Abdia (per piccino che tu sia)

Permalink
Sta tutto su un rotolo
(Mosaico della basilica di S. Marco,
Venezia).
19 novembre - Sant'Abdia (600 aC) - minuscolo profeta di sventura

Nella Bibbia ebraica c'erano quattro libri intestati ai profeti: Isaia, Geremia, Ezechiele e i Minori (e Daniele? Non conta, è un caso a parte, lo raccontiamo un'altra volta). Isaia – che in realtà è il nom de plume di più profeti – è il poeta; Geremia il brontolone, Ezechiele il visionario, i Minori sono dodici e hanno il libro più breve. I cristiani ebbero la bella pensata di dividerlo in dodici minuscoli libretti, alcuni poco più che cartigli. Quello di Abdia è il più corto di tutti: una pagina scarsa, ventuno versetti, appena lo spazio sufficiente per augurare sciagure a un popolo beduino (gli Edomiti) colpevole di aver collaborato con Nabucodonosor II, l'invasore babilonese.

Gli Edomiti discenderebbero da Esaù, il figlio di Isacco che cedette la primogenitura al fratellino Giacobbe in cambio d'un piatto di lenticchie: così che al posto della famosa terra del latte e del miele alla sua discendenza capitò il deserto del Negev, e una malcelata invidia per il popolo eletto. Non è chiaro quanto gli edomiti effettivamente contribuirono alla sconfitta del Regno di Giuda, ma sicuramente profittarono delle deportazioni ordinate da Nabucodonosor per sconfinare e trasferirsi in quella terra più fertile. Agli ebrei non restava che maledirli, ed è quello che fece, molto sinteticamente, Abdia: vi siete appostati ai bivi per sterminare i nostri fuggiaschi? Avete consegnato al nemico i suoi superstiti, nel giorno della sventura? Bene, il giorno del Signore è vicino: tutte le vostre azioni ricadranno sul capo. Giacobbe sarà fuoco e voi sarete paglia. Sarete sterminati, ovviamente, e le tribù d'Israele s'ingrandiranno sulle vostre rovine...

Negli ultimi versetti Abdia da profeta si trasforma in notaio della Volontà divina davanti a una mappa catastale: dal giorno del Signore in poi, spiega, gli israeliti del sud “possederanno il monte di Esaù; quelli della pianura possederanno il paese dei Filistei, il territorio di Efraim e quello di Samaria; e Beniamino possederà Galaad” eccetera eccetera, insomma Giacobbe (detto anche Israele) trionferà. È andata così?
Ovviamente no – ci fosse un solo profeta nella Bibbia che ne avesse azzeccata una. È vero che spostandosi verso la Palestina gli Edomiti persero progressivamente le loro postazioni nell’entroterra desertico e montuoso, dove furono soppiantati non da Israele bensì dai Nabatei (quelli che costruirono Petra, nuova meraviglia del mondo). Ma non furono sterminati: rimasero nella zona anche dopo il ritorno degli israeliti dalla deportazione, e cinque secoli dopo Abdia furono costretti a convertirsi all’ebraismo da un sovrano maccabeo. Alcuni fecero carriera – gli Erodi erano di origine edomita, e anche grazie all’alleato romano regnarono su Israele (anche noi italiani del resto abbiamo avuto tre re savoiardi). Quella di Abdia è l’ennesima frustrata fantasia biblica di sterminio, e il fatto che sia piccola piccola la rende in un qualche modo più suggestiva: tanti secoli fa, in un Paese lontano, c’era un popolo piccolo piccolo che le prendeva sempre da tutti gli altri popoli, e si sfogava ispirando a profeti piccoli piccoli degli stermini di massa (ma piccoli piccoli).

Tutto questo ovviamente avveniva secoli fa: oggi quei popoli non esistono più. Qualcuno forse è scomparso, la maggior parte più probabilmente si è mescolata come sempre avviene. Alcuni mantengono ancora nomi e tradizioni di qualche millennio fa: ma nessuno ovviamente pretende di occupare il Negev e il Wadi Araba sulla base di quel che scrisse millenni fa un profeta piccolo piccolo su un piccolo, piccolo cartiglio. Pensate anche solo per un momento a quanto sarebbe assurdo.

[Questo pezzo è stato pubblicato per la prima volta il 19/11/2013]
Comments

Il peggior scrittore del secolo

Permalink
(Non di questo, del secolo VI. Un secolo in cui magari in Europa sapevano leggere in cinquecento e scrivere in quindici – comunque si aggiudica il trofeo San Gregorio di Tours, di cui si leggono mirabilie sul Post. Quella nell'immagine invece è una bis-bis-bis-nonna di Cenerentola, giuro).

