non c'è più la pecora. Ci sono io e non posso permettermi di essere messo in discussione. Altrimenti tra due inverni deciderete che sono vecchio e smetterete di portarmi da mangiare. Tutta quest'energia.

Trovassimo un ingranaggio da farci girare; una biella un pistone, una pila di dischi di rame. Ci faremmo girare il mondo, con tutta questa energia. Credo.

Cioè no, scusate, ne sono sicuro.

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Leopardi? Quale Leopardi?

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(Riassunto della
puntata precedente: qualche mese fa è uscito Silvia è un anagramma, un saggio di Franco Buffoni che si propone come un atto di “doverosa giustizia biografica” nei confronti di alcuni poeti laureati che non avrebbero avuto la possibilità di esprimere la loro sessualità: “quasi certamente il caso di Leopardi, e forse anche quello di Pascoli e di Montale”. Ma quanto ha senso ampliare la categoria della letteratura LGBT anche ad autori vissuti in periodi in cui la comunità LGBT non esisteva? E nello specifico caso di Leopardi, rimestare nel biografico non significa in qualche modo 'recintare' le idee di un poeta e pensatore che ha sempre voluto dare alle sue riflessioni un respiro universale? Non si rischia di distogliere l'attenzione dal suo pensiero e rimettersi a pensare ai suoi problemi, alla sua salute, alla sua... gobba?)

La gobba di Leopardi, dicevamo.

Quando leggiamo i Canti, le Operette Morali, lo Zibaldone – quando crediamo di leggere Leopardi – ce la troviamo sempre in mezzo. Sì, avrei potuto essere più allusivo, parlare di una “vita strozzata” come Benedetto Croce, o nascondermi nell'impassibilità dei tecnicismi: Leopardi soffriva probabilmente del morbo di Pott, una sindrome debilitante che gli causò terribili sofferenze e di fatto lo isolò dalla società che pure cercò di frequentare. Chiedo scusa: sono il risultato di un'educazione per lo più audiovisiva, tendo a pensare per immagini e quando leggo a Leopardi non penso “vita strozzata” o “morbo di Pott”: vedo una gobba. Mi sbaglio? Se le indicazioni di un autore valgono qualcosa sì, mi sbaglio: quella gobba non dovrei vederla, o almeno dovrei accettare che non c'entra nulla con i risultati poetici e filosofici di Leopardi.



Come affermò lui stesso, in una famosa lettera a Louis de Sinner: “È soltanto per effetto della viltà degli uomini che si è voluto considerare le mie opinioni filosofiche con il risultato delle mie sofferenze personali. […] Prima di morire, protesterò contro questa invenzione della debolezza e della volgarità e pregherò i miei lettori di dedicarsi a demolire le mie osservazioni e i miei ragionamenti piuttosto che accusare le mie malattie”. Discutete i miei argomenti, non i miei malanni (nel biopic di Martone, il personaggio interpretato da Elio Germano afferma qualcosa del genere in una gelateria napoletana: si tiene in piedi a malapena, anche impugnare il cucchiaino è un supplizio. Non c'è proprio verso che noi spettatori possiamo non vedere tutto questo, anzi, il motivo per cui siamo andati al cinema è proprio per assicurarci una volta per tutte che il grande poeta, il filosofo della vanità del tutto, era un povero gobbino infelice). 

A quel punto un'altra immagine cinematografica ci si presenta irresistibile: quella del gobbo Igor interpretato da Martin Feldman in Frankenstein Junior di Mel Brooks. La richiesta pur ragionevole del filosofo Leopardi diventa ai nostri occhi un puntiglio irrazionale come quello di Igor che a chi cerca, con molto tatto, di affrontare il problema della sua deformità, reagisce negando completamente il problema: “Gobba? Quale gobba?” 

La gobba di Leopardi, che per lui fu fonte di vergogna e infelicità, per noi lettori è molto comoda. Soprattutto al liceo, che diciamocelo: è l'unico momento della vita in cui la maggior parte di noi ha sentito la necessità di leggere una manciata di poesie di Leopardi, due o tre dialoghi, qualche pensiero. Materiale limitato ma più che sufficiente a esporre il liceale al nudo sconforto di una visione dell'universo senza scampo per l'uomo – per fortuna che c'è la gobba, col suo rassicurante retropensiero: Leopardi la pensava così perché soffriva tanto. Leopardi non sarebbe stato affatto d'accordo, ma non c'è più. 

All'inizio del secolo scorso per qualche tempo sembrò giungere in suo soccorso la cosiddetta critica idealista, che aveva il suo campione nel filosofo Benedetto Croce. Per Croce la Poesia, con la P maiuscola, era valida fuori dal tempo e dallo spazio – oggi noi diremmo dal contesto. Persino un poeta come Dante, così legato alla società del suo tempo e invischiato in un dibattito politico che oggi fatichiamo a ricostruire: persino lui andava considerato “poeta” per le pagine della Commedia che era riuscito miracolosamente a riscattare dal contesto storico, a rendere universali e comprensibili ai lettori di ogni civiltà. 


Così come avevano strappato Dante dalle guerre tra Guelfi e Ghibellini, gli idealisti non esitarono a strappare la Poesia di Leopardi dalla sua gobba, ma si spinsero ancora più in là, brevettando il concetto di “idillio”. Leopardi aveva usato il termine per alcune poesie giovanili dal contenuto estatico (L'Infinito è la più celebre), ma gli idealisti decisero che l'unica Vera Poesia di Leopardi era quella idilliaca, da recuperare anche nei componimenti più tardi e pessimisti, come il diamante dalle miniere. Il risultato fu che verso gli anni Trenta passava per “idillio leopardiano” persino una poesia crudele come Il Sabato del Villaggio, in cui i lavoratori di un piccolo borgo si preparano a un giorno di festa che invece sarà pieno di noia e angoscia per il lunedì. Gli idealisti ci vedevano un bel quadretto di genere, si esaltavano per la donzelletta con le rose e le viole e persino per il falegname che lavora fino al mattino. A furia di togliere Leopardi dal suo contesto, lo si era tolto alle sue stesse intenzioni. 

