Pier Damiani e l'annoso problema della sodomia

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21 febbraio – San Pier Damiani (1007-1072), dottore della Chiesa decisamente omofobo.

Cosa fareste per recuperare quel documento?

Ma cos'è che avevo scritto quella volta
Un giorno (più probabilmente una notte) avete scritto qualcosa, una cosa che all’inizio non vi sembrava neanche granché. Un appunto su un’idea che vi frullava in testa. Una dissertazione in dieci capitoli. La prima pagina di un romanzo che avrebbe funzionato. Un foglio elettronico con tutte le formule al posto giusto. La ricostruzione della carriera. Una notte avete scritto qualcosa e non ci avete più pensato per mille altre notti; finché non avete capito che quella era la pagina giusta da cui ricominciare da capo. Ma, indovinate: quella pagina non si trova più.

Avete messo sottosopra gli scaffali, rivoltato i cassetti come calzini. Tutti i dischi rigidi, tutte le chiavette, avete portato dai cinesi quel laptop che si è spento per sempre cinque anni fa. E più cercavate, più quel documento diventava interessante, necessario, fondamentale, unico. Perché è l’unico che non si trova più. Il che non è possibile; voi non buttate mai nulla. Probabilmente è nel posto sbagliato, archiviato col nome sbagliato, dove lo ritroverete quando sarà troppo tardi. Oppure lo avete prestato a qualcuno, sì: qualcuno sembrava curioso e vi siete fidati senza tenervi una copia, pazzi! A nessuno bisogna prestare i propri documenti, di nessuno ci si può fidare. Neanche di un papa. Non è un modo di dire, per esempio San Pier Damiani si fidò di un papa, e lo sapete come andò a finire, no? In effetti forse no.

Pier Damiani il dottore della Chiesa, Pier Damiani l’inflessibile, l’incorruttibile, l’uomo che in teoria riusciva a vivere soltanto in un eremo appartato, circondato dall’algido affetto dei suoi confratelli, Pier Damiani che invece per un motivo o per un altro era sempre in giro per Sinodi o a Roma a lobbizzare con questo e quel pontefice; Pier Damiani un giorno scrisse una lettera stranissima a due cardinali, una lettera matta in cui si prendeva gioco del papa in carica, proprio lui! Pier Damiani, il riformatore: ce l’aveva con Alessandro II. Stia attento, scriveva: che un papa di nome Alessandro c’è già stato e fu frustato a sangue. Ma che aveva fatto il secondo Alessandro per meritare anche solo un vago riferimento al supplizio inflitto ai ladri? Cosa poteva aver mai fatto un pontefice per meritare un’accusa infamante e neanche tanto velata da parte di Pier Damiani? Indovinate: non gli restituiva un manoscritto.

Glielo aveva chiesto per farsene una copia: e doveva averglielo chiesto in termini piuttosto perentori, se Pier confessa che altrimenti non glielo avrebbe dato. Quando era tornato a riprenderlo, niente: il documento non c’era più. Ma che c’era mai scritto, in quell’unico fascicolo autografo tra mille che Pier non poteva più andarsi a rileggere? Magari niente d’importante. Lui stesso protesta che era poca roba, nulla per cui valesse la pena litigare o perdere il favore di un pontefice. E invece era proprio quello che stava facendo: aveva aperto un contenzioso col vicario di Pietro. Non riusciva a contenersi, Pier Damiani il continente. Ma perché Alessandro non rendeva il malloppo? L’ipotesi banale resta la più verosimile: magari aveva perso tutto. Basta appoggiare il quinterno sull’angolo sbagliato della tua Cattedra; magari qualcuno viene a mettere a posto, con le migliori intenzioni del mondo lo infila nello scaffale sbagliato delle biblioteche vaticane, e bye bye Inedito del Dottore della Chiesa, vallo a ritrovare se ci riesci. Possono passare anni. Secoli.

Mi era venuto così bene quella volta maledizione
Ma siccome le vite dei santi non sono necessariamente così simili alla mia, non posso omettere un’altra spiegazione, molto più affascinante: quel manoscritto che papa Alessandro aveva tolto dalla circolazione, quell’opuscolo da cui Pier Damiani con molta fatica si era staccato, non era un brogliaccio qualsiasi, bensì il fascicolo più scottante a cui aveva messo mano, quello che oggi è (ingiustamente) la sua opera più famosa: il Liber Gomorrhianus. Avete presente il Liber Gomorrhianus, no? In effetti forse no.
Beh, è una specie di pietra miliare. Mettiamola così: sapete che la Chiesa ha questo problema dei preti pedofili, no? Ogni tanto se ne parla. Ecco: da quand’è esattamente che se ne parla? Quando è cominciato lo scandalo, o almeno quando la Chiesa ha iniziato a percepirlo come scandalo? Sono stime difficili da fare per uno storico. Di solito. Ma in questo caso no, in questo caso si può mettere una data quasi precisa: il primo a denunciare il fenomeno, in un latino ecclesiastico semplice ed elegante, fu Pier Damiani, nel Liber Gomorrhianus, indirizzato a papa Leone IX più o meno nel 1051. Quando si dice che il tal problema è annoso, pensate che questo specifico problema sta per compiere mille anni.

E prima non esisteva? Pier ne parla già come di una malattia morale ben nidificata. Più che i peccatori gli preme denunciare chi li copre: tutta una spaventosa rete di complicità sulla quale intende fare luce. In effetti chi voglia affrontare il Liber come se si tratti davvero del primo trattato di sessualità del medioevo rischia di restare deluso. Pier parla pochissimo dei peccati che denuncia; si capisce che ne prova un ribrezzo genuino. La sua casistica è limitata all’essenziale: secondo Pier ci sono quattro tipi di atti esplicitamente denunciati dalla Bibbia come contro natura. In ordine crescente di gravità: masturbazione solitaria, masturbazione reciproca, coito interfemorale e rapporto anale. Sono comunque tutti peccati mortali: chi li commette, secondo Pier, deve essere sollevato dall’incarico ecclesiastico. E la pedofilia? Pier ci arriva per gradi, esprimendo una riprovazione particolare per i presuli che iniziano al peccato i giovani che sono loro affidati. Oltre alla sodomia, in questo caso Pier intravede l’incesto, dal momento che il maestro è un padre spirituale, e il vincolo spirituale è più importante di quello carnale. In ogni caso, la soluzione è la stessa: chi pecca contro la natura e contro il vincolo famigliare deve perdere il suo incarico; gli deve essere impedito di confessarsi e ricevere l’assoluzione da un complice nel peccato (Pier aveva la sensazione che la cosa succedesse spesso). Ne va della salute morale della Chiesa, il papa deve assolutamente recepire la gravità del fenomeno e intervenire con severità. Il papa ringraziò, recepì, e qualche anno dopo fece sparire il manoscritto del Liber. Il primo caso di dossier sugli abusi del clero insabbiato dal clero. Notevole. Fin troppo.

Ma dove l’ho scritto accidenti, qui non c’è
E infatti le cose non andarono esattamente così. Innanzitutto giova ribadire che non siamo sicuri che il Liber sia davvero stato sequestrato da un papa: Pier Damiani si riferisce semplicemente a un documento scritto da lui, che ne scriveva tantissimi, su tantissimi argomenti sui quali un pontefice poteva essere altrettanto sensibile. Il motivo per cui pensiamo subito al Liber è il motivo per cui nelle librerie oggi si può trovare, con un poco di sforzo, un’edizione del Liber, mentre per tutti gli altri testi di Pier bisogna frequentare biblioteche molto specialistiche, ed è il solito banalissimo motivo, ovvero: pensiamo solo al sesso. Argomento che, sublime ironia, a Pier interessava pochissimo: noi invece non vorremmo parlare d’altro o studiare d’altro, e quindi se a un certo punto in una lettera si parla di un documento trafugato per oscuri motivi, dev’essere senz’altro una questione di sesso. Ovviamente si dice che il papa in questione aveva avuto esperienze sodomitiche in collegio e considerava il dossier un atto d’accusa. Quante cose si dicono, senza bisogno di provarle. Ma anche se fosse tutto vero, il papa che fece sparire il dossier non fu Leone IX (morto nel 1054), ma Alessando II, salito al Soglio nel 1061.


Quanto a Leone, sappiamo che il Liber gli era sostanzialmente piaciuto: che aveva definito la foga inquisitoria di Pier come “santa indignazione”, benché non intendesse recepire al 100% le proposte di Pier. “Noi agiremo più umanamente”, aveva scritto (“nos humanius agentes“). Leone in effetti intendeva degradare soltanto gli ecclesiastici non coinvolti in attività sodomitiche “da lunga abitudine o con molti uomini”. Ma la disponibilità papale a chiudere un occhio sulle scappatelle occasionali o sugli errori di gioventù non sconfessava affatto l’impianto accusatorio di Pier Damiani – si trattava anche di un gioco delle parti, tra due intellettuali consapevoli: a Pier toccava la parte del poliziotto cattivo, del magistrato inquisitore che chiede una pena di vent’anni per ottenerne cinque con la condizionale. Era una parte che doveva riuscirgli particolarmente congeniale: siamo tutti particolarmente spietati con i vizi che non condividiamo, e a Pier, tra tanti vizi che possono capitare a un povero cristiano, questo proprio non lo aveva. È sempre difficile parlare di sesso senza tradire una minima curiosità, una minima partecipazione: Pier non si tradisce perché davvero l’argomento non lo appassiona. Che si tratti di una pratica solitaria o di un rapporto anale con un minore, per lui la questione è molto semplice: la Bibbia dice che è male, Onan morì sul colpo, Sodoma e Gomorra furono incenerite, amen. È vero che la Chiesa non prese il suo Liber alla lettera, ma cominciò a porsi un problema dove prima non c’era nemmeno il problema. Per trovare un documento che proibisse agli stupratores puerorum di ricevere la comunione in punto di morte, Pier nel 1050 era dovuto risalire a un concilio del 305. In mezzo, settecento anni di silenzio. Dopo Pier invece qualcosa si mise in moto, anche se con la tipica prudenza dell’istituzione ecclesiastica, che vista da vicino sembra immobilismo. I sodomiti sarebbero stati esplicitamente espulsi dal clero e scomunicati solo nel secolo seguente, col Concilio Laterano III. Quanto al problema della pedofilia, c’è voluto qualche altro secolo, ma adesso se ne parla. Diciamo.

Il cast di Spotlight, un film del 2016 sul problema denunciato nel 1051 da Pier Damiani.