17 novembre - San Gregorio di Tours (538-594)

...aveva di poco passati i trent'anni quando divenne vescovo di Tours; se è lecito giudicare l'uomo dallo scrittore, deve aver posseduto coraggio e forza di carattere, e certamente nulla di quanto vide poté distoglierlo dalla sua via...


e ADESSO chi è la più bella del reame, eh?
Come? Non ti sento bene, scusa.
Uno dei motivi per cui la gente guarda i talent show, secondo me, è che sono pieni di incapaci che fanno ridere, all'inizio; e in seguito di mediocri che possono sbagliare nota o figura da un momento all'altro. E a quel punto lo spettatore si sente come Nerone sul palco del Colosseo pronto a invertire il pollice e far entrare i leoni, no? No, esagero, tra l'altro ai suoi tempi il Colosseo non c'era, e comunque a Nerone non piacevano gli spettacoli sanguinosi. Forse i mediocri ci fanno stare bene perché sono gente come noi, sbagliano come noi, se diventano ministri fanno le stesse cazzate che faremmo noi, se non peggiori.

Ma c'è di più: a volte solo contemplando un mediocre noi riusciamo a farci un'idea della grandezza. Per esempio. Io la danza classica non sono mai riuscito a guardarla, alla prima ruota impeccabile sbadiglio, sono sempre tutte incommensurabilmente brave e mi annoio. Invece se guardo un'amica di Maria col collo del piede inadeguato riesco a capire le sue mancanze, le correggo con l'immaginazione e all'improvviso mi rendo conto della fatica, della grazia che deve metterci una ballerina vera; è come se la mediocrità mi aiutasse a misurare il valore di chi è bravo sul serio; è come quando fotografi un piccione spennato in cima a un monumento e finalmente riesci a capire quanto il monumento è grande. Dico tutto questo perché oggi è San Gregorio di Tours, che non è patrono di Tours (con San Martino non c'era gara), quindi non si sa esattamente di cosa sia patrono, e allora io avrei una proposta: nominiamolo patrono di tutti gli scrittori mediocri.

Gregorio in effetti è un po' l'amico di Maria della scrittura. Il mio Dizionario dei Santi (“Da Abacuc a Zosimo tutti i protagonisti della fede”) spiega che la sua Historia Francorum “non si può dire un'opera d'arte”, mirabile eufemismo per nascondere ai non esperti la terribile verità: Gregorio come scrittore è un disastro. Ma è uno di quei disastri molto interessanti da studiare, come il Big Bang. Non è che non sappia mettere la punteggiatura: ai suoi tempi nemmeno esisteva la punteggiatura, forse non costumava nemmeno più spaziare tra una parola e l'altra, siscrivevatuttoattaccatoperevitarecheilpenninofacesselagocciamacchiandolapergamena (con quel che costava, la pergamena: per qualche secolo si è andato avanti riciclando testi antichi, se volevi raccontare gli ultimi gossip sulla regina Cunegonda prendevi un rarissimo volume della Poetica di Aristotele, lo raschiavi, e iniziavi ascriverefittofittoqualsiasistoriellativenisseinmente). Niente punteggiatura, insomma, niente spazi: quindi diventano importantissimi i nessi logici, quelle paroline come “Perciò, Quindi, Infatti, Siccome”... ecco, quelle. Gregorio non sa bene come usarle, è come uno di quegli studenti che cominciano sempre con "Infatti" ma non sta introducendo una conseguenza, con "Perché" ma non sta recuperando una causa, è solo un modo per prendere parola e iniziare a raccontare fattoidi senza continuità finché qualcuno spazientito non ti toglie il microfono.

Gregorio del resto non è che capisca il come e il perché, la sua Historia non è che un groviglio senza capo né coda di Merovingi che si accoppano e poi fanno la pace e poi si riaccoppano, con un vescovo (a volte Gregorio stesso) che ogni tanto ne prende due sottobraccio e dice “Va bene adesso basta ammazzarsi tra cugini di terzo grado, dite un Pater Ave Gloria e da qui in poi tutti amici, oc?” [Non è vero che si diceva “oc”, a Tours non si parlava la Langue-d'Oc, ma mi piaceva la scena di un vescovo che dice “Oc”]. E il bello è che nella pagina seguente i due sono davvero amiconi e fanno bisboccia insieme, poi quando è ora di pagare il conto uno dice "Paga il mio amico che ha appena ereditato, è diventato ricco da quando ho fatto uno spiedo di tutti i suoi parenti, eh eh, Cramnesindo, dovresti solo ringraziarmi..." e Cramnesindo a quel punto si adonta, gli taglia la testa e la infilza su un palo, ecco, questi erano i tempi di Gregorio di Tours (continua...)


