Novità in libreria! (settembre 2018)
02-09-2018, 11:10deliri, italianisticaPermalinkUn'altra estate è andata, autunno è alle porte, le vetrine delle librerie sostituiscono i best-seller cartonati da leggere in spiaggia con... cosa? Secondo gli esperti del mercato in autunno la leggibilità passa in secondo piano; le classifiche di vendita premiano altri parametri. Ecco una breve incursione tra le più interessanti uscite del mese.
DJ CONTENTO: I canti e altre poesie di Giacomo Leopardi, Copycut editrice.
Si fa ancora chiamare Dj, ma i tempi di CRISTO-MIA-ZIA! sono ormai un ricordo lontano. Contento non è più il bimbominchia spiritato che movimentava la scena dei primi anni Zero copia-incollando pagine dei classici della letteratura senza neanche darsi la pena di leggerli. L'importante era il groove, amava ripetere mentre mescolava versi di Carducci alle memorie di Natalia Ginzburg; e per un po' le classifiche dei download gli diedero ragione. Chi avrebbe mai immaginato che Contento negli anni diventasse uno degli autori più interessanti della sua generazione? A partire da Le Satire di Montale ma anche un po' di Giovenale (2011), Contento ha iniziato a usare sempre meno forbici e sempre più colla - digitale, s'intende - scivolando più o meno consapevolmente dalla poetica del Remix a quella dadaista dell'Objét Trouvé, centrata in pieno con la sua opera più conosciuta, Le città invisibili di Italo Calvino. Se il successivo I Promessi Sposi di Alessandro Manzoni pativa forse di un'eccessiva lunghezza, coi Canti e altre poesie di Giacomo Leopardi Contento ci offre forse il vertice della sua produzione. È straordinario come il suo copia-incolla riesca a trasformare composizioni ormai consunte da secoli di uggiosa consuetudine scolastica in qualcosa di nuovo: A Silvia, Il Sabato del Villaggio, perfino L'Infinito, grazie all'intervento minimale di Contento, brillano di una luce contemporanea che finalmente ce le fa apprezzare, regalandoci tutte quelle sensazioni che simulavamo al liceo per fare buona impressione sull'insegnante. Ormai è settembre, credo di potermi sbilanciare: I canti e altre poesie di Giacomo Leopardi di Dj Contento è il miglior libro italiano del 2018.
ALEX BHUPAL: Gli abissi fluviali, edizioni Adelfi.

Per la stagione autunno-inverno le edizioni Adelfi ripropongono un classico: la copertina lillà scuro, impreziosita da un'illustrazione. che attinge al catalogo un po' abusato (ma di pubblico dominio) delle avanguardie storiche. Il prezzo, come sempre, è la caratteristica più interessante del prodotto. Le Adelfi si sono imposte negli ultimi anni come l'alternativa di fascia bassa all'Adelphi – una volta sistemate sulla mensola sembrano identiche, benché costino meno della metà. Il contenuto boh, ho provato a sfogliarne un paio di pagine ma si scollavano, ho la sensazione che sia un manuale di ittiologia copiato da internet e impaginato in un Baskerville molto aggraziato. Insomma il libro ideale per dare un senso a quella mensola in alto che non sapete come riempire, o da portare su una panchina quando si vuole far colpo sulla tizia con gli occhiali che passa tutti i pomeriggi a pisciare il cane.
E. L. JAMES: Cinquanta sfumature di viola, c'è scritto Mondadori ma è un fake.
La trilogia sado-soft di E. L. James è già oggi uno dei testi più parodiati di tutti i tempi. Cinquanta sfumature di viola va più in là della semplice presa in giro, collocandosi a metà tra 'geniale operazione situazionista' e 'abominevole truffa'. Sotto lo pseudonimo "E. L. James" stavolta si nasconde un collettivo di femministe dall'umorismo molto discutibile, che si aggirano per le migliori librerie italiane sistemando il loro volume (assolutamente simile ai tre ufficiali) in posizioni strategiche. Le sprovvedute lettrici che si porteranno a casa Cinquanta sfumature di viola convinte di leggere il quarto episodio della saga, resteranno fortemente scioccate: la trama del romanzo prevede infatti che Anastasia, rapita da un misterioso nemico del marito, sia orribilmente torturata dalla prima all'ultima pagina, mentre attende fiduciosa l'arrivo di Grey - solo per scoprire che quest'ultimo in realtà si sta godendo lo spettacolo via webcam. Facendo tesoro della lezione del Sade più narrativo e meno teorico, il collettivo E. L. James non chiude mai uno spiraglio di speranza sull'ingenua protagonista, riuscendo a mantenere l'attenzione del lettore orripilato fino al ributtante finale che non vi anticipo perché, mio dio, poveri criceti. E questa è roba che smerciano alle ragazzine. Un'amica di mia nipote l'altro giorno per sbaglio ha iniziato a leggerlo, adesso non esce più di casa e la notte urla i criceti i criceti. Le librerie dovrebbero essere chiuse, tutte, con gli scrittori dentro.
DJ CONTENTO: I canti e altre poesie di Giacomo Leopardi, Copycut editrice.
Si fa ancora chiamare Dj, ma i tempi di CRISTO-MIA-ZIA! sono ormai un ricordo lontano. Contento non è più il bimbominchia spiritato che movimentava la scena dei primi anni Zero copia-incollando pagine dei classici della letteratura senza neanche darsi la pena di leggerli. L'importante era il groove, amava ripetere mentre mescolava versi di Carducci alle memorie di Natalia Ginzburg; e per un po' le classifiche dei download gli diedero ragione. Chi avrebbe mai immaginato che Contento negli anni diventasse uno degli autori più interessanti della sua generazione? A partire da Le Satire di Montale ma anche un po' di Giovenale (2011), Contento ha iniziato a usare sempre meno forbici e sempre più colla - digitale, s'intende - scivolando più o meno consapevolmente dalla poetica del Remix a quella dadaista dell'Objét Trouvé, centrata in pieno con la sua opera più conosciuta, Le città invisibili di Italo Calvino. Se il successivo I Promessi Sposi di Alessandro Manzoni pativa forse di un'eccessiva lunghezza, coi Canti e altre poesie di Giacomo Leopardi Contento ci offre forse il vertice della sua produzione. È straordinario come il suo copia-incolla riesca a trasformare composizioni ormai consunte da secoli di uggiosa consuetudine scolastica in qualcosa di nuovo: A Silvia, Il Sabato del Villaggio, perfino L'Infinito, grazie all'intervento minimale di Contento, brillano di una luce contemporanea che finalmente ce le fa apprezzare, regalandoci tutte quelle sensazioni che simulavamo al liceo per fare buona impressione sull'insegnante. Ormai è settembre, credo di potermi sbilanciare: I canti e altre poesie di Giacomo Leopardi di Dj Contento è il miglior libro italiano del 2018.
ALEX BHUPAL: Gli abissi fluviali, edizioni Adelfi.

Per la stagione autunno-inverno le edizioni Adelfi ripropongono un classico: la copertina lillà scuro, impreziosita da un'illustrazione. che attinge al catalogo un po' abusato (ma di pubblico dominio) delle avanguardie storiche. Il prezzo, come sempre, è la caratteristica più interessante del prodotto. Le Adelfi si sono imposte negli ultimi anni come l'alternativa di fascia bassa all'Adelphi – una volta sistemate sulla mensola sembrano identiche, benché costino meno della metà. Il contenuto boh, ho provato a sfogliarne un paio di pagine ma si scollavano, ho la sensazione che sia un manuale di ittiologia copiato da internet e impaginato in un Baskerville molto aggraziato. Insomma il libro ideale per dare un senso a quella mensola in alto che non sapete come riempire, o da portare su una panchina quando si vuole far colpo sulla tizia con gli occhiali che passa tutti i pomeriggi a pisciare il cane.
E. L. JAMES: Cinquanta sfumature di viola, c'è scritto Mondadori ma è un fake.
La trilogia sado-soft di E. L. James è già oggi uno dei testi più parodiati di tutti i tempi. Cinquanta sfumature di viola va più in là della semplice presa in giro, collocandosi a metà tra 'geniale operazione situazionista' e 'abominevole truffa'. Sotto lo pseudonimo "E. L. James" stavolta si nasconde un collettivo di femministe dall'umorismo molto discutibile, che si aggirano per le migliori librerie italiane sistemando il loro volume (assolutamente simile ai tre ufficiali) in posizioni strategiche. Le sprovvedute lettrici che si porteranno a casa Cinquanta sfumature di viola convinte di leggere il quarto episodio della saga, resteranno fortemente scioccate: la trama del romanzo prevede infatti che Anastasia, rapita da un misterioso nemico del marito, sia orribilmente torturata dalla prima all'ultima pagina, mentre attende fiduciosa l'arrivo di Grey - solo per scoprire che quest'ultimo in realtà si sta godendo lo spettacolo via webcam. Facendo tesoro della lezione del Sade più narrativo e meno teorico, il collettivo E. L. James non chiude mai uno spiraglio di speranza sull'ingenua protagonista, riuscendo a mantenere l'attenzione del lettore orripilato fino al ributtante finale che non vi anticipo perché, mio dio, poveri criceti. E questa è roba che smerciano alle ragazzine. Un'amica di mia nipote l'altro giorno per sbaglio ha iniziato a leggerlo, adesso non esce più di casa e la notte urla i criceti i criceti. Le librerie dovrebbero essere chiuse, tutte, con gli scrittori dentro.
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Il maschio a un bivio
28-08-2018, 17:29essere donna oggi, rifiutati, sessoPermalinkIn questi giorni mi piacerebbe scrivere qualche riga di solidarietà ad Asia Argento che non suonasse come un rimprovero o una presa in giro, ma mi sto rendendo conto che è difficile. Cioè io almeno non ne sono capace. Nel frattempo ho ritrovato un pezzo scritto a proposito di #MeToo in una fase di mezza primavera in cui succedeva di tutto, e soprattutto sembrava succedere tutto a persone che, come Asia Argento, avrebbero dovuto essere dalla parte giusta della cosiddetta barricata: Eric Schneiderman, Junot Diaz, Aziz Ansari... Non è mai stato (giustamente) pubblicato, però contiene uno spunto interessante che forse qualcun altro avrà evidenziato: tutte le vittime illustri di #MeToo, produttori, attori e registi (Asia Argento inclusa, a questo punto), sono di estrazione progressista: a scandalizzare non è tanto la condotta sessuale (Trump può fare di peggio senza soffrire grossi contraccolpi di immagine), ma il fatto che questa condotta sessuale smentisca la regole di condotta della società progressista: come se più che un problema di molestie fosse un problema di coerenza. A questo punto una via di salvezza potrebbe essere uscire dal progressismo. Perlomeno immaginavo che qualche maschio potesse essere tentato (ma perché le donne no in fondo). Vabbe', comunque eccolo qui, tenerlo in bozza all'infinito non ha senso.
Sono un maschio etero, meglio avvertire subito. È senz'altro un privilegio, e allo stesso tempo c'è poco da andare orgogliosi. Molti degli anni teoricamente più proficui per lo studio e il lavoro, li passiamo a pensare ossessivamente a come riprodurci: a escogitare tecniche, trappole, trabocchetti che in 99 casi su 100 non funzionano – ma quella volta su cento, ce la racconteremo per il resto della vita. Sarà l'istinto, l'evoluzione, la pressione sociale; in ogni caso è frustrazione, è fatica, a un certo punto ti domandi se ne uscirai mai. Alcuni non ne escono mai. Da qualche anno ho deciso che ne sono fuori: ormai ritengo di essere in grado di discutere con persone di sesso diverso senza fare la ruota o mostrare un petto più rosso del mio collega. Addirittura lo scorso inverno avevo voglia di dire la mia sul movimento #MeToo, che trovavo positivo per tanti motivi e discutibile per altri motivi. Questo probabilmente mi avrebbe portato a confrontarmi con interlocutrici di un sesso diverso dal mio, ma ero convinto di poter gestire la cosa in modo adulto e senza far valere la mia oggettiva, e odiosa, posizione di privilegio.
Ma poi ho sentito in sottofondo una vocina che mi diceva Stanne fuori, e all'inizio non capivo. La voce dello stesso istinto che mi aveva messo in tanti guai a vent'anni, ora mi pregava di mantenere un basso profilo. Come se avessi avuto qualcosa da perdere. Ci ho messo dei mesi a capire. Mesi in cui è successo di tutto, almeno negli USA. Guardiamo anche solo all'ultima settimana: il magistrato Eric Schneiderman si è dimesso dalla carica di procuratore (attorney) generale dello Stato di New York. Quattro donne che hanno avuto relazioni con lui lo accusano di molestie (abusi fisici non consensuali). Schneiderman durante i rapporti le avrebbe spesso picchiate e insultate: circostanze non del tutto negate dal magistrato, che però sostiene che si trattava soltanto di role-playing consensuale. Insomma abbiamo un procuratore che picchia le amanti, quella più scura di pelle la chiama "schiava", magari è convinto che ci stiano per gioco e invece è abuso di potere. Non sarebbe una notizia così dirompente, se Schneiderman non fosse il magistrato che in ottobre aprì l'inchiesta su Harvey Weinstein. Anche prima che scoppiasse #MeToo, si considerava ed era considerato un paladino dei diritti delle donne. Per dire che cosa assurda che è il maschio (etero): in pubblico difendi le donne e in privato chiedi il permesso di picchiarle, o ti illudi di averlo ottenuto. All'apparenza sei il boss, c'è gente che nell'intimità è disposta a inginocchiarsi davanti a te; in pratica in qualsiasi momento possono decidere il gioco non è più consensuale e merita di essere divulgato ai giornali. E tu lo sai: non sei un novellino. Ma ci caschi lo stesso. Essere maschi è assurdo.