Un giorno – più facilmente una notte – avete perso un documento. All’inizio non vi sembrava una grande perdita, ma ora che non lo trovate più vi rendete conto che era perfetto. A dire il vero queste cose ormai succedono sempre meno, ora che tutto è sulla nuvola. Per dire, a me capita di ritrovare cose che credevo perdute e bellissime, articoli che avevo scritto per magazine on line che un giorno sono andati offline senza preavviso e figurati se l’Internet Archive si è fatta una copia: poi un bel giorno mi viene in mente una data o una stringa e bingo! Li trovo proprio sull’Internet Archive.

E fanno schifo.

Non riesco nemmeno a leggerli, buon dio, bisognerebbe chiedere all’Internet Archive di cancellarli. Chissà che schifezza aveva scritto Pier Damiani, che papa Alessandro non gli voleva restituire, e che gli sembrava un capolavoro soltanto perché non poteva più rileggerla. Io per dire qualche ora fa ho cancellato senza volere le dieci righe che servivano a finire questo pezzo e ora mi dispero, sono convinto che non troverò mai più un finale altrettanto bello e necessario, e intanto prendo tempo raccontando inezie al lettore. Era tutta una digressione finale sulla Chiesa Cattolica come prodigiosa macchina celibe, ma proprio per questo condannata ad avanzare nei secoli guidata da un’esplosiva miscela di uomini (selezionati e svezzati nei collegi): omosessuali e asessuali (ancora oggi secondo il New York Times i sacerdoti USA di inclinazione omosessuale potrebbero essere il 40% – qualche ecclesiastico col gay radar particolarmente sensibile parla del 70%). Con questa fondamentale controindicazione, che gli asessuali proprio non capiscono gli omo, e quindi questi ultimi devono in tutti i modi nascondersi ai primi attraverso tutta una serie di ipocrisie e codici di comportamento e regole che ti spiegano perché devi metterti le scarpine porpora anche se a te francamente basterebbero due sandali e via che si va. E che comunque la macchina, con qualche strappo e qualche panne ogni tanto sarebbe potuta andare avanti ancora per molto, non avessimo chiuso quasi tutti i collegi. Ecco, il pezzo diceva più o meno questo, ma lo diceva molto meglio di così. Magari se facessi control+Z per mezz’ora ritroverei quelle righe, ma quante altre ne perderei che immediatamente dopo troverei più necessarie. Quindi niente, stanotte il pezzo finisce così, chiedo scusa.

(Per scrivere un pezzo su Pier Damiani ho letto diverse cose, non tutte capendole e molte dimenticandone; in particolare lo spunto del manoscritto sottratto da papa Alessandro l'ho trovato in un articolo di Irene Zavattero, "Il Liber Gomorrhianus di Pier Damiani").
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Renzi, la trattativa, il retroscena, la polpetta

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"Questa è la storia di un governo mai nato, dell’altra strada che poteva prendere questa legislatura, dei protagonisti che hanno fatto nascere e morire, nel giro di una settimana, il governo Fico sostenuto da una maggioranza Cinque Stelle-Pd. È una storia di dominio (quasi) pubblico nei palazzi romani, ma che si tace appena si varca l’uscio e si cammina nel Paese reale, tra gli elettori e i militanti. Un po’ per il rimpianto di quel che avrebbe potuto essere la storia di questi ultimi dodici mesi, se non ci fosse stato il governo gialloverde. Un po’ perché nel frattempo il solco già enorme tra Pd e Cinque Stelle è diventato una voragine. Un po’ perché non tutti i protagonisti di questa vicenda l’hanno raccontata giusta, in quei giorni. Ecco perché questa è una storia senza nomi e cognomi, né virgolettati".
Questo è un retroscena di Linkiesta e io non credo a una parola. Niente di personale, non credo mai a nessun retroscena, per principio. È un voto che ho fatto qualche anno fa ed è già impressionante il numero di puttanate da cui mi ha protetto. Per cui se prima potevo avere la vaga impressione che ci fosse stato, verso le idi del marzo scorso, una specie di abboccamento tra dirigenti del Pd e del M5S, ora ci credo già un po' meno. I retroscena sono post-verità fabbricati a posteriori e l'ultima preoccupazione di chi li fabbrica è spiegare davvero cos'è successo ieri. Allora a cosa servono? A far succedere qualcos'altro domani.

Posso sbagliarmi, non sono un esperto, ma l'unico senso di questo retroscena è la campagna delle Primarie PD, che sta entrando nel vivo. Voi magari non ve ne eravate accorti, ma i  "protagonisti" che all'improvviso decidono di vuotare il sacco a un giornalista di Linkiesta probabilmente sì. Per una curiosa coincidenza, Renzi non è più il villain che mette i bastoni fra le ruote. Scopriamo oggi che almeno in un primo momento sarebbe stato tentato dal miraggio di approdare alla Farnesina in un eventuale governo Fico: girare il mondo, parlare in inglese a tutti. È un depistaggio verosimile, come tutti i depistaggi professionali. Il punto in cui la verosimiglianza cede è probabilmente quello che sta a cuore del depistatore, ovvero il cancelletto. In un momento tanto critico, Renzi avrebbe avuto paura del giudizio dei suoi stessi sostenitori più fedeli, che alle prime avvisaglie di un accordo col M5S avevano già messo in giro l'hashtag #SenzaDiMe. Insomma, Renzi che si fa dettare la linea da un cancelletto. La beviamo?

Che Renzi sembri in difficoltà, dal quattro dicembre e anche prima, è pacifico. Ma non al punto da confondere una cassa di risonanza, come Twitter, con un luogo reale di elaborazione e condivisione politica. Renzi non ha mai aspettato un cancelletto per prendere decisioni, anche e soprattutto quando erano decisioni che potevano disorientare la sua stessa base (ad esempio la scelta di succedere a Letta a Palazzo Chigi). I cancelletti arrivano dopo: li spingono i suoi sostenitori e riflettono il suo pensiero. E quando un pensiero non c'è, di sicuro non lo producono loro. Mi sembra impossibile che i renziani si siano messi a cinguettare #SenzaDiMe senza che Renzi gliel'abbia chiesto. Ma è esattamente quello che vuole dirci la talpa che ha raccontato questa storiella a Linkiesta: il renzismo come un mostro di Frankenstein che a un certo punto prende il controllo sul suo creatore; un Mr Hyde che a un certo punto lo soggioga e gli impedisce di prendere le decisioni più razionali.

Questo non è un retroscena contro Renzi, ma contro i renziani. Più nello specifico: mi sembra una polpetta sotterranea contro la mozione Giachetti. Io ovviamente non nutro per il personaggio nessuna simpatia; lo trovo anche un po' inquietante, mi sembra il tizio che viene sempre mandato avanti quando c'è da perdere una battaglia, e Renzi ha questa cosa che per tutta una serie di motivi di battaglie ha deciso di perderne parecchie. Invece chi detta questa roba a Linkiesta sembra quasi aver paura che vinca: ecco, questo è piuttosto strano.
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Faustino e Giovita, la strana coppia

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15 febbraio – San Faustino, patrono di Brescia e dei single; San Giovita, patrono soltanto di Brescia (II sec.)

Faustino e Giovita nella Pala della mercanzia
di Vincenzo Foppo. Giovita è il biondo ricciolino.
[2014]. Insomma, come siano davvero andate le cose con San Valentino e la festa degli innamorati non lo sapremo mai. Ogni tentativo di capire dove nasca il popolare abbinamento si scontra con un muro di omertà e una cascata di storielle messe in giro secoli dopo per giustificare una festa che esisteva già. Colpa dei secoli bui? No. Pensate che succede la stessa cosa con la “festa dei single”, una celebrazione postmoderna nata negli anni ’00, e quindi più giovane di voi che leggete e di me che scrivo. A inventarsi un San Faustino patrono dei single potrebbe essere stata nel 2001 la redazione di un sito internet che si chiama vitadasingle punto net: purtroppo la fonte di questa affermazione è vitadasingle punto net, per cui qualche dubbio rimane.

E dire che abbiamo Google – ma cosa può il più potente dei motori di ricerca contro una diceria popolar-commerciale? Troveremo centinaia di articoletti che copiano e incollano la stessa pubblicità di un ristorante che organizza una serata speciale tutto compreso a 69 euro con ricchi premi e cotillons e una sorpresa per lei. Appare abbastanza ovvio che la Chiesa cattolica almeno stavolta non c’entri: e tuttavia non mancano i tentativi di elaborare una mitologia che colleghi il martire patrono di Brescia con gli infelici in amore. Scopriamo così su sapere.it, che “Secondo la tradizione [quale?] San Faustino dava opportunità alle giovani fanciulle di incontrare il loro futuro ‘moroso'”. Lo stesso pettegolezzo, ricorderete, è stato messo in giro sul conto di Valentino; pare che il ruffiano sia il patrono ideale sia per chi ha il moroso sia per chi lo cerca. Un altro tentativo passa per quello che i tedeschi chiamano Volksetymologie, l’etimologia “del popolo”: quando il volgo non conosce la storia di una parola, se la inventa, improvvisando con le sillabe e i sinonimi. Faustino sarebbe diventato il protettore dei single in virtù della sua radice, Faustus: favorevole, prospero, fortunato.

L’intervento dei santi patroni Faustino e Giovita sulle mura di Brescia nel 1438, un pastrocchio del giovane Giandomenico Tiepolo, figlio del più noto Giambattista.

I single hanno senz’altro bisogno di fortuna, come tutti. Ma Faustino è semplicemente il primo nome che un tizio ha trovato sul calendario nella casella del 15 febbraio. Il primo. Non si è neanche sforzato di leggere un po’ più in là; sennò avrebbe scoperto che proprio il Faustino di Brescia è uno dei santi meno single di tutto il calendario: uno dei pochi che non resta da solo mai, né nelle apparizioni né nella giaculatorie. Ovunque ci sia Faustino, lì nei pressi c’è sempre anche Giovita, il suo partner di lavoro e di martirio. Il patrono dei single è un tizio che fa coppia fissa con un altro da… diciannove secoli, un commendevole esempio di fedeltà.