Nel dopoguerra, al declinare dell'idealismo (che ha lasciato qualche strascico nei libri di testo) è subentrata una lettura più sottile e problematica. Sul mio manuale di liceo, trovo una sottolineatura e una nota: “Timpanaro piace al prof moderno”. Cosa diceva Sebastiano Timpanaro che probabilmente avrei dovuto riferire al “prof moderno” che avrei incontrato nella commissione di maturità? Che la sofferenza di Leopardi era stata un “formidabile strumento conoscitivo”. Proprio perché aveva sofferto più di tutti noi, Leopardi era riuscito a sintonizzarsi su questo specifico aspetto dell'esistenza e ce lo aveva generosamente offerto, anche a noi maturandi felicemente fidanzati con una lunga vita davanti. Non più un Leopardi Igor, ma un Leopardi agnello sacrificale. Non più una gobba-schermo, ma una gobba-antenna, collegata con tutto il dolore e la vanità del mondo. La definizione di Timpanaro era veramente felice: ci consentiva di recuperare la tragica biografia del poeta e di ritrovare l'ironia amara nascosta nemmeno così subdolamente tra le righe del Sabato o della Quiete dopo la tempesta. Ci consentiva di apprezzare quel poco di Leopardi che leggevamo, ma soprattutto di sopravvivere alla sua tetra filosofia. 

Ora però arriva il movimento LGBT e pretende di smontare quella gobba, di interpretarla in un modo diverso, magari di piantarci un vessillo arcobaleno: tutto legittimo, ma destabilizzante. E comunque rischioso. Spulciando tra i carteggi leopardiani (testi già noti agli studiosi), Buffoni scopre che a Napoli Leopardi era uso intrattenersi “con gli scugnizzi in cambio di avarissime mance”. Anche in questo caso, non si tratta in senso stretto di una scoperta: ma fin qui i leopardisti l'avevano considerata una semplice debolezza umana, qualcosa di non interessante, che anzi avrebbe distratto i lettori e soprattutto gli studenti. Alcuni avranno anche pensato – a torto o a ragione – che nella Napoli di quegli anni gli scugnizzi erano semplicemente più abbordabili delle fanciulle, e che frequentarli non era sufficiente per determinare con precisione a quale gradino della scala Kinsey Leopardi dovesse essere assegnato. I tempi cambiano (o per dirla con Foucault, il dispositivo del Potere muta le sue forme) e all'improvviso nel 2020 la stessa circostanza diventa l'indizio probante di un'omosessualità socialmente repressa ma non del tutto nascosta. Va tutto bene, purché tra qualche anno non ci tocchi buttar vernice su qualche monumento a Leopardi – nel momento in cui qualcuno più militante farà presente che pagare gli scugnizzi non è politicamente corretto. E non c'è dubbio che non lo sia.
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Gli statali vi aiuteranno. Vi stanno già aiutando.

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È ora che noi statali facciamo la nostra parte. Lo sento dire sempre più spesso, e nei giorni scorsi in particolare da un ex collega – nel senso che anche Cacciari è stato un funzionario dello Stato, mi pare: certo molto meglio tutelato della media della categoria. L'argomento in sé è inoppugnabile, non era necessario scomodare un filosofo per scoprirlo: nell'emergenza non si può dare più nulla per scontato. Certe categorie sono state esposte molto più di altre, mentre fin qui il pur fatiscente ombrello dell'impiego statale ha retto egregiamente, distribuendo ogni mese il 100% dello stipendio. Avrà ancora un senso, questa cosa, se l'emergenza si protrae, costringendo lo Stato a indebitarsi ulteriormente?

Orizzonte scuola

Probabilmente no, del resto siamo tutti sulla stessa barca. È giusto che facciamo la nostra parte, come del resto abbiamo sempre fatto, e non c'è nemmeno bisogno di spiegarcela un po' più chiara. Lo strumento per farcela pagare esiste già, funziona che è una meraviglia e lo farà anche nei prossimi mesi: si chiama "tasse". Il meccanismo è abbastanza semplice ma vale la pena di spiegarlo ai membri di altre categorie che magari non ne hanno sentito spesso parlare, e anche forse a funzionari di alto livello e filosofi degni di più alati argomenti. Si tratta insomma di una percentuale del proprio stipendio che ogni statale lascia allo Stato, ogni mese. Sì, sì, ogni mese lo statale paga tutte le tasse e non sgarra di un centesimo, anzi quando una volta all'anno si fanno i conti si scopre quasi sempre che ne ha pagati di più, che ne dovrebbe avere indietro. Ecco, magari l'anno prossimo non riuscirà ad averne indietro. Tutto qui: basterebbe un lieve aumento della pressione e il gettito sarebbe già importante, proprio per via di quella straordinaria caratteristica che hanno gli statali di pagarle subito, le tasse. Le stanno pagando anche in questi giorni: la benzina delle ambulanze, lo stipendio dei medici in corsia e anche di alcuni di quelli che in tv spiegano che non è poi così grave, e degli amministratori che con tutto quello che c'è da amministrare trovano anche il tempo per spiegare le loro strategie su Twitter o Instagram: tutto questo lo stiamo pagando, anche in questo momento. Se volete farcelo pagare di più, magari protesteremo: ma neanche tanto. E il prossimo anno pagheremo di più. 