In questa stessa settimana è caduto in disgrazia anche Junot Díaz, l'acclamato autore di La breve favolosa vita di Oscar Wao, accusato di cattiva condotta da un gruppo di colleghe. Díaz in almeno un caso avrebbe cercato di baciare una giovane scrittrice che non voleva saperne, ma nella maggior parte dei casi più che di molestie si tratterebbe di abusi verbali: a leggere le interviste, l'impressione è che sia uno che si infervora rapidamente. Appena lo contrari su un punto, spiega Carmen Maria Machado, la patina di progressismo casca a terra e rivela il solito bullo misogino. Anche in questo caso, la notizia in sé sarebbe minuscola: c'è uno scrittore che si comporta male con chi non è lesta a fargli i complimenti. Ciò che la rende eccezionale è che da quello scrittore ci si aspetta una particolare sensibilità perché è il celebrato rappresentante di una minoranza, e soprattutto ha appena raccontato di essere stato vittima di una violenza sessuale a otto anni. Anche quest'ultimo dettaglio ora assume una luce diversa: alcune delle sue accusatrici suggeriscono che Díaz potrebbe avere deciso di rendere nota una circostanza così drammatica per mettersi al riparo dalle accuse che riteneva imminenti.
Nel frattempo a Stoccolma sta succedendo qualcosa di veramente nuovo – pare che quest'anno non sarà consegnato il premio Nobel alla letteratura. La spiegazione vulgata su diverse testate è abbastanza incongrua: un fotografo, nemmeno un giurato dell'Accademia, ma un marito di una giurata, avrebbe palpato diverse donne, tra cui una principessa. Fatto grave e increscioso, ma insomma non si capisce perché a pagarne le conseguenze dovrebbe essere la comunità letteraria mondiale che da più di mezzo secolo considera il Nobel il premio più prestigioso. In effetti a dare un'occhiata più da vicino si scopre che la situazione è molto più complessa, e che tra gli accademici è scoppiata una tipica faida accademica. Veramente niente di nuovo sotto il sole, e infatti un litigio per determinare quale organizzazione debba consegnare il premio non sarebbe una grande notizia. Un fotografo che palpa le principesse funziona molto meglio. Specie qui da noi, dove torme di opinionisti non vedono l'ora che l'ondata del #MeToo si ritiri per beccare qualche vongola lasciata dalla risacca: lo vedete che le femministe esagerano, adesso per colpa loro non si consegna nemmeno più il Nobel eccetera eccetera.
C'è un'ultima notizia che mi piacerebbe dare, ovvero che nella settimana in cui i magistrati in prima linea contro le molestie si dimettono perché accusati di molestie, e gli scrittori sensibili si dimostrano insensibili, la popolarità di un presidente degli Stati Uniti che paga per far tacere un'escort è ai minimi storici. Ma non è così: anzi sembra proprio che anche l'ultimo scandalo sessuale non abbia avuto nessun influsso sul gradimento espresso dai cittadini USA per Donald Trump. Conta molto di più un'esternazione sulla Corea o sull'Iran o sull'opportunità di armare gli insegnanti. Questo paradosso per cui l'elettorato repubblicano più bacchettone è disposto a perdonare a Trump qualsiasi disavventura extraconiugale non può stupire noi italiani: vent'anni di Berlusconi dovrebbero averci insegnato almeno che i conservatori sanno essere molto tolleranti nei confronti delle abitudini sessuali dei loro leader. Ma anche se fossimo americani a questo punto ci saremmo messi il cuore in pace: Trump è quello che prima delle elezioni spiegava che le donne vanno afferrate "by the pussy": gli americani lo sapevano e l'hanno votato così.
Un'escort in più o in meno non cambierà la sua immagine: se c'è qualcuno che può pensare di uscire indenne dall'ondata rivoluzionaria del #MeToo è proprio Trump. Non il procuratore Eric Schneiderman, che pure aveva cercato di metterlo sotto inchiesta; non l'Accademia di Stoccolma, faro del progressismo mondiale; non Junot Díaz, scrittore ispanoamericano vittima di abusi. Non Woody Allen, icona della New York intellettuale, su cui continuerà a pendere un sospetto orribile (benché giuridicamente inconsistente); non Louis CK, che prima di masturbarsi di fronte alle sue sottoposte chiedeva il permesso, illudendosi che non si trattasse di abuso di potere; non Aziz Ansari, attore e regista che ha dato la voce a una generazione di asiatici-americani che lottano contro gli stereotipi razziali, ma una sera ha sbagliato a versare il vino a una ragazza e si è ritrovato alla berlina sulle testate di tutto il mondo. Non fossero stati tutti a loro modo personaggi-simbolo, le loro piccole o grandi miserie non avrebbero interessato così tanti lettori e lettrici. Alcune di queste miserie sono reati, altre fantasie; non sta a me stabilirlo, per fortuna. Non sta a me nemmeno giudicare #MeToo, che come tutte le rivoluzioni non è un pranzo di gala: c'è chi la cavalca con le migliori intenzioni e chi ne approfitta, e a volte l'astuzia e il cinismo dei secondi è più efficace delle buone intenzioni dei primi. Io sono solo un maschio etero di fronte a un bivio, come tutti: posso scegliere di restare un maschio etero progressista, perché in un certo senso lo ero già, anche se gli standard si stanno facendo sempre più esigenti. Alcune tecniche che ho messo in pratica negli anni in cui riprodursi era un pensiero fisso e insopprimibile, da qualche anno in qua anche in Italia sono sanzionate dal codice penale. Se scelgo il progresso, sarò al sicuro dall'ondata? No. Ho comunque fatto degli errori, a vent'anni si è molto stupidi – nulla di eccezionale, ma sufficiente a farmi perdere la faccia – e chi li ha subiti ha tutto il diritto di rinfacciarmeli. Ma c'è un'altra strada.
La strada che ritorna indietro. Se scegli il progresso, ti esponi al giudizio delle tue contemporanee: ma se lo rifiuti? Se ti opponi al femminismo, se irridi il politically correct, perché dovrebbero prendersela con te? È come se scomparissi dal loro radar. #MeToo è una rivoluzione tutta interna al fronte progressista. I tuoi giochini sadomaso diventano notizie solo se sei un magistrato in prima linea contro i femminicidi. I tuoi incidenti relazionali sono interessanti soltanto se fai parte della tribù che rispetta le donne come esseri umani. Ma c'è un'altra tribù che continua a trattarle male, e non è così sfigata come tribù, dopotutto: negli USA elegge persino i presidenti. Quindi scegli: dove ti divertirai di più? Dove rischi di meno?
Essere maschi è assurdo. Forse lo è sempre stato, ma l'evoluzione della società non gioca a nostro favore. Certi istinti nel medio-lungo termine diventeranno più fastidi che vantaggi, come i denti del giudizio. Non ha più molto senso fare la ruota ma ci piace ancora farla. Molte femmine ci trovano fastidiosi e ridicoli e non si vergognano più a farcelo sapere. Ora la scelta è la seguente: sopprimere l'istinto che ci spinge a gonfiare il petto ed esporre i bargigli, oppure scegliere un pollaio meno progressista. Io una scelta del genere l'ho fatta tanti anni fa. Non fu nemmeno una scelta: le ragazze che mi interessavano erano tutte nella tribù a sinistra. Certo, avrei dovuto imparare una serie di buone maniere, e proprio nel momento in cui un istinto evolutivo mi spingeva a spargere più seme possibile: era una condizione lacerante, ma era comunque chiaro che ne valeva la pena. Ma se avessi vent'anni oggi? Dove mi guiderebbe il, il cuore?
Sono un maschio etero, meglio avvertire subito. È senz'altro un privilegio, e allo stesso tempo c'è poco da andare orgogliosi. Molti degli anni teoricamente più proficui per lo studio e il lavoro, li passiamo a pensare ossessivamente a come riprodurci: a escogitare tecniche, trappole, trabocchetti che in 99 casi su 100 non funzionano – ma quella volta su cento, ce la racconteremo per il resto della vita. Sarà l'istinto, l'evoluzione, la pressione sociale; in ogni caso è frustrazione, è fatica, a un certo punto ti domandi se ne uscirai mai. Alcuni non ne escono mai. Da qualche anno ho deciso che ne sono fuori: ormai ritengo di essere in grado di discutere con persone di sesso diverso senza fare la ruota o mostrare un petto più rosso del mio collega. Addirittura lo scorso inverno avevo voglia di dire la mia sul movimento #MeToo, che trovavo positivo per tanti motivi e discutibile per altri motivi. Questo probabilmente mi avrebbe portato a confrontarmi con interlocutrici di un sesso diverso dal mio, ma ero convinto di poter gestire la cosa in modo adulto e senza far valere la mia oggettiva, e odiosa, posizione di privilegio.
Ma poi ho sentito in sottofondo una vocina che mi diceva Stanne fuori, e all'inizio non capivo. La voce dello stesso istinto che mi aveva messo in tanti guai a vent'anni, ora mi pregava di mantenere un basso profilo. Come se avessi avuto qualcosa da perdere. Ci ho messo dei mesi a capire. Mesi in cui è successo di tutto, almeno negli USA. Guardiamo anche solo all'ultima settimana: il magistrato Eric Schneiderman si è dimesso dalla carica di procuratore (attorney) generale dello Stato di New York. Quattro donne che hanno avuto relazioni con lui lo accusano di molestie (abusi fisici non consensuali). Schneiderman durante i rapporti le avrebbe spesso picchiate e insultate: circostanze non del tutto negate dal magistrato, che però sostiene che si trattava soltanto di role-playing consensuale. Insomma abbiamo un procuratore che picchia le amanti, quella più scura di pelle la chiama "schiava", magari è convinto che ci stiano per gioco e invece è abuso di potere. Non sarebbe una notizia così dirompente, se Schneiderman non fosse il magistrato che in ottobre aprì l'inchiesta su Harvey Weinstein. Anche prima che scoppiasse #MeToo, si considerava ed era considerato un paladino dei diritti delle donne. Per dire che cosa assurda che è il maschio (etero): in pubblico difendi le donne e in privato chiedi il permesso di picchiarle, o ti illudi di averlo ottenuto. All'apparenza sei il boss, c'è gente che nell'intimità è disposta a inginocchiarsi davanti a te; in pratica in qualsiasi momento possono decidere il gioco non è più consensuale e merita di essere divulgato ai giornali. E tu lo sai: non sei un novellino. Ma ci caschi lo stesso. Essere maschi è assurdo.
In questa stessa settimana è caduto in disgrazia anche Junot Díaz, l'acclamato autore di La breve favolosa vita di Oscar Wao, accusato di cattiva condotta da un gruppo di colleghe. Díaz in almeno un caso avrebbe cercato di baciare una giovane scrittrice che non voleva saperne, ma nella maggior parte dei casi più che di molestie si tratterebbe di abusi verbali: a leggere le interviste, l'impressione è che sia uno che si infervora rapidamente. Appena lo contrari su un punto, spiega Carmen Maria Machado, la patina di progressismo casca a terra e rivela il solito bullo misogino. Anche in questo caso, la notizia in sé sarebbe minuscola: c'è uno scrittore che si comporta male con chi non è lesta a fargli i complimenti. Ciò che la rende eccezionale è che da quello scrittore ci si aspetta una particolare sensibilità perché è il celebrato rappresentante di una minoranza, e soprattutto ha appena raccontato di essere stato vittima di una violenza sessuale a otto anni. Anche quest'ultimo dettaglio ora assume una luce diversa: alcune delle sue accusatrici suggeriscono che Díaz potrebbe avere deciso di rendere nota una circostanza così drammatica per mettersi al riparo dalle accuse che riteneva imminenti.

C'è un'ultima notizia che mi piacerebbe dare, ovvero che nella settimana in cui i magistrati in prima linea contro le molestie si dimettono perché accusati di molestie, e gli scrittori sensibili si dimostrano insensibili, la popolarità di un presidente degli Stati Uniti che paga per far tacere un'escort è ai minimi storici. Ma non è così: anzi sembra proprio che anche l'ultimo scandalo sessuale non abbia avuto nessun influsso sul gradimento espresso dai cittadini USA per Donald Trump. Conta molto di più un'esternazione sulla Corea o sull'Iran o sull'opportunità di armare gli insegnanti. Questo paradosso per cui l'elettorato repubblicano più bacchettone è disposto a perdonare a Trump qualsiasi disavventura extraconiugale non può stupire noi italiani: vent'anni di Berlusconi dovrebbero averci insegnato almeno che i conservatori sanno essere molto tolleranti nei confronti delle abitudini sessuali dei loro leader. Ma anche se fossimo americani a questo punto ci saremmo messi il cuore in pace: Trump è quello che prima delle elezioni spiegava che le donne vanno afferrate "by the pussy": gli americani lo sapevano e l'hanno votato così.