Ogni città ha i dioscuri che merita.
Non solo. Giovita è un personaggio un po’ ambiguo. Non siamo del tutto sicuri riguardo la sua sessualità. La tradizione ufficiale lo vuole soldato inquadrato nel corpo dei cavalieri, come il collega; probabilmente è più giovane, perché quando Faustino viene ordinato presbitero (=prete), Giovita deve accontentarsi del grado subordinato di diacono. Gran parte dell’ambiguità dipende dal nome, Iovita, che forse deriva da Iovis, Giove… ma è della prima declinazione, insomma, finisce in a. Siamo sicuri che sia un nome maschile? No, non ne siamo sicuri sicuri. Tant’è che c’è un doppione, Iovinus, quest’ultimo sicuramente maschile. In altre lingue Iovita diventa un nome femminile: Jowita in polacco, Jovita in spagnolo (ha anche una forma maschile, Jovito). In italiano Giovita è maschile, ma ogni tanto ci si imbatte in qualche curiosa eccezione: per dire, il sito santiebeati.org (che raccoglie acriticamente tutte le informazioni reperibili in rete e sulla pubblicistica cattolica) accanto alla scheda standard sui SS. Faustino e Giovita, ne ha anche una brevissima su una “Santa Giovita” che sarebbe stata “martirizzata con il fratello Faustino, durante l’impero di Adriano, coopatrona di Brescia”. Va da sé che una Santa Faustina non sarebbe potuta essere né cavaliere né diacono. Forse per tentare di conciliare le due versioni, i pittori rappresentano il partner di Faustino nel modo più androgino possibile: capelli lunghi, magari un po’ ricci, biondi, lineamenti dolci, ampie tuniche che vanno bene in tutti i casi. Quando al tramonto del medioevo i due protettori diventeranno i due eroi guerrieri e salvatori della città, Giovita indosserà un’armatura più aggraziata di quella del capo.

I Super Pietro e Paolo secondo Raffaello.
In effetti, l’ultima volta che li hanno visti assieme, Faustino e Giovina si trovavano sulle mura orientali della città, a difenderla armati contro l’ultimo assalto dei mercenari milanesi al soldo degli Sforza, il 13 dicembre del 1438. Un’apparizione nell’antico stile dei dioscuri, i due mitologici gemelli venerati dapprima a Sparta, che occasionalmente difendevano dagli aggressori apparendo sempre in coppia: anche a Roma erano molto adorati, dopo aver salvato il culo alla cavalleria nella battaglia del Lago Regillo. Trionfatore grazie a loro di una battaglia che aveva già visto persa, il dittatore Postumio aveva voluto sdebitarsi dedicando ai Gemelli un tempio nel Foro romano. Nell’Urbe i dioscuri si ibridano con altre coppie illustri: Romolo e Remo, e più tardi Pietro e Paolo. Sì, anche il pescatore e il confezionatore di tende potevano diventare due guerrieri all’occorrenza: due supereroi con ali di colomba, che brandiscono spadoni dall’alto e scortano, per esempio, papa Leone che va a incontrare Attila nell’affresco di Raffaello nella stanza di Eliodoro.

Di eculei c’erano tanti modelli diversi;
questo è quello che stirò Santa Restituta.
L’apparizione di Faustino e Giovita sulle mura di Brescia è di ottant’anni prima, ma ha un simile sapore classicista. Nella leggenda originale Faustino e Giovita non combattono mai: si permettono soltanto qualche atto di vandalismo ai danni di una statua pagana. L’imperatore Adriano, che passava giusto da Brescia in quei giorni, li avrebbe quindi condannati a essere sbranati dai leoni nell’anfiteatro, nella zona dove poi avrebbe preso forma piazza della Loggia (ma c’è chi preferisce localizzarlo intorno a corso Magenta). In ogni caso i leoni corrono ad accovacciarsi in grembo alla strana coppia, causando il solito boom di conversioni in città. Adriano, il principe più raffinato e pacifico del secolo d’argento, avrebbe ordinato allora di scorticarli e bruciarli vivi: ma i due risultano ignifughi. A questo punto i torturatori sembrano prenderci gusto più ancora dei cristiani, lanciando Faustino e Giovita in una vera e propria tournée: a Milano resistono gloriosamente all’orribile supplizio dell’eculeo; a Roma, nell’anfiteatro più grande del mondo, rifanno il numero dei leoni accovacciati. Nel golfo di Napoli li disperdono su una barchetta per ritrovarli sospinti a riva dagli angeli. Ricondotti a Brescia, Faustino e l’amico/a Giovita vengono finalmente decapitati fuori porta Matolfa. Il loro culto diventa importante in città nel periodo longobardo, per decadere nei secoli successivi, finché l’apparizione del 1438 non riporta in auge i due inseparabili eroi. Faustino e Giovita avrebbero qualche titolo per ambire al patronato delle unioni civili. Ma ormai è troppo tardi, Faustino ha vinto alla lotteria questo assurdo patronato dei single, e gli tocca far tardi tutte le sere mentre Giovita resta a casa a rammendare le tuniche. Nessuno ci pensa mai, a Giovita. Buon onomastico a tutti i Giovita, maschi o femmine o quel che vi pare.
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La libertà di Onesimo

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15 febbraio – Sant’Onesimo (I secolo), schiavo forse affrancato da San Paolo. 

Il frammento conosciuto più antico del testo
della Lettera a Filemone risale circa al 200.
Quando lo incontra Paolo, probabilmente a Roma, Onesimo non è più nessuno, non è ancora nessuno. Vive di espedienti nella città più popolosa del mediterraneo occidentale, un’ombra tra gli uomini. Lavora probabilmente come uno schiavo, o peggio, perché Onesimo è peggio di uno schiavo: è un fuggitivo. Circostanze che non conosciamo lo hanno allontanato dal suo legittimo proprietario, il greco Filemone, residente a Colossi in Frigia. Onesimo non è più alla sua mercé, ma è comunque in una situazione pericolosa: chiunque scopra la sua condizione può denunciarlo o ricattarlo. Chissà quanti come lui campano alla giornata, mimetizzati tra i lavoratori della metropoli. Non danno nell’occhio, non vogliono grane, non hanno speranze. Solo qualche predicatore, ogni tanto, scende a spacciare vaghe parole di vita eterna. Paolo è uno di loro, ma soprattutto Paolo conosce Filemone. Ed è un uomo libero, addirittura un cittadino romano: quindi può intercedere per lui.

La Lettera a Filemone è la più breve tra le epistole di Paolo incluse nel Nuovo Testamento – appena un biglietto, magari incluso nell’appendice della lettera che lo stesso Onesimo avrebbe recapitato ai Colossesi. Per una volta l’apostolo non scrive per convincere o esortare o convertire, ma per uno scopo più circoscritto: deve riscattare una persona. Onesimo, riconsegnandosi al padrone, rischia la vita. Ma ora Onesimo è cristiano: Paolo che ha battezzato Filemone, ha battezzato anche lui. Perciò Paolo chiede che Filemone riaccolga Onesimo “non come schiavo, ma come fratello”. Paolo sa che Filemone esaudirà la richiesta, perché a Paolo, che lo ha battezzato, deve “la sua stessa vita”. Paolo del resto ritiene che Cristo gli dia piena autorità di ordinare a Filemone “ciò che è opportuno”, ma scrive di non aver voluto abusare di questo potere, “perché il bene che fai non sia forzato, ma volontario”. Paolo del resto è sicuro che Filemone farà “anche di più” di quello che si contenta di chiedergli: ovvero lo affrancherà? Ma soprattutto, Paolo si offre di indennizzare Filemone del danno subito: “se in qualche cosa ti ha offeso o ti è debitore, metti tutto sul mio conto. Io, Paolo, lo scrivo di mio pugno: pagherò io”. Questa disponibilità a far fronte agli aspetti più pratici della questione è così tipica di Paolo – un profeta molto pragmatico – che nessuno ha mai veramente dubitato che la lettera, pur atipica, non sia stata dettata da lui. Semmai sono i nomi di persona ad alimentare qualche sospetto: “Filemone” evoca immediatamente nel lettore un’idea di gentilezza e ospitalità che autorizza a pensare che la missiva sia andata a buon fine; “Onesimo” in greco significa “utile”, è il nome ideale per uno schiavo da commedia (persino Paolo gioca col doppio senso: “un giorno ti fu inutile”, scrive, “ma ora è utile a te e a me”).
D’altro canto, perché inventarsi una lettera così breve, così limitata? Se qualche falsario avesse avuto in mente di affibbiare all’apostolo qualche idea rivoluzionaria o almeno progressista sulla questione degli schiavi, avrebbe dovuto scrivere ben altro. Ma Paolo, ogni volta che si tratta di parlare di schiavi, ribadisce che si devono comportare bene e rispettare i loro padroni. Naturalmente anche i padroni devono essere gentili con gli schiavi, come Filemone sarà gentile con Onesimo. Tutto qui: fine della dottrina sociale di Paolo.


Paolo detta una lettera a Onesimo
“Il cristianesimo ha affrancato gli schiavi”. Prima ancora che comparisse nel Dizionario dei luoghi comuni, Flaubert aveva messo in bocca la banalità al farmacista Homais, che in Madame Bovary funge da erogatore di bêtises e fake news. Nell’Ottocento era un meme che circolava sia tra i difensori del cristianesimo (Chateaubriand) che tra i laicisti e gli anticlericali a cui premeva definire il cristianesimo antico come un movimento sociale che aveva cambiato la Storia, una specie di pre-socialismo tardoantico che comunque aveva fatto il suo tempo. La curiosa alleanza tra sostenitori e detrattori ha fatto sì che il luogo comune continui a prosperare anche sui manuali scolastici, il che poi alla fine spiega come mai siamo tutti abbastanza convinti che la schiavitù in Europa termini grosso modo nel IV secolo, in parte soppiantata dalla servitù della gleba (che poi non è che fosse una condizione così migliore), per riaffiorare all’improvviso nelle colonie americane mille anni dopo. Il fatto che le cosiddette repubbliche marinare (Genova, Venezia, Amalfi) fossero durante il Medioevo fiorenti mercati di schiavi, di solito ai ragazzini non lo insegniamo: preferiamo parlare di cose più raffinate, seta, pepe, cannella. Le autorità ecclesiastiche del resto non è che vedessero di buon occhio il traffico di carne umana: ma il fatto che ancora nel 1000 emanassero leggi per proibire almeno la vendita di schiavi cristiani ai signori musulmani ci fa capire che il commercio continuava eccome: nel Domesday Book, il preziosissimo censimento dell’Inghilterra normanna (1086), il 10% della popolazione inglese risulta composta di schiavi. Un inglese su dieci – evidentemente no, il cristianesimo non li aveva affrancati tutti.

