Parlo di teologia, io?

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10 gennaio - San Gregorio di Nissa (335-395), teologo patentato

[2016].

Anche oggi c'è gente che, come quei famosi ateniesi, non trova di meglio da fare che discutere di argomenti inediti od originali. Braccia rubate al mercato o al cantiere che si improvvisano maestri di teologia: avanzi di schiavitù da prendere a mazzate, che d'un tratto ci filosofeggiano con solennità di cose incomprensibili.

Lo sapete di chi stiamo parlando: la città ne è piena. Le strade, i crocicchi, i fori, i parchi... venditori di tappeti, cambiavalute, friggitori ambulanti. Tu chiedi di scambiare una moneta, ti rispondono disquisendo sulla natura del Generato e dell'Ingenerato; vuoi sapere quanto costa una pagnotta, “Il Padre è il maggiore”, ti dicono, “e il figlio gli è soggetto”: domandi se ai bagni l'acqua è calda, e ti informano che il Figlio ha origine dal nulla...


Padri cappadoci, Nissa è (forse) quello con la barba lunga.

Certe citazioni ormai galleggiano nel vuoto, non siamo nemmeno sicuri del libro da cui sarebbero ritagliate. Hanno maturato significati diversi da quelli previsti in partenza; diventano meme, parole di un linguaggio nuovo, incomprensibile ai non iniziati. Tra i miei amici di facebook non è infrequente rimproverarsi di parlare di astrofisica. Citiamo ovviamente la battuta di un regista frustrato, protagonista di un film di Nanni Moretti - no, non l'ultimo - neanche il terzultimo - forse il terzo? Lamentandosi della mania che hanno tutti di parlare di cinema senza mai aver studiato l'argomento, gridava: parlo di astrofisica io?

Molti anni prima dell'invenzione del cinema, e della stessa astrofisica, il problema era già avvertito dagli intellettuali. Non potendo citare Moretti, ripiegavano su San Gregorio vescovo di Nissa, che nel IV secolo scrisse in mezzo a un migliaio di pagine fitte di patristica l'esilarante bozzetto che ho tradotto sopra un po' liberamente. È un brano famoso in senso molto relativo: ci ho messo anni a rintracciarlo. Poi mi sono reso conto che lo cercavo nel volume di patristica sbagliato, perché tutti questi professori che si lamentano dell'incompetenza popolare... sbagliano quasi sempre a segnalare la fonte della citazione, attribuendola a un amico di famiglia di Gregorio di Nissa, Gregorio di Nazianzo. Anche lui vescovo in Cappadocia e padre della Chiesa, per cui non è così difficile confondersi.

È un errore illustre, condiviso dallo stesso Hegel; lui del resto non aveva perso tempo a sfogliare i padri cappadoci, ma si era fidato di Gibbon che nel suo best seller Declino e caduta dell'Impero Romano aveva a sua volta citato il Gregorio sbagliato, mutuando l'errore da un teologo dei suoi tempi, tale John Jortin che nelle note del suo volume aveva fatto confusione tra i due Gregori ed era morto prima di correggere le bozze. Che storia affascinante. Morale: non si è mai abbastanza competenti.

Va bene, ma di che stava parlando Gregorio esattamente? In quel frammento dell'orazione Sulla divinità del Figlio e dello Spirito Santo, 46esimo volume della Patrologia greca, il vescovo di Nissa si distrae per un attimo dal problema trinitario, e si volta a dare un'occhiata a quel che succede nella grande città: Costantinopoli. Quando mi imbattei per la prima volta nei due Gregori, a metà anni Novanta, in società si parlava più che altro di calcio e politica. Tutti ne erano esperti, tutti ritenevano di avere pareri interessanti, giuro, non è una frenesia nata con facebook: Zuckerberg ci ha fornito soltanto un impietosissimo specchio. A volte mi mancava l'aria e così frequentavo lezioni strane, ad esempio Storia del Cristianesimo Antico.

Scoprivo che secoli prima, gli abitanti di una lontana metropoli, dovendo pur trovare qualcosa su cui litigare in attesa dell'invenzione del calcio, si scannavano intorno alla teologia. Il dibattito sulla Trinità, e sulla generazione del Figlio, era uscito dai capitoli e dai sinodi e circolava sulle bocche di tutti, pizzaioli e rigattieri. Venivano alle mani spesso, e a volte ci scappava il morto.  L'altro Gregorio - non quello di Nissa - fu quasi linciato nella sua stessa cappella privata, perché era stato ordinato vescovo niceno di Costantinopoli, in un periodo in cui in città andavano per la maggiore gli ariani. Questi ultimi credevano che il Padre avesse creato il Figlio in un secondo momento; i niceni invece credevano in un Figlio generato, non creato, della stessa sostanza del Padre. I niceni avevano già vinto un Concilio nel 325, e col tempo avrebbero prevalso, massacrato gli ariani e distrutto i loro libri. Ma in quel periodo erano un po' in crisi: gli imperatori, dopo averli favoriti, se ne erano stancati e a volte sponsorizzavano apertamente gli avversari. Il bello di studiare queste cose, quando sei giovane, è che ti chiedono la stessa sospensione dell'incredulità di una saga fantasy - pensateci, si accapigliavano per stabilire se il Figlio fosse stato "creato" o "generato" dal padre. Un dibattito che oggi non interessa più nemmeno i cristiani. Già. Oggi parliamo d'altro. Ma, ecco, di che parliamo? 

A quel tempo ero una specie di marxista, a mio modo ovviamente – in sostanza credevo che gli uomini si potessero dividere soltanto in classi sociali. Questa era l’unica classificazione che avesse un senso economico, e quindi l’unica che avesse un vero senso. Tutti gli altri insiemi – i cosiddetti “popoli”, le cosiddette “religioni” – erano fenomeni sovrastrutturali. Non è che non esistessero, ma venivano elaborati dagli uomini a mo’ di paravento, sovrastruttura, per occultare la ripartizione fondamentale, quella tra profittatori, aspiranti profittatori e lavoratori. Tutte queste cose non so se Marx le abbia mai scritte davvero, avrei più difficoltà a spulciare il Kapital che la Patrologia, però ci credevo e forse ci credo un po’ persino adesso. Dunque diffidavo della versione di San Gregorio, perché davvero, che può interessare a un cambiavalute della Generazione del Figlio? Però da altri accenni si capiva che gli ariani erano la fazione più popolare (lo stesso Ario, racconta Filostorgio, una volta cacciato dalle chiese ufficiali, si era messo a comporre i suoi sermoni sulla musica delle canzonacce dei marinai e dei mulattieri). I niceni invece avevano già quella sfumatura benpensante che li identificava come organici della borghesia – e i Costantini giocavano a metterli gli uni contro gli altri, appoggiando ora questa ora quella fazione, per strategia o per capriccio.

Due secoli più tardi sarebbe successa la stessa cosa coi tifosi delle due più importanti scuderie delle corse di bighe, gli Azzurri e i Verdi. I primi erano i popolari (ma appoggiati dall’imperatore Giustiniano), i secondi aristocratici e monofisiti. Entrambi giravano coi coltellacci legati alla gamba, e si pettinavano all’Unna, lasciandosi crescere le creste per spaventare gli avversari. Vedi come lo stesso fenomeno (una guerra tra bande di delinquenti per le strade di una metropoli) si può leggere in tre modi: (1) guerra di tifosi: è il modo più superficiale, come se qualcuno fosse davvero disposto a morire per i colori di una squadra; (2) guerra di religione, monofisiti contro ortodossi; (3) lotta di classe. A me ovviamente interessava solo il terzo piano, quello di cui nessuno vuole mai parlare. Fanno tutti una gran confusione, parlano di bighe o quadrighe o di natura divina e umana del Figlio, perché non vogliono parlare di salari e di libertà degli schiavi… Però alla fine Azzurri e Verdi si stancarono di ammazzarsi per il sollazzo del Cesare, gli assediarono il palazzo contiguo al Circolo e chiesero le dimissioni del prefetto del pretorio, ritenuto responsabile dell’iniqua tassazione. (Le ottennero, ma in seguito Giustiniano, consigliato dalla moglie Teodora, riuscì a dividerli e li sterminò).

(Milletrecento anni più tardi, in una difficile città di mare dall’altra parte dell’Europa, ci si rimise ad ammazzare tra “verdi” e “azzurri”. I primi tifavano il Celtic Glasgow, erano immigrati irlandesi e cristiani cattolici. I secondi sostenevano i Rangers, ostentavano lealtà alle maestà britanniche e fedeltà alla chiesa protestante. Risse da ubriachi, guerre di religione, indipendentismo e identità celtica: dipende anche da storia vuol leggere la gente il mattino dopo).


Seduta di autocritica maoista in Bobocandia ("O Marx O Lenin O Mao Mao").

Nello stesso periodo in cui studiavo i padri cappadoci, avevo messo le mani su certi vecchi fumetti di un francese geniale e irregolare, Gérard Lauzier. La sua prima storia era ambientata in un’ex colonia francese di fantasia tra jungla e savana. Gli abitanti della savana erano diventati il Fronte Bobocalandese di Liberazione – trotskisti – mentre la tribù della giungla si era convertita al marxismo-leninismo di marca cinese, fondando il Fronte di Liberazione Bobocalandese. Dopo il tramonto conducevano lunghe sessioni di autocoscienza politica davanti al fuoco, cantando O Lenin O Mao O Mao al suono dei tamburi. Negli anni Settanta Lauzier passava per un autore di destra, e in effetti disegnava ancora gli africani coi labbroni e i dentoni. Si rifiutava a vedere il progresso nella decolonizzazione: era tutta una farsa, una tribù resta una tribù anche se coi fucili le vendi il libretto rosso. Il libro è fuori commercio in Italia, trovarlo è stato più difficile che rintracciare la citazione giusta nella patrologia.

Mi capita spesso di ripensare alla vignetta della tribù marxista, ultimamente, e ai venditori di tappeti di Gregorio di Nazianzo, pardon, Nissa. Sono contento che è finito Natale, quest’anno più del solito. Al mercato, in piazza, in sala insegnanti, per un mese non s’è parlato che di identità cristiana, e soprattutto di presepe. Chiedevi il prezzo del pane, ti rispondevano presepe. Domandavi che fine aveva fatto la programmazione monodisciplinare, ti mettevano al corrente del grosso rischio che stavamo passando di non poter più sentire le zampogne a causa degli immigrati musulmani. L’Amaca di Michele Serra appesa dappertutto. Il punto di riferimento del ceto medio riflessivo progressista che verso la fine del 2015, fidandosi di qualche notizia distorta, si è convinto che i musulmani ci stessero togliendo il presepe. Il presepe. Tra due secoli qualcuno ritroverà un fondo di Michele Serra nel fondo di una valigia, leggerà e si domanderà nella sua lingua sconosciuta: ma sul serio? Parlavano di questo all’inizio del millennio? Di presepe? Non del riscaldamento globale, dell’instabilità economica europea o delle migrazioni nel mediterraneo; parlavano del presepe? Era così tanto importante per loro? O c’era dietro qualcos’altro che non volevano dirci. Cioè: cosa intendeva davvero questo Serra per “presepe”?