Un'escort in più o in meno non cambierà la sua immagine: se c'è qualcuno che può pensare di uscire indenne dall'ondata rivoluzionaria del #MeToo è proprio Trump. Non il procuratore Eric Schneiderman, che pure aveva cercato di metterlo sotto inchiesta; non l'Accademia di Stoccolma, faro del progressismo mondiale; non Junot Díaz, scrittore ispanoamericano vittima di abusi. Non Woody Allen, icona della New York intellettuale, su cui continuerà a pendere un sospetto orribile (benché giuridicamente inconsistente); non Louis CK, che prima di masturbarsi di fronte alle sue sottoposte chiedeva il permesso, illudendosi che non si trattasse di abuso di potere; non Aziz Ansari, attore e regista che ha dato la voce a una generazione di asiatici-americani che lottano contro gli stereotipi razziali, ma una sera ha sbagliato a versare il vino a una ragazza e si è ritrovato alla berlina sulle testate di tutto il mondo. Non fossero stati tutti a loro modo personaggi-simbolo, le loro piccole o grandi miserie non avrebbero interessato così tanti lettori e lettrici. Alcune di queste miserie sono reati, altre fantasie; non sta a me stabilirlo, per fortuna. Non sta a me nemmeno giudicare #MeToo, che come tutte le rivoluzioni non è un pranzo di gala: c'è chi la cavalca con le migliori intenzioni e chi ne approfitta, e a volte l'astuzia e il cinismo dei secondi è più efficace delle buone intenzioni dei primi. Io sono solo un maschio etero di fronte a un bivio, come tutti: posso scegliere di restare un maschio etero progressista, perché in un certo senso lo ero già, anche se gli standard si stanno facendo sempre più esigenti. Alcune tecniche che ho messo in pratica negli anni in cui riprodursi era un pensiero fisso e insopprimibile, da qualche anno in qua anche in Italia sono sanzionate dal codice penale. Se scelgo il progresso, sarò al sicuro dall'ondata? No. Ho comunque fatto degli errori, a vent'anni si è molto stupidi – nulla di eccezionale, ma sufficiente a farmi perdere la faccia – e chi li ha subiti ha tutto il diritto di rinfacciarmeli. Ma c'è un'altra strada.
La strada che ritorna indietro. Se scegli il progresso, ti esponi al giudizio delle tue contemporanee: ma se lo rifiuti? Se ti opponi al femminismo, se irridi il politically correct, perché dovrebbero prendersela con te? È come se scomparissi dal loro radar. #MeToo è una rivoluzione tutta interna al fronte progressista. I tuoi giochini sadomaso diventano notizie solo se sei un magistrato in prima linea contro i femminicidi. I tuoi incidenti relazionali sono interessanti soltanto se fai parte della tribù che rispetta le donne come esseri umani. Ma c'è un'altra tribù che continua a trattarle male, e non è così sfigata come tribù, dopotutto: negli USA elegge persino i presidenti. Quindi scegli: dove ti divertirai di più? Dove rischi di meno?
Essere maschi è assurdo. Forse lo è sempre stato, ma l'evoluzione della società non gioca a nostro favore. Certi istinti nel medio-lungo termine diventeranno più fastidi che vantaggi, come i denti del giudizio. Non ha più molto senso fare la ruota ma ci piace ancora farla. Molte femmine ci trovano fastidiosi e ridicoli e non si vergognano più a farcelo sapere. Ora la scelta è la seguente: sopprimere l'istinto che ci spinge a gonfiare il petto ed esporre i bargigli, oppure scegliere un pollaio meno progressista. Io una scelta del genere l'ho fatta tanti anni fa. Non fu nemmeno una scelta: le ragazze che mi interessavano erano tutte nella tribù a sinistra. Certo, avrei dovuto imparare una serie di buone maniere, e proprio nel momento in cui un istinto evolutivo mi spingeva a spargere più seme possibile: era una condizione lacerante, ma era comunque chiaro che ne valeva la pena. Ma se avessi vent'anni oggi? Dove mi guiderebbe il, il cuore?
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Questo pezzo ti farà incazzare (se sei contrario al crocefisso a scuola)
04-08-2018, 10:07cristianesimo, Cristo, scuola, TheVisionPermalinkQuesto pezzo [è uscito ieri su TheVision] ti farà incazzare. Se ti consideri un laico; se malsopporti le ingerenze della Chiesa cattolica nella società italiana, e in particolare nella scuola; se ti sei indignato la scorsa settimana, quando Salvini ha buttato lì di rendere obbligatori i crocefissi "ben visibili" in tutti i luoghi pubblici, scuole incluse, questo pezzo non ti farà passare l'indignazione, anzi.
Come se ce ne fosse bisogno – lo sai quanto mi piacerebbe, per una volta, scrivere un pezzo che ti desse ragione? Che le immagini religiose devono essere tolte da tutti i luoghi pubblici e in particolare dagli edifici scolastici, dove turbano senz'altro la sensibilità degli alunni che non si sentono cattolici, e che da un simbolo del genere possono ricevere il messaggio peggiore, ovvero quello identitario (in Italia veneriamo il crocefisso e se non ti va bene l'Italia non è il posto tuo)? I crocefissi dovrebbero essere tolti, anzi non dovevano nemmeno essere appesi, e Salvini è un sovranista che soffia sul fuoco dell'intolleranza mentre tira a campare mediaticamente: i rincari alla benzina non può evitarli, il crocefisso può appenderlo, anzi in molti casi non c'è neanche bisogno, è già lì. Tutto ciò ha perfettamente senso, ma non è quello che scriverò in questo pezzo che ti farà arrabbiare (come se ce ne fosse bisogno).
In questo pezzo magari scriverò che Salvini è un sovranista, certo, che soffia sul fuoco dell'intolleranza, sì, e che se ora tu prendi fuoco dall'indignazione stai assolutamente facendo il suo gioco. È quello su cui contava: infiammare un po' di progressisti laici, metterli contro i cattolici: proprio nel momento in cui l'argomento del giorno sono, come ogni estate, i profughi sui barconi; e proprio nel momento allo schieramento allarmista-xenofobo che chiede respingimenti a oltranza, se ne contrappone uno pietista che va dalla sinistra progressista laica ai cattolici e a Papa Bergoglio.
In questi momenti da qualche parte è come se suonasse un arrugginito campanello d'allarme, lampeggiasse una vecchia lucetta rossa non ancora del tutto opacizzata dagli anni: ALLARME CATTOCOMUNISMO! In questi momenti, da vent'anni chi è a destra tira fuori lo strumento d'emergenza: il crocefisso. Non è davvero un trucco originale, Salvini l'ha imparato da Berlusconi che ha avuto i suoi buoni maestri. Brandisci per una mezza giornata il crocefisso ed ecco fatto, lo schieramento avverso implode, i laici si incazzano perché non l'hanno ancora tolto dalle pareti delle scuole, i cattolici fanno presente che la figuretta di un morto appeso coi chiodi è un'immagine di pace, di tolleranza, addirittura se lo guardi bene un crocefisso è un abbraccio, no? Beh insomma il poveraccio hanno dovuto inchiodarlo perché tenesse le braccia così, comunque certo, ogni simbolo può rappresentare qualsiasi cosa. È un simbolo di morte, è un simbolo di vita, è il figlio di Dio, è un ebreo morto ammazzato, eccetera. Nel nostro caso diventa soprattutto il simbolo dell'inimicizia perenne tra cattolici e laici: i primi l'hanno messo a parete, i secondi non saranno soddisfatti finché dalle stesse pareti non sarà schiodato. L'inimicizia in realtà ha ragioni storiche ben più profonde, e muove da visioni della vita forse davvero inconciliabili (su aborto e su eutanasia un accordo non ci sarà mai): però il crocefisso s'impugna più comodamente, specie d'estate.
Questo pezzo ti farà incazzare perché ti vorrebbe suggerirti, caro laico, di non cascarci. Ci sono ottimi motivi per litigare coi cattolici; il crocefisso non è solo il meno interessante; è anche l'unico in cui leggi e sentenze ti danno torto. In effetti, quando Salvini chiede di appendere un Cristo alla parete di una scuola pubblica, non fa che chiedere che sia applicata una legge dello Stato. È vero, si tratta di due Regi Decreti, roba degli anni Venti. È vero, i medesimi decreti impongono di esporre a fianco del crocefisso l'effigie di Sua Maestà il Re, il che ci potrebbe indurre a ritenerli superati dalla prassi. Ma pare che non funzioni così con le leggi, e non lo sto dicendo io: lo hanno scritto, in diverse sentenze, il Tar del Veneto, la Corte Costituzionale e il Consiglio di Stato. Che altro si può fare, a questo punto? Denunciare lo Stato Italiano alla Corte europea dei diritti dell'uomo perché espone un simbolo religioso in un luogo pubblico frequentato da minori? Due genitori di Abano Terme, Massimo Albertin e Soile Lautsi, nello scorso decennio ci hanno provato, e in primo grado la corte di Strasburgo ha pure dato loro ragione. A quel punto però, cos'è successo? il capo del governo, Berlusconi si è fatto fotografare con un cristone enorme in mano, ha annunciato che lo Stato avrebbe fatto ricorso, subito appoggiato da alcuni esponenti del principale partito di opposizione (si chiamava PD) e dall'autorevole parere del presidente della Repubblica Giorgio Napolitano; alla fine il ricorso si fece e... il crocefisso lo vinse. (Continua su TheVision).
Se quindi stai pensando che sia ora di condurre una battaglia di laicità su tutti i fronti per staccare un simbolo confessionale da pareti laiche, questo pezzo ti farà incazzare perché ti rivelerà che la battaglia è già stata combattuta, e persa: persa al Tar, persa alla Consulta, persa al Consiglio di Stato, persa a Strasburgo. Questa è la dimostrazione che esiste un fronte pro-crocefisso che dalla destra identitaria arriva fino alla sinistra. Grazie alla pur ammirevole testardaggine di Albertin e Lautsi c’è una sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo che non riconosce l’esistenza di “elementi che attestino l’eventuale influenza che l’esposizione di un simbolo religioso sui muri delle aule scolastiche potrebbe avere sugli alunni.” Ti fa incazzare? T’avevo avvertito.
Potrai chiederti come mai, caro lettore incazzato, in quasi ottant’anni di Repubblica, nessun laico ha mai voluto affrontare la questione con la determinazione dei due genitori di Abano. C’è gente che si è fatta arrestare per ottenere il diritto all’aborto, che ha lottato per il divorzio, o l’eutanasia. Insomma di battaglie ne hanno fatte, i laici italiani: perché il crocefisso no? Domanda interessante.
Come se ce ne fosse bisogno – lo sai quanto mi piacerebbe, per una volta, scrivere un pezzo che ti desse ragione? Che le immagini religiose devono essere tolte da tutti i luoghi pubblici e in particolare dagli edifici scolastici, dove turbano senz'altro la sensibilità degli alunni che non si sentono cattolici, e che da un simbolo del genere possono ricevere il messaggio peggiore, ovvero quello identitario (in Italia veneriamo il crocefisso e se non ti va bene l'Italia non è il posto tuo)? I crocefissi dovrebbero essere tolti, anzi non dovevano nemmeno essere appesi, e Salvini è un sovranista che soffia sul fuoco dell'intolleranza mentre tira a campare mediaticamente: i rincari alla benzina non può evitarli, il crocefisso può appenderlo, anzi in molti casi non c'è neanche bisogno, è già lì. Tutto ciò ha perfettamente senso, ma non è quello che scriverò in questo pezzo che ti farà arrabbiare (come se ce ne fosse bisogno).
In questo pezzo magari scriverò che Salvini è un sovranista, certo, che soffia sul fuoco dell'intolleranza, sì, e che se ora tu prendi fuoco dall'indignazione stai assolutamente facendo il suo gioco. È quello su cui contava: infiammare un po' di progressisti laici, metterli contro i cattolici: proprio nel momento in cui l'argomento del giorno sono, come ogni estate, i profughi sui barconi; e proprio nel momento allo schieramento allarmista-xenofobo che chiede respingimenti a oltranza, se ne contrappone uno pietista che va dalla sinistra progressista laica ai cattolici e a Papa Bergoglio.
In questi momenti da qualche parte è come se suonasse un arrugginito campanello d'allarme, lampeggiasse una vecchia lucetta rossa non ancora del tutto opacizzata dagli anni: ALLARME CATTOCOMUNISMO! In questi momenti, da vent'anni chi è a destra tira fuori lo strumento d'emergenza: il crocefisso. Non è davvero un trucco originale, Salvini l'ha imparato da Berlusconi che ha avuto i suoi buoni maestri. Brandisci per una mezza giornata il crocefisso ed ecco fatto, lo schieramento avverso implode, i laici si incazzano perché non l'hanno ancora tolto dalle pareti delle scuole, i cattolici fanno presente che la figuretta di un morto appeso coi chiodi è un'immagine di pace, di tolleranza, addirittura se lo guardi bene un crocefisso è un abbraccio, no? Beh insomma il poveraccio hanno dovuto inchiodarlo perché tenesse le braccia così, comunque certo, ogni simbolo può rappresentare qualsiasi cosa. È un simbolo di morte, è un simbolo di vita, è il figlio di Dio, è un ebreo morto ammazzato, eccetera. Nel nostro caso diventa soprattutto il simbolo dell'inimicizia perenne tra cattolici e laici: i primi l'hanno messo a parete, i secondi non saranno soddisfatti finché dalle stesse pareti non sarà schiodato. L'inimicizia in realtà ha ragioni storiche ben più profonde, e muove da visioni della vita forse davvero inconciliabili (su aborto e su eutanasia un accordo non ci sarà mai): però il crocefisso s'impugna più comodamente, specie d'estate.