Gregorio non dispone che del suo latino grammaticalmente corrotto, sintatticamente povero e di conseguenza quasi di scolaretto, egli non ha registri da manovrare e non ha un pubblico sul quale possa influire con un gusto inconsueto o con una variante stilistica; ha però i fatti concreti che accadono intorno a lui, che si svolgono davanti ai suoi occhi o che gli sono riferiti “caldi caldi"...

Gallia, sesto secolo. L'Impero Romano è finito dai tempi dei nonni dei bisnonni, e al suo posto ci sono questi sovrani burgundi visigoti e merovingi che però non conoscono la differenza tra nazione e proprietà privata, sicché qualsiasi regno lo dividono tra numerosi figli maschi, i quali ovviamente non perdono tempo e cominciano ad ammazzarsi a volte quando il padre è ancora vivo, spalleggiati da mogli e concubine efferate: i confini cambiano continuamente, le nazioni hanno nomi stranissimi (Neustria, Austrasia), e in mezzo a tutto questo Gregorio cerca di fare l'uomo saggio, l'uomo di fede e soprattutto di lettere. La volontà non gli mancava, ma cominciava a scarseggiare il materiale, dico proprio le pergamene: in tutta la sua vita Gregorio si nutrirà soprattutto di cronache tardo-antiche, un po' di Eneide, poca patristica, Cicerone solo attraverso San Girolamo, le Scritture compreso qualche apocrifo, tutto lì. Per i tempi era comunque una biblioteca degnissima, che gli valse una fama di intellettuale, non del tutto immeritata, perché son tutti buoni oggi di fare i sapientini con google. Gregorio non aveva nemmeno a disposizione un vocabolario decente della lingua in cui cercava di scrivere (il latino).

Quanto alle fonti, è tutto un sentito-dire. Gregorio è contemporaneo di alcuni dei personaggi più incredibili della sua Historia; donne fatali e criminali, come Brunechilde e Fredegonda. Quest'ultima, nata schiava, seduce il re Chilperico e lo convince a ripudiare la prima moglie Audovera e a trovarsene una degna di lui. Chilperico obbedisce ma, come capita sovente ai Merovingi, fraintende e sposa Galsuinda, sorella di Brunechilde regina di Austrasia. Fredegonda abbozza ma appena Chilperico si stanca della sposa novella riesce a convincerlo a farla sgozzare: la cognata non apprezza, e da qui un'infinita guerra tra Austrasia e Neustria in cui inutilmente gli studiosi moderni cercherebbero quei moventi, quegli indicatori socio-economici per cui si fanno le guerre, perché ce la racconta Gregorio da Tours, e per Gregorio alla fine è tutto molto semplice: quelle due tipe, Fredegonda e Brunechilde, non si sopportavano, per trent'anni continuarono a scagliarsi contro re principi  e pretendenti come pezzi bianchi e neri sulla scacchiera.

A Gregorio nulla dell'uomo è estraneo, fa luce in tutti gli abissi, chiama le cose col loro nome, e conserva tuttavia la sua dignità e una certa unzione di tono, e non si fa nemmeno nessun ritegno d'impiegare mezzi temporali accanto a quelli spirituali; sa che la Chiesa deve essere forte e potente se vuol raggiungere in questo mondo qualcosa di durevole nel campo morale e che bisogna legare a sé anche con interessi pratici coloro di cui si vuol conquistare durevolmente il cuore. 

Nel frattempo Fredegonda aveva anche il suo daffare ad eliminare i figliastri, avvelenandoli o facendoli sgozzare o screditandoli presso il marito. Persino i suoi figli naturali dovevano stare attenti alla testa, letteralmente. Alla vezzosa Rigonda promise di regalare ogni vestito e prezioso che sarebbe riuscita a trovare in un baule; ovviamente era solo un pretesto per chiuderle la testa nel baule stesso, ma le sue guardie sventarono il crimine e... e niente, il mattino dopo tutti a colazione come prima, che gente i Merovingi.