Poi i sauditi hanno ammazzato un imam – i sauditi ammazzano chi vogliono più o meno come l’Isis, e più o meno per gli stessi motivi, ma sono nostri alleati, quindi è ok – salvo che per una settimana è stato tutto un fiorire di esperti di teologia islamica. Ci hanno spiegato che tutte le tensioni del Medio Oriente – tutte – si possono spiegare con la religione, l'eterna rivalità tra sunniti e sciiti. Perché, credevate che fosse il petrolio? I sauditi che lottano per imporre una supremazia regionale, che l’Iran gli contende? La Russia che reagisce all’accerchiamento Nato? Le irrisolte questioni curde e palestinesi? No. «Braccia rubate al mercato o al cantiere», avrebbe detto il nostro Gregorio, ci hanno avvertito che tutto dipende da uno scisma di mille anni fa. E infine si è scoperto che a Colonia a capodanno c’erano un sacco di maschi molesti, e i redattori hanno subito deciso che si trattava di stranieri, anzi immigrati, probabilmente clandestini, magari islamici e Bruno Vespa ha twittato:



Le nostre donne. Forse siamo sempre stati così, forse la novità è che Internet ha moltiplicato gli specchi per guardarci. Io una volta pensavo che Bruno Vespa fosse organico a una determinata classe sociale che imponeva la sua visione dei fatti a tarda sera su Rai 1. Ultimamente lo vedo più come uno stregone che balla al ritmo del tamtam, cantando parole che non conosce, “religione”, “valori”, “cultura”. Ma quel che vuole dire è quello che i capotribù hanno sempre detto in questi casi: straniero vuole venire e rubarci le donne.

Forse i posteri saranno più indulgenti. Spulciando un enorme archivio troveranno l’amaca di Serra o i tweet di Vespa, e capiranno che “presepe”, “religione”, “valori”, “bande di immigrati”, in realtà volevano dire una sola cosa: abbiamo paura. Il mondo cambia troppo alla svelta, un sacco di gente arriva qua e mette in discussione tutto quello in cui abbiamo sempre creduto – comprese quelle cose in cui non credevamo di credere davvero (il presepe?) ma erano insomma parte di un paesaggio. Difendo il mio presepe dai musulmani, quarant’anni fa difendevo la mia famiglia dai cosacchi. La mia quarta sponda dagli inglesi. La mia Patria dallo Straniero. Il mio Dio dall’infedele. La mia bandiera, qualsiasi colore abbia, perché è proprio questo il punto: non importa il colore. Non importa il Dio, non importa la Patria, né la famiglia né il presepe. Sono valori arbitrari che fissiamo di volta in volta. L’importante è l’aggettivo: mio. Tracciamo una linea qualsiasi e guai a chi la oltrepassa. Sul serio non moriremmo per il colore di una squadra? Non è l’unica cosa per cui moriamo, alla fine dei conti?

Gregorio nacque in Cappadocia, che oggi è lo zoccolo duro della Turchia rurale e islamica, ma nel suo secolo produceva santi cristiani e padri della Chiesa a un ritmo impressionante. Gregorio può vantare in calendario una nonna, Santa Macrina l’Anziana; due fratelli (San Basilio Magno e San Pietro di Sebaste) e una sorella (Macrina la Giovane). Lui si venera il 10 gennaio.
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Il Movimento 5 Stelle ha svenduto la scuola ai leghisti

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[Questo pezzo è uscito ieri su TheVision]. Quattro miliardi: questo è quanto il governo prevede di risparmiare sulla scuola nei prossimi tre anni. Non sarà il taglio all’istruzione più clamoroso della storia della scuola italiana, ma è comunque un taglio. L’opposizione non ha dubbi nel definirlo così; anche alcuni sindacati sono piuttosto critici e si preparano già alla mobilitazione – altri sonnecchiano. Per il governo invece no, non ci sarà nessun risparmio: anzi, questa finanziaria spenderà per la scuola persino di più di quanto stava spendendo il governo Gentiloni.



Di fronte a due versioni tanto diverse, si tratta di scegliere: una delle due dev’essere falsa per forza. Qualcuno non dice la verità, il governo o l’opposizione. Un osservatore serio, distaccato, competente, dovrebbe riuscire a capire da che parte sta la ragione. Temo di non essere quel tipo di osservatore. Quella di cui si sta parlando in questi giorni non è la solita manovra discussa e sviscerata. Quella che è approdata alla Camera prima della pausa natalizia è un vero e proprio pacco-sorpresa, che i deputati della maggioranza hanno dovuto scegliere se prendere o lasciare – e chi ha lasciato è già stato espulso. Il dibattito sulla legge è stato, per forza di cose, più superficiale che in passato: anche gli addetti ai lavori hanno avuto meno tempo per sviscerare ogni comma; quel che comunque salta agli occhi, anche a un rapido sguardo, è che scuola e ricerca non sono stati individuati come settori strategici.
Anche se i finanziamenti non dovessero essere sensibilmente inferiori a quelli degli ultimi anni, non si può nemmeno dire che siano sensibilmente maggiori; e soprattutto manca il senso di una direzione: si tira a campare sperando che non crollino troppe scuole e non si facciano male troppi studenti e insegnanti. È un’evidenza che non sorprende nessuno, ma è utile confrontarla con le roboanti promesse elettorali di uno dei due partiti di governo, il M5S. Un anno fa Di Maio prometteva di abolire Buona Scuola e legge Gelmini: siamo ancora lontani. Niente più prove Invalsi: le prove sono ancora lì. L’alternanza scuola-lavoro sarebbe sopravvissuta soltanto su base volontaria: non è andata così. E più fondi, più assunzioni, più contratti a tempo determinato, non solo per gli insegnanti, ma anche per il personale non docente, una categoria molto spesso snobbata anche dai politici a caccia di voti, e che invece è fondamentale per il benessere di tutti i frequentatori delle scuole. A un certo punto il M5S aveva persino ventilato l’ipotesi di abolire i finanziamenti alle scuole private.

Forte di queste promesse, il M5S è andato alle elezioni e ha conquistato il voto di una parte sensibile dei lavoratori della scuola, molti dei quali delusi dal Pd ed esasperati da alcune assurdità burocratiche della Buona Scuola. Poi il M5S è andato al governo e al ministero dell’Istruzione ha installato un leghista, Marco Bussetti. Non l’ultimo arrivato, bisogna ammetterlo: per quanto il suo nome sia conosciuto dal grande pubblico soprattutto per una circolare in cui chiede agli insegnanti di assegnare pochi compiti per le vacanze, Bussetti ha fin qui dimostrato di saper procedere con la sua agenda. Che non è sicuramente l’agenda del M5S – per fare un semplice esempio: i fondi per le scuole private, sotto forma di bonus alle famiglie senza limite di reddito, sono rimasti invariati. La Lega è ormai il più antico partito politico italiano, con una più che decennale esperienza di governo. È la prima volta che si insedia in un Ministero che evidentemente fin qui non aveva mai considerato strategico. Anche in campagna elettorale Salvini non si era particolarmente speso per le scuole: le sue priorità (le conosciamo tutti) erano la sicurezza, la flat tax, la rimessa in discussione della zona Euro. Il fatto che nella complessa trattativa primaverile l’istruzione sia finita nelle mani del partito a cui in teoria interessava meno, la dice lunga su quanto poco gli stessi eletti M5S credessero nelle loro promesse. La scuola pareva il fronte più sacrificabile (continua su TheVision).



Questo rende ancora più penosi gli affanni dei deputati pentastellati che in questi giorni cercano di spiegare una finanziaria che hanno appena finito di leggere, sforzandosi di trovare qualcosa di progressivo negli artifici contabili del ministero. Il tentativo più maldestro è quello di Luigi Gallo, presidente della Commissione cultura, scienza e istruzione, che chiede agli attivisti di condividere nelle università e nelle scuole un video interminabile, amatoriale, in cui cerca di sbugiardare i perfidi giornalisti e il perfido Pd accostando alla webcam numeri che restano sfocati e che comunque no, non gli danno ragione. Quando, dopo aver tergiversato per ben 7 minuti, si riduce ad ammettere che nei prossimi due anni è previsto un calo degli investimenti, si difende ricordando, letteralmente, che per quei due anni “non abbiamo ancora fatto la legge di bilancio”: insomma se i numeri non vi piacciono non disperate, magari l’anno prossimo li cambiamo. Salvo che nell’ufficio dove cambiano i numeri non c’è il povero Gallo, e difficilmente ci sarà l’anno prossimo. Lui al massimo può improvvisarsi youtuber di lotta e di governo: e mentre si sbraccia davanti alla webcam, qualcun altro nella stanza dei bottoni continuerà probabilmente a scegliere dove mettere i soldi. A Gallo e compagnia toccherà spiegare che tra breve le cose cambieranno, ci saranno più soldi per le università, per il tempo pieno anche a sud, e per riportare a casa i precari. Più di così non può fare né Gallo, né in generale la classe dirigente M5S: a chi non ha reali competenze di amministratore non resta che amministrare gli slogan (e amministrarli generosamente). La campagna elettorale permanente è una scelta obbligata, e non è detto che non continui a pagare ancora per un po’. Dopotutto si vota anche questa primavera, per le europee.

Per l’occasione voteranno anche gli insegnanti italiani, e sarà interessante verificare se il M5S avrà già dissolto il capitale di fiducia incassato con le elezioni di un anno fa. Se questo non succederà, non sarà soltanto per la fatica di ammettere di essersi illusi. Il fatto è che tutto sommato questa manovra non tocca gli insegnanti di ruolo; in compenso mantiene in un limbo vergognoso molti collaboratori scolastici e docenti a tempo determinato, tra cui quelli di sostegno. Tutto questo contribuirà a rendere più difficile la vita scolastica per tutti. Può darsi che nell’immediato i docenti di ruolo non ci facciano caso, e che si tratti di problemi, per così dire, sotterranei, che inquinano l’ambiente senza essere sempre percepiti: uno studente disabile che cambia ogni anno il docente di sostegno; o uno studente con abilità speciali che fino a quest’anno riusciva ad avvalersi di un insegnante di potenziamento che il prossimo anno perderà la cattedra; un’ala della scuola che dovrà fare a meno dei servizi (pure indispensabili) di un collaboratore. Le criticità che docenti e studenti avranno sempre davanti sono altre, e purtroppo in molti casi sono ancora identificate con la Buona Scuola di Renzi. La prova Invalsi, l’alternanza scuola-lavoro, i bizantinismi dei Piani Triennali e così via. Tutte queste cose, molte delle quali a ben vedere esistevano già prima dell’arrivo di Renzi, ma che con il lancio della Buona Scuola si sono per così irrimediabilmente incollate alla sua figura – in quel processo di personalizzazione della politica che alla fine ha reso Renzi colpevole anche di aberrazioni che non aveva né previsto né introdotto, ma nemmeno abolito. L’insegnante di ruolo che non capisce la necessità del Piano Triennale o della programmazione per competenze, tendenzialmente non se la prenderà con Di Maio, che pure aveva promesso di abolire tutto questo, per poi defilarsi.