Questo pezzo ti farà incazzare perché ti vorrebbe suggerirti, caro laico, di non cascarci. Ci sono ottimi motivi per litigare coi cattolici; il crocefisso non è solo il meno interessante; è anche l'unico in cui leggi e sentenze ti danno torto. In effetti, quando Salvini chiede di appendere un Cristo alla parete di una scuola pubblica, non fa che chiedere che sia applicata una legge dello Stato. È vero, si tratta di due Regi Decreti, roba degli anni Venti. È vero, i medesimi decreti impongono di esporre a fianco del crocefisso l'effigie di Sua Maestà il Re, il che ci potrebbe indurre a ritenerli superati dalla prassi. Ma pare che non funzioni così con le leggi, e non lo sto dicendo io: lo hanno scritto, in diverse sentenze, il Tar del Veneto, la Corte Costituzionale e il Consiglio di Stato. Che altro si può fare, a questo punto? Denunciare lo Stato Italiano alla Corte europea dei diritti dell'uomo perché espone un simbolo religioso in un luogo pubblico frequentato da minori? Due genitori di Abano Terme, Massimo Albertin e Soile Lautsi, nello scorso decennio ci hanno provato, e in primo grado la corte di Strasburgo ha pure dato loro ragione. A quel punto però, cos'è successo? il capo del governo, Berlusconi si è fatto fotografare con un cristone enorme in mano, ha annunciato che lo Stato avrebbe fatto ricorso, subito appoggiato da alcuni esponenti del principale partito di opposizione (si chiamava PD) e dall'autorevole parere del presidente della Repubblica Giorgio Napolitano; alla fine il ricorso si fece e... il crocefisso lo vinse. (Continua su TheVision).
Se quindi stai pensando che sia ora di condurre una battaglia di laicità su tutti i fronti per staccare un simbolo confessionale da pareti laiche, questo pezzo ti farà incazzare perché ti rivelerà che la battaglia è già stata combattuta, e persa: persa al Tar, persa alla Consulta, persa al Consiglio di Stato, persa a Strasburgo. Questa è la dimostrazione che esiste un fronte pro-crocefisso che dalla destra identitaria arriva fino alla sinistra. Grazie alla pur ammirevole testardaggine di Albertin e Lautsi c’è una sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo che non riconosce l’esistenza di “elementi che attestino l’eventuale influenza che l’esposizione di un simbolo religioso sui muri delle aule scolastiche potrebbe avere sugli alunni.” Ti fa incazzare? T’avevo avvertito.
Potrai chiederti come mai, caro lettore incazzato, in quasi ottant’anni di Repubblica, nessun laico ha mai voluto affrontare la questione con la determinazione dei due genitori di Abano. C’è gente che si è fatta arrestare per ottenere il diritto all’aborto, che ha lottato per il divorzio, o l’eutanasia. Insomma di battaglie ne hanno fatte, i laici italiani: perché il crocefisso no? Domanda interessante.
La risposta provvisoria che mi sono dato è che il crocefisso è un simbolo, e la maggior parte dei laici italiani ha sempre pensato (a torto o a ragione) che i simboli fossero obiettivi secondari, sovrastrutture. Ciò che contava veramente era la lotta per il controllo dei mezzi di produzione, le riforme agrarie, il diritto allo sciopero: cose del genere. Anzi, forse in certi casi ci si poteva pure mettere d’accordo coi cattolici, lasciar loro i simboli e ottenere in cambio qualche concessione. Non sto dicendo che sia stato un buon affare, però le cose sono andate così. Lo stesso Mussolini, ex-socialista ateista e mangiapreti, quando si è ritrovato al potere è sceso a patti col Vaticano e, in cambio di un quartierino Oltretevere e un’ora di cattolicesimo in tutte le scuole del Regno, ha ottenuto il sostegno di tutte le parrocchie d’Italia.
Questo pezzo ti farà incazzare perché ti porrà la questione più o meno come se la deve essere posta Mussolini: se ci tengono davvero così tanto, a quei due legnetti, se li tengano. Vale la pena, per due legnetti, litigare con una parte cospicua del Paese? C’è il rischio di saldare una destra reazionaria, per la quale il crocefisso è un simbolo d’identità, con un centro moderato e solidale, per il quale rappresenta invece la pietà. A Salvini certo non dispiacerebbe, a noi tocca inventarci qualcosa di diverso.
Io un’idea ce l’avrei: se i cattolici e gli identitari ci tengono tanto al crocefisso, adottiamolo anche noi. Facciamolo nostro, tanto quanto è loro: i simboli sono di tutti, non c’è nessun marchio registrato. Portiamolo in giro per i cortei, gay pride inclusi. Raccontiamo che il Cristo in Croce è un simbolo di apertura al diverso, di pace, di democrazia, di qualunque cosa. D’altronde, è cristiano ma anche ebreo, e questo è certo; ma è anche un po’ musulmano (artificioso, ma plausibile) e buddista, jainista e indù, che tanto quelli riciclano tutto. E anche laico, perché no: dopotutto, quando gli chiesero se bisognava pagare i tributi a Cesare, Gesù rispose “Date a Cesare quel che è di Cesare”, senza chiedere esenzioni fiscali. E se anche non lo avesse detto non importa, non è che bisogna per forza citare i vangeli. Facciamo quello che fecero i cristiani coi simboli pagani: quelli che non riuscivano a distruggere, li assorbivano. Trasformarono sorgenti sacre in sorgenti miracolose, templi a Iside in battisteri, rune solari in crocefissi. Il Dio Sole vinceva le tenebre tre giorni dopo il solstizio d’inverno e loro decisero, senza preoccuparsi di consultare i vangeli, che anche Gesù era nato proprio quel 25 dicembre: che straordinaria coincidenza. Insomma, se il crocefisso non ci piace, facciamocelo piacere. Evitiamo che sia usato per isolarci, mescoliamo le acque, tentiamo un’infiltrazione.
È solo una proposta, e probabilmente ti ha fatto incazzare. Va bene così. Incazzati con me, magari ti servirà a trovare una soluzione al problema, qualcosa che fin qui non era ancora venuto in mente a nessuno.
Questo pezzo ti farà incazzare perché ti porrà la questione più o meno come se la deve essere posta Mussolini: se ci tengono davvero così tanto, a quei due legnetti, se li tengano. Vale la pena, per due legnetti, litigare con una parte cospicua del Paese? C’è il rischio di saldare una destra reazionaria, per la quale il crocefisso è un simbolo d’identità, con un centro moderato e solidale, per il quale rappresenta invece la pietà. A Salvini certo non dispiacerebbe, a noi tocca inventarci qualcosa di diverso.
Io un’idea ce l’avrei: se i cattolici e gli identitari ci tengono tanto al crocefisso, adottiamolo anche noi. Facciamolo nostro, tanto quanto è loro: i simboli sono di tutti, non c’è nessun marchio registrato. Portiamolo in giro per i cortei, gay pride inclusi. Raccontiamo che il Cristo in Croce è un simbolo di apertura al diverso, di pace, di democrazia, di qualunque cosa. D’altronde, è cristiano ma anche ebreo, e questo è certo; ma è anche un po’ musulmano (artificioso, ma plausibile) e buddista, jainista e indù, che tanto quelli riciclano tutto. E anche laico, perché no: dopotutto, quando gli chiesero se bisognava pagare i tributi a Cesare, Gesù rispose “Date a Cesare quel che è di Cesare”, senza chiedere esenzioni fiscali. E se anche non lo avesse detto non importa, non è che bisogna per forza citare i vangeli. Facciamo quello che fecero i cristiani coi simboli pagani: quelli che non riuscivano a distruggere, li assorbivano. Trasformarono sorgenti sacre in sorgenti miracolose, templi a Iside in battisteri, rune solari in crocefissi. Il Dio Sole vinceva le tenebre tre giorni dopo il solstizio d’inverno e loro decisero, senza preoccuparsi di consultare i vangeli, che anche Gesù era nato proprio quel 25 dicembre: che straordinaria coincidenza. Insomma, se il crocefisso non ci piace, facciamocelo piacere. Evitiamo che sia usato per isolarci, mescoliamo le acque, tentiamo un’infiltrazione.
È solo una proposta, e probabilmente ti ha fatto incazzare. Va bene così. Incazzati con me, magari ti servirà a trovare una soluzione al problema, qualcosa che fin qui non era ancora venuto in mente a nessuno.
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Perché la paghetta agli insegnanti non ha funzionato?
31-07-2018, 17:41Renzi, scuola, TheVisionPermalink[Questo pezzo è uscito ieri su TheVision]. Sono giorni convulsi in libreria. Molti stanno per partire per le vacanze, molti non chiuderanno le valigie soddisfatti se prima non saranno riusciti a infilarci venti chili di volumi freschi di stampa, da consumare sotto l'ombrellone. Ma non è questo il vero motivo per cui c'è una coda alla cassa. In nove casi su dieci la fila ha preso forma dietro un acquirente che ha chiesto se può pagare con la Carta Del Docente.
Il cassiere trattiene un sospiro. La Carta Del Docente, certamente, si accomodi. Ma a quel punto il cliente, un prof sulla cinquantina, deve: estrarre il cellulare, entrare nell'app che stampa i buoni, procedere con l'autenticazione, lagnarsi perché in quella libreria il cellulare non prende (fenomeno interessante e ancora poco studiato: molte librerie italiane sono angoli ciechi della rete satellitare. Forse perché sorgono in edifici storici; forse tonnellate di fogli pressati filtrano le radiazioni in modi che la scienza ancora non conosce; forse l'elettromagnetismo ci sta dando un ultimatum: o me o i libri di Cazzullo). A quel punto di solito il cassiere invita il docente a spegnere e riaccendere, o fare due passi in strada, in certi casi l'app riparte. Ma stavolta no, stavolta è proprio giù il server del Ministero. Passa un commesso, ammette che è due giorni che è così. Da quando i sindacati hanno consigliato gli insegnanti di spendere tutto il bonus il prima possibile o almeno entro il 31 agosto.
Non è il caso di farsi prendere dal panico. L'allarme dei sindacati è rientrato in poche ore, il ministero ha già fatto sapere che i soldi non spesi in agosto saranno riaccreditati, come l'anno scorso, in autunno. Salvo imprevisti, gli insegnanti avranno i loro 500 euro a disposizione anche nel 2018/19. Eppure c'è stato un momento, forse solo una mezza giornata, in cui la Carta del Docente se l'è vista brutta. A fine giugno, i senatori 5Stelle della Commissione Cultura avevano messo nero su bianco che il Bonus era una mancia elettorale, una "misura estemporanea e demagogica che non ha alcun effetto positivo a lungo termine", uno "spreco di risorse preziose". In quel momento magari la priorità era marcare la differenza con la passata gestione. In seguito potrebbero essere maturate altre considerazioni. Il M5S è un po' in affanno in questa prima fase del governo Conte; gli insegnanti sono un segmento delicato del loro successo elettorale; molti venivano dal PD e potrebbero tornare all'ovile: meglio non tagliar loro la paghetta. Il guaio delle mance elettorali è che si trasformano quasi subito in privilegi acquisiti. Elargirle è facile, ma non ti fa necessariamente vincere le elezioni. Tagliarle è più difficile e te le fa perdere di sicuro. E così anche l'anno prossimo avremo code a fine luglio in libreria, ai botteghini del cinema, del teatro, ovunque il prof potrebbe pagare con il Bonus, se solo riuscisse ad autenticarsi, se solo ci fosse rete nel locale, se solo il server ministeriale non fosse appena andato giù...
È difficile criticare la Carta del Docente. Se sei un insegnante (io lo sono), dai la sensazione di sputare nel piatto dove ti hanno offerto il dessert. Con tutti i problemi che ci sono al mondo. C'è un nuovo governo che chiude i porti ai naufraghi e io ancora me la prendo perché Renzi mi allungava 500 euro all'anno per il cinema e i libri. Mi rendo conto. Credo comunque che occorra parlarne, proprio perché qualcosa qui è andato storto davvero. Gli insegnanti erano per il PD di Renzi un settore strategico – almeno quelli a tempo indeterminato. A un certo punto doveva aver calcolato di averli tutti dalla sua parte. Prima gli 80 euro al mese, poi il bonus cultura: non parliamo di fumose riforme o vacui discorsi sulla dignità e l'autorevolezza e blablablà: parliamo di contanti in busta. Gli altri chiacchieravano, Renzi sborsava cash. Certo, di tutto questo ai precari non arrivava nulla, ma gli insegnanti di ruolo avrebbero dovuto erigere altari a Renzi nelle scuole di ogni ordine e grado, di fianco a tutte le macchinette del caffè. Se non è successo, vale la pena di chiedersi il perché. Riuscire a farsi detestare dalle persone a cui aumenti la paga è un'impresa notevole, che merita un approfondimento. In attesa di studi seri, tutto quel che posso fare è contribuire con qualche ipotesi, qualche sensazione captata tra la sala insegnanti e la libreria.