"Prega il tuo Dio, Anassameno!"
Come tutti i luoghi comuni, anche il cristianesimo antischiavista contiene una sua frazione di verità: il periodo in cui il nuovo credo si impone nell’impero è lo stesso in cui grazie alla pax Romana la schiavitù effettivamente declina e milioni di persone in tutto l’impero conquistano la libertà – magari per scoprire che la vita fuori dalla schiavitù non è tutta rose e fiori: senza più padroni, chi si preoccuperà del loro (molto relativo) benessere? Della loro salute, del vitto; chi offrirà loro una rete di solidarietà e anche solo la possibilità di conoscere altre persone, magari di creare una famiglia? Più che aver causato la fine della schiavitù, la Chiesa nasce e si sviluppa come risposta a una serie di necessità che la fine della schiavitù stava creando. Dev’essere una nuova fede, perché gli vecchi Dei sono amici dei padroni. Il nuovo Dio deve arrivare da lontano, originare da qualche angolo remoto dell’impero, come i tanti liberti delle metropoli globalizzate che non sanno più nemmeno da che strada romana arrivava il nonno in catene. Deve predicare l’uguaglianza, se non davanti alle leggi degli uomini almeno davanti a Dio, perché si prega in assemblee trasversali, dove la matrona generosa s’inginocchia vicino all’ex schiava con la quale magari è rimasta in buoni rapporti. L’idea di usare come simbolo la Croce, il supplizio degli schiavi ribelli (la croce di Spartaco, prima ancora di Cristo): è molto tarda; all’inizio la croce è un’immagine fastidiosa, la prima volta che compare è un segno di scherno. Quando poi con le invasioni barbariche l’Europa torna a riempirsi di schiavi, il Cristianesimo ormai è un potere egemone che accetta la nuova situazione senza entusiasmo, ma sempre evitando lo scontro frontale. “Voi servi siate docili in tutto con i vostri padroni terreni; non servendo solo quando vi cedono, come si fa per piacere agli uomini, ma con cuore semplice e nel timore del Signore”: lo scrive Paolo, proprio nella lettera che Onesimo avrebbe recapitato a Colossi.

Non proprio le parole di un liberatore: né aveva senso aspettarsi qualcosa di più estremo da lui. Paolo non aveva nessuna intenzione di liberare il mondo dalla schiavitù: senz’altro gli interessava liberare una risorsa umana, Onesimo, che gli sarebbe stata molto utile come collegamento con tutta una serie di comunità di lingua greca e fede cristiana. Questo gli premeva, in vista del Giorno del Giudizio: quanto a ribaltare la società, senz’altro no; non ci pensava, non c’era tempo. Tutte le sue lettere, anche le più teologiche e sistematiche, sono sempre testi occasionali, studiati per determinate comunità in determinati momenti. Il vero fondatore della Chiesa non ha mai scritto un trattato per spiegare in generale come la vedeva, questa Chiesa. Niente libri: solo lettere, messaggi, comunicati, circolari. Forse non ha fatto in tempo; eppure la fine quando arrivò non fu esattamente imprevista. Forse non se ne riteneva capace, forse per lui i libri importanti erano quelli scritti dai colleghi, che portava con sé e magari stava ispirando, i Vangeli e gli Atti. E forse semplicemente Paolo di Tarso non pensava che ci fosse tutto questo tempo per dare ai suoi insegnamenti un impianto sistematico. Non era solo Paolo ad avere poco tempo: era il mondo a essere agli sgoccioli.

Per capire Paolo dobbiamo capire questa cosa: lui era realmente convinto di vivere nell’imminenza della fine, in un istante protratto in cui è senz’altro segno di saggezza continuare a comportarsi compostamente, rimanendo ai propri posti nella società (guai a chi smetteva di lavorare o lasciava la famiglia), ma senza darsi troppa pena di indagare sul perché quella società fosse fatta proprio così: dopotutto stava per finire. Ancora poco e non ci sarebbero più stati né padri né figli, né padroni, né schiavi, né lavoratori né lavori: quindi perché perdere tempo a protestare su queste sciocchezze? In una delle ultime pagine degli Atti, Luca lo descrive a bordo di barcone alla deriva nel Mediterraneo, proprio nei luoghi dove oggi Ong e Guardia costiera soccorrono i migranti. Il ritratto è così nitido che ci sembra impossibile che Luca non fosse a bordo con lui. Paolo non sa nulla di navigazione, ma a un certo punto decide che la nave si salverà e che l’equipaggio sarà risparmiato: e da quel momento prende il controllo. Esorta marinai e passeggeri a non mollare, a nutrirsi quando è il momento. Lui sa che ce la faranno, ha fatto un sogno. Alla fine il barcone arriva proprio Malta, isola di indigeni ospitali: Luca perlomeno li ricorda così. L’episodio è straordinariamente realistico, ma lo possiamo leggere anche come una riflessione sul ruolo dell’apostolo. Paolo non è un leader politico, non è un teorico, non spiega ai marinai il proprio mestiere né ha una rotta da consigliare. Paolo è un passeggero come gli altri che ha una sola cosa da dire: ci salveremo, tenete duro, non smettete di mangiare e ognuno resti al proprio posto. Lo schiavo faccia lo schiavo, il comandante faccia il comandante, quanto a me sono il tramite con Dio e Dio vi fa sapere che ci salverà, Gesù sta arrivando.

Qualche tempo dopo Paolo è morto, Gesù non è arrivato, e duemila anni dopo stiamo ancora usando le istruzioni sui biglietti che Paolo ci ha lasciato per la gestione provvisoria – come se uno lasciasse detto ai figli bagnatemi i fiori e ogni due giorni vuotate la cassetta del gatto, e dopo duemila anni ancora i pronipoti bagnano i fiori e vuotano la cassetta per timore che gli antenati si arrabbino, il gatto non c’è ovviamente più ma nel sacro biglietto c’era scritto così, il cristianesimo è un piano per un emergenza che non scatta mai.
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San Cirillo (non scriveva in cirillico)

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14 febbraio – Santi Cirillo (827-869) e Metodio (815-885), linguisti, missionari, disegnatori di alfabeti

Cirillo e Metodio reggono l'alfabeto
(sbagliato).
[2013]. Nel giorno di San Valentino, mentre tutto il mondo cattolico e no si preoccupa di scambiarsi sciocchi e futili pegni d’amore, i linguisti ricordano i loro Santi, i loro eroi. I fratelli Cirillo e Metodio non inventarono, come dicono in tanti (e l’ho detto tante volte anch’io) l’alfabeto cirillico, il più usato da Belgrado a Vladivostok, il primo a lasciare la Terra con gli Sputnik. Più probabilmente l’alfabeto da loro disegnato è il glagolitico, che nelle steli più antiche che ci sono rimaste è un bizzarro mosaico di aste e cerchiolini che avrebbe potuto inventarsi un Tolkien ubriaco di sidro. In ogni caso è stato il primo alfabeto slavo (prima forse c’erano delle rune di cui si è persa ogni traccia, scarabocchi da stregoni, niente che valesse veramente la pena). Se l’invenzione della scrittura è il discrimine tra Storia e preistoria, la Storia slava comincia tardissimo, con questi due fratelli linguisti che non erano nemmeno così slavi. Forse da parte di madre (si chiamava Maria). Il padre, Leo, era un graduato dell’esercito bizantino a Tessalonica, oggi Salonicco, Grecia. Non chiedetevi cosa ci facesse una slava a Salonicco. Già da qualche secolo gli slavi erano un po’ dappertutto tra steppe e Balcani. Lo stesso nome, “slavi”, era già un sinonimo per lavoratore di infimo grado, senza diritti, alla mercé del padrone (oggi si dice “precario”): allo stesso modo in cui chiamiamo “polacche” le badanti anche quando sono bielorusse, a quel tempo se la tua matrona si lamentava di non aver tempo per svuotare la fossa biologica le rispondevi “pigliati una sklava, una slava”, poi in italiano è diventata schiava e in inglese slave. Ora che lo sapete ogni volta che dite “slavo” vi sentirete in imbarazzo, e prima o poi bisognerà porsi il problema di quanto sia poco politically correct chiamarli così, invece di, boh, persone “diversamente europee”? No, ma pensiamoci.

Stella gialla sul Caucaso
Dei due il primo a far parlare di sé è il secondogenito, Cirillo. Pensate a lui come quel classico compagno di scuola che senza fatica prende tutti i dieci nelle lingue straniere, ogni volta che apre la bocca sembra che qualcuno abbia cambiato la lingua del film col telecomando, è un dono di natura. Cirillo parlava greco e slavo ma questo era il minimo, Cirillo parlava anche correntemente l’arabo e il samaritano. L’ebraico no perché ai suoi tempi era una lingua morta come oggi il latino, usata soltanto nei riti religiosi (nell’uso comune è risuscitata molto più tardi): sapeva comunque leggerlo. Il talento per le lingue gli consentì di viaggiare per una buona parte del mondo conosciuto. In un secolo in cui solo i militari mettevano il naso fuori dai confini del proprio feudo, Cirillo fu inviato dai bizantini presso il califfo al-Mutawakkil: scopo della missione, spiegare la trinità ai teologi islamici (e poi forse c’erano altre questioni diplomatiche che non sappiamo).

Possiamo dedurre che fu un buco dell’acqua, da un punto di vista teologico perlomeno: l’Islam continuò a contrapporre il suo monoteismo radicale alle strane derive triangolari degli infedeli. Forse prima di spiegare la trinità ai musulmani avrebbero fatto meglio i teologi del tempo a spiegarsela tra loro, visto che stavano ancora litigando sul cosiddetto "filioque", a grandi linee la posizione del Figlio rispetto allo Spirito Santo (diatriba non ancora del tutto risolta). In ogni caso Cirillo si difese bene, e qualche tempo dopo fu inviato presso i Khazari, quel popolo di cui nessuno vi ha mai parlato a scuola perché scappa da ridere anche agli insegnanti quando sarebbe ora di parlare dei Khazari; e dire che ci si potrebbe scrivere un post bellissimo solo sui Khazari, il cui khanato si estendeva dalla Crimea al Lago d’Aral: una potenza militare che i bizantini corteggiavano da più di un secolo. Poco tempo prima i clan della classe dirigente khazara avevano preso una decisione singolare: volendo abbandonare la vecchia religione del loro passato nomadico e passare a uno di quei monoteismi moderni che andavano così di moda, avevano optato per… l’ebraismo, il più sfigat diversamente fortunato dei tre. Cirillo era stato inviato forse per invitarli a desistere, a preferire il bel credo niceno-costantinopolitano: anche in questo caso niente da fare, tutti probabilmente lodarono il suo bell’accento khazaro, ma nessuno fece caso ai contenuti.