Che lasci la politica o no – in questi ultimi giorni si direbbe di no – Renzi resterà ancora per qualche anno uno spauracchio inevitabile per i docenti italiani: lui stesso del resto ha ammesso più volte di avere sbagliato qualcosa sulla scuola. Anche se, non smette di ribadire, lui nella scuola ci credeva, e in effetti, a guardarla oggi, la sua riforma non era il solito pastrocchio di promesse elettorali e gestione al risparmio delle spese correnti, che continuiamo a fare i conti con lui. La sua Buona Scuola aveva un contenuto ideologico, era qualcosa di cui si poteva discutere e che si poteva criticare (in particolare la pazza idea di imporre un approccio manageriale ai dirigenti delle scuole dell’obbligo). Con leghisti e M5S c’è poco da dire: vogliono semplicemente mandare un po’ avanti la carretta senza spenderci troppo, ma neanche senza scontentare troppi elettori. È una missione quasi impossibile, ma se Bussetti resta a sorvegliare i conti, e se gli agit-prop del M5S continuano a difendere ogni sua scelta, può perfino funzionare.
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Buon compleanno Giuliano Ferrara

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E buon risveglio.

(Alla voce: creature antropomorfe che senza il Foglio nessuno si sarebbe filato).
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I diavoli in Angela

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4 gennaio - Sant'Angela da Foligno, mistica, maestra dei teologi, autolesionista

(ATTENZIONE: dettagli repellenti. Poi non dire che non ve lo si era detto).

Dapprima baciò il corpo di Cristo e vide che
giaceva morto, con gli occhi chiusi; poi baciò
la sua bocca dalla quale colse come un
profumo di dolcezza, impossibile a dirsi...
Dietro a ogni santa di successo c'è sempre un frate. La coppia folignate Arnaldo-Angela somiglia molto a quella, più famosa, formata da Caterina da Siena e Raimondo da Capua. Anche Arnaldo, come Raimondo, all'inizio non immagina nemmeno di essersi imbattuto in una santa: la prima volta che assiste a una crisi ha la netta sensazione di trovarsi di fronte a un'isterica. Sta accompagnando una comitiva di pellegrini alla basilica di Assisi, e all'improvviso quella lontana cugina si accuccia vicino alla porta della chiesa superiore e si mette a urlare Amore Perché M'Abbandoni? Una pazza, insomma, ed è pure sua parente. Angela sta urlando così perché ha improvvisamente perso la connessione con lo Spirito Santo, che l'aveva sorretta durante tutto il viaggio. Sulla scena accorrono altri frati, cominciano a fare domande, ma chi è questa, la conosci? C'è da sprofondare dalla vergogna. Questa è l'ultima volta che la porto. "Mai più in avvenire osasse metter piede in Assisi".

Più tardi alla vergogna per la figuraccia subentra la vergogna per non averla saputa aiutare. Se si comporta così, è probabilmente posseduta da qualche spirito maligno: non è suo dovere indagare? Decide di sottoporre Angela a un rigoroso interrogatorio. La cugina si sottomette volentieri, ma le sue risposte sono così interessanti che Arnaldo smette di fare domande e la lascia parlare a briglie sempre più sciolte. Man mano che procede nelle sedute, il frate si convince di avere trovato una mistica di prim'ordine. Quando le rilegge un suo primo abbozzo, lei lo respinge come oscuro, ma soprattutto "privo di gusto": nel frattempo in paese la gente comincia a mormorare, guarda quel frate come le sta sempre attaccato. Le sue trascrizioni, frettolose e furtive, diventeranno il Liber, uno dei capolavori della mistica medievale. La mistica medievale è però piuttosto noiosa, così Angela da Foligno su internet è per lo più citata per quelle due o tre pratiche veramente hard che ha confessato al suo padre spirituale o ai destinatari delle sue lettere. Col rischio di farla apparire ancora più estrema di quanto non fosse: per esempio, non è esattamente vero, come ho letto più di una volta, che leccasse le ferite dei lebbrosi. Una volta, è vero, mentre stava pulendo le ferite putrefatte, bevve l'acqua sporca della bacinella (non fate così io ve l'avevo detto che si andava sul repellente; e siete ancora in tempo); a un certo punto sentì di avere ingoiato un pezzetto di carne, ma, per quanto volesse ingoiarlo, non ne fu in grado. E poi c'è la questione dei carboni ardenti nella vagina (IO VE L'AVEVO DETTO). In uno dei tanti periodi in cui si sentiva torturata e tentata da demoni, Angela ricorse anche a questo diversivo, ma Arnaldo glielo proibì.

Beh la frusta ogni tanto la usava.
Per queste e per altre aberrazioni, Angela può sembrare il personaggio ideale di un pamphlet anticattolico e antireligioso in generale, come ce n'è un po' dappertutto in rete. Anche qui non è che siamo esattamente su Avvenire; e però mi sembra che le cose siano un po' più complesse. Nei pamphlet la fanciulla vivrebbe libera e felice, ma viene costretta da torve famiglie a rinchiudersi in un convento. Non è esattamente il caso di Angela, che semmai era stata costretta a maritarsi, e che aveva avuto più di un figlio. Quando morirono, Angela (già quarantenne) "provò consolazione": finalmente il suo cuore era libero di donarsi a Dio. Nei pamphlet la religione ufficiale inocula nei fanciulli quei sensi di colpa che poi germineranno in masochismo e altre patologie; nel caso di Angela, che non sembrava vergognarsi di aver provato sollievo alla morte dell'intera famiglia, la religione ufficiale non incoraggiò e nemmeno autorizzò gli eccessi masochistici; cercò per quanto poteva di capire cosa stava succedendo alla povera suora. Frate Arnaldo non poteva certo inventarsi la psicanalisi da solo, anche se il caso effettivamente meritava. Fece del suo meglio, a rischio di mettersi nei guai. Era un frate spirituale a cavallo per Due e Trecento: il problema per lui si poneva nei termini: "Santa o posseduta?" Se era posseduta, si poteva ancora guarire. Se invece era una santa, andava incoraggiata 

Nella sua cella Angela visse una vita complicata: lo Spirito che la rendeva piena di gioia poteva anche abbandonarla per due anni di seguito. I demoni erano più abitudinari. Lei stessa ancora prima di Arnaldo aveva sospettato di essere indemoniata, e il dubbio non l'abbandonava mai. Un profondo desiderio di morte l'accompagnò per anni, trasformandosi nel tempo in un desiderio di agonia protratta all'infinito, nel tentativo di sentire su di sé tutto il dolore del mondo.

Giuseppe Riccetti. 1° premio ex-aequo
al concorso di grafica "Angela da Foligno
- la grande mistica" indetto nel 2000
dal Comune di Foligno.
Poi le passò.

Magari le sarebbe passato anche se Arnaldo non le avesse dato ascolto, non avesse trascritto i suoi discorsi e deliri, non l'avesse messa in contatto con altri colleghi interessati all'esperienza di una campionessa di misticismo. Quel che sappiamo, è che a un certo punto Angela riprese peso. Cominciò a sentire chiaramente che Dio le dava il permesso di interrompere la preghiera, ogni tanto, per mangiare. A differenza di Caterina da Siena, che si lasciò morire a trentatré anni, Angela in un qualche modo venne a patti con la vita, che lasciò soltanto alla ragguardevole età di sessantuno. Negli ultimi quindici fu il punto di riferimento di un nutrito gruppo di fedeli; in alcune sue lettere si propose anche come intermediaria nel conflitto sempre più acceso tra francescani spirituali e conventuali.

Mangiava, scriveva, si appassionava alle liti degli uomini; con la lingua di oggi diremmo che sembrava guarita. Senza trattamenti farmacologici, senza altra terapia che non fosse quella rudimentale portata avanti insieme a un frate che in fatto di mondi interiori ammetteva di saperne meno di lei. Poi successe qualcosa, intorno all'anno 1300. Angela continua a essere invocata e venerata come una santa in vita, ma ha sempre meno voglia di parlare delle sue esperienze e di dare consigli. Le sue lettere diventano distaccate, formali. Per coincidenza, Arnaldo è partito per Roma, sta cercando di fare carriera alla corte di papa Bonifacio. In uno dei suoi ultimi messaggi, stanca forse del suo personaggio, Angela esprime il desiderio di essere esposta per le strade della sua Foligno, coperta soltanto di pesci e tagli di carne.
Venite a vedere questa donna indegna, piena di malizia e simulazione, sentina di ogni vizio e di ogni male. Osservavo la Quaresima standomene tappata nella mia cella, per avere la stima degli uomini, e facevo dire a tutti quelli che m'invitavano: "Non mangio ne carne né pesce". Ero ghiotta, invece, e piena di ogni golosità, mangiona e beona. [...] Non dovete credermi più, non dovete più adorare quest'idolo, erano parole ingannatrici e diaboliche: pregate la giustizia di Dio che quest'idolo cada e vada in pezzi in modo che vengano svelate le mie opere menzognere e ingannatrici.
Non sembra la solita finta modestia dei santi. E si fa fatica anche a interpretarla come un tentativo di riallineamento (alla morte di papa Bonifacio le cose si stavano mettendo male per gli spirituali; anche Arnaldo finì in una lista di eretici). È più semplice immaginare che persino nei suoi momenti di gloria, quando godeva della considerazione e dell'ammirazione di alti prelati e intellettuali, Angela non avesse perso il sospetto di essere un'indemoniata. Una malata, diremmo oggi. Aveva forse ingannato il suo confessore e migliore amico, ma non era riuscita del tutto a ingannare sé stessa. [2013]
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Metodo infallibile contro qualsiasi insonnia