L'episodio è interessante perché riaffiora dieci secoli dopo nell'ultimo posto dove uno se lo potrebbe aspettare, e cioè nella fiaba di Zezolla, che è poi la versione napoletana di Cenerentola, narrata nel Cunto de li Cunti da Giambattista Basile. Qui in una versione italiana:
Ma [il padre di Zezolla], essendosi sposato da poco il padre e pigliata una focosa malvagia e indiavolata, questa maledetta femmina cominciò ad avere in disgusto la figliastra, facendole cere brusche, facce storte, occhiate accigliate da spaventarla, tanto che la povera ragazza si lamentava sempre con la maestra dei maltrattamenti che le faceva la matrigna, dicendole: "O dio, e non potessi essere tu la mammarella mia, che mi fai tanti vezzi e carezze?" E tanto continuò a ripetere questa cantilena che, messole un vespone nell'orecchio, accecata dal diavolo, una volta la maestra le disse: "Se farai come ti dice questa testa pazza, io ti sarò mamma e tu mi sarai cara come le ciliegine di questi occhi". Voleva continuare a parlare, quando Zezolla (che così si chiamava la ragazza) disse: "Perdonami, se ti spezzo la parola in bocca. Io so che mi vuoi bene, perciò zitto e sufficit: insegnami l'arte, perché io vengo dalla campagna, tu scrivi io firmo" "Orsù" replicò la maestra, "senti bene, apri le orecchie e il pane ti verrà bianco come i fiori. Appena tuo padre esce, di' alla tua matrigna che vuoi un vestito di quelli vecchi che stanno dentro la grande cassapanca nel ripostiglio, per risparmiare questo che porti addosso. Lei, che ti vuol vedere tutta pezze e stracci, aprirà il cassone e dirà: 'Tieni il coperchio' E tu, tenendolo, mentre andrà rovistando dentro, lascialo cadere di colpo, così si romperà l'osso del collo. Fatto ciò, tu sai che tuo padre farebbe monete false per accontentarti e tu, quando ti accarezza, pregalo di prendermi per moglie, perché (beata a te!) sarai la padrona della vita mia".


Divorzio alla merovingia:
Chilperico strangola la moglie nel sonno.
Sì, lo so, di queste cose Walt Disney non parla, ma la Cenerentola originale napoletana spezza il collo della matrigna in un baule. Le va comunque male, perché il papà sposa la maestra che diventa una matrigna peggiore della prima, ed è quella che poi la relega definitivamente alle pulizie. Secoli prima lo stesso crimine era stato imputato a quella granculo di Fredegonda, che con Cenerentola del resto condivide il salto improvviso da domestica a principessa. Insomma dietro alla fiaba della scarpetta di cristallo (che con molte variazioni è attestata nell'antico Egitto, in Cina e tra i nativi americani) potrebbe esserci una delle più malvagie regine della storia, una di fronte alla quale Lucrezia Borgia è una Teresina del Bambin Gesù. E alla fine un dettaglio della fiaba potrebbe averlo messo su pergamena proprio il mediocre Gregorio da Tours, con la sua passione per le scene un po' truculente, ma vivide. Se lo amiamo, con tutto l'affetto fraterno che riserviamo ai mediocri, è grazie a Erich Auerbach, che in Mimesis ci ha fatto conoscere la sua prosa sgrammaticata, e ci ha insegnato a riconoscere l'alba nell'imbrunire degli antichi nessi logico-sintattici. Perché è vero, Gregorio scrive male, ma senza di lui forse non avremmo il realismo moderno.
Di certo il suo talento e il suo temperamento conducono il vescovo Gregorio molto al di là della semplice cura spirituale e della pratica ecclesiastica; quasi senza avvedersene diventa uno scrittore che afferra e foggia la vita. Non ogni prete avrebbe potuto diventar quello che è diventato lui, ma in quel tempo soltanto un prete poteva diventarlo.
È passato molto tempo da quando studiavo Auerbach e il realismo in generale, ma ancora oggi quando correggo qualche tema di tredicenne, e sbatto inevitabilmente contro sintassi traballanti, punteggiature insensate o inesistenti, “perché” che non spiegano e “ma” che non avversano, proprio mentre sto per accartocciare il foglio protocollo... mi torna in mente Gregorio di Tours, grande e sgrammaticato scrittore che coi cocci del latino s'inventò una lingua nuova e un realismo nuovo, patrono di tutti noi cattivi e incompresi scrittori sempre in guerra con punteggiatura e logica. Magari il mio peggior studente sarà il cronista dei prossimi barbari; possa San Gregorio illuminargli il desktop, mentre raschia dalla memoria fissa qualche e-book inutile e comincia a scrivere le gesta del popolo tamarro.