La conversione dell’ebraismo dei khazari è a tutt’oggi una questione molto controversa, perché anche se oggi sono una curiosità di eruditi, tra il settimo e il decimo secolo erano una nazione popolosa, o come si diceva nella zona, un’orda. Erano già il risultato di infinite mescolanze euroasiatiche, e tra loro vivevano ebrei sin dai tempi della diaspora e forse anche da prima. Ma è corretto affermare che a un certo punto l’ebraismo divenne la loro religione di Stato? Magari fu solo la mania passeggera della corte e di qualche ricca famiglia, come quando Madonna portava i braccialetti della kabbalah, chi lo sa. La questione è delicata perché dopo essere stati la potenza egemone dell’Europa orientale, a un certo punto i khazari scomparvero, sconfitti militarmente dai russi di Kiev e assorbiti dalle altre orde che si muovevano in zona. L’ipotesi che possano essere gli antenati degli ebrei aschenaziti dell’Europa orientale (popolarizzata da Arthur Koestler nella Tredicesima Tribù) è suggestiva, ma è stata smentita dagli studi sul DNA e sopravvive su internet sotto forma di bufala antisemita: svegliaaaAAAAAA! Dicono che i loro antenati vivevano in Israele ma invece erano khazzariiiii!!!!!111.

Stele di Bascanska (isola di Krk),
il più antico documento in glagolitico
La terza missione di Cirillo è quella che finalmente avrà qualche conseguenza. Si tratta di accogliere un invito di Rastislav, principe della Grande Moravia, che, pur essendosi fatto battezzare e investire vassallo del Sacro Romano Impero, non gradiva le ingerenze dei vescovi tedeschi inviati dall’imperatore. Rastislav avrebbe preferito che i suoi sudditi non imparassero il cristianesimo dai tedeschi: da chiunque ma da loro no. Aveva anche provato a rivolgersi al Papa, senza grossi risultati. Quando invece chiese a Costantinopoli, loro inviarono prontamente (863) Cirillo il linguista e suo fratello Metodio. Bisogna però spiegare cos’è questa Grande Moravia, visto che la Moravia attuale è solo una regione della Repubblica Ceca. Ma quasi tutte le regioni dell’Europa dell’est hanno avuto diritto ai loro 150 anni di gloria in cui erano grandi nazioni sulla cartina: per esempio la Moravia ai tempi di Cirillo si estendeva tra le odierne Polonia, Rep. Ceca, Slovacchia e Ungheria. Una nazione enorme disposta a rinunciare al proprio paganesimo ma non alla lingua, che Cirillo trovava abbastanza simile al dialetto che parlavano gli operai e sua madre a Salonicco. Ci confermano i linguisti che nel secolo IX la lingua slava non si era ancora differenziata in slavo occidentale (ceco, polacco), slavo orientale (russo, ucraino) e slavo meridionale (bulgaro, serbocroato). Era ancora un brodo primordiale comune, il cosiddetto protoslavo. Cirillo lo considerava una lingua matura, degna di una cultura e di una letteratura, che a quei tempi poi significava soprattutto il diritto ad avere una traduzione del vangelo e un messale. Diritto tutt’altro che scontato, se pensate che nello stesso periodo il volgare italiano non era considerato degno di trascrizione: bisognerà aspettare un altro secolo perché un notaio capuano si rassegni a scrivere in mezzo a un lascito in latino la trascrizione di una dichiarazione giurata in una lingua diversa, Sao ko kelle terre per quelli fini que ki contene eccetera. Ma è solo un atto notarile, per la poesia ci vorrà ancora qualche centinaia d’anni, e di messe in volgare italiano non si parlerà seriamente fino al 1964.

Le lingue slave in Europa, oggi
I moravi invece, grazie a Cirillo e Metodio e ai loro studenti dell’accademia morava, verso l’880 avevano già un messale in una lingua che chiamiamo paleoslavo, o antico slavo ecclesiastico; scritto in un alfabeto che Cirillo aveva voluto radicalmente autonomo, diverso sia dal greco che dal latino.

Intanto l’arcivescovo di Salisburgo mormorava. In teoria la Grande Moravia rientrava nella sua giurisdizione, ma quelli pretendevano di pregare nei loro astrusi borborigmi invece che in latino. Alla fine il mormorio arrivò a Roma, e Cirillo dovette andare a spiegarsi presso Niccolò I. In quell’occasione fu davvero bravo: ebbe il colpo di genio di portare in dono le reliquie di San Clemente, ritrovate in Crimea dove l’ex vescovo di Roma, il primo successore di Pietro di cui si abbiano riferimenti storici, era stato esiliato e martirizzato nel 99 (tra parentesi: Clemente è il primo caso attestato di papa costretto, per ragioni di forza maggiore, a farsi sostituire). Non c’è nulla come qualche osso morto di martire per cementare un’amicizia tra chierici, ma Niccolò dovette anche ammirare l’erudizione di Cirillo e il fatto che, malgrado fosse un inviato di Costantinopoli, avesse preferito non imporre la lingua o l’alfabeto greco. Oggi noi associamo immediatamente il cirillico coi riti ortodossi, ma nel primo secolo il suo destino dipese da Roma: furono i vescovi di Roma a vietarlo perché anti-latino, o autorizzarlo perché diverso dal greco.

Questo è un glagolitico quadrato che si sviluppa in Croazia,
già un po’ più simile al cirillico medievale
Cirillo aveva girato il mondo dal Medio Oriente ai Carpazi, ma a quanto pare fu la fatica del viaggio a Roma a ucciderlo: prima di morire decise di farsi monaco, e fu a quel punto che assunse il nome di Cirillo, fino a quel momento tutti lo chiamavano Costantino. Qualche mese dopo moriva anche il Papa. Il suo successore, Adriano II, concesse agli slavi della Grande Moravia di pregare e leggere la Bibbia nella loro lingua e nel loro alfabeto. Nel frattempo però la Grande Moravia non era più tale, il principe Rastislav era stato sconfitto dal nipote collaborazionista Svatopluk, che lo avrebbe consegnato ai tedeschi. Metodio trovò più prudente stabilirsi nel principato di Balaton, oggi in Ungheria – e non c’è bisogno di dirvi che l’ungherese non assomiglia allo slavo neanche da lontano, l’ungherese non assomiglia a nulla, non è nemmeno una lingua indeuropea. A quel tempo però la situazione intorno al lago Balaton era più fluida, c’erano molti slavi e Metodio si fermò là: molto più vicino al suo arcinemico, il vescovo di Salisburgo. Quando questi riuscì a farlo arrestare, nell’871, Metodio scrisse al papa (Giovanni VIII) che confermò di averlo ordinato vescovo di Moravia Pannonia e persino, crepi l’avarizia, Serbia. Gli proibì però di dir messa in paleoslavo, il che dovette risultare molto frustrante: un papa dice di sì, un altro no…

Metodio decise di non curarsene e continuare a pregare nella lingua messa in iscritto da suo fratello. Il filotedesco Svatopluk, che non poteva sopportarlo, mandò i suoi agenti a fare una soffiata a Roma: Metodio continua a usare quei simboletti pagani, e in più non dice “filioque” nel Credo! In teoria era un’accusa infamante, la necessità di inserire la parola “filioque” nel Credo stava lacerando definitivamente i rapporti tra Roma e Costantinopoli, tra rito romano e greco. Ma a quanto pare la spiata di Svatopluk fu un buco nell'acqua: ai tempi di Metodio persino a Roma non avevano ancora cominciato a dire “filioque”. Era una cosa più settentrionale, il Papa era d’accordo ma a Roma ancora non si usava, le abitudini sono sempre più forti delle teologie. Comunque Metodio in quell’occasione riuscì a dimostrare la sua fedeltà a Roma e a strappare un consenso informale per il rito paleoslavo. Finché Metodio fu vivo l’alfabeto continuò a circolare.

Il cirillico nel mondo. Le nazioni in verde chiaro
usano anche altri alfabeti, per esempio in Uzbekistan
stanno cercando di smettere, ma è più difficile
di quanto sembri.
Alla sua morte, nell’885, i suoi successori litigarono col nuovo papa e furono cacciati; i testi in paleoslavo glagolitico furono distrutti e sostituiti col latino. Anche l’ultima missione di Cirillo sembrava destinata al fallimento; senonché i suoi discepoli riuscirono a trovare un impiego molto più a sud, nel Primo Impero Bulgaro - esatto, è esistito un Impero Bulgaro, anzi più di uno. I bulgari in realtà erano di origine turca, o forse mongolica, ma già a quel tempo i geni delle steppe cominciavano a perdersi nel DNA slavo come gocce nel mare. Lo zar, Boris I, aveva da tempo accettato di convertirsi al cristianesimo, per il solito motivo che ai sovrani un monoteismo gerarchico dopotutto conviene. Però anche lui malsopportava l’idea di dover accettare vescovi greci, liturgia greca, santi in lingua greca. I reduci dell’esperimento glagolitico trovarono rifugio nelle accademie da lui fondata a Preslav e Ocrida; fu lì che nacque il vero alfabeto cirillico, molto meno arcano nell’aspetto, più simile ai parenti prossimi latini e greci. Di glagolitico nei caratteri ce n’è rimasto poco, giusto qualche ombra di runa qua e là; la dedica a Cirillo è ugualmente meritata, grazie a lui le lingue slave uscirono dalla preistoria e scoprirono di non avere nulla da invidiare alle lingue degli ex padroni. I due fratelli sono stati proclamati patroni d’Europa da Giovanni Paolo II, un altro studioso con l'orecchio assoluto per le lingue. Qui la pro-loco ucraina vi traslittera i nomi in cirillico, arrivederci alla prossima, vostro Лэонардо.
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La martire aveva mille denti

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9 febbraio – Santa Apollonia martire, invocabile contro il mal di denti


Apri grande, non ti faccio male
[2013]. A un certo punto – eravamo già nel Settecento – i denti di Sant’Apollonia in giro per la cristianità erano così tanti che persino il papa (Pio VI) decise di farla finita: se li fece consegnare, li chiuse in un baule che a detta degli osservatori pesava diversi chili, e li gettò nel Tevere. Erano probabilmente svariate centinaia. D’altro canto un dente è una reliquia perfetta: facile da trovare e da conservare. Commerciare denti è intuitivamente più semplice di trafficare clavicole. Mancava ancora più di un secolo alla messa in commercio dei primi analgesici.

E pensare che l’Apollonia vera di denti probabilmente ne aveva ben pochi. Se mai è realmente esistita; ma rispetto ad altre martiri del terzo secolo la sua storia appare più verosimile. Molto prima di diventare la giovane principessa standard insidiata dal re cattivo, nel primo resoconto di Dionigi di Alessandria, Apollonia era una vecchietta. Non fu vittima di una persecuzione imperiale, ma di un linciaggio durante uno di quei tumulti che opponevano comunità religiose diverse nella metropoli egiziana, milleottocento anni fa come oggi. I denti li avrebbe persi durante la colluttazione; le tenaglie vengono aggiunte dopo dalla fantasia popolare.