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"Scusa hai visto il libro?"
"Che libro".
"Non lo so. Quello che stavo leggendo".
"Non riesci a dormire?"
"Ne stavo pur leggendo uno da qualche parte".
"Non riesci a dormire".
"Ma ci pensi a che anno è?"
"Duemilaediciannove".
"Non dovrebbe essere un anno del genere".
"Per questo non riesci a dormire?"
"Non avevo previsto di essere ancora vivo, nel duemilaediciannove".
"No?"
"Da piccolo mi sembrava già tanto se sfangavamo il Duemila".
"Tutto il resto è grasso che cola, allora".
"Ma ti sembra un anno in cui possiamo esserci, io e te? Il Duemilaediciannove?"
"Puoi leggere il mio libro se vuoi, è carino".
"Quando ero piccolo erano gli anni dei film di fantascienza. 2019 i guerrieri dello Spazio. 2019 Fuga da staminchia".
"Ecco, guardati un film".
"Non funziona".
"Quello coi bivi".
"Mi mette angoscia. 'sti cazzo di anni Ottanta. Sempre lì a ricordare gli anni Ottanta, e intanto precipitiamo, precipitiamo nel vuoto. Tra un po' sono i Venti, ti rendi conto".
"Scrivi un pezzo".
"Ho l'ansia".
"Conta le pecore".
"È come contare i respiri che mi restano".
"Di' il Rosario".
"Con che faccia ormai".
"Correggi i temi".
"zzzzz".
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Il Santo Prepuzio (di cui è proibito parlare)

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1 gennaio – Circoncisione di Gesù, festa soppressa 

[Questo pezzo è uscito ieri sul Post]. È il caso di iniziare con un disclaimer: in questo pezzo si parlerà di una reliquia nota come il Sacro Prepuzio di Gesù. Prima o poi era inevitabile. Ne parleremo nel modo meno offensivo possibile; ma comunque ne parleremo, e questo a quanto pare sarebbe più che sufficiente per incorrere in una scomunica, prevista dalla Chiesa cattolica ai sensi del "Decreto n. 37 del 3 febbraio 1900".


Scrivo "a quanto pare" perché non sono riuscito a verificare la cosa. La trovo scritta in decine di pagine web, su Buzzfeed e persino nelle note a pie' di pagina di alcuni libri, ma tutti riportano la stessa formula stereotipata. Ho la sensazione che si citino tutti tra loro, e che nessuno sia davvero andato a cercare dove sia questo famoso decreto n. 37, e se ci sia davvero. Ma insomma il senso è che a un certo punto di prepuzio non si è potuto più parlare – certo, l'oggetto in sé esisteva ancora, custodito da trecento anni presso la parrocchia di Calcata (VT). Finché un bel giorno non è scomparso anch'esso (ma era già il 1983!) a causa di un clamoroso furto di cui probabilmente non avete sentito parlare. Proprio così, immaginatevi: scompare l'unico brandello del Corpo di Cristo non resuscitato e asceso al cielo, e i giornali non ne parlano. Anche perché nel frattempo Pio XII aveva ribadito, anzi rafforzato la scomunica per chiunque toccasse l'argomento; e il Concilio Vaticano II aveva eliminato la festa dal calendario. Insomma il prepuzio di Gesù è diventato un tabù, qualcosa di cui non è possibile parlare: e lo è diventato recentissimamente, proprio nel momento storico all'apparenza meno adatto al rispetto dei tabù.

 "Presto sentì con la più soave dolcezza sulla sua lingua un pezzetto di pelle simile alla pelle in un uovo, che essa ingoiò; e dopo che l'ebbe ingoiato sentì di nuovo sulla sua lingua la stessa pellicina con la stessa dolcezza che ne aveva provato, e di nuovo la ingoiò. E questo accadde migliaia di volte. E quando l'ebbe provata così tanto, fu tentata di toccarla con le sue dita, E quando desiderò di farlo, quella pellicina le scese da sola nella gola. E le fu detto che il prepuzio sarebbe stato resuscitato col Signore nel Giorno della Resurrezione" (Agnes Blannbekin, nel tredicesimo secolo, parlava di sé stessa alla terza persona ed era considerata un po' "strana", anche per la media delle mistiche medievali).

Mentre nei secoli cosiddetti bui il prepuzio di Gesù non costituiva nessun imbarazzo. Se ne discuteva (esiste o no? E se esiste, è ancora sulla terra?), ci si azzuffava, ci si giocava perfino. Una mistica austriaca sognò di averlo assaggiato (un chirurgo dell'Ottocento, si guadagnò il soprannome di "croque-prépuce", mangia-prepuzio, per avere effettivamente sottoposto una presunta reliquia alla prova gustativa). Caterina da Siena si limitava a immaginarselo legato al dito come fede nuziale. Anche chi negava che il prepuzio potesse essere rimasto sulla Terra, non sapeva bene dove collocarlo, al punto che quando furono scoperti gli anelli di Saturno un erudito del Seicento avrebbe creduto di avere trovato la soluzione al problema: il prepuzio era asceso al cielo solo fino a un certo punto, magari si era incastrato nel cielo del pianeta che Aristotele collocava appena sotto la sfera delle Stelle Fisse, ed era rimasto orbitante lì. Una teoria un po' troppo buffa per non essere inventata – e in effetti wikipedia ammette che questo famoso trattato sul prepuzio orbitante non si riesce a rintracciare.

Ma naturalmente l'idea che fosse rimasto sulla terra era più interessante per i ricercatori e i collezionisti di reliquie. Non era soltanto un business: ritrovare il brandellino di pelle, esporlo, ammirarlo, significava ribadire che Cristo oltre a un Dio era stato un uomo: il prepuzio poteva essere brandito contro gli eretici che negavano la natura umana di Gesù o la relegavano in un secondo piano: monofisiti, monoteliti e in generale i difensori di una religiosità più astratta, meno corporale. Questi ultimi erano in realtà già sconfitti da secoli, quando a Roma apparve il primo prepuzio di Gesù di cui abbiamo notizia, dono di Carlo Magno a quel papa Leone III che ebbe la pazza idea di incoronarlo imperatore. (A Carlo Magno l'avrebbe regalato l'imperatrice bizantina Irene, o un angelo). Con le crociate, e la relativa reliquie-mania, i prepuzi divini si moltiplicano: memorabile quello di Anversa, dono del re Baldovino di Gerusalemme, che fu visto da un vescovo stillare almeno tre gocce di Sangue. D'altro canto, spiega il nostro collega Iacopo di Varazze, il poco sangue scorso quel giorno non era che un anticipo di quello che Cristo avrebbe versato per noi. A un certo punto in giro per l'Europa ce n'è almeno una dozzina, ormai degradati al rango di amuleti. In quanto residui di un pene, diventano prima o poi un rimedio ai problemi virili; un re inglese (Enrico V) riesce ad adoperarne uno come cura per l'infertilità della moglie (Caterina di Valois), e a procurarsi finalmente un erede (Enrico VI). Sul finire del medioevo ormai tutta l'Europa ha stabilito che l'anno solare si conta secondo lo stile detto "della circoncisione", ovvero dal primo gennaio: se si accetta infatti come data della nascita di Gesù quella tradizionale del 25 dicembre, il primo gennaio è il giorno in cui secondo la legge mosaica (e secondo il Vangelo di Luca) il neonato sarebbe stato circonciso. Insomma intorno al prepuzio ruota l'anno intero.

La reazione all'inflazione di prepuzi e altre reliquie è la riforma protestante, che fa piazza pulita dei gadget sacri nell'Europa centrale e settentrionale, ma anche del più prestigioso prepuzio romano, scomparso durante il Sacco di Roma inflitto dai lanzichenecchi (1527). Trent'anni dopo lo stesso prepuzio ricompare a Calcata, provincia di Viterbo, nascosto nella parete di una cella dove era stato rinchiuso un lanzichenecco. La reliquia, in teoria la più ambita, non torna però a Roma: a Calcata si conquista un santuario tutto suo, e un discreto successo di pubblico (il pellegrinaggio valeva un indulgenza di dieci anni), ma i papi della Controriforma stanno già cominciando a prendere le distanze. Ducecentocinquant'anni dopo un'altra ondata iconoclasta, la rivoluzione francese, fa sparire più o meno tutti i prepuzi residui.

Ma proprio quando la reliquia di Calcata sembra essere rimasta senza rivali, nel 1856 un colpo di scena mette in imbarazzo il Vaticano: nell'abbazia di Charroux, nel Poitou, mentre abbatte una parete un muratore ritrova un altro prepuzio. In effetti secondo la tradizione locale sono i monaci di Charroux, e non Leone III, i destinatari del dono di Carlo Magno. Non è certo la prima volta che una reliquia si rivela un doppione; ma ormai siamo nell'Ottocento, e due prepuzi di Gesù creano più problemi di quanti ne creasse una dozzina nel Duecento. L'Europa non è più una selva fiorita di castelli e chiese, separati e autonomi tra loro: ormai è un reticolo di ferrovie, uno spazio misurabile. Un oggetto, ancorché miracoloso, non può esistere in due luoghi contemporaneamente: la cosa non è più plausibile, non è più immaginabile, nemmeno da un'anima semplice o pia. Nel frattempo il Vaticano ha reclamato l'infallibilità papale, e quindi tra Charroux e Calcata un Papa non può più rifiutarsi di scegliere: e sceglie di tacere, anzi di zittire chiunque.

Dal 1900 in poi del prepuzio non si parla più. Solo a Calcata la venerazione rimane tollerata, fino al misterioso furto del 1983. Misterioso anche per la sua semplicità: alla vigilia delle celebrazioni del primo gennaio, il parroco Dario Magnoni avvisa i fedeli di Calcata che la reliquia non si trova più: qualche ladro sacrilego è penetrato nella sua casa, l'ha trovata nella scatola di scarpe in cui la nascondeva, e l'ha portata via. Non è nemmeno chiaro se don Magnoni abbia sporto denuncia. L'oggetto in sé appare poco commerciabile: l'ipotesi è che al ladro interessassero soprattutto le pietre preziose del reliquiario che lo conteneva. Ma se davvero Magnoni temeva i ladri, al punto di portarsi il prepuzio in casa, perché non ha pensato a custodire reliquiario e reliquia almeno in due scatole diverse? Qualche compaesano nota che il giorno prima il parroco si era recato a Roma. Qualche anno prima, un vecchio vescovo aveva annunciato: quando me ne andrò io, se ne andrà anche il prepuzio. E poi basta, anche il giornalista americano che ci scrisse un libro non è che trovò molto altro da dire. L'ultimo prepuzio è scomparso, proprio quando ormai si cominciava a parlare di analisi del DNA e di clonazione. 1500 anni fa la priorità della Chiesa era difendere l'idea che Dio si fosse fatto corpo: le reliquie erano prove, evidenze tangibili, perfino assaggiabili, della permanenza del Sacro nella carne. Oggi la battaglia è sul fronte opposto: salvare il Sacro da una carne sempre più misurabile, osservabile, persino replicabile. Alcune reliquie hanno ancora un senso; altre sono appena tollerate; altre ormai sono imbarazzanti, e infatti spariscono. È il caso della Veronica, una macchia triangolare che nel medioevo poteva apparire davvero come una immagine miracolosa Gesù, ma che oggi non riusciremmo affatto ad associare a un volto; probabilmente è anche il caso del Santo Prepuzio, di cui non si dovrebbe parlare: e chiedo scusa per averlo fatto.
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Garantita contro il colera e l'ateismo

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31 dicembre - Santa Catherine Labouré (1806-1876), veggente, designer del gadget più diffuso nell'Ottocento

Disponibile anche in italiano
Nel marzo 1832, a Parigi, durante i festeggiamenti di metà quaresima, un arlecchino all'improvviso si leva la maschera e prima di accasciarsi rivela un volto paonazzo, innaturale: la folla scoppia a ridere, ma di lì a poco i carretti delle ambulanze cominceranno a caricare decine di persone ancora nei costumi della festa. Il colera è arrivato in città.