[Pubblicato la prima volta il 18 novembre 2011].
Comments (1)

San Martino, l'estate che non c'è

Permalink
11 novembre – San Martino da Tours (316-397), soldato, vescovo, fenomeno meteorologico
Carpaccio (1480 circa)
L’estate di San Martino dura tre giorni e pochino, e nessuno sa spiegarmi il perché. Pensavo si trattasse di un piccolo anticiclone stagionale, ma salta fuori che esiste in tutte le fasce temperate del mondo; addirittura anche in Australia, anche se là ovviamente arriva tra aprile e maggio. E quindi non la chiamano estate di San Martino ma, come un po’ dovunque ormai, Indian Summer. L’estate indiana, già, ma di che indiani si parla?
È parere unanime che si tratti di nativi nordamericani. Il primo a segnalare l’espressione fu uno scrittore francese immigrato a New York, nel 1778; cinquant’anni più tardi, una colona anglo-canadese si burla della leggenda metropolitana per cui l’aumento effimero della temperatura sarebbe causato dai grandi falò rituali accesi dalle nazioni indiane [questa cosa l’ho pur letta da qualche parte, ma non riesco più a trovare la fonte] . Già allora nessuno sapeva esattamente spiegare cosa ci fosse di indiano nella piccola estate che nella Madre Patria continuava a essere attribuita a San Martino. Forse era un periodo particolarmente indicato per per la raccolta di determinati frutti della terra, o per le razzie e il saccheggio. Oppure, semplicemente, l’aggettivo “indiano” veniva usato in senso dispregiativo, come sinonimo di “falso”. Quest’ultima spiegazione ha il pregio di essere più semplice e il grosso difetto di suonare razzista – al punto che al momento è stata espunta dalla pagina inglese di Wikipedia. Risolverebbe anche la coincidenza per cui dall’altra parte del mondo, in Bulgaria, la stessa estate è chiamata “zingara”. In molti altri Paesi slavi è “l’estate delle vecchie” o “delle donne” (in russo Babye Leto): anche in questo caso le interpretazioni si sprecano, le donne potrebbero essere le Norne della mitologia norrena, ma anche le madri di famiglia che in questo periodo dell’anno potevano approfittare dei giorni di sole per uscire a raccogliere funghi o castagne; ma alla fine anche in questo caso viene il sospetto che le “donne” siano l'”indiano” di turno, qualcuno a cui attribuire un fenomeno irrisorio, depotenziato. Un’estate di tre giorni, come dire un’estate da donne.
Nel resto d’Europa l’estate è stata attribuita a un santo. Martino, l’ex legionario divenuto vescovo di una diocesi della Francia profonda, l’ha spuntata su concorrenti agguerriti: San Luca (UK), Sante Brigida e Britta (Svezia), San Michele (Galles, Spagna, Serbia), Santa Teresa (Paesi Bassi), Tutti i Santi (altrove). Com’è giusto che sia: l’estate in questione non si verifica negli stessi giorni in tutte le latitudini – ammesso che si verifichi. Non siamo nemmeno sicuri che Martino abbia vinto il confronto perché l’11 novembre era il giorno statisticamente più probabile: forse si è fatto strada perché era un santo simpatico, un vescovo sollecito che non lesinava aiuti e miracoli. Fosse nato appena qualche anno prima, probabilmente sarebbe stato martirizzato sotto Diocleziano molto prima di diventare un vecchio saggio, e su di lui sarebbero state raccontate le solite storie favolose e sanguinose, arti che si staccano e riattaccano, gole che si offrono alla lama ma la lama schizza via, eccetera.
Per me i legionari romani sono tutti così (e mi sono sempre chiesto l’utilità di quel mantello in un combattimento)
Martino però viene al mondo (in Pannonia, oggi Ungheria) tre anni dopo che l’editto di Milano ha sospeso le persecuzioni.  È uno dei primi santi-non-martiri, santi che diventano vescovi e invecchiano. L’unica leggenda sulla sua giovinezza è quella famosa del mantello: trovando un mendicante per strada, dalle parti di Amiens, in un freddo giorno (di novembre), taglia col gladio il suo rosso manto da ufficiale della legione e gliene passa metà. Una versione più recente a questo punto fa uscire il sole, ma è chiaramente un’aggiunta postuma che serve a spiegare la singolarità meteorologica. Invece la leggenda originale fa comparire a Martino, la notte seguente, il mendicante in sogno: era Gesù.