In virtù del doloroso incidente Apollonia si assume il patronato del mal di denti, che la renderà una delle sante più invocate per più di un millennio. Entra quindi a far parte dei quattordici ausiliatori, una specie di prontuario medico medievale che prescriveva Sant’Acacio contro l’emicrania, Santa Barbara contro la scossa, San Biagio contro il male alla gola, Santa Caterina d’Alessandria (che non tace mai) contro le laringofaringiti, San Ciriaco contro le ossessioni diaboliche, San Cristoforo contro la peste, San Dionigi contro i dolori alla testa, Sant’Egidio contro le crisi di panico, Sant’Erasmo contro i dolori addominali, Sant’Eustachio contro le scottature, San Giorgio contro le dermatiti, Santa Margherita per partorire senza problemi, San Pantaleone per morire senza troppe sofferenze, San Vito contro l’epilessia.

Il caso di Apollonia è particolare per un altro motivo: dopo averle fatto cadere i denti – e preparato già il falò – i suoi persecutori le proposero infatti di rinnegare la fede cristiana, bestemmiando un po’, la solita procedura. A quel punto Apollonia si fece slegare e si gettò da sola, volontariamente, tra le fiamme. Il che creava qualche perplessità anche negli antichi padri della Chiesa: un conto è desiderare il martirio, un conto è procurarselo da soli, la sfumatura è importante. Agostino in particolare si mostra un po’ scandalizzato dalla prospettiva che le martiri facciano tutto da sole senza chiedere aiuto ai maschi.

Apollonia è copatrona di Catania (la città delle tenaglie) e patrona di Cantù, di Ariccia e di tutti noi, ogni volta che sentiamo la testa vibrare in risonanza col trapano, e ci sembra di avere mille denti, e ce li faremmo togliere tutti.
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Stamattina ci siamo svegliati

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Giusto un attimo per ricordarvi che mentre il dibattito quotidiano politico in Italia è impigliato su una ripicca coi francesi, in parlamento si sta per sancire l'autonomia amministrativa di tre delle regioni più ricche d'Italia in materia di istruzione e sanità. Un provvedimento che renderà le scuole e gli ospedali di queste tre regioni decisamente più ricche, e quelle del resto d'Italia considerevolmente più povere.

Un risultato che dimostra la perfetta continuità della Lega di Salvini con quella di Umberto Bossi (che a questo punto rischia di finire nei libri di Storia come il leader politico più influente e importante della Seconda Repubblica); la colpevole cecità del Movimento Cinque Stelle, che come previsto va dove lo portano (dimostrando una volta in più che valeva la pena di portarlo da qualsiasi parte che non fosse la Lega); la connivenza dei dirigenti Pd che, malgrado siano in piena campagna per le Primarie, sull'argomento glissano: forse perché una delle tre regioni è l'Emilia-Romagna.

In mezzo a tutto questo, c'è una realtà che non ha smesso di parlare dell'argomento, nelle assemblee con gli iscritti e nella comunicazione sui quotidiani, e di lasciarlo bene in vista sul tavolo delle discussioni, ed è ovviamente il sindacato. Magari teniamocelo in mente per la prossima volta che a sinistra qualcuno si domanderà a cosa serve – domanda, per carità, legittima e che tutti dovremmo farci ogni tanto. (Tutti, però).

Nel caso del sindacato ho sentito dire che serve a rappresentare le istanze dei lavoratori, e a volte anche a darvi la maledetta sveglia, dormiglioni, qua stanno a smontare il welfare e per voi il problema è se Di Maio sbaglia un aggettivo. Il sindacato intanto oggi sfila a Roma, io non potrò esserci perché non è stato indetto lo sciopero, ma questo blog oggi si considera lì.
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Ad Agata (non voglio più pensare)

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5 febbraio – Sant’Agata (230-251), martire ignifuga.

Agata è stata la santa che più ha fatto per rendere accettabile
in chiesa il nudo femminile, ma per molto tempo i pittori non
hanno potuto fare a meno di corredarla di tenaglie.
Questo è Sebastiano del Piombo.
[2013. Dopo sei anni di attesa, il restauro della Pieve Matildica dovrebbe iniziare quest'anno]. 

Agata ha solo 15 anni, quando il proconsole di Sicilia Quinziano le mette gli occhi addosso: giovane, ricca, consacrata a Cristo. Poiché non cede né alle proposte né alle minacce, la consegna a una cortigiana, tale Afrodisia, acciocché la rieduchi ai costumi pagani: banchetti, orge, prostituzione sacra… niente da fare. “Ha la testa più dura della lava dell’Etna”, dice Afrodisia, rispedendola al mittente.

Si passa così alla tortura. Le stirano le membra, la lacerano con pettini di ferro, la scottano con lamine infuocate. Lei resiste; allora le strappano i seni con le tenaglie. Verrà nottetempo Pietro apostolo nella sua cella a fargliele ricrescere. Infine l’empio Quinziano decide di farla alla brace, ma il suo velo rosso (simbolo di verginità) resiste al fuoco. È il primo tessuto ignifugo della storia. I catanesi lo usano ancora per fermare le eruzioni di lava. Agata se la cava bene anche con le pestilenze e i terremoti, in generale con tutte le sfighe che possono capitare in una città mediterranea tra una faglia sismica e un vulcano.

Attribuito ad Andrea Vaccaro.
Il dettaglio del sangue sulle dita
Mille chilometri più a nord, Sant’Agata era l’unico dipinto a olio di un certo valore nella Pieve di Sorbara (MO), oggi è sagra anche lì. Per molti anni non ho neppure fatto caso al seno che portava sul vassoio; poi a un certo punto ho imparato la storia, e da quel momento non c’è stato più verso di passarci davanti senza pensare ad Agata, al seno, alle tenaglie, al seno, alle tenaglie, al seno, tutti pensieri che non si dovrebbero portare in chiesa, ma una volta fatti entrare non c’è modo di buttarle fuori, le tenaglie, e il seno, e un seno preso a tenaglie. Agata ma quanto doveva esser brutto quel Quinzano per voler più bene alle tenaglie, Agata; ci fossi stato io al tuo posto, quanto presto avrei tradito il mio padre e i miei compagni.

“Scambiamoci ora un segno della pace”.
“La pace sia con te”.

Agata scusa posso chiedertelo: quanti seni hai? Due sul vassoio ok, ma sul serio ne hai altre due al loro posto? Dalla posa non sono in grado di farmi un’idea, e tuttavia sarebbe molto più sano per me pensare che ce le hai, e tuttavia non posso fare a meno di domandarmi: che senso ha fartele ricrescere la notte prima che t’ammazzino?

“La messa è finita andate in pace”.

Come, è già finita? Vuoi dire che è da mezz’ora che sto solo pensando a tette e a tenaglie?


Giovanni Carlani, 1616 (Edimburgo).
Quando ero piccolo era diverso, ma c’è da dire che a quei tempi il vassoio probabilmente non si vedeva bene, il quadro era stato restaurato più volte da imbrattatele che non si accontentavano di togliere il fumo delle candele, no, erano artisti, loro, volevano lasciare il segno, loro. Oppure risentivano delle oscillazioni della committenza. Il seno su un vassoio magari a un arciprete non piaceva – in effetti è abbastanza ripugnante se ci rifletti – e lo toglievano; poi ne arrivava un altro che ci teneva – dopotutto è una tradizione millenaria – e lo rimettevano; qualcuno aveva pensato bene di aggiungere il campanile di Sorbara sullo sfondo; finché un altro arciprete si sarà chiesto: Agata è una siciliana del terzo secolo, che senso ha il campanile di Sorbara sullo sfondo? Niente, però sta bene. È un campanile ottocentesco, che somiglia a tutti i campanili ma è in un qualche modo diverso. Per capirlo però devi andartene, girare il mondo, dare un’occhiata a tutti i campanili che trovi, e poi tornare al tuo paese e dire: dai, mica male il campanile. Ha un suo stile. Forse è il tetto che fa la differenza, non ne trovi molti fatti a punta così: è stravagante senza dare nell’occhio, non ci tiene a essere diverso ma semplicemente lo è.

Sotto il campanile la pieve invece è un patchwork di cose messe assieme da generazioni di arcipreti dotati più di spirito di iniziativa che di senso estetico. È in piedi dall’anno Mille, quando però era più alta (pian piano si è interrata, poveretta, viviamo tutti su un budino) e a navata unica: adesso ne ha cinque, un tripudio di colonne che facevano imprecare i fotografi ai matrimoni, non si riesce a inquadrare mai niente, solo colonne colonne colonne. Io il prete l’avrò visto in faccia dopo tre anni di messa, all’inizio era solo un vocione che rombava dagli altoparlanti e rimbalzava sulle volte nel soffitto. Facciata cinquecentesca, stucchi settecenteschi, all’interno una madonna di Lourdes di quelle biancazzurre fatte con lo stampino – però ad altezza naturale. E un’altra Madonna in baldacchino, modello Carmelo, una bomboniera. Vetrate neocubiste anni Settanta. In mezzo a tutto questo l’olio di Sant’Agata sembrava un Tiziano. Crescendoci assieme perlomeno avevo questa sensazione, poi si cresce, si gira il mondo e le pinacoteche, e quando torni nemmeno Agata non ti sembra un granché, è naturale.

Siccome la vita non assomiglia, in generale, a una storia di Santi, devo dire che l’effigie di Agata non ha potuto un granché contro il terremoto dell’anno scorso. Cioè. Dipende. La chiesa è effettivamente ancora su, altre non ce l’hanno fatta, forse in altre epoche avremmo gridato al miracolo e portato Agata in processione. Ma la chiesa è comunque pericolante e i lavori di ristrutturazione sono fermi, i Beni Culturali non sanno dire quando sarà rimessa in sesto, se lo sarà. Da sei mesi la messa si celebra nella sala polivalente dell’Oratorio, che per fortuna era stata ristrutturata pochi anni fa, cioè, aspetta, pochi – venti. Hanno tolto le panche, le statue, immagino che anche Agata sia al sicuro, mi domando che effetto deve fare la Pieve adesso. Tutta vuota. Come casa tua nel momento in cui chiudi la chiave per l’ultima volta e la passi a uno sconosciuto.