Buffo però. Io, oltre a essere un impiegato statale, sono un insegnante. Negli ultimi mesi il mio ruolo è stato fortemente rivalutato. Ho scoperto che un sacco di gente reputa importantissimo il mio lavoro, e soprattutto reputa essenziale che io lo faccia in presenza. Gente che fino a tutto il 2019 era abbastanza convinta che io fossi un mangiapane a tradimento, uno che lavorava 18 ore alla settimana, ora mi sta spiegando che senza quelle 18 ore alla settimana i figli sbroccano, crescerà una generazione di psicopatici eccetera eccetera. Ora, sono il primo a trovare tutto questo un po' esagerato. Inoltre ho letto che i bambini dai 12 anni in su sono il doppio più contagiosi di quelli dai 12 anni in giù. Io lavoro con quelli dai 12 in su, e quindi rischio di contrarre il contagio più o meno come se lavorassi con gli adulti (che magari sono un po' più contagiosi, ma anche più disciplinati). Il mio presidente di regione però ritiene necessario che io continui a lavorare in presenza per tutte le mie 18 ore alla settimana – che in realtà sono un po' di più. Quindi, ricapitolando:

– Io sono un lavoratore essenziale: se non sto al mio posto, i bambini impazziscono eccetera.

– Il mio lavoro è abbastanza pericoloso

– Sono anche un lavoratore insostituibile, nel senso che davvero, se mi ammalo io a questo punto la mia scuola non sa più che fare: sostituti non ce ne sono, i famosi docenti in più non sono arrivati.

Ora non sta a me ricordarvi una delle più basilari leggi del mercato, ma ditemelo voi: faccio un lavoro rischioso, essenziale e insostituibile. Mi rendo conto che non è il momento per chiedere addirittura un aumento, ma in linea di massima non me lo meriterei? Tanto più che ci pagherei le tasse. Ok, non è il momento. Ma tra qualche mese ne riparliamo, prometto.

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San Carlo non era un cretino (e noi?)

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Tra i pezzi sui santi che non ho ancora rimesso a posto c'è quello su Carlo Borromeo, che dovrei proprio riscrivere da capo. Per quanto il tizio mi sia antipatico (quanto può esserlo un amministratore milanese assai bigotto) (cioè tantissimo) devo ammettere che sono stato molto più ingiusto con lui che con altri. Nel Borromeo mi sono sforzato di vedere l'anticipatore di quella che 

"i teocrati milanesi di oggi chiamano “sussidiarietà”: dove lo Stato non arriva ci pensa la Compagnia, per cui è una fortuna che lo Stato non arrivi quasi mai a combinare nulla di concreto. Nel caso della peste lo Stato si adopra così poco, e Carlo così tanto, che l’epidemia viene onorata del suo nome, e ancora oggi la si chiama “peste di San Carlo”.

Fin qui se ne poteva ancora discutere: in fondo non era colpa di Carlo se gli amministratori spagnoli abbandonarono Milano a sé stessa; il problema è quel che soggiungevo:

Per i suoi detrattori, la peste merita ugualmente di essere chiamata di San Carlo perché senza di lui probabilmente sarebbe durata molto meno: senza la sua mania di convocare oceaniche processioni, formidabili occasioni per la diffusione del morbo, ci sarebbero state assai meno vittime, assai meno occasioni per dimostrare l’abnegazione del cardinale. Va bene, per l’epidemiologia era ancora molto presto, ma l’osservazione che le adunate di popolo facilitavano il contagio era già condivisa da dotti e sapienti, e Borromeo se ne fregava: aveva il suo Sacro Chiodo da far sfilare, tra i mucchietti di vittime del giorno; e se non avesse funzionato, si poteva pure bruciare qualche untorella.

E qui, davvero, stavo giocando sporco. Non risultano untorelle bruciate sul rogo a Milano durante la peste di San Carlo, anche se almeno un poveraccio lo impiccarono con un'accusa del genere. D'altro canto quando c'era una donna da condannare al rogo con l'accusa di stregoneria il cardinale non si tirava certo indietro, anzi: in almeno un'occasione dovettero intervenire il Papa e l'inquisizione per... fermarlo, perché secondo Carlo accuse del genere erano troppo gravi per garantire un giusto processo. Ma nel caso della peste del 1576, il mio vecchio pezzo travisa completamente l'atteggiamento assunto dal Borromeo. È vero, che le adunate di popolo facilitassero il contagio era già un'osservazione condivisa; è vero, Borromeo ritenne giusto organizzare comunque delle processioni, ma nell'occasione prese precauzioni che a distanza di quattro secoli facciamo fatica a prendere noi. La processione che portò il Sacro Chiodo in giro per la città il 5 ottobre era composta di soli uomini: donne e minori di 15 anni, che risultavano maggiormente soggetti al contagio, erano in lockdown domiciliare dal primo ottobre. Tra un partecipante e l'altro, un distanziamento di tre metri, che considerati i modi spicci dei birri del tempo era probabilmente rispettato (noi oggi a più di un metro di distanza non riusciamo a stare, neanche in coda in farmacia). 

Il pittore (Fiamminghino) ha l'aria di non aver mai assistito a un lockdown in vita sua.