La prima sensazione che riesco a captare, forte e chiara, è l'odio profondo per la maledetta app... (continua su TheVision).
La prima sensazione che ricevo, forte e chiara, è l’odio profondo per la maledetta app che si pianta proprio nel momento in cui ti serve, che dimentica la password, che ti trasforma in un analfabeta digitale davanti a tutti quando sei davanti alla cassa e vorresti soltanto fuggire il più lontano possibile col tuo malloppo di cultura. In realtà il software del Ministero non è così male, il problema è a monte: i docenti di ruolo italiani sono i più anziani d’Europa. Metà di loro ha passato i cinquanta, e da parecchio. Li avete presente, i cinquantenni con gli smartphone, sì? Anche se la procedura della carta del docente fosse la più semplice del mondo (e non lo è), è chiaro che per loro sarà comunque faticosa. Non dovrebbe essere impossibile: dopotutto è gente che nel giro di cinque anni è passata senza troppi patemi dal registro cartaceo a quello digitale. Tant’è che poi la maggior parte di loro ce l’ha fatta: ormai portano anche il tablet in classe – molti lo hanno comprato proprio grazie al bonus. Con un po’ di sforzo, di tempo, e una rete wifi decente, ecco spuntare dallo smartphone il voucher richiesto; parte di questo tempo se ne va anche a imprecare contro Renzi, che poteva semplicemente accreditarci 500 euro: in fondo cosa sono 500 euro per un dipendente pubblico? Quaranta euro al mese.
Una paghetta, insomma. Non a caso l’altra categoria a cui il governo Renzi decise di erogarla erano i diciottenni. Ora, se all’improvviso regali 500 euro a un diciottenne, il minimo che tu possa aspettarti è un po’ di umana gratitudine (attenderai invano, ma è un altro discorso). Ma se eroghi gli stessi 500 euro a un tuo dipendente – uno che magari aspetta da anni il rinnovo del contratto – lui può anche sentirsi preso in giro. La paghetta, che a 18 anni è una gran cosa, a 55 è un’umiliazione. In generale l’adulto è convinto di sapere gestire i propri soldi, senza bisogno che il governo controlli che li spenda in libri e teatro anziché in dolciumi e balocchi. Questo a mio parere è stato il vero errore: trattare gli insegnanti come i loro eterni avversari, i ragazzini. Del resto, questo tipo di bonus voleva essere anche un sostegno all’industria culturale. A inventarlo e proporlo a Renzi fu Marco Lodoli, uno scrittore/insegnante – un caso abbastanza frequente di conflitto d’interessi: chi al mattino insegna e la sera scrive forse non può evitare di pensare che il mondo sarebbe migliore se i colleghi che al mattino insegnano, la sera leggessero i suoi libri.
In controluce s’intuisce una concezione un po’ antica della classe docente: non una categoria professionale che deve adeguarsi a determinati standard e meritare il rispetto dei datori di lavoro e degli utenti, ma una casta di spiriti eletti. Un po’ frustrati dalle incombenze mattiniere, celebrano la loro identità leggendo libri, andando al cinema o in teatro e facendo tutte quelle cose che dovrebbero elevare gli intellettuali. Ma gli insegnanti oggi non sono più così. Non sono giovani, è vero, ma neanche avanzi di scuola crociana: senza scomodare il famigerato ’68, molte cose sono cambiate negli ultimi decenni. Insegnare è faticoso, prende tempo, non è che te ne avanzi così tanto per fare la clacque in un teatro che senza i tuoi biglietti chiuderebbe, o per leggere libri che non hanno a che vedere con il tuo aggiornamento professionale. Noi docenti non siamo il serbatoio di riserva di spettatori e lettori che salverà l’industria culturale italiana. O forse sì, ma non ci piace essere considerati il parco buoi dell’editoria. Siamo adulti, abbiamo le nostre esigenze, senz’altro ci piace leggere libri e qualche volta ci viene pure voglia di frequentare luoghi affascinanti e desueti come il cinema o il teatro. Non è che quaranta euro al mese di voucher ci facciano schifo, ma forse chi pensava di comprarci così, ci ha un po’ sottovalutato.
Il cassiere trattiene un sospiro. La Carta Del Docente, certamente, si accomodi. Ma a quel punto il cliente, un prof sulla cinquantina, deve: estrarre il cellulare, entrare nell'app che stampa i buoni, procedere con l'autenticazione, lagnarsi perché in quella libreria il cellulare non prende (fenomeno interessante e ancora poco studiato: molte librerie italiane sono angoli ciechi della rete satellitare. Forse perché sorgono in edifici storici; forse tonnellate di fogli pressati filtrano le radiazioni in modi che la scienza ancora non conosce; forse l'elettromagnetismo ci sta dando un ultimatum: o me o i libri di Cazzullo). A quel punto di solito il cassiere invita il docente a spegnere e riaccendere, o fare due passi in strada, in certi casi l'app riparte. Ma stavolta no, stavolta è proprio giù il server del Ministero. Passa un commesso, ammette che è due giorni che è così. Da quando i sindacati hanno consigliato gli insegnanti di spendere tutto il bonus il prima possibile o almeno entro il 31 agosto.
Non è il caso di farsi prendere dal panico. L'allarme dei sindacati è rientrato in poche ore, il ministero ha già fatto sapere che i soldi non spesi in agosto saranno riaccreditati, come l'anno scorso, in autunno. Salvo imprevisti, gli insegnanti avranno i loro 500 euro a disposizione anche nel 2018/19. Eppure c'è stato un momento, forse solo una mezza giornata, in cui la Carta del Docente se l'è vista brutta. A fine giugno, i senatori 5Stelle della Commissione Cultura avevano messo nero su bianco che il Bonus era una mancia elettorale, una "misura estemporanea e demagogica che non ha alcun effetto positivo a lungo termine", uno "spreco di risorse preziose". In quel momento magari la priorità era marcare la differenza con la passata gestione. In seguito potrebbero essere maturate altre considerazioni. Il M5S è un po' in affanno in questa prima fase del governo Conte; gli insegnanti sono un segmento delicato del loro successo elettorale; molti venivano dal PD e potrebbero tornare all'ovile: meglio non tagliar loro la paghetta. Il guaio delle mance elettorali è che si trasformano quasi subito in privilegi acquisiti. Elargirle è facile, ma non ti fa necessariamente vincere le elezioni. Tagliarle è più difficile e te le fa perdere di sicuro. E così anche l'anno prossimo avremo code a fine luglio in libreria, ai botteghini del cinema, del teatro, ovunque il prof potrebbe pagare con il Bonus, se solo riuscisse ad autenticarsi, se solo ci fosse rete nel locale, se solo il server ministeriale non fosse appena andato giù...
È difficile criticare la Carta del Docente. Se sei un insegnante (io lo sono), dai la sensazione di sputare nel piatto dove ti hanno offerto il dessert. Con tutti i problemi che ci sono al mondo. C'è un nuovo governo che chiude i porti ai naufraghi e io ancora me la prendo perché Renzi mi allungava 500 euro all'anno per il cinema e i libri. Mi rendo conto. Credo comunque che occorra parlarne, proprio perché qualcosa qui è andato storto davvero. Gli insegnanti erano per il PD di Renzi un settore strategico – almeno quelli a tempo indeterminato. A un certo punto doveva aver calcolato di averli tutti dalla sua parte. Prima gli 80 euro al mese, poi il bonus cultura: non parliamo di fumose riforme o vacui discorsi sulla dignità e l'autorevolezza e blablablà: parliamo di contanti in busta. Gli altri chiacchieravano, Renzi sborsava cash. Certo, di tutto questo ai precari non arrivava nulla, ma gli insegnanti di ruolo avrebbero dovuto erigere altari a Renzi nelle scuole di ogni ordine e grado, di fianco a tutte le macchinette del caffè. Se non è successo, vale la pena di chiedersi il perché. Riuscire a farsi detestare dalle persone a cui aumenti la paga è un'impresa notevole, che merita un approfondimento. In attesa di studi seri, tutto quel che posso fare è contribuire con qualche ipotesi, qualche sensazione captata tra la sala insegnanti e la libreria.
La prima sensazione che riesco a captare, forte e chiara, è l'odio profondo per la maledetta app... (continua su TheVision).
La prima sensazione che ricevo, forte e chiara, è l’odio profondo per la maledetta app che si pianta proprio nel momento in cui ti serve, che dimentica la password, che ti trasforma in un analfabeta digitale davanti a tutti quando sei davanti alla cassa e vorresti soltanto fuggire il più lontano possibile col tuo malloppo di cultura. In realtà il software del Ministero non è così male, il problema è a monte: i docenti di ruolo italiani sono i più anziani d’Europa. Metà di loro ha passato i cinquanta, e da parecchio. Li avete presente, i cinquantenni con gli smartphone, sì? Anche se la procedura della carta del docente fosse la più semplice del mondo (e non lo è), è chiaro che per loro sarà comunque faticosa. Non dovrebbe essere impossibile: dopotutto è gente che nel giro di cinque anni è passata senza troppi patemi dal registro cartaceo a quello digitale. Tant’è che poi la maggior parte di loro ce l’ha fatta: ormai portano anche il tablet in classe – molti lo hanno comprato proprio grazie al bonus. Con un po’ di sforzo, di tempo, e una rete wifi decente, ecco spuntare dallo smartphone il voucher richiesto; parte di questo tempo se ne va anche a imprecare contro Renzi, che poteva semplicemente accreditarci 500 euro: in fondo cosa sono 500 euro per un dipendente pubblico? Quaranta euro al mese.
Una paghetta, insomma. Non a caso l’altra categoria a cui il governo Renzi decise di erogarla erano i diciottenni. Ora, se all’improvviso regali 500 euro a un diciottenne, il minimo che tu possa aspettarti è un po’ di umana gratitudine (attenderai invano, ma è un altro discorso). Ma se eroghi gli stessi 500 euro a un tuo dipendente – uno che magari aspetta da anni il rinnovo del contratto – lui può anche sentirsi preso in giro. La paghetta, che a 18 anni è una gran cosa, a 55 è un’umiliazione. In generale l’adulto è convinto di sapere gestire i propri soldi, senza bisogno che il governo controlli che li spenda in libri e teatro anziché in dolciumi e balocchi. Questo a mio parere è stato il vero errore: trattare gli insegnanti come i loro eterni avversari, i ragazzini. Del resto, questo tipo di bonus voleva essere anche un sostegno all’industria culturale. A inventarlo e proporlo a Renzi fu Marco Lodoli, uno scrittore/insegnante – un caso abbastanza frequente di conflitto d’interessi: chi al mattino insegna e la sera scrive forse non può evitare di pensare che il mondo sarebbe migliore se i colleghi che al mattino insegnano, la sera leggessero i suoi libri.
In controluce s’intuisce una concezione un po’ antica della classe docente: non una categoria professionale che deve adeguarsi a determinati standard e meritare il rispetto dei datori di lavoro e degli utenti, ma una casta di spiriti eletti. Un po’ frustrati dalle incombenze mattiniere, celebrano la loro identità leggendo libri, andando al cinema o in teatro e facendo tutte quelle cose che dovrebbero elevare gli intellettuali. Ma gli insegnanti oggi non sono più così. Non sono giovani, è vero, ma neanche avanzi di scuola crociana: senza scomodare il famigerato ’68, molte cose sono cambiate negli ultimi decenni. Insegnare è faticoso, prende tempo, non è che te ne avanzi così tanto per fare la clacque in un teatro che senza i tuoi biglietti chiuderebbe, o per leggere libri che non hanno a che vedere con il tuo aggiornamento professionale. Noi docenti non siamo il serbatoio di riserva di spettatori e lettori che salverà l’industria culturale italiana. O forse sì, ma non ci piace essere considerati il parco buoi dell’editoria. Siamo adulti, abbiamo le nostre esigenze, senz’altro ci piace leggere libri e qualche volta ci viene pure voglia di frequentare luoghi affascinanti e desueti come il cinema o il teatro. Non è che quaranta euro al mese di voucher ci facciano schifo, ma forse chi pensava di comprarci così, ci ha un po’ sottovalutato.