Il manto di Martino nei quadri di solito è rosso, come quello dei centurioni di Asterix. Mi ricordo una favolosa pala d’altare in una minuscola città del Poitou (o forse era già Turegna). Era dello stesso rosso della mia minuscola macchinina, con la quale in quel periodo mi aggiravo tra Tours e Poitiers, cercando case di Balzac, di Descartes, rovine romane, il più delle volte trovando pioggia e girasoli. E autostoppisti, coi quali dividere l’unica cosa che possedevo, la mia vetturetta il mio unico mantello; sperando con ciò di propiziare il sole. Non voglio dire che credo in queste cose, ma nella targa c’erano le lettere S-M-A-R. Lascia che le altre vetture preghino san Cristoforo o Antonio da Padova, la mia era devota a San Martino.
La macchinina esiste ancora, ogni tanto la vado a trovare, la usano per andare nei cantieri. È un po’ acciaccata, lo sterzo è durissimo, ma ogni volta che mi vede è come se mi dicesse: sei tornato, connard? Quand’è che ce ne torniamo su su più a nord del Moncenisio, dove piove sempre e i girasoli s’en fichent? E se troviamo ragazze rosse di capelli o studenti con l’alitosi li carichiamo. Ho ancora un’autoradio, ci ha pure gli mp3, ma lo sai da quand’è che non ascolto un pezzo di Brel a palla? Non è che mi lamento, eh, è tutto piatto anche qui. Ma un bel dosso, ti ricordi quei dossi pazzeschi che arrivavi in cima ai cento all’ora e non vedevi più niente! più niente! dimmi che non ti divertivi con me in Francia, dillo. Senza un quattrino e un progetto a termine, con le valigie già fatte nel dormitorio. Stavamo dicendo?
Sole? Sì, ne abbiamo sentito parlare, ma dalle nostre parti non crediamo molto in queste cose, siamo laici sapete.
Per le stesse strade, secoli prima, Martino si aggirava, prima soldato, poi diacono, poi infaticabile vescovo deciso a evangelizzare il pagus, il contado, infine cadavere, conteso dai fedeli di Tours e Poitiers, affamati di reliquie e dell’indotto turistico-commerciale che avrebbero creato. Martino è sempre stato molto amato. Si intuisce che lui stesso amasse profondamente la sua terra d’adozione, piatta come la Pannonia (a parte qualche dosso effettivamente pazzesco), forse un po’ più esposta agli elementi. Come molti santi in seguito, partì rivoluzionario e invecchiò pompiere: cominciò bruciando idoli dove ne trovava, e verso la fine probabilmente si contentava di benedirli: il Dio di questo fiume d’ora in poi è il tal martire, ecc. ecc. Lui stesso forse subì lo stesso destino: forse sotto Martino c’è un po’ del Dio soldato, Marte: un Dio che smette di fare la guerra e si dà alla filantropia.
Quanto al fenomeno atmosferico, mi domando se esista. Per esempio, oggi è San Martino e piove come Dio la manda. Mi spiace un po’ per le bancarelle a Bomporto (MO), ma se ci penso bene, sin da quando ero bambino è sempre andata così. Quando non pioveva c’era nebbia, o vento, persino vento, guardate che dalle nostre parti è una notizia il vento, insomma, Estate di cosa?
Concludo con una poesia, e con un’ammissione pesante: a me San Martino di Carducci piace. Mi mette di buonumore, mi fa venir voglia di annusare mosto e mangiare castagne, una poesia che fa appetito secondo me merita. C’è quel participio molto semplice ma così appropriato, scoppiettante, è una poesia scoppiettante. La trovo semplice e aggraziata, con quello stormo di uccellacci neri che si dilegua, come i cattivi pensieri, appena torni a casa da una sagra piena di pioggia e nebbia e ti metti davanti a un camino, scoppiettante. Buona estate, se la vedete salutatemela.
Novembre di Pascoli invece mi fa venir voglia di morire
[Questo pezzo è apparso la prima volta l'11/11/2011].
Comments (1)

Leone contro tutti

Permalink
10 novembre – San Leone Magno (400 ca. – 461), papa combattente e combattuto.