Altre direttive del Borromeo ai suoi sottoposti fanno intuire che una rudimentale scienza epidemiologica esistesse già, anche in mancanza di microscopi e del concetto di virus. Dando un'occhiata un po' più da vicino al suo caso, mi sono accorto di quanto somigliasse al terremoto estense di qualche anno prima: anche in quel caso accanto a risposte completamente irrazionali, c'era già chi basandosi sui fatti formulava proposte operative che funzionano ancora oggi. Non erano tutti cretini nel Cinquecento, così come non lo siamo noi del Duemila che in teoria abbiamo ancora meno scuse. Carlo visitava i malati come il suo ruolo imponeva, ma si portava una lunga bacchetta per tenerli a distanza: tra una visita e l'altra faceva bollire i vestiti (quindi l'idea che qualcosa di minuscolo non resistesse alle forti temperature c'era già: al limite le pulci). Altri strumenti, in un mondo senza alcool distillato, erano la spugna d'aceto e le candele su cui passare le mani dopo aver distribuito l'eucarestia. Certo, era pur sempre un uomo di fede e di una fede rigida, arcigna: eppure non si oppose alla decisione del Tribunale di Sanità di prolungare il lockdown oltre il giorno di Natale, malgrado già a metà dicembre la curva dei contagi fosse scesa. Diede anche disposizione perché i sacerdoti benedicessero le abitazioni dalla strada, senza entrarvi. Insomma l'immagine fortissima della basilica di San Pietro vuota durante la pasqua del 2020 non è, come credevo, una completa novità storica. Persino nel periodo più cupo della Controriforma, un cardinale intransigente sapeva quand'era ora di chiudere le chiese, e che oltre a sperare in Dio bisognava anche stare in casa il più possibile. Il lockdown sarebbe durato fino a febbraio. Tutto sommato, un successo, se si confronta per esempio il numero pur ingente di vittime (17000) con quanti ne morirono per lo stesso morbo a Venezia (70000).

Tutto questo quando mi misi a scrivere il pezzo su San Carlo non lo sapevo, il che non mi scusa: avrei potuto almeno arrivarci via Manzoni. La peste che lui descrive arriva cinquant'anni dopo – il mezzo secolo che noi italiani siamo abituati a considerare come il trionfo dell'oscurantismo, quello in cui si processano Bruno e Galilei. Tutto giusto, eppure in capo a questo mezzo secolo, quando i milanesi chiedono al nuovo cardinale Borromeo di portare in processione le spoglie del vecchio, Federigo si mostra tutt'altro che entusiasta. "Gli dispiaceva quella fiducia in un mezzo arbitrario, e temeva che, se l'effetto non avesse corrisposto, come pure temeva, la fiducia si cambiasse in iscandolo. Temeva di più, che, se pur c'era di questi untori, la processione fosse un'occasion troppo comoda al delitto: se non ce n'era, il radunarsi tanta gente non poteva che spander sempre più il contagio: pericolo ben più reale".

Le autorità però insistono e alla fine Federigo cede. Dopo tre giorni di preparativi, una parata in grande stile percorre Milano. Il "venerato cadavere, vestito di splendidi abiti pontificali, e mitrato il teschio" viene scorrazzato per la città con molte meno precauzioni di quante aveva voluto prendere da vivo: la processione si ferma a tutti i crocicchi in cui il vecchio cardinale aveva fatto erigere delle croci per le celebrazioni religiose all'aperto. Questa cosa per me rappresenta un'ironia micidiale: Carlo che da vivo aveva lottato contro il contagio, da morto diventa un feticcio che guida i milanesi nell'opposta direzione: i simboli del distanziamento sociale che da vivo aveva disseminato per la città diventano dopo cinquant'anni i luoghi di assembramento intorno al suo cadavere. "Ed ecco che, il giorno seguente, mentre appunto, regnava quella presontuosa fiducia, anzi in molti una fanatica sicurezza che la processione dovesse aver troncata la peste, le morti crebbero, in ogni classe, in ogni parte della città, a un tal eccesso, con un salto così subitaneo, che non ci fu chi non ne vedesse la causa, o l'occasione, nella processione medesima. Ma, oh forze mirabili e dolorose d'un pregiudizio generale! non già al trovarsi insieme tante persone, e per tanto tempo, non all'infinita moltiplicazione de' contatti fortuiti, attribuivano i più quell'effetto; l'attribuivano alla facilità che gli untori ci avessero trovata d'eseguire in grande il loro empio disegno".  

Insomma San Carlo poteva essere un oscurantista misogino: ma non un cretino. Nemmeno suo nipote Federigo. Il che non significa che cretini non ce ne fossero anche a quei tempi; e ancor più dei cretini tanta gente in buona fede ma un po' troppo disposta a credere a quel che vuole, e quel che vuole è sempre una versione dei fatti semplificata, rassicurante, e qualche volta foriera di disastri. A Milano, nel 1576, per partecipare a un corteo serviva un distanziamento di tre metri; cinquecento anni dopo, ci capita ancora di doverne spiegare il perché, a gente che non se ne convince. San Carlo non era un cretino: noi ci arrangiamo. 

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Il Miraggio Rosso (e Bianco, e Blu).

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A un certo punto cominciammo a pensare che poteva anche funzionare come spettacolo. Dall'altra parte del mondo eleggevano la persona più importante del mondo: chi fosse riuscito a stare sveglio di più sarebbe stato il primo a scoprirlo. Per i giornalisti, soprattutto, era molto eccitante: per noi spettatori molto meno, ma ci lasciavamo contagiare dal loro entusiasmo. 