Hai il diritto di fare il razzista, io di fartelo notare
27-07-2018, 08:58fascismo, Mondo Carpi, razzismi, TheVision, TViPermalink
[Questo pezzo è uscito ieri su TheVision]. Capita un paio di sere ogni estate. Mentre cerco di parcheggiare sotto casa, trovo una camionetta della polizia. Lì per lì non ci faccio caso. Poi verso le dieci di sera, invece dei soliti echi di pianobar, comincio a udire cazzate alla finestra. Ce l'hanno coi musulmani, con l'Europa, ancora loro? Sono arrivati i tizi di Forza Nuova, più puntuali e molesti di un circo Togni. Sono sempre una ventina, probabilmente nel pulmino non ce ne stanno di più. Non fanno numeri di giocoleria, sanno solo sventolare tricolori, uno per braccio, forse nel tentativo di sembrare il doppio. Non mangiano spade, non sputano fuoco, al massimo sempre quelle tre cazzate, l'Europa è Cristiana Non Musulmana e così via. La gente transita un po' perplessa: il mio piazzale è equidistante tra un kebab e la gelateria. Ma in fondo che male c'è. Hanno diritto di dire quello che vogliono, no? In Italia c'è libertà di parola, e quindi perché non occupare un parcheggio con venti ragazzotti, quaranta bandieroni e un megafono e scandire per due ore "L'Europa è Cristiana, non Musulmana"?
E se io scendessi ad avvertire che hanno rotto i coglioni: non sarebbe libertà di parola anch'essa?
È una domanda retorica. Chi ci ha provato le ha prese un po' da loro, un po' dalla polizia: poi è stato denunciato e condannato a pagare multe da 2000 euro. Sembra insomma che la libertà di parola dei forzanovisti sia molto preziosa. Dev'essere il motivo per cui, ogni volta che me li ritrovo nel piazzale, tutto intorno è silenzio: il sindaco fa bloccare il traffico. Il sindaco in effetti non sembra mai molto entusiasta di trovarseli tra i piedi, ma in questura pare che ci tengano molto al diritto di parola dei forzanuovisti. Ci tengono talmente che di solito mandano almeno due camionette, più di una quarantina di agenti bardati di tutto punto, sicché i ragazzotti di Forza Nuova che vengono dal Veneto a sgolarsi sul concetto dell'Europa Cristiana non hanno solo due bandieroni a testa, ma anche due o tre o quattro agenti di pubblica sicurezza che vegliano sulla loro incolumità e sulla loro libertà di espressione. Così la mamma è contenta, dev'essere una tizia assai apprensiva, tesoro, dove vai? Vado in Emilia Romagna a difendere la civiltà cristiana. Tesoro, ma sei sicuro? Tranquilla mamma, ci assegnano quattro agenti a testa, e li paghi tu con le tue tasse, sei contenta?
Se vuoi protestare contro il tour estivo di Forza Nuova devi trovarti in una piazza ad almeno 500 metri di distanza, e accomodarti dietro la transenna, dove ci sono i poliziotti più simpatici che spiegano ai cittadini che non ci possono fare niente, anche loro sono antifascisti, siamo tutti antifascisti, però ehi, la libertà di parola dei forzanuovisti è tutelata dalla Costituzione e quindi dietro la transenna e muti. Ché tra un po' il siparietto finisce, i ragazzotti tornano a casa in pulmino e i poliziotti si pigliano auspicabilmente una serata di straordinario in busta, win win e buonanotte. Vien da pensare che il senso sia tutto qui: questi sbandieratori da noi non se li fila nessuno, e dire che di razzisti anche qui sarebbe pieno, ma più che razzisti sembrano la caricatura. Non ce l'hanno un po' d'orgoglio anche loro, non si vergognano di essere trattati dalle forze dell'ordine come una specie protetta? Anche a Brescia, ho letto che la polizia li scorta mentre fanno le ronde, perché da soli non si azzarderebbero ad andare in giro nei quartieri difficili. Dunque, se ho capito bene: nei quartieri difficili di Brescia si sente la mancanza delle forze dell'ordine; da questa mancanza scaturisce la necessità di una ronda di Forza Nuova, e a questo punto la polizia ci va per scortare i ragazzotti di Forza Nuova che da soli in effetti potrebbero farsi male. Qualcosa non mi torna.
D'altro canto devono pur potersi esprimere: libertà di parola! Quel che non sopportano è che gli altri si esprimano su di loro. Alla vigilia della finale della Coppa del Mondo di calcio un giornalista sportivo molto vicino a Casa Pound scrive un tweet dove saluta la nazionale croata "completamente autoctona, un popolo di 4 milioni di abitanti, identitario, fiero e sovranista", contro il melting pot della selezione francese. Nessuno lo picchia per quel tweet, nessuno lo minaccia; qualcuno ridacchia perché ha scritto "melting pop" che come refuso è abbastanza geniale; molti lo prendono in giro, ma ehi, non si può piacere a tutti, no? Specie se manifesti insofferenza con tutti quelli che non sono "autoctoni", cioè più o meno chiunque. E sicuramente un po' di polverone aveva messo in conto di sollevarlo; non è un ragazzino. Però succede che prenda le distanze la Mediaset, nientemeno: e questo forse non l'aveva calcolato Il tizio in questione infatti non scrive solo su "Il Primato Nazionale / Quotidiano Sovranista": è anche un riconoscibilissimo dipendente dell'azienda, e Mediaset tra l'altro è in una fase delicata. L'approccio allarmista adottato in campagna elettorale nei confronti dei migranti si è molto stemperato, ormai è normalissimo ascoltare opinionisti in prima serata su Rete4 che spiegano che l'Italia ha bisogno di badanti, quindi di migranti – regolari, s'intende – che Salvini dovrebbe pensare a farne entrare di più di regolari, invece di prendersela con quei poveretti sui barconi. Insomma Mediaset sta correggendo il tiro, e così le redazioni giornalistiche e sportive approfittano del tweet del suo dipendente per prendere le distanze dal "contenuto razzista" del tweet. Apriti cielo. Come puoi parlare di "razzismo" per un tweet che difende il sovranismo degli autoctoni? Pare che non sia ammissibile (continua su TheVision).
E se io scendessi ad avvertire che hanno rotto i coglioni: non sarebbe libertà di parola anch'essa?
È una domanda retorica. Chi ci ha provato le ha prese un po' da loro, un po' dalla polizia: poi è stato denunciato e condannato a pagare multe da 2000 euro. Sembra insomma che la libertà di parola dei forzanovisti sia molto preziosa. Dev'essere il motivo per cui, ogni volta che me li ritrovo nel piazzale, tutto intorno è silenzio: il sindaco fa bloccare il traffico. Il sindaco in effetti non sembra mai molto entusiasta di trovarseli tra i piedi, ma in questura pare che ci tengano molto al diritto di parola dei forzanuovisti. Ci tengono talmente che di solito mandano almeno due camionette, più di una quarantina di agenti bardati di tutto punto, sicché i ragazzotti di Forza Nuova che vengono dal Veneto a sgolarsi sul concetto dell'Europa Cristiana non hanno solo due bandieroni a testa, ma anche due o tre o quattro agenti di pubblica sicurezza che vegliano sulla loro incolumità e sulla loro libertà di espressione. Così la mamma è contenta, dev'essere una tizia assai apprensiva, tesoro, dove vai? Vado in Emilia Romagna a difendere la civiltà cristiana. Tesoro, ma sei sicuro? Tranquilla mamma, ci assegnano quattro agenti a testa, e li paghi tu con le tue tasse, sei contenta?
Se vuoi protestare contro il tour estivo di Forza Nuova devi trovarti in una piazza ad almeno 500 metri di distanza, e accomodarti dietro la transenna, dove ci sono i poliziotti più simpatici che spiegano ai cittadini che non ci possono fare niente, anche loro sono antifascisti, siamo tutti antifascisti, però ehi, la libertà di parola dei forzanuovisti è tutelata dalla Costituzione e quindi dietro la transenna e muti. Ché tra un po' il siparietto finisce, i ragazzotti tornano a casa in pulmino e i poliziotti si pigliano auspicabilmente una serata di straordinario in busta, win win e buonanotte. Vien da pensare che il senso sia tutto qui: questi sbandieratori da noi non se li fila nessuno, e dire che di razzisti anche qui sarebbe pieno, ma più che razzisti sembrano la caricatura. Non ce l'hanno un po' d'orgoglio anche loro, non si vergognano di essere trattati dalle forze dell'ordine come una specie protetta? Anche a Brescia, ho letto che la polizia li scorta mentre fanno le ronde, perché da soli non si azzarderebbero ad andare in giro nei quartieri difficili. Dunque, se ho capito bene: nei quartieri difficili di Brescia si sente la mancanza delle forze dell'ordine; da questa mancanza scaturisce la necessità di una ronda di Forza Nuova, e a questo punto la polizia ci va per scortare i ragazzotti di Forza Nuova che da soli in effetti potrebbero farsi male. Qualcosa non mi torna.
D'altro canto devono pur potersi esprimere: libertà di parola! Quel che non sopportano è che gli altri si esprimano su di loro. Alla vigilia della finale della Coppa del Mondo di calcio un giornalista sportivo molto vicino a Casa Pound scrive un tweet dove saluta la nazionale croata "completamente autoctona, un popolo di 4 milioni di abitanti, identitario, fiero e sovranista", contro il melting pot della selezione francese. Nessuno lo picchia per quel tweet, nessuno lo minaccia; qualcuno ridacchia perché ha scritto "melting pop" che come refuso è abbastanza geniale; molti lo prendono in giro, ma ehi, non si può piacere a tutti, no? Specie se manifesti insofferenza con tutti quelli che non sono "autoctoni", cioè più o meno chiunque. E sicuramente un po' di polverone aveva messo in conto di sollevarlo; non è un ragazzino. Però succede che prenda le distanze la Mediaset, nientemeno: e questo forse non l'aveva calcolato Il tizio in questione infatti non scrive solo su "Il Primato Nazionale / Quotidiano Sovranista": è anche un riconoscibilissimo dipendente dell'azienda, e Mediaset tra l'altro è in una fase delicata. L'approccio allarmista adottato in campagna elettorale nei confronti dei migranti si è molto stemperato, ormai è normalissimo ascoltare opinionisti in prima serata su Rete4 che spiegano che l'Italia ha bisogno di badanti, quindi di migranti – regolari, s'intende – che Salvini dovrebbe pensare a farne entrare di più di regolari, invece di prendersela con quei poveretti sui barconi. Insomma Mediaset sta correggendo il tiro, e così le redazioni giornalistiche e sportive approfittano del tweet del suo dipendente per prendere le distanze dal "contenuto razzista" del tweet. Apriti cielo. Come puoi parlare di "razzismo" per un tweet che difende il sovranismo degli autoctoni? Pare che non sia ammissibile (continua su TheVision).
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Salvini (non guarda più nessuno in faccia)
24-07-2018, 18:02come diventare leghisti, governo Conte, razzismiPermalinkSalvini chiude i porti ai poveracci,
Salvini ha già aumentato i morti in mare.
Salvini dà il permesso di sparare;
Salvini ride e sfoggia gli avambracci.
Salvini ai ricchi toglie tasse e lacci,
e anche a Bruxelles non devono seccare:
che lui fa tutto quello che gli pare.
Salvini è il capo, l'hai capito? Stacci.
Ormai non guarda più nessuno in faccia:
anche allo specchio passerebbe dietro
la notte, quando deve andare a letto.
Non è che si vergogni, o si dispiaccia;
arriccia forse il naso e dice al vetro:
"Ma guarda questi stronzi, chi hanno eletto".
Salvini ha già aumentato i morti in mare.
Salvini dà il permesso di sparare;
Salvini ride e sfoggia gli avambracci.
Salvini ai ricchi toglie tasse e lacci,
e anche a Bruxelles non devono seccare:
che lui fa tutto quello che gli pare.
Salvini è il capo, l'hai capito? Stacci.
Ormai non guarda più nessuno in faccia:
anche allo specchio passerebbe dietro
la notte, quando deve andare a letto.
Non è che si vergogni, o si dispiaccia;
arriccia forse il naso e dice al vetro:
"Ma guarda questi stronzi, chi hanno eletto".
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Dove c'è una scuola ghetto, guardati intorno: troverai anche una scuola cattolica
23-07-2018, 00:39come diventare leghisti, scuola, TheVision, TViPermalink
Ovviamente è più complicato di così. Due istituti comprensivi di Monfalcone hanno fissato un tetto del 45% di alunni "stranieri" per classe che taglierebbe fuori appunto una quarantina di bambini. Il sindaco, Anna Cisint (Lega) ha sostenuto la scelta dei due istituti, e a sua volta ha ricevuto il sostegno del suo leader e ministro degli interni, Matteo Salvini. I sindacati hanno fatto un esposto in procura; il ministro dell'istruzione (anche lui d'area leghista) ha cercato di placare gli animi ventilando la possibilità di aprire altre due sezioni. Ma insomma siamo ormai a fine luglio e più o meno quaranta famiglie non sanno ancora se i loro figli di tre anni frequenteranno una scuola dell'infanzia, e quale. È quel tipo di incertezza che può costare un posto di lavoro a un famigliare: se il bambino resta a casa, qualcuno dovrà rimanere con lui. Più facilmente una madre o una sorella. La Cisint teme che accogliendo più "stranieri" le scuole diventino un ghetto.