Il nome, dicono, è un destino: spero non sia il mio caso, ma fu quello per esempio di Leone Magno, che combatté per tutto il suo pontificato e qualche volta vinse. Contro i discepoli di Priscilliano, un santone che mescolava profeti e oroscopo e stava allontanando le chiese spagnole dal controllo di Roma: ma Leone lottò finché non convinse l'imperatore Graziano che Priscilliano era un eretico e uno stregone, e lo fece giustiziare. Contro i manichei, che credevano che l'universo fosse il risultato di una lotta tra Luce e Tenebre e avevano fatto breccia non solo tra i poveracci impressionabili, ma anche su intellettuali promettenti come il giovane Agostino d'Ippona; per cui a Leone non bastava confutarli dottamente: li denunciava all'autorità imperiale, che avrebbe proceduto a torturarli. Contro i monofisiti, che in Oriente predicavano la natura solo divina di Cristo e stavano portando dalla loro parte tutta la chiesa di Costantinopoli e di oriente: ma Leone s'impuntò, chiese e ottenne un nuovo concilio che mise fuorilegge pure i monofisiti. Contro i vescovi delle Gallie che credevano di potersi nominare tra loro (come in effetti avevano spesso fatto) invece di riconoscere l'autorità del vescovo di Roma, non un vescovo tra tanti ma il successore dell'apostolo Pietro. Contro la stessa lingua latina che si stava un po' rammollendo nelle cancellerie: a causa delle migrazioni certi accenti forse non si sentivano più, certe sfumature si erano perse. Servivano nuove regole per scrivere in prosa e Leone Magno se le inventò, forse improvvisando, e poi gliele copiarono per secoli, lo chiamarono cursus leonino.

L'Occidente intanto franava, gli Unni premevano sui Goti che premevano sui Vandali che in un qualche  modo si erano trovati in fondo alla catena e schizzarono sui territori dell'Impero in modo impressionante, dalla Spagna al Marocco alla Tunisia, e dalla Tunisia (via nave) di nuovo a Roma. Leone, che pochi anni prima forse era riuscito davvero a convincere Attila a non scendere a Roma, nel 455 poté solo negoziare col re dei Vandali (Genserico) i termini del saccheggio. Leone insomma combatté per tutta la sua carriera, forse per tutta la vita: a volte vinse, a volte venne a patti. Un patriarca riottoso si poteva far deporre; un vescovo ribelle si poteva ridurre a più miti consigli; contro i ribelli, in generale, non è difficile prevalere: basta metterci la tigna, alzarsi ogni mattina qualche ora prima di loro e passarla a concepire nuovi sistemi per confutarli, per perseguitarli, per accerchiarli e far terra bruciata intorno a loro. I ribelli non sono il vero problema. Magari. In fondo sono persino simpatici, ci aiutano a tenere la barra, ci danno un motivo per alzarci prima la mattina, per dimostrare che hanno torto e noi ragione, i ribelli ci servono (quegli stronzi). I veri nemici invincibili non sono certamente loro, a un certo punto Leone dovette rendersene conto. E chi sono allora? (Continua sul Post).

Le abitudini.

Contro le abitudini anche Leone lottò invano. Il Papa che aveva fermato Attila e rovesciato un intero concilio, non riusciva nemmeno a evitare che i suoi fedeli si voltassero un attimo indietro a fare un inchino a un vecchio dio pagano, il Sole, quando entravano nella sua chiesa (la vecchia San Pietro, poi demolita per costruire la nuova).

“…alcuni cristiani prima di entrare nella basilica di San Pietro apostolo, dedicata all’unico Dio, vivo e vero, dopo aver salito la scalinata che porta all’atrio superiore, si volgono verso il sole e piegando la testa si inchinano in onore dell’astro fulgente. Siamo angosciati e e ci addoloriamo molto per questo fatto che viene ripetuto in parte per ignoranza e in parte per mentalità pagana”.

Leone sapeva bene che quegli inchini non erano neanche più un sussulto di paganesimo, ma qualcosa di ancora più labile e residuale: un’abitudine; ma non la tollerava. Non poteva. Se cominci ad accettare che i vecchi si voltino indietro, finirà che i giovani impareranno dai vecchi, e l’abitudine non finirà mai. “Anche se alcuni intendono venerare il Creatore della luce leggiadra, e non la luce stessa che è una creatura, devono astenersi da ogni apparenza di ossequio, perché chi ha lasciato il culto degli dei, qualora trovasse tra noi simile usanza, potrebbe praticare, come incensurabile, questo elemento delle vecchie credenze perché lo vedrebbe comune ai cristiani e agli infedeli”.