Insomma stanno aspettando di vedere se casca. Dipende molto da come va lo sciame, se la faglia non si riattiva ecc. Sono quei momenti in cui mi dispiace di essere me e non una persona più interessante, più compiuta, più successful, perché magari basterebbe questo a sbloccare la situazione, a togliere la pieve matildica dal lato basso del foglio delle priorità. Se fossi famoso, magari anche morto, ti immagini? la chiesa in cui il famoso tizio visse i suoi primi vent’anni, nell’atmosfera rustica e mistica insieme in cui attecchirono i semi che avrebbero generato il suo magnum opus, La Rubrica Dei Santi Del Post, ecco, magari a quel punto la sovrintendenza potrebbe decidere di sgaggiarsi. Poi per carità, tutto deve cadere prima o poi, siamo cenere ed è cenere persino il marmo della nostra tomba; ci mette un po’ di più ma è cenere comunque. Io nella pieve di Sorbara suonavo spesso la chitarra. La suonavo forte e male, nel deliberato intento di scandalizzare i benpensanti e spiazzare i malpensanti; irridevo le composizioni fiorite del post-progressive cattolico e predicavo una specie di ritorno alle radici, agli inni primordiali, di cui in certe messe pomeridiane molto intime proponevo delle rivisitazioni piuttosto punk, che Agata immobile era costretta ad ascoltare, povera Agata, quante volte avrai rimpianto che Quinziano si fosse fissato sui seni, che non ti avesse voluto strappare le orecchie. Ma esagero, in realtà ero un musicista di servizio, abbastanza duttile, suonavo anche nelle situazioni in cui nessuno se lo sentiva: i matrimoni di gente sconosciuta in paese, e i funerali. Quanti funerali.

Per me sono stati importanti, lo dico anche a volte in classe: ma voi, fanciulli, ci andate mai ai funerali? Ci siete entrati almeno una volta in un cimitero? È una cosa importante, una cosa della vita, prima o poi succede a tutti e non vi augurate certamente che succeda per primi a voi: quindi vi dovete abituare all’idea di accompagnare i vostri parenti, i vostri amici, a me è successo, è una cosa naturale, e che c’è Nizzoli?

“Posso andare in bagno?”
Per essere un villaggio di 3000 anime ha una skyline interessante
– la costruzione monumentale grigia è un mangimificio,
i vicini di casa non captavano Videomusic.
Nizzoli ma è possibile che tu abbia un’autonomia di un quarto d’ora, ma il giorno che seppelliscono me e c’è da accompagnarmi al camposanto, centocinquanta metri in linea d’aria, ce la fai a stare nel corteo o ti tocca farti mettere un catetere? Vai, vai. Stavo dicendo?
“Che è importante andare ai funerali”.
Sì. L’ultima volta che ci sono andato Agata fu testimone di questa storia assurda, io ero nella prima panca, quella su cui nessuno vuole sedersi. Durante le letture, molto belle, le avevo scelte io, aveva squillato a lungo un cellulare. Tipico. Ma eravamo credo già alla predica quando una signora si fece avanti, una matta – non lo sapevo, me lo dissero poi, manco le matte del mio paese riconosco – si fece avanti fino alla mia panca e si scusò per essere in ritardo, e chiese se faceva in tempo a vedere il morto. Poi indicò la cassa, che stava davanti a noi, e mi chiese: “È lui il morto?”

È lui il morto.
Questa non so proprio di chi è, aiutatemi voi.
Certi quadri vagano per l’internet senza più attribuzione,
come gli inni sacri fotocopiati nei canzonieri.

E io nella prima fila, le lacrime strette in fondo agli occhi, che già mi domandavo come avrei fatto a uscir fuori da lì e farmela a piedi fino al cimitero, io la guardavo e non capivo cosa stesse dicendo, certo che è lui il morto non lo vede? Le sembra il momento di scherzare? È lui il morto? Posso avere nella vita un momento, uno solo, che non sia quello di scherzare? È una cassa chiusa con le viti, i bulloni, il sottocoperchio zincato sotto il coperchio di legno, certo che è lui il morto, cosa vuole da me? Vuole che portino via me invece? Ho domandato, sa: non si può.

M’avesse preso Quinzano in quel momento, con dieci tenaglie, con cento, non avrei detto una parola, tutto giustissimo, tutto appropriato, morì sotto Decio imperatore, di lui resta un ritratto a olio pregevole in una chiesa che tra un po’ viene giù. Invece sono vivo e non ci vado più ai funerali. Mi sono stancato, in quel preciso momento. Continuo a pensare alla matta, alla bara, ai bulloni, alla bara, alla matta, pensieri che una volta che ti sono entrati in chiesa, in testa, non c’è verso di farli saltar fuori; uscirà tutto il resto – le panche, l’altare, le chitarre – loro resteranno lì.

Agata aveva quindici anni; secondo altri ventuno.
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Nascondici o Geminiano

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31 gennaio – San Geminiano (312-397), patrono e difensore di Modena, Attila non passerà!

Sono Geminiano, e ogni 31 gennaio
mi scoperchiano la tomba
per traumatizzare i bambini
[2013]. È il 31 gennaio e dovrei parlare di Modena e del suo biancobarbuto patrono, ma non ci ho voglia. Se proprio devo dirla tutta, io ho sempre tifato Attila. Quante volte a un semaforo, o errando alla vana ricerca di un parcheggio, o nel fetore piccionesco del centro l’ho invocato: vieni Distruttore, fin troppo hai errato nella valle, salta fuori dalla nebbia e ràdici al suolo...

E invece no, Attila non s’è mai fatto vivo. Era atteso per il 452, aveva già devastato Aquileia – cos’è Aquileia? Niente, appunto, da quando ci passò Attila. Ma prima era la quarta città italiana per grandezza. E poi aveva saccheggiato Padova, Bergamo, e un sacco di altre città che terrorizzate gli aprivano le porte senza neanche provare a resistere. Ma Mutina (Modena) no, Mutina attivò lo schermo protettivo, ovvero invocò il patrono e questi benigno dall’aldilà fece scendere la nebbia.

La leggenda tradisce il pregiudizio che Attila fosse un coglione, un subumano, uno che attraversa la Valpadana come una steppa senza fare neanche caso alle strade romane, che pure son lì, sono comode, tu prendi la Aemilia (oggi SS9) a Mediolanum (Milano) in direzione Ariminum (Rimini), e nebbia o non nebbia ci arrivi a Mutina, semmai il grosso rischio è passare oltre e non farci caso perché non è questo granché di città, diciamo, con tutta quella rete fognaria che resterà a cielo aperto fino al Novecento. Ma Attila non era quel buzzurro che si pensa in giro. Sì, era Unno, aveva imparato a cavalcare prima di camminare eccetera. Ma era cresciuto a Ravenna, ostaggio degli imperatori di occidente; parlava correntemente latino; è difficile pensare che non riuscisse a orientarsi su un piano padano che è quasi cartesiano.

I tratti forse mongolici di Attila
lo rendevano agli occhi degli occidentali
una specie di mostro, con tanto di orecchie
a punta.
La triste verità è che Attila, Modena, l’ha snobbata: non gli interessava. Incredibile a dirsi, ma è così. Tra Aquileia e Milano aveva già saccheggiato il saccheggiabile e no, non era affatto un coglione. Gli era già successo ai Campi Catalunici di spingersi troppo in là seguendo il miraggio di un bottino infinito, e di restare insaccato in mezzo alle legioni nemiche. Cominciava ad avere un’età, magari pensava a ritirarsi invitto. Mise le tende da qualche parte sul Mincio e attese l’ambasciata di papa Leone. Per uno come lui, che aveva devastato Belgrado e Strasburgo e Treviri, che differenza vuoi che facesse una Modena in più o in meno.

A me piace comunque pensarlo da qualche parte nella nebbia che gira e si rigira e non si raccapezza, magari è a un passo dalla città, per dire magari è a Cognento, o a Vaciglio, ogni tanto chiede indicazioni ai passanti e non vuole far vedere di essere il Flagello di Dio, cerca di essere educato – ma l’accento uralo-altaico lo tradisce, il passante scappa, al Flagello non resta che trafiggerlo con una lancia prima che possa dare l’allarme, ogni tanto effettivamente al Resto del Carlino arrivano foto di coltivatori diretti trafitti da lance, ma tutto viene messo a tacere per non seminare il panico. È una banda di immigrati dell’Est, dicono. Si fanno chiamare “orda”.

Ritratto ufficiale (leziosissimo).
La nebbia della leggenda non è un semplice fenomeno atmosferico, assomiglia a quella cosa che si vedeva sui televisori analogici quando l’antenna era guasta, il segnale interrotto; è la mancata sintonia tra Modena e il mondo. La sola idea che Modena sia nello stesso mondo in cui ci sono le altre città, l’idea che sia raggiungibile mediante strade romane o ferrovie ad Alta Velocità, è una cosa che disturba il modenese. Il quale conserva una specie di mentalità isolana al centro di una pianura popolata, in un luogo dove ogni tanto la Storia ha pur da passare, a cavallo o sui carri armati (della Wehrmacht). Ecco, la Storia quando passa da Modena trova molto spesso gli scuri sprangati, non se la fila nessuno. È roba da forestieri, una cosa che dovrebbe succedere altrove, da noi no perché noi abbiamo cose più importanti da fare, l’apcaria, la torta Barozzi, l’aceto balsamico, un nuovo piano del traffico.

E anche la Natura, ma cosa vuole da noialtri, si può sapere? La reazione standard del modenese al terremoto è l’incazzatura, be’ ma oh! un terremoto da noi? Sol che non scherzi. I terremoti devono stare a casa sua. San Geminiano, nascondici.

Comunque una città unica.
Oggi è San Geminiano e a Modena non si va a scuola, chissà se i ragazzini vanno ancora in piazza a schiumarsi con le bombolette. Io non ci ho voglia di fare il bozzetto sugli usi e i costumi, Modena per me è come quelle ex che ti fanno vergognare sia se le chiami sia se non le chiami, eppure siete stati felici assieme ma il tempo ha dissolto ogni bel ricordo, come il vento, come il vento ha portato polvere, la polvere si è addensata agli angoli, ha fatto i gatti solo intorno alle antiche figure di merda. Preferirei parlare di città misteriose che non ho mai conosciuto, per esempio di Timbuctù, sono molto preoccupato per la biblioteca di Timbuctù e in generale per quella lontana città che è un posto straordinario.

Pensate che due secoli fa gli europei avevano colonizzato gli antipodi, ma non avevano ancora trovato Timbuctù. Sapevano che era da qualche parte al centro del Sahara, su un’ansa del misterioso fiume Niger, lastricata ovviamente d’oro e d’ebano e d’ogni ben di Dio, ma nessun cristiano poteva arrivarvi, era off limits. Mungo Park, lo scopritore scozzese della sorgente del fiume, era morto nel 1806 mentre cercava di arrivarci su una zattera nel fiume, costantemente esposto agli attacchi degli indigeni.