Col tempo iniziammo a far caso alla liturgia, e come succede sempre ai neofiti non è che riuscissimo sempre a distinguere cos'era accessorio e cos'era fondamentale: per esempio a un certo punto della nottata capitava che il candidato che stava perdendo convocasse una conferenza stampa e riconoscesse pubblicamente la sconfitta: il cosiddetto "concession speech". La cosa aveva un senso più cerimoniale che effettivo: i voti comunque si contavano fino alla fine, e almeno una volta successe pure che un candidato che aveva concesso la vittoria convocasse un'altra conferenza stampa per rimangiarsela, perché i conteggi andavano per la lunga e anzi valeva la pena chiedere i riconteggi. Però questa cosa del "concession speech" ci rimase, chissà perché. Forse perché siamo mediamente italiani progressisti, ovvero votati alla sconfitta fin da piccoli: e il fatto che un candidato la potesse riconoscere con un bel discorso ci affascinava. Questo malgrado il meccanismo reale fosse molto più complesso, se non proprio farraginoso, con passaggi intermedi ancora ottocenteschi (i Grandi Elettori...)

A un certo punto, come accade sempre con le cose americane, ci si è messo di mezzo il cinema o la tv, coi suoi presidenti molto più veri del vero, i discorsi meglio scritti, gli applausi e i violini ai momenti giusti eccetera, e questo ha fatto colpo su molti di noi molto più di quanto lo ammettessimo. Il confronto con la nostra imperfetta democrazia parlamentare, coi suoi ritmi sonnacchiosi e mediocri, non ammetteva appello. In molti dei più impressionabili tra noi si creò ben presto una convinzione: loro non erano solo la democrazia più vecchia del mondo (e le Province Unite?); erano anche la migliore. Ed erano la migliore non perché fossero i migliori a raccontarsela, come pure Hollywood dimostrava, ma perché... la notte delle elezioni, loro conoscevano già il Vincitore. A un certo punto della nottata, ci spiegavano, il candidato che ne stava prendendo troppe gettava la spugna, faceva un bel discorso, l'arbitro alzava il braccio dell'altro contendente, applausi. Guarda che ti sei sbagliato, rispondevamo, guarda che quella sera hai visto un match di boxe: e anche in quel caso non dovresti crederci troppo, c'è sempre una buona parte di spettacolo, a coprire gli aspetti più crudi. Tutto vano, ormai la carovana dei presidenzialisti italiani era partita, attirata da un miraggio televisivo, verso un deserto di imboscate, colpi bassi e referendum. L'America in cui volevano arrivare somigliava più a una puntata di West Wing con tutti gli attori impeccabili e competenti. Laggiù conoscono il vincitore nella notte delle elezioni, dicevano! E parlavano di un Paese in cui conteggi e riconteggi possono durare settimane, tanto che da sempre le elezioni avvengono tre mesi prima dell'insediamento effettivo. Già le elezioni del 2000 avevano dimostrato quanto importante fosse la Corte Suprema; ma forse pensavamo che un senso di decenza non esplicitato in nessuna Carta Costituzionale avrebbe trattenuto un presidente uscente dal blindarla in suo favore. 

Tante cose pensavamo impossibili, che ora si sono avverate. Per esempio stasera abbiamo un candidato che a un certo punto della nottata potrebbe dire che ha vinto anche se non è vero. Uno scenario che Sorkin non aveva previsto, il che ci lascia tutti un po' sgomenti a fissare il vuoto. In un qualche modo sembra che lo Spettacolo abbia preso il sopravvento – una conferenza stampa avrebbe il potere di invalidare scrutini ancora in corso. Il consiglio migliore è sempre quello di andare a letto non troppo tardi: tanto domattina mezz'ora dopo la sveglia ne saprete già quanto quelli che hanno fatto la maratona. Io ovviamente spero che perda Trump, anche se non sono del tutto sicuro che sia la cosa migliore per me in quanto cittadino europeo. In un certo senso il suo primo mandato non poteva dimostrare meglio un vecchio assioma in cui non ho mai smesso di credere, ovvero che l'aggressività esterna sia un modo per scaricare un'energia interiore che altrimenti ci dilanierebbe: credo valga per molte persone e anche per interi popoli. Trump ha ridotto in modo spettacolare l'interventismo delle forze armate USA (senza smettere di finanziarle), e il risultato è un Paese che appare più dilaniato che mai. A questo punto, cosa dovrei desiderare? Quattro anni di tregua con Biden, o lasciare che certi nodi sociali vengano al pettine? Non lo so. Per fortuna non dipende da me. Tra un po' vado a letto e spero di prender sonno. Ho già tanti pensieri, immagino anche voi.  

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Il mio Cyrano

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Vorrei poter ricordare un suo grande film, ma non ce ne sono ed è una cosa che non sono mai riuscito a spiegarmi, un mistero la cui soluzione è magari banalissima ma fuori dalla mia portata. Così per quanto imbarazzante devo ammettere che per me Gigi Proietti è stato per prima cosa il presentatore di Fantastico 4, varietà autunnale di Enzo Trapani su Rai1, abbinato nel 1983 alla Lotteria Italia. Questa cosa non la ricorderanno in molti, del resto non fu nemmeno un successo; anzi un discreto disastro visto che la per la prima volta Rai1 perse la sfida del sabato sera contro il varietà più convenzionale di Canale 5, Premiatissima. Io avevo dieci anni e sentivo che qualcosa stava succedendo; notavo che uno dopo l'altro i miei compagni smettevano di seguire il Primo Canale e passavano a quell'Entità che stavo già cominciando a considerare il Nemico, se non altro perché insisteva a interrompere i cartoni con la pubblicità. Io invece imperterrito il sabato sera guardavo Fantastico e non mi costava nessuna fatica stare fuori dal gregge, perché a me piaceva Proietti. Piazzato lì tra un giochino e un balletto, veniva visibilmente da un altro mondo e ne era ben fiero, e io con lui. Ogni tanto riciclava un suo sketch, roba vecchia ma non per me, per me il mondo era appena iniziato. 