Farà settemila morti in due settimane, diciannovemila entro l'anno. L'unico rimedio conosciuto e raccomandato dalle autorità è un bagno caldo con aceto, sale e mostarda. Anche linciare repubblicani bonapartisti e legittimisti può servire; non è escluso che siano loro ad avvelenare i pozzi. Alunna di una centralissima scuola elementare in Place du Louvre, la piccola Caroline Nenain è l'unica della classe che sembra avvertire i sintomi. Le suore della Carità scoprono che è anche l'unica a non avere ancora indossato la Medaglia Miracolosa raffigurante la madonna com'era apparsa alla consorella Catherine Labouré, due anni prima. Fortunatamente le sorelle hanno ampie scorte di medaglie, sono loro che le distribuiscono: Caroline guarirà non appena se la sarà messa al collo. È l'inizio di un successo mondiale che farà della medaglietta il gadget più diffuso dell'Ottocento. Si calcola che ne siano state distribuite almeno un miliardo.

Una da qualche parte devo avercela anch'io, in qualche cassetto abbandonato in un trasloco. Potete facilmente procurarvene una anche voi, facendo domanda su un sito che non vi linko, ma è a portata di google. Non costa niente, però ve la mandano con un bollettino da compilare. "...non è una fattura, si tratta di un suggerimento per una possibile offerta libera e del tutto volontaria che aiuterà a portare avanti questa campagna di diffusione della Medaglia Miracolosa". Dicono sempre così, e poi magari cominciano a mandarti il giornalino una volta al mese, e chissà, magari vendono i tuoi dati a frate Indovino, o al messaggero di Sant'Antonio, o San Giuseppe, appena scoprono che sei uno di quelli che compila i bollettini c'è mezzo paradiso pronto a invadere la tua buca delle lettere.

Nella primavera del 1832 la medaglia era appena stata coniata dall'orafo Vachette (quai des Orfèvres 54), sulla base delle indicazioni di padre Jean-Marie Aladel, confessore di Catherine, che al tempo era ancora una novizia. Aladel conosceva già da mesi le visioni della ragazza, e per molto tempo era rimasto scettico; solo quando Catherine lo aveva informato che "la vergine era dispiaciuta" si era deciso a chiedere udienza al vescovo di Parigi per chiedere l'autorizzazione a forgiare la medaglietta che Catherine descriveva nelle sue visioni. Il vescovo da parte sua aveva altre preoccupazioni: dopo la rivoluzione del 1830 la sua posizione era piuttosto precaria. La medaglietta avrebbe potuto aiutarlo, purché i miracoli arrivassero in fretta: nel frattempo non era il caso di divulgare le visioni di Catherine, altrimenti sarebbe stato necessario fare un processo per omologare la visione, mandare tutto a Roma, e a Roma sono lentissimi su queste cose. All'inizio insomma la medaglia sembrò spuntare dal nulla.

L'iconografia non era poi così originale: sul verso appaiono, riconoscibili a ogni cristiano di media cultura, due sacri cuori. Quello di Gesù si riconosce dalla corona di spine, quello di Maria dalla spada che, come le aveva annunciato Simeone, "ti trafiggerà il cuore" (Luca 2,35). Sopra c'è una M che sorregge una croce, un rebus abbastanza facile. Il tutto contornato di dodici stelle che, per dirla col lessico giornalistico, sono un vero giallo: benché infatti anche in questo caso il riferimento alle scritture sia molto chiaro (la corona delle dodici stelle della donna "rivestita dal sole", in Apocalisse 12,1), Catherine non sembra aver mai parlato di stelle. Forse sono un'aggiunta di padre Aladel, forse l'orafo sentiva semplicemente il bisogno di un motivo che incorniciasse l'ovale. La scelta avrà una conseguenza enorme e imprevista, se è vero che il giovane disegnatore Arsène Heitz stava proprio leggendo un libro sulla medaglia miracolosa nel periodo in cui disegnava bozzetti per la bandiera del Consiglio Europeo; ne propose diversi, ma alla fine la giuria laica e inconsapevole scelse proprio la corona di dodici stelle in campo azzurro, che poi fu ripresa dagli altri organismi europei e oggi è la bandiera della UE che gli ucraini nei cortei sventolano con allegro coraggio e i forconi italiani strappano rabbiosi dai pennoni degli edifici pubblici (non si potrebbe semplicemente fare uno scambio? i forconi per tre mesi in Ucraina, gli ucraini al loro posto in Italia, vediamo chi cambia idea su cosa). Gli euroburocrati non se ne erano resi conto - e continuano a smentire - ma hanno messo un simbolo mariano sulla bandiera federale: se aggiungi che la scelta fu presa proprio un otto dicembre, festa dell'Immacolata Concezione... però tutte queste cose le racconta Vittorio Messori, e forse andrebbero ricontrollate una per una.

Catherine, con i suoi gadget
Di tutto ciò Catherine è innocente: lei le dodici stelle non le aveva proprio viste. Aveva visto invece la Madonna raggiante custodire un pianeta nella mano, e aveva sentito una voce dire "Questo piccolo globo simboleggia il mondo intero e ogni anima in particolare". Ogni anima è un mondo, non è mica una brutta immagine: ma nella medaglietta non c'è. Ci sono i raggi che "simboleggiano le grazie che la Santa Vergine ottiene per coloro che le domandano": però il pianeta non c'è più, Aladel lo ha rimosso. La spiegazione più semplice tira in ballo la politica: il globo era una delle insegne regali. Nella prima metà dell'Ottocento era ancora universalmente collegato alla monarchia assoluta, quella che i francesi avevano appena liquidato con la rivoluzione del 1830. Il vescovo in quell'anno aveva dovuto lasciare la sede due volte onde evitare linciaggi e saccheggi; non era veramente il caso di mettere in giro medaglie di gusto monarchico-legittimista (di lì a poco anche i legittimisti saranno accusati di diffondere il colera). Eppure al globo Catherine ci teneva particolarmente: fino alla morte insistette affinché almeno la cappella del suo convento in rue de Bac si dotasse di un altare con la Madonna e il globo.

La cornice sul recto della medaglia non è stellata, ma reca l'iscrizione "O Marie, conçue sans péché, priez pour nous qui avons recours à vous": o Maria, concepita senza peccato, pregate per noi che ci affidiamo a voi. Così aveva udito Catherine, e così fu inciso nella medaglietta: sfidando l'autorità ecclesiastica, che non aveva ancora definito il dogma dell'immacolata concezione. D'altro canto il modello per la medaglietta fu una statua dell'Immacolata (opera settecentesca di Edmé Bouchardon) esposta nella chiesa di Saint Sulpice, insomma, l'immacolata non era esattamente un concetto originale. Il successo della medaglietta però ebbe l'effetto di sbloccare l'antico stallo tra maculisti e immaculisti e a ridare vigore a questi ultimi: il papa Gregorio XVI concesse la festa dell'otto dicembre, ma a decidersi una volta per tutte e a proclamare il dogma fu Pio IX nel 1854. Per la prima volta un dogma veniva dichiarato da un papa e non da un concilio: dunque il pontefice si considerava infallibile? La cosa avrebbe richiesto un altro concilio, ma nel frattempo a troncare la discussione intervenne la Madonna stessa, che apparendo nel 1858 all'ignara Bernardette Soubirous, le si presentò in perfetto occitano: "Que soy era immaculada concepciou". Ora uno degli argomenti che si sentono spesso, a favore di Bernardette, è che non fosse culturalmente in grado di inventare quello che stava raccontando: era una pastorella analfabeta, non aveva mai sentito parlare del dogma dell'immacolata concezione. Sarà. Però al collo aveva una medaglietta miracolosa in cui Maria era definita "concepita senza peccato", ovvero immaculada. Certo, Berardette era analfabeta. Magari nessuno le aveva spiegato cosa stava scritto in quella medaglietta. Ma insomma di apparizioni mariane poteva aver già sentito parlare, visto che ne portava al collo un'effigie. Dal canto suo, suor Catherine non appena seppe di Bernardette e delle apparizioni di Lourdes dichiarò: "È la stessa".

L'altro miracolo importante a cui è associata la medaglietta è la conversione dell'avvocato Alphonse Marie Ratisbonne durante una gita a Roma nel 1842. Professando un orgoglioso ateismo, il giovane di belle speranze accetta la sfida di un'amica di famiglia, che le propone di indossare la medaglietta e di recitare una preghiera di San Bernardo. La notte stessa nella sua camera d'albergo vede una croce, ma al risveglio l'ha già dimenticata. Il giorno dopo, mentre cerca affannosamente di vedere il papa (è l'ultimo desiderio prima di lasciare l'Urbe), segue incautamente l'amico nella chiesa di Sant'Andrea delle Fratte: lì ha una visione mariana che gli cambia la vita per sempre. Doveva lasciare l'Italia, salpare per l'oriente, vedere un altro po' di mondo prima di tornare a casa e sposare una nipote; decide lì per lì di battezzarsi e farsi monaco. Non c'è neanche bisogno di catechizzarlo perché all'improvviso conosce tutti i dogmi della fede cristiana. Alla conversione miracolosa verrà date ampia risonanza anche perché Alphonse Marie (fino a quel momento Alphonse Tobias) era di origine ebraica: e poche ore prima di infilare la medaglietta fatale aveva visitato il ghetto di Roma, scandalizzandosi per le condizioni in cui vivevano gli ebrei della città. Poi gli appare la madonna e da lì in poi tutto gli è chiaro, compresa la segregazione.