Caillié l'africano
Fu però un francese figlio di nessuno, René Caillié, a capire vent’anni dopo che bisognava cambiare strategia: se si voleva penetrare nella capitale dei beduini, bisognava essere beduini. Si trasferì da qualche parte sul fiume Senegal, mimetizzandosi con un turbante; lasciò che il sole gli arrostisse la pelle, perse otto mesi a perfezionare la lingua del posto, e poi si aggregò a una carovana di mercanti raccontando di essere un egiziano rapito dai francesi che voleva tornare a casa. Ci credettero e lo portarono a Timbuctù, dove tutta la poesia ebbe fine. La favolosa capitale del deserto, scoprì Caillié, era una città di fango. Oggi la troviamo mirabile anche in questo, in effetti ci vuole abilità a costruire col fango, e la biblioteca ospita(va) manoscritti inestrimabili; ma a inizio Ottocento questo tipo di condiscendenza verso le altre culture era ancora in embrione: ci rimise male, e lo scrisse. Senza scorta armata, senza portatori, Caillié era riuscito dove gli emissari di due potenze coloniali avevano fallito: si intascò persino i diecimila franchi messi in palio dalla Société de géographie per il primo uomo bianco che fosse stato in grado di entrare a Timbuctù e soprattutto a uscirne vivo. Era il prezzo da pagare per farla finita coi miraggi del mondo antico, e accettare che non c’è nessun Eldorado al di fuori dei nostri.

Caillié l'europeo.
Oggi è San Geminiano che ha la barba bianca. Potrebbe in effetti nevicare, state attenti modenesi. Quel signore tutto bianco, di neve o schiuma da barba, magari è Attila in incognito, che ha studiato il dialetto gli usi e i costumi e finalmente è riuscito a entrare, e ora si sta chiedendo: tutto qui? No ma sul serio mi avete tenuto milleseicento anni nella nebbia per non farmi entrare in un posto così?

Ma soprattutto: se entro con l’orda, dove la parcheggio?

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Giornata della memoria, appunti sulla

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La Giornata della Memoria sta per compiere vent’anni, almeno in Italia (fu istituita nel 2000), e la sensazione è che qualcosa non abbia del tutto funzionato. Eppure non si può negare l’impegno, sia sui media che a scuola. Prendiamo un ragazzo nato nel 2000: quest’anno si diploma. Probabilmente ha sentito parlare di campi di sterminio già alle scuole primarie. Di film sull’argomento potrebbe averne visti più di un paio (alcuni già due volte: La vita è bella, Schindler’s List). E poi visite d’istruzione; incontri coi testimoni; libri consigliati, libri imposti dagli insegnanti… un ragazzo che si diploma quest’estate dovrebbe aver avuto molte più di un’occasione per meditare “che questo è stato”, come scriveva Primo Levi. Un ragazzo del genere dovrebbe anche aver sviluppato una certa refrattarietà al negazionismo e al nazismo. 

Un ragazzo, appunto, dovrebbe.


In occasione della Giornata 2019 un istituto demoscopico ha scoperto che solo il 2% tra i ragazzi italiani tra i 16 e i 18 anni hanno letto un libro sulla Shoah. È un dato sconcertante, soprattutto per chi in questi giorni sia passato in una libreria e abbia dato un’occhiata all’angolo dei ragazzi (o young adult, l’industria editoriale adesso li chiama così). Ogni anno escono titoli nuovi sull’argomento: memoriali o fiction, romanzi o testi illustrati per i più giovani. Il fenomeno è talmente percepibile che se su amazon.it, se scrivo “libri shoah”, il navigatore completa con “libri shoah per bambini”. Insomma l’editoria ci crede molto, nella Giornata. Forse, viene il sospetto, ci crede troppo; al punto da generare nei giovani lettori una reazione di rigetto?

La Shoah-spiegata-ai-ragazzi ormai è diventata un genere letterario (non necessariamente gradito ai ragazzi, come del resto tutto ciò che viene imposto a scuola). Prendiamo un testo di classe terza secondaria di primo grado, Storie senza confini della Zanichelli. È un’antologia pensata per i lettori di 13-14 anni. Alla Shoah dedica un intero capitolo, intitolato “Il coraggio di ricordare”. Quasi un decimo di tutto il volume. La prima lettura è presentata così: “Alex ha undici anni e da alcuni mesi vive da solo nel ghetto ebraico di Varsavia”. Il secondo è tratto dalla novelization di Arrivederci ragazzi di Louis Malle: i protagonisti sono collegiali, hanno più o meno la stessa età dei lettori. Seguono due lettere di Anna Frank, praticamente il minimo sindacale. Un brano tratto da La valigia di Hana, la storia (vera) di una coetanea di Anna deportata e uccisa nel campo di Theresienstadt; e poi all’improvviso Primo Levi: la fulminante poesia che introduce Se questo è un uomo. Dopo venti pagine, è il primo testo in cui non si parla di ragazzini; il primo in cui un adulto si rivolge ad adulti.

Ma è solo un breve intermezzo. Segue un testo intitolato Quando Hitler rubò il coniglio rosa, tratto dall’omonimo libro autobiografico di Judith Kerr. Il coniglio del titolo è ovviamente un giocattolo dei protagonisti, che hanno 9 e 12 anni e devono sacrificarlo durante la fuga e la deportazione. Insomma, più che una Shoah-spiegata-ai-ragazzi, fin qui è una Shoah vissuta dai ragazzi. I brani successivi confermano il sospetto: ce n’è uno di Enzo Biagi su David Rubinowicz. “un ragazzino di dodici anni, figlio di un lattaio scomparso nell’autunno del 1942”; poi il brano più impegnativo della sezione: di nuovo Primo Levi con una delle pagine più intense della Tregua, quella dedicata al piccolo Hurbinek, “un figlio della morte, un figlio di Auschwitz. Dimostrava tre anni circa, nessuno sapeva niente di lui, non sapeva parlare e non aveva nome”. Levi è di gran lunga il miglior prosatore contenuto in questa sezione dell’antologia; ma non sembra un caso che di tanti passi suoi sia stato scelto uno dei pochi in cui al centro della scena c’è un bambino.

La Shoah di cui si parla in questo libro di testo assomiglia a una moderna crociata dei fanciulli; sembra che nei campi siano finiti soltanto bambini o preadolescenti. Gli unici adulti degni di rilievo sono genitori o fratelli.

La strategia dei curatori è chiara, e rivela in controluce una concezione abbastanza pessimistica della sensibilità di un tredicenne contemporaneo: l’unico modo che avrebbe per comprendere l’orrore della Shoah è l’empatia nei confronti delle vittime, ed esclusivamente le vittime che gli somigliano, meglio ancora se coetanee o un po’ più giovani. Anche lui avrebbe potuto essere Alex, Anna Frank, Hana, David Rubinowicz: anche a lui i nazisti avrebbero potuto rubare il coniglio rosa. Che poi a tredici anni i ragazzi siano ancora così attaccati alle esperienze dell’infanzia, così poco interessati alle storie degli adulti, è una nozione smentita da altre sezioni della stessa antologia, per esempio quella dedicata alla narrativa di genere avventuroso o alla fantascienza (i protagonisti preadolescenti, viceversa, sembrano una caratteristica tipica del genere fantasy). Per quel che mi capita di vedere dalla cattedra, il preadolescente di oggi è ancora un ragazzo ansioso di crescere ed essere ammesso finalmente nel mondo degli adulti: i bamboleggiamenti di certi autori li allontanano. E allo stesso tempo, i conigli rosa funzionano: inserire bambini sulla scena dello sterminio è garanzia di riuscita. Uno dei film sulla Shoah di maggior successo negli ultimi anni (e più richiesti dai ragazzi con cui lavoro) è Il bambino dal pigiama a righe. Raccontando la storia di un bambino ad Auschwitz, Benigni vinse un Oscar. Ma l’esempio più famoso resta probabilmente la bambina di Schindler’s List. Nel bel mezzo di un monumentale film sulla Shoah in un rigoroso bianco e nero, Stephen Spielberg inserisce un cappuccetto rosso, un elemento di fiaba. È quasi una strizzata d’occhio allo spettatore adulto: le scene che hai visto fin qui non ti hanno commosso perché sono troppo affollate, troppo drammatiche, troppo vere. Per farti scendere una lacrima ti serve qualcosa di intimo: hai bisogno di fissarti su un solo personaggio, anche soltanto per pochi secondi. Va bene, ecco qui una bambina in un cappottino rosso, ora puoi commuoverti. Si commuove anche il protagonista, un nazista sulla via della redenzione. Mi domando se quello che abbiamo fatto, nelle scuole, dopo Schindler’s list non sia una infinita ripetizione del trucco di Spielberg: ecco un bambino che non aveva fatto niente ed è finito ad Auschwitz, eccone un altro, eccone un altro ancora. Sempre con le migliori intenzioni – del resto sono così pochi i trucchi che funzionano, era destino che ne abusassimo.

Ma a proposito di Schindler’s list, c’è un’altra bambina che mi torna spesso in mente, un’apparizione ancora più fugace del cappottino rosso: è la biondina col foulard, che mentre gli ebrei di Cracovia si incolonnano a piedi per entrare nel ghetto, grida “Andate via, giudei”, lanciando palle di fango. Tutto qui, di lei non sappiamo nient’altro. È forse l’unica volta in tutto il film che l’antisemitismo non è impersonificato da burocrati o ufficiali nazisti. Proprio per questo è quella che più mi spaventa, e mi torna in mente anche a mesi di distanza dalla Giornata, quando tv o social mi mettono davanti la deriva razzista degli italiani e dei loro governanti. Capisco che a Spielberg interessasse di più raffigurare le vittime del popolo ebraico, e i nazisti loro carnefici, ma è un peccato che non ci siano film altrettanto potenti che parlino di quella bambina: di cosa l’ha portata a comportarsi così, di cosa l’ha trasformata in una piccola aguzzina occasionale. Avremmo molto bisogno di film del genere a scuola. La Giornata della Memoria che troviamo sui libri di testo o in film dall’approccio volutamente ingenuo come La vita e bella è consolatoria: ci spinge a riconoscerci nelle vittime e a trovare assurda la violenza dei carnefici. Ma la Giornata non è stata istituita per farci sentire buoni, ingenui e oppressi. La Giornata serve a ricordarci che dentro di noi c’è anche la possibilità di diventare oppressori, torturatori, assassini. Come sono stati i nostri avi – anche i loro crimini dobbiamo ricordare, e non soltanto l’angoscia delle vittime. Altrimenti c’è il rischio che la Giornata diventi un momento di rimozione, il momento in cui tutti noi diventiamo Alex, Anna Frank, Hana, David Rubinowicz, e ci dimentichiamo di far parte di un popolo (di un'umanità) che quei bambini li consegnava ai carnefici.

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