Da cui l'angosciosa domanda: ai decenni di oggi, può capitare la stessa fortuna? Ammesso che ci sia in giro gente brava quanto Proietti – ovviamente nei loro campi, che sono diversi da quelli che erano importanti quando ero bambino io, per cui non pretendo di capire se in giro c'è qualcuno altrettanto bravo a fare la sua cosa quanto Proietti era bravo a fare la sua. Spero proprio che ci sia, ma anche in questo caso: come fa un bambino di dieci anni a trovarlo, sul digitale terrestre o su youtube o tictoc od ovunque sia? A me Proietti arrivò per un capriccio dei palinsesti, l'effetto collaterale di un esperimento sbagliato; da lì in poi la Rai capì che non era la direzione giusta, chiamò Baudo a blindare il varietà nazionalpopolare e gli anni '80 proseguirono nel modo in cui preferiscono tutti ricordarli. Nel frattempo però io avevo visto Proietti: e avevo scoperto che mi piaceva di più. 

Appena tornò in tv, mi ci appiccicai: e questo fu il regalo più bello che mi fece Proietti, e in generale uno dei migliori che mi fece la tv, perché ci tornò con il Cyrano de Bergerac; non una versione televisiva, ma proprio il testo di Edmond Rostand, recitato con gli allievi del suo laboratorio. Un'altra cosa che non fu un successo: per quanto ho potuto appurare, di solito i ciraniani italiani si dividono in quelli che si ricordano Modugno e quelli che si ricordano Depardieu; per me invece Cyrano è Proietti, e Proietti è Cyrano. E Cyrano ovviamente è lo spirito guida di ogni preadolescente che l'abbia visto al momento giusto: a me è successo, grazie a Proietti. Probabilmente se lo rivedessi ora troverei i suoi allievi ancora un po' legnosi (come è giusto che fosse), e lui fin troppo debordante (come Cyrano d'altronde dev'essere). Ma sulle teche Rai non c'è, maledizione. 

Da cui il ritorno dell'angoscioso interrogativo: come faranno i ragazzini di oggi a capire quanto è bello il Cyrano di Bergerac e quanto sia necessario punzecchiare i De Guiche, sostenere i Cristiani e rinunciare alle Rossane? Magari non lo impareranno mai, magari non era affatto importante. Ogni generazione ha i suoi miti e i suoi sistemi di valori; è solo la ristrettezza del nostro punto di vista a suggerirci che il nostri fossero migliori. Proietti è stato un regalo per me, tra il 1983 e il 1986; in seguito l'ho perso un po' di vista, ma non riesco a credere che chi sia cresciuto col Maresciallo Rocca in tv abbia avuto lo stesso regalo che ho avuto io; quanto a quelli che da vent'anni in tv si trovano davanti il Grande Fratello e Ballando con le Stelle, beh capisco che preferiscano altri media, altri contenuti, e spero davvero che li trovino e che siano importanti e formativi come furono i miei. Devo sforzarmi di pensare che potrebbero esserlo; non devo essere schiavo del mio ristretto e fugace punto di vista, non devo trasformarmi in un querulo laudator temporis acti che Proietti irriderebbe in uno sketch. 

Ma non credo di riuscirci. Per quanto mi sentirete affermare il contrario, tenetevelo per detto: dentro di me una voce proclama che io ho avuto la migliore formazione possibile: ho avuto Rodari e Calvino e poi Eco; e in tv pure al sabato sera poteva persino capitare un Proietti. Ho visto un Cyrano integrale a dodici anni, certo non per merito mio: posso solo ringraziare. Grazie. 

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Dolcetto o fine del mondo (come lo conoscevamo)?

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Non credo sia il problema prioritario, ma ho sentito qualcuno lamentarsi anche del fatto che i bambini non potranno suonare i campanelli, stanotte. Insomma come cresceranno, senza Halloween?

Giornale di Brescia

Sinceramente non lo so, ma quando ho sentito la domanda mi sono reso conto di avere avuto una vita interessante. Certo, non come quella di chi ha assistito a una rivoluzione o a una guerra mondiale, ma non mi posso lamentare, ad esempio ho visto nel giro di un quarto di secolo la parola Halloween trasformarsi da inquietante titolo di un film dell'orrore, a festa sul calendario: prima osteggiata e poi progressivamente accettata dagli adulti, al punto che ora si domandano se potranno i loro figli sopravvivere alla sospensione di una tradizione che sembra già antichissima e non ha neanche vent'anni. E vorrei dire: tranquilli, ragazzi, anche i vostri genitori non giravano per strada mascherati il 31 ottobre, e in un qualche modo sono cresciuti anche loro; ma ecco, forse non è un buon argomento, perché in effetti: come siamo cresciuti? Non è che abbiamo preso un certo benessere occidentale pompato della Guerra Fredda come un diritto fondamentale dell'uomo, e ora non sappiamo distinguere tra un regime totalitario e un governo che ci toglie temporaneamente cinema e ristorante perché non vorrebbe intasare (scusate eh) le terapie intensive? 