Ratisbonne dopo la cura
Dopo una breve militanza nei gesuiti, Ratisbonne fonderà il proprio ordine, con la priorità della conversione di musulmani ed ebrei. Terminerà i suoi giorni in Palestina. Il racconto della sua conversione, steso da lui medesimo, è un altro di quei memoriali ottocenteschi che sembrano invocare l'arrivo di Freud. Per quanto dichiari a ogni pagina di non aver mai ricevuto nessun tipo di cultura religiosa, né ebraica né cristiana, Ratisbonne inciampa nell'idea di Dio continuamente. Racconta per esempio di aver troncato di netto i rapporti col fratello maggiore, che si era convertito qualche anno prima, e che aveva dedicato un saggio monografico proprio su San Bernardo - tu guarda la coincidenza. Del fratello Alphonse non voleva più nemmeno sentir parlare (poi andranno in Palestina assieme). Alphonse ammette ancora di aver partecipato almeno a una riunione di ebrei che avrebbe avuto come oggetto una riforma dell'ebraismo, anche se garantisce che per tutta la riunione non si discusse mai di Dio, né della sua legge: e si capisce che lo dice con rammarico. Quando l'amica di famiglia gli propone di pregare San Bernardo, accetta con allegria, e per un attimo gli balena l'idea di uno scambio: purtroppo non conosce nessuna preghiera ebraica da insegnare all'amica.

Tutto insomma contribuisce a proiettare la figura dell'ateo devoto: quel tipo di persona che, con la scusa di ribadire che non esiste, ha in bocca dio continuamente. Sono i più facili da convertire, di solito stanno soltanto aspettando la spinta giusta. La signora che gli mise al collo la medaglietta conosceva il suo pollo, per così dire. Ma ancora oggi è abbastanza facile tracciarli, gli atei così. Sono loro stessi che escono allo scoperto, con lunghi discorsi che all'orecchio annoiato dell'esperto suonano come un semplice grido: convertimi convertimi! non subito, ma presto! Il resto del tempo stanno spiegando la religione ai papi o la scienza agli scienziati, o viceversa, a un certo livello è uguale. C'è poco da fare ironia, magari siamo tutti così. È piuttosto plausibile che una certa tensione verso l'assoluto, una certa ansia di sottomissione a una divinità, siano eredità ancestrali, genetiche magari: poi subentra l'educazione, e soprattutto in certi contesti si tende a reprimere anche queste inclinazioni: non si rutta a tavola e non si pensa a Dio. Prima o poi, però, come sappiamo, salta fuori tutto; alcuni riescono a sublimare dedicandosi ad altre speculazioni metafisiche: la filosofia, la matematica magari. Altri non ce la fanno. Rimane in loro questo vuoto pazzesco e non sanno come gestirlo. Potrebbe capitare a chiunque. Se almeno si potesse capire per tempo se siamo quel tipo di persone... forse un giorno basterà un analisi del dna... ma nel frattempo. Nel frattempo potreste replicare l'esperimento di Alphonse: accattatevi la medaglietta su internet, ripetete la preghiera di San Bernardo, vedete come va. Se non avete allucinazioni nel giro di una settimana, forse non siete quel tipo di persone. Magari un giorno ci provo anch'io. Appena trovo la medaglietta. Da qualche parte deve pur essere, non butto mai via niente. In ogni caso non c'è fretta, come diceva quello [2013].
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L'annosa questione del razzismo di Tolkien

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Make Middlearth Great Again
Sauron non è il Signore Oscuro di cui avete senz'altro sentito parlare, ma un sovrano illuminato che sostiene il progresso industriale. Il perfido Gandalf il Bianco, tiranno feudale (re Aragorn non è che il suo burattino) mira a impossessarsi delle ricche miniere di Mordor – certo, occorrerà sterminarne la popolazione, ma non ha nessuna importanza: la storia la fanno i vincitori, e i vincitori dipingeranno nelle saghe le vittime dello sterminio come mostri subumani, gli "Orchi". È la trama di The Last Ringbearer, la più politica delle parodie del Signore degli Anelli, scritta qualche anno fa da un biologo russo, Kiril Eskov. In Russia fu un caso editoriale, in Italia e nei Paesi anglosassoni è ancora inedito. Eskov ha immaginato che il Signore degli Anelli fosse un'opera di propaganda, e l'ha smontata in quanto tale. Ma l'operazione non avrebbe funzionato così bene se lo stesso Signore degli Anelli non fosse un'opera che si presta, proprio per la sua architettura semplice, ma maestosa, a essere smontata e ricomposta. È una delle qualità dei classici, e Il Signore degli Anelli evidentemente lo è diventato. Malgrado il suo razzismo? Perché ogni tanto l'accusa salta fuori, e c'è sempre qualcuno che si stupisce, come se fosse la prima volta. Ma per qualcuno è sempre la prima volta.

Mappa non autorizzata, anzi proibita, anzi l'ho ritrovata in un sito russo, spero non sia contagiosa.
Quando non hai niente di nuovo da dire, ma vuoi fare notizia comunque, puoi sempre dare a Tolkien del razzista. Funziona: vuoi perché il razzismo è sempre d'attualità, e Tolkien non passa mai di moda; vuoi perché trattandosi di un autore che va per la maggiore tra i giovanissimi, puoi ripescare lo stesso dibattito ogni cinque-dieci anni e troverai sempre qualche giovane lettore che ci rimane male, Tolkien razzista? Non l'aveva mai sentita. E poi c'è un'altra ragione, ovvero che Tolkien, per i nostri standard, è davvero un po' razzista. Veramente poco, per un inglese dell'ultima generazione coloniale; ma quanto basta per far scattare gli allarmi più sensibili, tarati sugli standard di multiculturalità del 2018; quanto basta per riavviare ogni tanto la polemica. Anche a causa dei suoi difensori, esperti e affezionatissimi, e non disposti a lasciar cadere l'argomento senza citare una volta in più le durissime parole di Tolkien sulle derive nazionaliste e antisemite che negli anni Trenta osservava sgomento manifestarsi sul Continente. E tuttavia Tolkien è anche lo scrittore che, dovendo procurarsi migliaia di comparse per le schiere del Male nelle scene di battaglia, decide di reclutarle tra i Popoli dell'Est e del Sud. Una classica commistione tra esotismo e pericolo che i lettori inglesi dovevano percepire come assolutamente naturale nel 1954, l'anno della pubblicazione in Gran Bretagna, e che nel 2018 facciamo molta più fatica a mandar giù.

Nel frattempo la Terra di Mezzo è diventata un universo cinematico, e i volti dei suoi protagonisti sono stati fissati nella coscienza di almeno una generazione dalle scelte di casting di Peter Jackson, filologicamente inappuntabili, ma proprio per questo un po' troppo nordiche per i gusti di uno spettatore globalizzato, assuefatto a prodotti hollywoodiani dove le percentuali di comprimari bianchi, neri e asiatici sono calcolate al millimetro. Jackson non ha neanche voluto evitare di attribuire agli Orchi e agli Orchetti una carnagione scura, ed era destino che prima o poi qualcuno decidesse che la cosa lo offendeva. L'ultimo in ordine di apparizione è Andy Duncan, scrittore fantasy che in un'intervista a Wired ha ammesso di non poter passare sopra alla concezione tolkeniana per cui "alcune razze sono semplicemente peggiori di altre, e che alcuni popoli sono semplicemente peggiori di altri". L'affermazione in sé non ha nulla di clamoroso, ma il Times l'ha ripresa e nel giro di poche ore aveva fatto il giro del mondo, o almeno quella porzione non piccola di mondo che va dal Times al Secolo d'Italia (continua su TheVision)

Ma se lo tagliano, sanguina? Apriamo il dibattito.

La polemica in sé non è affatto nuova, e in Italia in particolare non dovrebbe sorprenderci: in fondo siamo stati i primi a sospettare, già negli anni Settanta, che Tolkien fosse un fascista o peggio. Il Signore degli Anelli, che nell’area anglosassone era esploso nel 1968, anno della prima edizione “tascabile” – si fa per dire, non stava nemmeno nelle tasche degli eskimo di allora – ed era stato adottato gioiosamente dalle star della controcultura, in Italia ha avuto una storia tutta particolare. Fu pubblicato nel 1970 da Rusconi, un editore di rotocalchi a base di gossip sui Savoia e Padre Pio, con una famigerata prefazione di Elémire Zolla che non si contentava di anticipare la trama (oggi diremmo “spoilerare”), ma lo innalzava come stendardo di una letteratura anti-moderna, puramente ispirata al folklore e alla tradizione.

Tolkien a ben vedere era tutt’altro che rispettoso delle tradizioni a cui attingeva, e che spesso deliberatamente pervertiva, ma Zolla non voleva o non poteva accorgersene, e ormai il dado era tratto: liquidato dagli ambienti progressisti come autore d’evasione, negli anni Settanta Tolkien fu adottato da una sparuta ma combattiva minoranza di sedicenti intellettuali di destra a cui non sembrava vero poter disporre di un generoso serbatoio di leggende, neanche troppo difficili da leggere. Tolkien in realtà piaceva a tutti, ma i lettori di sinistra ci misero un po’ di tempo a riorganizzarsi. A fine anni Novanta la riduzione cinematografica rimescolò le acque: il Signore degli Anelli entrò a tutti gli effetti anche in Italia nel calderone della cultura pop, proprio mentre i Wu Ming tentavano di recuperarlo a sinistra, insistendo sull’aspetto multiculturale di quel melting pot che è la Compagnia dell’Anello, e sul fatto che i veri eroi del romanzo non siano i tradizionali cavalieri feudali, ma gli hobbit, antieroi provinciali. Tolkien in generale è un autore molto più raffinato e sfuggente di quanto sembri a prima vista. L’affetto che nutre per i miti che rielabora è molto più smaliziato di quanto appaia; le sue fiabe non hanno un lieto fine, Bene e Male restano intimamente connessi.

E allo stesso tempo Tolkien resta un uomo del suo tempo, e al suo tempo non risultava così offensivo immaginare schiere di nemici avanzare da un Sud arido, a cavallo di elefanti. Possiamo decidere che questa cosa non sia più accettabile, e che l’opera di Tolkien sia destinata a seguire sugli scaffali più alti quella di Kipling o di altri autori dell’era coloniale che solo gli addetti ai lavori sono ancora in grado di leggere senza avvertire un inevitabile fastidio, lo choc culturale che proviamo di fronte all’implicito razzismo che permeava la cultura europea fino a pochi decenni fa.

Ma probabilmente non andrà a finire così: Tolkien sembra ancora avere molto da dirci (più di Kipling, tutto sommato). Un’opera che può essere ancora letta da destra, da sinistra, come una saga di eroi o come materiale di propaganda, non dà l’impressione di poter tramontare ancora per almeno una generazione. Se ne riparlerà tra quattro o cinque anni, quando qualcuno magari si accorgerà che Tolkien odia i ragni proprio mentre l’aracnofobia diventa uno stigma sociale, e qualche lettore appena arrivato strabuzzerà gli occhi: ma come, Tolkien aracnofobo? Peccato, e dire che mi piaceva così tanto.