Metto la parola "stranieri" tra virgolette, perché in molti casi parliamo probabilmente di bambini nati in Italia che una legge un po' medievale considera non cittadini del Paese in cui hanno trascorso i primi tre anni di vita. La Cisint dà per scontato che non siano molto integrati, e se continueranno a restare in famiglia non c'è dubbio che non si integreranno; se poi in famiglia non hanno imparato a parlare in un buon italiano, non è restando in casa che lo impareranno. Tra tre anni in ogni caso dovranno iscriversi alla scuola dell'obbligo, probabilmente proprio negli stessi istituti comprensivi che ora vorrebbero tenerli fuori. Insomma il ghetto è solo rimandato. Non è che il sindaco non se ne renda conto. Lei insiste che i bambini dovrebbero essere assorbiti dalle scuole dei distretti limitrofi. Fin qui non ha ottenuto nulla, ma il braccio di ferro potrebbe andare avanti fino all'inizio delle lezioni.
Sarebbe abbastanza facile accusare la Cisint di xenofobia e razzismo. Di sicuro molti suoi elettori sono xenofobi; lei stessa non sembra impegnarsi molto per combattere questa impressione: qualche mese fa ostacolò la nascita di un centro islamico perché secondo lei "le moschee in Italia non sono previste". È riuscita perfino a espellere lo sport nazionale bengalese, il cricket, dalla Festa dello Sport di Monfalcone. Il caso delle scuole d'infanzia però è più delicato. Quello che propone, almeno in senso astratto, è ragionevole; è la stessa cosa che cercherebbe di fare un sindaco di qualsiasi altra area politica, anche progressista. Non vuole respingere i bambini "stranieri", o nasconderli sotto il tappeto. Vorrebbe semplicemente spalmarli su una superficie più vasta, in modo da favorire l'assimilazione culturale, che preferiamo chiamare "integrazione".
Com'è stato scritto fino alla noia (ma alcuni non hanno intenzione di leggere) l'emergenza stranieri in Italia è tutto fuorché un'emergenza. Non stanno arrivando molti stranieri, in percentuale: il flusso è costante ma stabile. Eppure chi soffia sul fuoco dell'intolleranza ha buon gioco a mostrare come in certe realtà gli immigrati sembra abbiano preso il sopravvento sulla popolazione locale. A una certa ora del pomeriggio sembra che in giro ci siano soltanto stranieri; e anche davanti alle scuole, altro che otto per cento. Gli immigrati tendono a insediarsi a macchia di leopardo, e questo favorisce lo sviluppo di un sentimento xenofobo sia nei quartieri dove gli italiani temono l'accerchiamento, sia in quelle larghe zone del Paese dove gli immigrati sono talmente pochi che vengono ancora percepiti come alieni dallo spazio profondo. Se davvero li si potesse distribuire più uniformemente nel territorio, sarebbe molto più facile integrarli. È in fondo il principio per cui i centri di permanenza sono stati disseminati in tutte le regioni; lo stesso principio per cui l'Italia chiede ai Paesi europei di ospitare quote più alti di richiedenti asilo. In piccolo, è la stessa logica che la Cisint cerca di applicare alla sua Monfalcone. È un distretto industriale che sopravvive alla crisi: gli immigrati sono arrivati perché cercano lavoro, e alla Fincantieri e in altre aziende della zona il lavoro c'è. Che iscrivano i propri figli già alle scuole d'infanzia è una buona notizia; significa che in molti casi lavorano anche le madri, e il lavoro è un fattore cruciale dell'emancipazione femminile. Sempre che ci siano scuole disponibili: a Monfalcone forse non ci sono. Ma sono davvero così tanti, e così prolifici, i lavoratori di cittadinanza non comunitaria in città? (Continua su TheVision)
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Lo Stato deve ricominciare a finanziare i partiti. Seriamente.
18-07-2018, 15:585Stelle, come diventare leghisti, Pd, RenziPermalink
Salvini in effetti si trova in una posizione difficile. La sua linea di difesa è accusare la Lega di Bossi, ma anche in quel partito Matteo Salvini era un dirigente importante, un eurodeputato già primatista per assenteismo. Quando Bossi e il tesoriere Belsito finiscono nei guai, Salvini quatto quatto fonda una nuova Lega indistinguibile dalla vecchia, che si costituisce parte civile nel processo. Salvini si considera danneggiato da chi ha riempito i conti del partito truccando i bilanci: però continua a incassare centinaia di milioni dagli stessi conti. "Ti diffido dallo spendere quanto da te dichiarato corpo del reato", gli scrive l'avvocato di Bossi. Salvini i soldi li ha incassati comunque, e probabilmente li ha anche già spesi. Del resto non si porta un partito dal 4 al 17% in quattro anni gratis.
In tutto questo tempo Salvini non è mai rimasto fermo, anche il suo più acerrimo oppositore glielo deve riconoscere. Si è girato l'Italia in lungo e in largo, mentre a Bruxelles continuano ad aspettarlo invano; a ogni città una felpa diversa, son soldi anche quelli. Ha riorganizzato il partito, ha conquistato la ribalta sulle tv e su internet con campagne virali ed efficaci; tutto questo ha un costo. Il che non significa necessariamente che Salvini abbia speso molto: l'appoggio della Mediaset gli ha senz'altro fornito un grosso aiuto. In generale, poi, tutti i partiti hanno drasticamente ridotto le spese elettorali, e questo può averlo favorito nel momento in cui si trovava un gruzzoletto su un conto e preferiva spenderlo prima che venisse sequestrato. La democrazia italiana è diventata all'improvviso scalabile, e il successo repentino della Lega salviniana e del M5S ne è la prova. Cosa sta succedendo? Perché i partiti hanno smesso di stampare manifesti, organizzare eventi, investire in comunicazione?
Perché mancano i soldi.
Il buco della Lega è solo la punta dell'iceberg. Persino Forza Italia è in difficoltà, Berlusconi non paga più i debiti. Ma prendiamo il PD, erede delle due più radicate tradizioni politiche della Repubblica Italiana: non se la passa bene. Non trova più la sua identità, non trova più la sua unità, ma fa anche una certa fatica a trovare i soldi. Continua a licenziare i propri dipendenti, in un progressivo ridimensionamento che sembra non aver fine. Anche nelle regioni dove è più radicato, le Feste dell'Unità (talvolta ribattezzate "Democratiche") sempre più spesso chiudono in rosso. È il tramonto di un modello che si basava sul volontariato degli attivisti, giovani operai e pensionati, e poi col tempo sempre meno giovani e operai e sempre più pensionati. Era chiaro da almeno vent'anni che le Feste non avrebbero retto il passaggio di consegne a una generazione più precaria e meno attivista: c'era il tempo per trovare nuove forme di autofinanziamento, ma i quadri del PD non sembrano essersene molto preoccupati.
Può darsi che considerassero i ricavi delle feste delle briciole: il grosso delle entrate arrivava dallo Stato, ma ecco: i dirigenti del PD hanno fatto di tutto per ridurre anche quello. Fu il governo Letta, nel 2014, a ottenere dal parlamento la sostanziale abolizione dei rimborsi elettorali. Non era una semplice concessione al pauperismo del Movimento grillino: già in una delle prime Leopolde Renzi sosteneva che il finanziamento pubblico andasse "abolito o drasticamente ridotto". Ma a quel punto dove avrebbe trovato il PD i soldi per fare politica? Guardando alla trionfale campagna di Obama, Renzi chiedeva di favorire il finanziamento privato "attraverso donazioni private in totale trasparenza, tracciabilità e pubblicità". Insomma si immaginava che gli imprenditori gli avrebbero dato una mano contro Berlusconi, che tenerezza – ma in quel momento era in fase crescente, Marchionne si era incuriosito, Farinetti era entusiasta. Sembra passato così tanto tempo (continua su TheVision).
Storia di un finto povero
16-07-2018, 13:59come diventare leghisti, Il Post, migranti, santiPermalink17 luglio – Sant'Alessio (V secolo), povero di rango
Lo trovarono secco nel sottoscala, il mendicante, nella casa del patrizio che diciassette anni prima gli aveva dato riparo. "Anche mio figlio, come te, è in giro per il mondo", gli aveva detto: "ovunque sia, prego che un altro padre gli dia un tetto e un giaciglio per dormire". Quando l'ospite morì, e furono per raccogliere dal pavimento le sue ossa irrigidite, si accorsero che la mano stringeva un cartiglio, e che c'era scritto qualcosa; ma non si riusciva a leggere, il morto non mollava la pergamena.
Ci provarono i medici ad aprirgli la mano, i pompieri e i pretoriani, ormai era diventata una specie di sfida. Alla fine chiamarono gli imperatori Arcadio e Onorio, tutti e due, perché l'autore della leggenda probabilmente non era sicuro su quale imperasse a Roma e quale a Costantinopoli; e in effetti probabilmente all'inizio la storia era ambientata nella nuova Roma sul Bosforo, ma poi un copista si confuse, probabilmente un locale, sai come la pensano: di Roma ce n'è una sola, hai voglia a spiegare che ce ne sono almeno tre. In una versione successiva interviene il Papa direttamente, così è chiaro in quale Roma siamo. Dunque ecco arriva il Papa in questo palazzo sull'Aventino, ah ma quindi è in questa casa che dormiva quel sant'uomo del mendicante? Gli volevano tutti tanto bene. Cos'avete detto che ha nella mano? Un cartiglio? Ecco qui (la mano morta si apre senza fatica). C'è scritto... c'è scritto che si chiama Alessio e che ringrazia suo padre per l'ospitalità.
Al padrone di casa si ferma il cuore.
Il papa all'improvviso si rammenta. "Ma tu avevi un figlio che si chiamava Alessio, no? Quello che mollò la fidanzata davanti all'altare, quando fu? Trent'anni fa? Ma non se n'era andato per il mondo?"
"Alessio, figlio mio".
"Vuoi dire che per tutto questo tempo non l'hai riconosciuto?"
"Figlio mio!"
"Anche lui però poteva dirti qualcosa, eh".
Di tutti i santi del calendario, Alessio è forse quello che capisco meno. Tutti i suoi atti di eroica santità, ai miei occhi di abitante del 21esimo secolo, mi sembrano un mix indigeribile di ingenuità e stronzaggine. Mollare la sposa all'ultimo momento perché Dio è più importante, ok, può succedere a tutti di cambiare idea all'ultimo momento, per fortuna lei ti capisce, condivide la tua scelta di castità e si fa monaca, a questo punto perché non dovresti farti monaco anche tu? No, tu te ne scappi via, posso capire anche questo. Decidi di dare tutto quello che possiedi ai poveri, molto giusto, salvo che sei andato via senza un soldo e quindi sei povero anche tu: se fossi rimasto a casa dei tuoi almeno avresti avuto a disposizione un budget da destinare in imprese benefiche, microcredito eccetera, e invece niente: vuoi combattere la povertà con la povertà, una di quelle cose omeopatiche. Ti è mai venuto in mente che invece potevi metterti a lavorare? In fondo sei un giovane sano, puoi benissimo trovarti un mestiere e poi elargire elemosine a tutti i poveri che incontri, il Vangelo si rispetta anche così – eh, no, dopotutto sei un patrizio romano, o campi nel lusso o fai l'elemosina, ma lavorare è fuori discussione.
A un angolo di strada di Edessa di Siria, dove potrebbe stazionare un povero vero, uno che ha problemi seri, un cieco, uno storpio, un lebbroso ci vai tu che per affettare la miseria non ti lavi per anni; e l'espediente funziona, la gente ti annusa e caccia i pezzi d'argento, che poi nottetempo tu dividi davvero coi poveri, e vabbe', se questo è il posto che ti sei trovato nel mondo buon per te; ma a quel punto che fai? Decidi di tornare a Roma. La nostalgia, posso capire. ma incontri tuo padre e non gli dici chi sei. Ti fai ospitare 17 anni da tuo padre, tuo padre che è in pensiero per te e si torce il cuore all'idea che tu sei in giro per il vasto mondo senza un soldo ed è sicuramente colpa sua, è stato il padre peggiore del mondo, se solo potesse avere una seconda possibilità, e tu stai lì per 17 anni e questa seconda possibilità non gliela dai.
E va bene, chi sono io per giudicare, son tre giorni che non telefono ai miei. Però alla fine prima di morire glielo scrivi sul cartiglio, così fa ancora in tempo a guastarsi la vecchiaia dal rimorso che non ti ha riconosciuto – eh no vabbe' ma allora vaffanculo, Sant'Alessio, sei la leggenda di santi più stronza che conosco. Talmente stronzo che sembri vero. Cioè qui non parliamo di draghi che rapiscono fanciulle o dormienti in una grotta o martiri che accarezzano i leoni; qui c'è un hippy di buona famiglia che sembra stato ritratto l'altro ieri. Figurati se non ce n'è stato almeno uno a Roma o Costantinopoli od ovunque, figurati se in mille anni non è mai successo che un giovinastro mollasse la famiglia per fare il barbone, in teoria in giro per il mondo ma ben presto a pochi metri dalla casa dei genitori. I quali magari a un certo punto si erano impietositi e lo ospitavano pure nella mansarda a uso foresteria, magari fingendo di non riconoscerlo perché il ragazzo ha un suo distorto senso della dignità, che non gli impedisce di chiedere scusa a mamma e papà ma non di chiedere moneta sotto il loro portico di casa. Magari ce n'è stato uno sia a Edessa che a Bisanzio che a Roma, che si svegliavano presto senza mettere a posto la cameretta e uscivano in strada a mendicare, e alla fine che gli vuoi dire? Dopo un po' sei parte del paesaggio urbano, il giorno che non ti vedono sulla panchina si preoccupano.