Ho sentito molta più gente paventare una nuova chiusura delle scuole, e se da una parte sono felice dell'importanza straordinaria che attribuiscono all'istituzione in cui lavoro (sul serio chi se lo sarebbe aspettato, anche solo un anno fa), dall'altra ho paura che mi cada la maschera mentre recito un copione che non ho scelto: tutti si aspettano che io dica che la scuola è sicura, molto più sicura di piscine palestre e bar, e che i loro figli possono andarci senza nulla temere, il che non è vero, anche se in tv l'avete sentito dire da questo o quel medico: gente che lo dice in tv, comunque, ma si guarda bene dal ripeterlo quando si mettono nero su bianco le linee guida ministeriali. Non importa, a quanto pare la scuola deve tenere la posizione, costi quel che costi: chiuderanno i bar e i forni, ma la scuola è troppo essenziale. Che figli crescerebbero, senza cinque ore al giorno nella stessa stanza (seduti a un metro di distanza con la mascherina sul naso)? Dei disadattati, molta gente ho sentito usare questa parola: disadattati. E non posso fare a meno di domandarmi: disadattati a cosa? Al mondo come ce lo immaginiamo noi; quello coi cinema gli aperitivi, i bambini mascherati a Halloween eccetera. Un mondo che in ogni caso sta per cambiare, non nel modo più auspicato, certo, ma neanche così imprevisto. Cioè è da un po' che ce lo dicevamo, che avrebbe potuto finire così, no?


È novembre ormai, di solito a questo punto nel Mar Glaciale Artico si è già formato uno strato di ghiaccio – quest'anno no. Dall'altra parte del mondo un'altra porzione di permafrost si sta scongelando dopo decine di millenni, liberando altro metano che non sappiamo bene come interagirà con l'atmosfera. Sempre dal permafrost potrebbero arrivare altre novità indesiderate ma non del tutto impreviste: virus, batteri, cose con cui dobbiamo imparare a convivere. Il mondo che lasciamo ai nostri figli è un mondo molto diverso da quello a cui ci siamo adattati noi: richiederà altri atteggiamenti, altri valori. Che crescano disadatti al vecchio mondo, non è necessariamente un male. Tra i tanti capi di cui ci imputeranno, ho il sospetto che i lockdown del 2020 non saranno il peggiore. Scusate il pessimismo, fate conto sia la mia storia di paura per stasera.

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E se Leopardi fosse gay? (ce ne dovremmo interessare?)

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Leopardi, 1832: Non è che per l'effetto della vigliaccheria degli uomini, che hanno bisogno di essere persuasi dei meriti dell'esistenza, che le mie opinioni filosofiche sono state considerate il risultato delle mie particolari sofferenze, e ci si ostina ad attribuire alle mie circostanze materiali ciò che è causato semplicemente dalla mia riflessione.


Marcos Y Marcos
Studioso di Leopardi, 2020: Ecco così stagliarsi il Leopardi più segreto, quello non ancora accettato dall’accademia italiana, il Leopardi omosessuale, esule a Napoli per amore, a mantenere – con il mensile che gli passa Monaldo – il bellimbusto eterosessuale Antonio, e a sfogarsi con gli scugnizzi in cambio di “avarissime mance”. Inutile illudersi: ci sarà sempre qualcuno che continuerà a sostenere che le biografie non contano. [...] Il fatto che un artista non abbia voluto o potuto manifestare esplicitamente la propria omosessualità non può e non deve inibire lo storico che cerca di recuperare il senso più autentico dell’opera e della poetica dell’artista stesso. Un grande poeta deve la sua grandezza anche alle esperienze e al vissuto, ergo anche alla sua affettività, al soddisfacimento o alla repressione dei desideri, alla lotta che è stato costretto ad ingaggiare con la sua contemporaneità...

Manifestanti, 2025: Toh, guarda, una statua di Leopardi! Pagava i ragazzini e pure poco! Buttiamola giù, maledetto efebofilo!



È già successo un'estate di quasi vent'anni fa. Il Centro Nazionale di Studi Leopardiani ventilò l'ipotesi di querelare chi metteva in dubbio la “forte attrazione per le donne” di Giacomo Leopardi, “documentata da poesie e lettere”. Questa presa di posizione seguiva la scoperta in una chiesa salentina di una lettera autografa in cui il poeta si riferiva all'amico-convivente Antonio Ranieri con espressioni come «Addio, anima mia» oppure «Ti stringo al mio cuore». Già ai tempi l'ipotesi dell'omosessualità di Leopardi era una non-notizia, per più di un motivo: non era dimostrabile (simili espressioni di affetto Leopardi le riservava anche a corrispondenti dell'altrui sesso) e non era nuova: di lettere in cui Leopardi si riferiva a Ranieri con epiteti molto teneri ce n'è ben più di una.

Gli studiosi di Leopardi non ignorano la questione, anche se per molto tempo l'hanno trattata come i proverbiali panni sporchi da non lavare in pubblico. In compenso già negli anni '90 la questione era stata scoperta dagli attivisti LGBT: fondamentale fu un articolo di Giovanni Dall'Orto comparso nel 1996 su Babilonia (poi ripreso e ampliato sul suo sito web). Magari se ne ritornerà a parlare in questi mesi dopo l'uscita di Silvia è un anagramma, un saggio di Franco Buffoni che si propone come un atto di “doverosa giustizia biografica” nei confronti di alcuni poeti laureati che non avrebbero avuto la possibilità di esprimere la loro sessualità: “quasi certamente il caso di Leopardi, e forse anche quello di Pascoli e di Montale”.