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Morte di un tecnico (nella Cattedrale)

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29 dicembre: San Thomas Becket, arcivescovo di Canterbury, tecnico e martire (1118-1170)

Otford è un graziosa cittadina del Kent con un lieve difetto: non vi cantano gli usignoli. Anche prima che si disboscasse per far passare l'autostrada M26, a Otford di usignoli non ce n'è, o se ce n'è stanno zitti. Gli abitanti dicono che è colpa di San Thomas arcivescovo, o meglio: è colpa degli usignoli che cantavano troppo una notte che l'arcivescovo voleva pregare in santa pace: così li ha zittiti per sempre. In questo episodio, ovviamente apocrifo, c'è tutto il carattere di Thomas. Anche a Francesco d'Assisi, di una generazione più giovane, è attribuita la facoltà di silenziare gli uccelli: il senso dell'aneddoto però è completamente diverso, Francesco tratta le rondini di Alviano da sorelle, gli usignoli di Otford per Thomas sono semplici seccatori. Francesco è il santo più popolare, Thomas qualche anno fa ha partecipato a un controverso sondaggio sul "peggiore personaggio storico britannico" classificandosi secondo dietro a Jack lo Squartatore, il che è un'autentica ingiustizia: Becket non ha mai fatto a pezzi nessuno. Semmai lui è stato fatto a pezzi, e dal suo sacrificio ci hanno guadagnato in tanti; e adesso lo infamano.

Mi piacciono le miniature sui fatti di cronaca.
L'ipotesi è che il vago sentimento di antipatia che circonda il più venerato santo inglese dipenda dal fatto che Thomas è quel che oggi definiremmo un tecnico: uno che chiami perché faccia un lavoro e lo faccia bene, e non t'interessa se nella sua intimità veste un cilicio o zittisce per sempre gli usignoli. Abbiamo tutti bisogno di tecnici, ma li odiamo. Forse perché intuiamo di essere totalmente in loro potere. Malediciamo gli idraulici, gli elettrauto li vorremmo morti; per loro fortuna non abbiamo cavalieri al nostro servizio che realizzino le nostre minacce. Thomas non fu altrettanto fortunato.

Suo padre era un mercante normanno che aveva fatto fortuna nell'Inghilterra conquistata di fresco. Aveva amici nobili che avevano insegnato a Thomas a cacciare col falcone e altre menate aristocratiche cui non seppe rinunciare neanche quando vestì l'abito di arcivescovo. L'amico più importante, l'abate Teobaldo di Bec, lo indirizzò agli studi, e lo prese al suo servizio quando gli affari del padre andarono male. Thomas aveva abbandonato l'università di Parigi dopo un anno, ma proseguì gli studi a Bologna e Auxerre. Nel frattempo Teobaldo di Bec era diventato arcivescovo di Canterbury, ovvero primate d'Inghilterra: colui cui spettava incoronare i re, per intenderci. A trentasei anni Thomas divenne il suo arcidiacono. A trentasette la svolta improvvisa: il re Enrico II, su consiglio di Teobaldo, lo nominò suo cancelliere. Fino a quel momento Thomas era stato un tecnico di diritto canonico: al re però serviva tutt'altro, un primo ministro che riuscisse a farsi pagare le tasse da tutti, compresi i grandi proprietari. E persino, sì, la Chiesa: anche da lei Enrico II pretendeva un tributo, lo so, è inimmaginabile, sono barbare usanze medievali che comunque il cancelliere Thomas assecondò. Il canonico dell'arcivescovo cambiò casacca e divenne un vero mastino laicista, uno strenuo difensore delle prerogative del regno. Forse è per questo che è arrivato secondo solo dietro a Jack the Ripper? Macché, questo è solo l'inizio.

Sei anni dopo l'arcivescovo Teobaldo muore. Enrico II a quel punto ha una gran voglia di insediare Thomas al suo posto. Questi rifiuta più volte, e non lo fa per modestia (carattere che nessun cronista gli attribuisce): ma conosce troppo bene sia Canterbury sia il re per non capire che il conflitto d'interessi lo stritolerà. Grazie, no, gli risponde: "Perderei la benevolenza di vostra maestà, e l’affetto di cui mi onorate si trasformerebbe in odio, giacché diverse vostre azioni volte a pregiudicare i diritti della Chiesa mi fanno temere che un giorno potreste chiedermi qualcosa che non potrei accettare". Fu nientemeno che il Papa Alessandro III a sbloccare la situazione: conosceva Thomas e si fidava di lui. Oltre ad avere bisogno del sostegno della corona d'Inghilterra: mezza Europa non lo riconosceva, Federico Barbarossa lo aveva rimpiazzato con un antipapa.

Alessandro comunque aveva visto giusto. Cambiata l'ennesima casacca, Thomas diventò un geloso difensore delle prerogative ecclesiastiche, tanto quanto prima era stato uno zelante difensore delle prerogative regie. Era evidentemente un tecnico, uno che di mestiere difendeva le prerogative del migliore offerente. Non significa necessariamente che fosse un uomo arido. Tra i vari incarichi che ricoprì, gli capitò anche di dover fare il regio babysitter: allevò per qualche anno il principe Enrico il Giovane, quello che tanto avrebbe desiderato diventare Enrico III, invano. Sembra che il Giovane abbia dichiarato di avere ricevuto da Thomas più affetto paterno in un giorno che dal suo vero padre in tutta la vita.

Mentre lo squinternavano, diceva
tante cose nobilissime, riportate
in varie cronache.

Ad alienare definitivamente padre e patrigno fu una questione di diritto canonico. Al tempo i membri del clero, se accusati di un crimine anche grave, potevano essere giudicati soltanto da un tribunale ecclesiastico. Questo tribunale poteva infliggere multe e pene anche peggiori, come la dismissione dallo stato clericale ("laicizzazione") o addirittura la scomunica... ma non poteva spargere il sangue: nemmeno una stilla. Viceversa, nei tribunali civili di Enrico II pene di morte e mutilazioni erano ancora all'ordine del giorno. Fa un po' effetto pensare che la laicità a quel tempo fosse una pena sostitutiva del patibolo, ma le cose stavano così: ammazzi qualcuno? ti trovano in flagranza di reato? Se sei un laico, ti mutilano o ti ammazzano. Se sei un prete... non lo sei più. La cosa presentava ovvi vantaggi, tanto più che non riguardava soltanto preti monaci e vescovi, ma anche gli ordini minori, insomma si calcola che un quinto dei sudditi di Enrico potesse teoricamente delinquere senza temere la giustizia del re. Il quale re non discuteva nemmeno il privilegio ecclesiastico, ma ragionava in questi termini: se laicizzate un omicida, quello non è più un prete, e quindi perché a quel punto non posso farlo arrestare e giudicarlo io? Basta mettere un mio uomo in ogni corte ecclesiastica, e ci pensa lui ad arrestare i laicizzati e a portarli in un tribunale ordinario... ma per i vescovi questo non si poteva fare. I vescovi in realtà erano perlopiù disponibili a discuterne, e magari anche un po' corruttibili, tranne ovviamente Thomas. Enrico gli tolse tutto quello che gli aveva elargito da cancelliere, compresa la custodia del principino, ma niente da fare.

A Clarendon nel 1164 Thomas fu messo davanti a un documento (le Costituzioni di Clarendon) che per la prima volta metteva per iscritto alcuni principi della common law inglese, in particolare la competenza dei tribunali laici nei riguardi dei chierici colpevoli di crimini secolari. Thomas affermò di accettare, ma poi non firmò, o forse firmò ma immediatamente dopo cercò di lasciare l'Inghilterra, il che era esplicitamente proibito dalle Costituzioni. Arrestato, condannato, Thomas arrivò comunque in Francia l'anno dopo, prima ospite dei monaci cistercensi e poi di Luigi VII, un re che se c'era da fare un dispetto al collega inglese, non si tirava mai indietro. Tra i due c'era ben più di un contenzioso diplomatico: la moglie di Enrico, Eleonora di Aquitania, era stata un tempo moglie di Luigi, gli aveva dato qualche figlio e lo aveva persino accompagnato in una crociata, che aveva messo a dura prova la convivenza della coppia. Eleonora non era solo bellissima, era anche il miglior partito d'Europa: possedeva mezza Francia e quando Luigi aveva consentito all'annullamento del matrimonio certo non aveva immaginato che di lì a poco Eleonora si sarebbe fidanzata con un Re rivale. Le seconde nozze di Eleonora avevano reso Enrico il signore del più grande dominio feudale d'Europa, esteso dalla Scozia fino alla Francia occidentale: questo può spiegare la disponibilità di Luigi a ospitare l'arcivescovo ormai nemico dichiarato della corona d'Inghilterra. Molto più tiepido il Papa, che con Enrico non voleva rompere assolutamente, e che cercava di ricomporre il dissidio scrivendo lettere a tutte le parti in causa con versioni che però non combaciavano. Thomas da parte sua aveva una sola arma a disposizione – la minaccia di scomunica nei confronti dei sostenitori del re – e cominciò a usarla: ma come tutte le minacce, è un'arma che a snudarla troppo si consuma. Un primo tentativo di scomunicare il collega vescovo di Londra, Foliot, andò a vuoto, perché Foliot riuscì a dimostrare che Thomas non gli aveva mandato un preavviso previsto per legge. Thomas, si cominciava a dire in giro, è uno che prima condanna e poi giudica.

Proprio quando le parti stavano faticosamente arrivando a un compromesso, che conveniva a tutti, un evento esacerbò il già agro arcivescovo: Enrico decise di associare al trono il suo primogenito, proprio l'ex pupillo di Thomas: e chiamò a incoronarlo l'arcivescovo di York. Ora, da che mondo è mondo, i re d'Inghilterra li incorona l'arcivescovo di Canterbury. Thomas alla fine accettò di tornare sull'isola, ma quasi appena sbarcato mandò un triplo giro di scomuniche, ai vescovi di York, di Londra e di Salisbury, che erano stati presenti alla cerimonia. Questi fecero immediatamente appello al re, il quale, quando fu informato della tripla scomunica, si incazzò molto. Pronunciò in quell'occasione qualcosa di cui in seguito ebbe a pentirsi, anche se non sappiamo esattamente cosa. Ci sono varie versioni, diversi resoconti, perché il martirio di Thomas non è solo l'ultima leggenda del medioevo: è anche uno dei primi fatti di cronaca nera di risonanza europea, per mesi e anni nelle corti e nei chiostri non si parlò d'altro. Per il biografo ufficiale Enrico avrebbe detto: "Quali miserabili traditori ho allevato e cresciuto nella mia casa, che lasciano che il loro signore sia trattato così vergognosamente da un chierico di umili natali?" Ve lo immaginate un re incazzato del dodicesimo secolo che parla così? Diciamo che una frase tanto elaborata, ancorché verosimile in un contesto cortigiano, si presta male alla tesi della difesa, che sostiene che fu uno sbotto di collera: così nei secoli ha avuto più successo la teoria secondo cui Enrico disse semplicemente: "Nessuno mi libererà da questo prete turbolento?" Quattro cavalieri lo presero in parola e partirono immediatamente per Canterbury. Si chiamavano De Tracy, FitzUrse, Brito e Hugh de Morville, tutti e quattro cavalieri di alto lignaggio.