La leggenda di Sant'Alessio, che io trovo tanto stronza, era una delle più popolari nell'Alto Medioevo. Serviva probabilmente a spiegare che in ogni mendicante ci potrebbe essere un principe, e quindi come tale va trattato; o anche più di un principe: un figlio nostro. Nei tempi in cui capitava a tutti di aver figli in giro per il mondo, su barchette sospesa sui flutti del Mediterraneo o intruppati in qualche legione a portare la pace dove ancora non la sapevano apprezzare; ma ovunque si fossero perduti, avrebbero potuto contare sull'ospitalità, che è la legge più antica. E che ci riguarda tutti, uomini di terra o di mare: se qualcuno è senza tetto, è figlio nostro. Anche se non fosse mai esistito un Alessio, a un certo punto la leggenda ne produsse almeno uno: il primo che mi viene in mente è San Benedetto Labre, un ragazzo francese che nel Settecento arrivò a Roma a piedi senza lavarsi mai, la sua Vita sembra un servizio di Chi l'ha visto. I romani lo presero in simpatia, decisero che era un santo e che faceva i miracoli. Si vede che sotto i pidocchi era un bel ragazzo, ma in un certo senso aveva il terreno preparato dalla storia di Sant'Alessio. Ma io lo so cosa state pensando, voi tre che siete arrivati fin qui (continua sul Post).
Lo trovarono secco nel sottoscala, il mendicante, nella casa del patrizio che diciassette anni prima gli aveva dato riparo. "Anche mio figlio, come te, è in giro per il mondo", gli aveva detto: "ovunque sia, prego che un altro padre gli dia un tetto e un giaciglio per dormire". Quando l'ospite morì, e furono per raccogliere dal pavimento le sue ossa irrigidite, si accorsero che la mano stringeva un cartiglio, e che c'era scritto qualcosa; ma non si riusciva a leggere, il morto non mollava la pergamena.

Al padrone di casa si ferma il cuore.
Il papa all'improvviso si rammenta. "Ma tu avevi un figlio che si chiamava Alessio, no? Quello che mollò la fidanzata davanti all'altare, quando fu? Trent'anni fa? Ma non se n'era andato per il mondo?"
"Alessio, figlio mio".
"Vuoi dire che per tutto questo tempo non l'hai riconosciuto?"
"Figlio mio!"
"Anche lui però poteva dirti qualcosa, eh".
Di tutti i santi del calendario, Alessio è forse quello che capisco meno. Tutti i suoi atti di eroica santità, ai miei occhi di abitante del 21esimo secolo, mi sembrano un mix indigeribile di ingenuità e stronzaggine. Mollare la sposa all'ultimo momento perché Dio è più importante, ok, può succedere a tutti di cambiare idea all'ultimo momento, per fortuna lei ti capisce, condivide la tua scelta di castità e si fa monaca, a questo punto perché non dovresti farti monaco anche tu? No, tu te ne scappi via, posso capire anche questo. Decidi di dare tutto quello che possiedi ai poveri, molto giusto, salvo che sei andato via senza un soldo e quindi sei povero anche tu: se fossi rimasto a casa dei tuoi almeno avresti avuto a disposizione un budget da destinare in imprese benefiche, microcredito eccetera, e invece niente: vuoi combattere la povertà con la povertà, una di quelle cose omeopatiche. Ti è mai venuto in mente che invece potevi metterti a lavorare? In fondo sei un giovane sano, puoi benissimo trovarti un mestiere e poi elargire elemosine a tutti i poveri che incontri, il Vangelo si rispetta anche così – eh, no, dopotutto sei un patrizio romano, o campi nel lusso o fai l'elemosina, ma lavorare è fuori discussione.
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Anonimo, Ritrovamento del corpo di sant'Alessio, XVIII secolo |
E va bene, chi sono io per giudicare, son tre giorni che non telefono ai miei. Però alla fine prima di morire glielo scrivi sul cartiglio, così fa ancora in tempo a guastarsi la vecchiaia dal rimorso che non ti ha riconosciuto – eh no vabbe' ma allora vaffanculo, Sant'Alessio, sei la leggenda di santi più stronza che conosco. Talmente stronzo che sembri vero. Cioè qui non parliamo di draghi che rapiscono fanciulle o dormienti in una grotta o martiri che accarezzano i leoni; qui c'è un hippy di buona famiglia che sembra stato ritratto l'altro ieri. Figurati se non ce n'è stato almeno uno a Roma o Costantinopoli od ovunque, figurati se in mille anni non è mai successo che un giovinastro mollasse la famiglia per fare il barbone, in teoria in giro per il mondo ma ben presto a pochi metri dalla casa dei genitori. I quali magari a un certo punto si erano impietositi e lo ospitavano pure nella mansarda a uso foresteria, magari fingendo di non riconoscerlo perché il ragazzo ha un suo distorto senso della dignità, che non gli impedisce di chiedere scusa a mamma e papà ma non di chiedere moneta sotto il loro portico di casa. Magari ce n'è stato uno sia a Edessa che a Bisanzio che a Roma, che si svegliavano presto senza mettere a posto la cameretta e uscivano in strada a mendicare, e alla fine che gli vuoi dire? Dopo un po' sei parte del paesaggio urbano, il giorno che non ti vedono sulla panchina si preoccupano.
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Nausicaa s'imbatte sulla spiaggia in un migrante economico. |
Crepuscolo del preside sceriffo
12-07-2018, 09:33governo Conte, privatizzazioni, Renzi, scuola, TheVision, TViPermalink
[Questo pezzo è uscito lunedì su TheVision]. Il preside-sceriffo ha i giorni contati. In realtà non ha mai fatto in tempo ad appuntarsi la stella sul petto e appoggiare gli speroni sulla scrivania. L'Italia non è mai stata quel tipo di Far West, e ormai è tardi per cominciare.
Fuor di metafora: la chiamata diretta non esiste più. Il neoministro dell'istruzione Marco Bussetti ha firmato a fine giugno coi sindacati una bozza d'accordo che ne prevede il superamento. È una misura importante soprattutto da un punto di vista simbolico, perché i margini di autonomia del dirigente erano già stati più volte ridimensionati. Agli sceriffi la legge del West consentiva di radunare uno squadrone di civili (una "posse") per dare la caccia ai ladri di cavalli. Ai presidi, le bozze originali della Buona Scuola davano la facoltà di assumere direttamente gli insegnanti, ma già tre anni fa i legislatori avevano corretto il tiro, istituendo un "comitato di valutazione", nominato da docenti e genitori.
Più tardi aveva preso piede l'espressione "chiamata per competenze", e su questo i reduci renziani insistono ancora: non bisognerebbe chiamarla "chiamata diretta", ma "chiamata per competenze", ovvero il preside avrebbe scelto, sì, con una certa discrezionalità, indubbiamente: ma sulla base delle "competenze" dei candidati, certificate dal curriculum. Ma "chiamata per curriculum" sarebbe forse suonata male, mentre il termine passpartout "competenza" negli ultimi anni si è dilatato fino a diventare un paravento dietro al quale nascondere qualsiasi magagna. In questo caso il termine si riferiva a un misterioso quid che rende certi insegnanti più adatti a certe scuole, in base a parametri che non si potrebbero misurare coi concorsi nazionali. Soltanto i presidi, e i loro collaboratori, sarebbero stati in grado di saggiare la "competenza" dei candidati all'insegnamento, previa lettura del curriculum.
Come si leggeva in una delle slide che presentavano la Buona Scuola: "i presidi potranno formare la loro squadra". Più che un preside-sceriffo, un preside-manager sportivo, che gestendo sapientemente il proprio budget seleziona una rosa in base alla propria conoscenza del territorio, e al proprio fiuto didattico. In che modo poi i presidi avessero improvvisamente maturato competenze manageriali e didattiche non era affatto chiaro – la sensazione è che Renzi e co., nel momento in cui avevano deciso di occuparsi del complicato mondo della scuola, si fossero seduti al tavolo delle trattative chiedendo: chi comanda qui? I presidi? Bene, allora diamo tutti i poteri ai presidi, ecco fatto, era facile. Renzi li paragonava anche ai sindaci, e questa è l'immagine che chiarisce le altre: così come i sindaci avrebbero salvato il Paese (Renzi in testa, futuro Sindaco d'Italia), così i presidi avrebbero salvato la scuola. Bastava fidarsi di loro.
Su questa linea i difensori della Buona Scuola non cedono: i dirigenti scolastici avrebbero saputo individuare i meriti e le eccellenze molto meglio di qualsiasi concorso statale. Un paradosso ben curioso, visto che i presidi stessi vengono selezionati in base a concorsi statali. Ma tant'è; il preside era la figura più simile a quella del sindaco, dell'allenatore, del manager: il renzismo non poteva che fare affidamento su di lui. Questa mentalità manageriale, benché posata su basi teoriche malferme, garantì a Renzi l'appoggio di fior di opinionisti liberali, sempre pronti a ribadire che "la meritocrazia è di sinistra"; in compenso gli alienò le simpatie di molti insegnanti, ma non si può piacere a tutti. La concezione aziendalista della scuola non è una novità: nel decennio scorso è stata portata avanti senza remore da più di un ministro di area berlusconiana (Letizia Moratti, Maria Stella Gelmini). Vederla ripresa orgogliosamente da un governo di centrosinistra alla fine non stupiva neanche più tanto.
Anche quando lo stesso Renzi si rese conto di aver sbagliato qualcosa nel suo approccio... (continua su TheVision).
Fuor di metafora: la chiamata diretta non esiste più. Il neoministro dell'istruzione Marco Bussetti ha firmato a fine giugno coi sindacati una bozza d'accordo che ne prevede il superamento. È una misura importante soprattutto da un punto di vista simbolico, perché i margini di autonomia del dirigente erano già stati più volte ridimensionati. Agli sceriffi la legge del West consentiva di radunare uno squadrone di civili (una "posse") per dare la caccia ai ladri di cavalli. Ai presidi, le bozze originali della Buona Scuola davano la facoltà di assumere direttamente gli insegnanti, ma già tre anni fa i legislatori avevano corretto il tiro, istituendo un "comitato di valutazione", nominato da docenti e genitori.
Più tardi aveva preso piede l'espressione "chiamata per competenze", e su questo i reduci renziani insistono ancora: non bisognerebbe chiamarla "chiamata diretta", ma "chiamata per competenze", ovvero il preside avrebbe scelto, sì, con una certa discrezionalità, indubbiamente: ma sulla base delle "competenze" dei candidati, certificate dal curriculum. Ma "chiamata per curriculum" sarebbe forse suonata male, mentre il termine passpartout "competenza" negli ultimi anni si è dilatato fino a diventare un paravento dietro al quale nascondere qualsiasi magagna. In questo caso il termine si riferiva a un misterioso quid che rende certi insegnanti più adatti a certe scuole, in base a parametri che non si potrebbero misurare coi concorsi nazionali. Soltanto i presidi, e i loro collaboratori, sarebbero stati in grado di saggiare la "competenza" dei candidati all'insegnamento, previa lettura del curriculum.
Come si leggeva in una delle slide che presentavano la Buona Scuola: "i presidi potranno formare la loro squadra". Più che un preside-sceriffo, un preside-manager sportivo, che gestendo sapientemente il proprio budget seleziona una rosa in base alla propria conoscenza del territorio, e al proprio fiuto didattico. In che modo poi i presidi avessero improvvisamente maturato competenze manageriali e didattiche non era affatto chiaro – la sensazione è che Renzi e co., nel momento in cui avevano deciso di occuparsi del complicato mondo della scuola, si fossero seduti al tavolo delle trattative chiedendo: chi comanda qui? I presidi? Bene, allora diamo tutti i poteri ai presidi, ecco fatto, era facile. Renzi li paragonava anche ai sindaci, e questa è l'immagine che chiarisce le altre: così come i sindaci avrebbero salvato il Paese (Renzi in testa, futuro Sindaco d'Italia), così i presidi avrebbero salvato la scuola. Bastava fidarsi di loro.
Su questa linea i difensori della Buona Scuola non cedono: i dirigenti scolastici avrebbero saputo individuare i meriti e le eccellenze molto meglio di qualsiasi concorso statale. Un paradosso ben curioso, visto che i presidi stessi vengono selezionati in base a concorsi statali. Ma tant'è; il preside era la figura più simile a quella del sindaco, dell'allenatore, del manager: il renzismo non poteva che fare affidamento su di lui. Questa mentalità manageriale, benché posata su basi teoriche malferme, garantì a Renzi l'appoggio di fior di opinionisti liberali, sempre pronti a ribadire che "la meritocrazia è di sinistra"; in compenso gli alienò le simpatie di molti insegnanti, ma non si può piacere a tutti. La concezione aziendalista della scuola non è una novità: nel decennio scorso è stata portata avanti senza remore da più di un ministro di area berlusconiana (Letizia Moratti, Maria Stella Gelmini). Vederla ripresa orgogliosamente da un governo di centrosinistra alla fine non stupiva neanche più tanto.
Anche quando lo stesso Renzi si rese conto di aver sbagliato qualcosa nel suo approccio... (continua su TheVision).
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