Buffoni è tutto meno che uno spulciatore di vecchie lettere a caccia di pettegolezzi. Poeta, traduttore specializzato in letteratura romantica inglese, romanziere, fondatore con Mario Mieli del primo nucleo del movimento LGBT italiano: se ha un'ipotesi sulla sessualità di Leopardi, vale la pena di esaminarla serenamente. Qui raduno alcune obiezioni preliminari, che più che smontare il discorso militante di Buffoni servono a raccapezzarmi su un fastidio, temo, che condivido con altri studiosi e lettori di Leopardi per lo più eterosessuali – cos'è che ci disturba tanto, in un eventuale outing del Conte? Siamo semplicemente omofobi o c'è qualcosa di più?


Ovviamente spero che ci sia qualcosa di più – ma non ne sono così sicuro.


L'operazione di Buffoni, e di Dall'Orto prima di lui, è manifesta: dimostrare che la comunità LGBT non nasce all'improvviso alla fine del XX secolo, ma ha antecedenti illustri e documentati, o meglio, documentabili – almeno finché il Potere eteronormativo non ci mette la mano. Il che è plausibile, ma può condurre a distorsioni non meno gravi di quelle prodotte dal Potere. “Ci sarà sempre qualcuno che […] continuerà imperterrito a ritenere che Aspasia fosse la Targioni-Tozzetti”, scrive, suggerendoci che faremmo meglio a identificare la protagonista dell'omonimo canto in Ranieri. Sarà: ma non è poi così facile vedere le fattezze del barbuto amico di Giacomo nella “dotta allettatrice” che “fervidi sonanti baci” scoccava nelle labbra dei suoi bambini, che “con la man leggiadrissima” stringeva “al seno ascoso e desiato”. Perché dovremmo escludere che Leopardi si sia sentito attratto da almeno una donna nell'atto assai poco efebico di accudire i figlioli (una MILF, diciamola tutta), e che la poesia non parli esattamente di questo? Un conto è ammettere che Leopardi possa avere avuto e manifestato pulsioni omosessuali: un altro è pretendere che queste pulsioni debbano necessariamente esaurire lo spettro della sua sessualità, come se sulla scala di Kinsey non ci fossero almeno cinque gradini intermedi.

È in casi come questi che un critico eterosessuale trova inevitabile affidarsi all'autorità di un Michel Foucault: “L'omosessualità è apparsa come una delle figure della sessualità quando è stata ricondotta dalla pratica della sodomia ad una specie di androginia interiore, un ermafroditismo dell'anima. Il sodomita era un recidivo, l'omosessuale ormai è una specie” (La volontà di sapere, 1976). La curiosità di Dall'Orto e Buffoni per le pulsioni del Conte non sarebbe che una delle forme più recenti della sempre mutevole foucaultiana Volontà di Sapere: e a tal proposito devo annotare che in questi mesi mi è capitato di sentire più di un interlocutore affermare che un Leopardi gay sarebbe una bella notizia per tanti studenti. All'inizio ero abbastanza incredulo che uno ragazzino potesse trarre qualche tipo di consolazione dall'esempio di un poeta dalla vita breve, dolorosa e infelice – che possa sentirsi ispirato a un approccio più ottimista dall'autore del Dialogo di Tristano (“Invidio i morti, e solamente con loro mi cambierei”!) Come se avessimo tolto Leopardi dalla polverosa teca degli Intoccabili Poeti Laureati soltanto per consegnarlo alla vetrina pop dei modelli aspirazionali: accanto al cosmologo paraplegico, alla pittrice invalida, all'inventore figlio di immigrati, e in generale a tutti i poeti-artisti-studiosi additati agli studenti non tanto per la qualità delle loro opere o scoperte, ma perché ce l'hanno fatta trionfando contro pregiudizi sociali o handicap fisici. Tutto un pantheon postmoderno basato peraltro sulla fallacia del sopravvissuto o survivorship bias. Non riesco a pensare a niente di meno intimamente leopardiano, ma forse sono solo un etero geloso. Pensavo che proclamando “l'infinita vanità del tutto”, il Conte avesse fatto della delusione per Aspasia una figura dell'infelicità umana, e che quindi stesse parlando anche di me, a me; quando sarò costretto ad accettare che la sua infelicità è quella di chi è costretto a “nascondere il proprio orientamento sessuale per timore della sanzione della società e della legge”, potrò ancora riconoscermi in A Se Stesso senza sentirmi rimproverare di appropriazione culturale?

Inoltre: se il vero motivo dell'infelicità di Leopardi fosse l'impossibilità di vivere la sessualità che più gli aggradava, il movimento di liberazione LGBT non solo conterrebbe la risposta alle sue angosce, ma in un qualche modo risolverebbe la sua poesia. I Tristani del futuro non dovranno più nascondere il loro orientamento, e non si sentiranno più tentati dal suicidio. Il pessimismo cosmico dei nostri appunti liceali si sgonfia in un più rassicurante pessimismo sentimentale: anche l'infelicità più radicale viene ricondotta a una più gestibile insoddisfazione sessuale.

Queste obiezioni, ora che le ho messe nero su bianco, non mi sembrano così probanti. Alla fine non sono che l'ennesimo episodio di un estenuante, plurisecolare dibattito intorno a uno degli oggetti più ingombranti della storia della letteratura italiana: la gobba di Leopardi (continua).
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Avviso

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"Bambino di città
cerca amici perchè non ne ha.
Si prega di guardare
sul quinto balcone:
tiene in mano un aquilone
che volare non sa".

(Nell'anno di Rodari, chiedersi se esiste una poesia più triste e altrettanto perfetta).

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Dear Sir or Madam

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(Ci ho messo un po' per scriverlo, non gli dareste un'occhiata?) 



(Esce il 22 ottobre, dicono. Ma si può già ordinare, meglio dal vostro libraio preferito).

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