Anche di quel che accadde il 29 dicembre del 1170, 842 anni fa oggi, esistono vari resoconti. Tutti più o meno concordano sul fatto che i quattro cavalieri non volessero, in un primo momento, fare a pezzi il povero Thomas, e proprio all'interno della Cattedrale. Fu un incidente, come si dice. Prima di entrare avevano addirittura deposto le armi sotto un albero. Thomas era a pranzo in canonica quando si vede arrivare questi quattro normanni semianalfabeti che lo intimano di presentarsi a Winchester davanti a una corte del re, o qualcosa del genere. Presentarsi per chi? Per cosa? Ma chi siete? Ma come vi permettete? Io sono l'arcivescovo, fuori dai piedi.

A quel punto i quattro vanno a recuperare le armi sotto l'albero. Thomas nel frattempo si era spostato all'interno della cattedrale, voglio ben vedere se quei quattro senzadio mi seguono fin qui. I quattro entrano effettivamente nella casa del Signore, e ci entrano armati, ma non è che volessero proprio proprio uccidere l'arcivescovo, però... anche nel suo seguito c'è qualche testa calda, gira qualche brutta parola, insomma a un certo punto succede quel che ha da succedere. FitzUrse trafigge l'arcivescovo una prima volta, De Tracy vibra il secondo colpo. Brito mira un po' più in alto e gli scoperchia il cranio. Hugh de Morville non fa nulla, in compenso un suo intendente sparge la materia cerebrale sul pavimento. Poi, visto che ormai la frittata è fatta, i quattro pensano bene di saccheggiare la cattedrale. Ma non era che l'anticipazione di quanto sarebbe successo di lì a poco.

Morendo da martire, e proprio sul pavimento di una cattedrale che era già meta di pellegrinaggi, Thomas ebbe il raro privilegio di diventare una reliquia immediatamente, a piastrelle non ancora lavate. "Mentre giaceva immobile sul pavimento, qualcuno si imbrattava col suo sangue; altri che avevano portato piccoli recipienti si allontanarono immediatamente in tutta fretta con quanto sangue poterono, altri ancora vi intinsero avidamente brandelli di stoffa strappati dai loro vestiti: alla fine nessuno parve appagato se non avesse portato via un po' di quel prezioso tesoro". Non appena la folla di cacciatori di sacri resti si fu un po' diradata, i monaci presero quel che restava del corpo e decisero di seppellirlo immediatamente, prima che qualche altro fanatico lo profanasse o qualche zelante cavaliere del re lo facesse sparire. Spogliandolo, scoprirono che sotto le ricche vesti arcivescovili indossava un cilicio: forse non era semplicemente un tecnico, forse in quel che faceva ci credeva davvero. Questo almeno si è deciso di raccontare, aggiungendo via via elementi alla leggenda (non è vero, come si legge qua e là, che una volta nominato al seggio di Canterbury si sarebbe tagliato i capelli). I miracoli non si fecero attendere, verso sera c'era già una paralitica risanata dal contatto col sacro sangue dell'arcivescovo. Di lì a poco cominciò il commercio di ampolle di sangue arcivescovile, opportunamente diluito, probabilmente fino a diventare trasparente anche se l'omeopatia ufficialmente è nata qualche secolo dopo.

Mentre Canterbury si avviava a diventare la Lourdes inglese – e gli inglesi se si impegnano non sono secondi a nessuno – in Normandia Enrico II si lasciava rodere dai sensi di colpa. Forse. O forse fu tutta una messinscena. Di lì a poco la moglie un po' sfiorita ma ricchissima e il primogenito con la fissa dei tornei si allearono per estrometterlo dal governo del regno. Portarono dalla loro parte anche il fratello Riccardo, mentre l'ultimogenito, Giovannino Senzaterra, rimase dalla parte di papà. Schiacciare i rivoltosi fu così semplice che Enrico non se la prese nemmeno troppo con chi gli aveva finalmente dato una buona scusa per mettere agli arresti la vecchia moglie. Riccardo, non ancora esattamente un Cuor di Leone,  si guadagnò il perdono strisciando in lacrime. Enrico il Giovane sembrò per qualche anno rinunciare a ogni velleità di fare il re per davvero, e si rituffò in un'intensa attività agonistica, torneando in tutta Europa. Durante la rivolta il padre aveva ritenuto giusto riconciliarsi con la Chiesa, recandosi in pellegrinaggio a Canterbury e passando una notte insieme con la salma dell'ex validissimo collaboratore. Il Papa approvò e perdonò ufficialmente, nel mentre che si accingeva a santificare Thomas con una canonizzazione lampo – d'altro canto i miracoli registrati a Canterbury erano già centinaia. Dopo essere stato un cancelliere modello e un arcivescovo inflessibile, Thomas si era subito rivelato un santo di indiscutibile efficacia.

E i quattro cavalieri? Non furono nemmeno arrestati: se ne stettero per un po' autoreclusi in Scozia, e poi ottennero un solenne perdono in cambio dell'impegno ad andare in guerra contro i turchi. Non si sa se tornarono (non si sa nemmeno con sicurezza se partirono). Ma insomma, alla fine la sensazione è che il martirio di Thomas convenne a tutti: il re e il Papa giunsero finalmente a un compromesso sulle costituzioni di Clarendon; e gli inglesi ebbero un martire di prima categoria. Thomas ci rimediò, un secolo più tardi, una meravigliosa tomba placcata in oro e tutta incastonata di diamanti e pietre preziose, una gioia per gli occhi. Tre secoli dopo un altro Enrico, l'ottavo, spazzò via tutto in spregio dei papisti. Ma fino al Cinquecento Thomas con le sue ampolline e le sue grazie era stato il San Gennaro degli inglesi (e gli inglesi, se si impegnano, non sono secondi a nessuno). È il patrono di Londra, con San Paolo, e dei tecnici arcigni che tutti invocano nella necessità, e a cui nessuno vuole veramente un po' di bene. [2012]
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E un re perplesso scrisse l'Alleluja

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29 dicembre, San Davide Re e Profeta¹

Fu una segreta melodia
che suonò Davide al suo Dio,
– ma a te, lo so, la musica già annoia –
dal Do lei sale al Sol maggiore
e sale ancora (ma in minore)²,
e un re perplesso scrisse l’Alleluja:

Alleluja, Alleluja.

Credevi, ma chiedesti un segno:
era sul tetto a farsi un bagno³,
e mai ci fu una notte meno buia...
Ti legò al tavolo in tinello
ruppe il trono, i tuoi capelli
ti strappò, e di bocca un’alleluja!

Alleluja, Alleluja.

Dici che ho preso un nome invano:
non so cosa ci sia di strano.
(Non so neanche quale nome Lui ha).
Ogni parola ha la sua luce,
che importa a quale dai la voce:
sia santa o sia perduta, è un’alleluja.

Alleluja, Alleluja.

Feci il mio meglio, non granché:
non ero pronto a entrare in te;
l’amore non è un tema che si studia.
Ma ad ogni sciocco errore mio
renderò sempre lode a Dio,
e sulle labbra avrò solo: alleluja.

Alleluja, Alleluja.

Io queste stanze le rammento4
ho già spazzato il pavimento:
amarsi, sai, non è un inno alla Gioia.
Che importa se dalla ringhiera
sventola la tua bandiera?
Io sento solo un gelido Alleluja.

Alleluja, Alleluja.

E se mi chiedi se c'è un dio
quel che in amore ho appreso io
è a fare fuori il primo che ti incula5.
Perciò non è un pianto stasera
quel che senti, o una preghiera:
è solo un crudo e gelido Alleluja.

Alleluja, Alleluja6.

1. Non so perché il calendario cattolico festeggi re David il 29 dicembre, però è da anni che mi intestardisco a scrivere un testo italiano cantabile per questa canzone dalla storia bizzarra, che grazie a un cartone animato e al titolo apparentemente liturgico è entrata a far parte del repertorio nuziale in Italia: esatto, c'è gente che la vuole sentir cantare al proprio matrimonio. Benché parli di frustrazione affettiva e sessuale? O proprio per questo motivo? E ho sfidato la prosodia e il ridicolo perché voglio informare questo tipo di gente dell'errore, o perché continuava a girarmi in testa e non ne potevo più? A volte tradurre una canzone è un modo per ammazzarla. Non spesso, ma è probabilmente il mio caso.

2. Naturalmente non è obbligatorio suonarla in Do, io una volta a un matrimonio l'ho suonata in Do ma non vuol dire. Se avete una traduzione migliore fatevi avanti, coraggio.

3. Dopodiché mi sono chiesto: ma sul serio Betsabea, una donna sposata, si faceva il bagno nuda sul tetto a rischio di invaghire un sovrano in grado di inviare il marito in missione suicida? E infatti no, è Davide che sta sul tetto del suo palazzo reale, da dove può vedere ciò che gli altri non sospettano. Apparentemente è un malinteso causato dalla struttura del verso "You saw her bathing on the roof", ma a quanto pare questa brutta diceria su Betsabea dura da secoli (su Internet trovi decine di blog che difendono l'onore di Betsabea) (su Internet trovi di tutto).

4. Queste ultime due strofe Cohen le scrisse ma non le incise; si trovano invece nella versione di Jeff Buckley che è poi quella che scatenò l'hallelujah-mania.

5. Lo so, lo so, ma una volta che mi è venuta in mente non sono più riuscito a non sentirla così nella mia testa. Voi senz'altro avete una traduzione migliore di overthrew ya, non è vero? È il colpo di grazia alla canzone moribonda, mettiamola così. Provate a suonarla a un matrimonio, adesso.

6. [Le tre di un mattino di fine dicembre, ti scrivo per dirti che qui è come sempre. Fa freddo in città però non si sta male, qui fuori c'è musica, è ancora Natale. E tu? Stai in campagna? E fai il solitario? E vivi di niente? Spero almeno tu tenga un diario].
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