Alla fine però la spuntò, direte voi. Oggi i cristiani non si inchinano più al Sole nascente, vero? Sì, ma non fu l’ostinazione di Leone a superare il problema. Alla fine la Chiesa procedette nel solito modo: visto che la gente continuava a inchinarsi a oriente, da Leone in poi si mise a costruire le chiese con l’altare orientato verso il sole del mattino. Così l’inchino pagano sarebbe passato inosservato, e dopo un po’ nessuno si sarebbe accorto che era un residuo pagano. Ne costruirono per altri mille anni, quindi potrebbe essere capitato pure a voi, di inchinarvi senza accorgervene al dio Sole. Contro i priscilliani e le loro scemenze new age si può trionfare. Sopra i manichei e il loro mondo in bianco e nero, si può stendere una passata di grigio in mille sfumature. Ma lottare contro le piccole abitudini quotidiane, quella è il combattimento che Leone stava perdendo, e forse lo perderemo anche noi. Quando crediamo che il vero nemico sia un antivaccinista o uno sciachimista, e non la persona qualunque che non riesce a differenziare i rifiuti, o a lasciare la macchina nel box lunedì mattina, che non riesce a modificare le sue abitudini. Il destino dell’uomo è nel suo nome, dicevano gli antichi, il che senz’altro fu vero per Leone Magno e sarebbe un grosso problema per me, se nel frattempo non avessi formulato un’ipotesi ancora peggiore: che il destino dell’uomo sia nelle sue abitudini.
Comments (1)

Trump resiste grazie ai borghi putridi

Permalink

Anche se ormai si è capito com'è andata (i Democratici si riprendono la Camera, i Repubblicani tengono il Senato), ci vorrà ancora qualche ora per conoscere tutti i numeri di queste elezioni USA di metà mandato. E anche quando gli ultimi seggi saranno stati assegnati (ballottaggi esclusi) servirà ancora un po' di tempo per avere i due dati che in Europa sarebbero i più importanti di tutti, ovvero: sul 100% dei cittadini USA che si sono recati alle urne, quanti hanno votato democratico, quanti hanno votato repubblicano? In fondo non dovrebbe essere difficile ottenere questo paio di numeri. Ma fate l'esperimento: provate ad andare in uno degli aggiornatissimi speciali on line che le testate anglosassoni più prestigiose hanno dedicato alle elezioni. In mezzo a tanti coloratissimi grafici e tabelle e mappe provate a cercare se c'è questo semplice dato: quanti elettori hanno scelto il partito di Trump, quanti hanno scelto l'altro. Non lo troverete.

Non troverete nemmeno la considerazione che sto per fare, e che credo dovrebbe essere condivisa da qualsiasi sincero democratico (e repubblicano): il sistema elettorale USA è profondamente iniquo, ed è solo in virtù della sua iniquità che un partito continua a governare il Paese e a esercitare il controllo su un ramo del Congresso, malgrado la maggioranza degli elettori abbia votato per un altro Presidente due anni fa e per un altro partito oggi. A questo punto, se si trattasse di un Paese dell'Europa continentale, la questione sarebbe chiusa: è abbastanza ovvio, da questa parte dell'oceano, associare a una maggioranza di elettori una maggioranza parlamentare e un esecutivo. Negli USA non è così e forse sarebbe il caso di cominciare a preoccuparsene di più. È vero, è la culla della democrazia moderna. Ma poi la democrazia è andata per il mondo, è cresciuta, ha imparato a fare di conto.

Negli USA invece è successo qualcosa, o forse è meglio dire che non è successo niente: si vota ancora come due secoli fa, quando ci si recava ai seggi in calesse. In apparenza tutto è più sofisticato: l'informazione, soprattutto, ha fatto passi da gigante e segue le campagne con un grande dispiego di mezzi, ipnotizzandoci con grafici luccicanti che, fateci caso, omettono le percentuali crude degli elettori. Tanto è un numero inutile: contano soltanto i seggi. Al Senato, soprattutto – e infatti i Repubblicani resistono lì. Al Senato ogni Stato esprime due seggi, che sia grande come la California, denso come il New Jersey o quasi disabitato, come l'Indiana. Ecco, prendiamo per esempio l'Indiana. A queste elezioni dovrebbero aver votato due milioni di cittadini, su quattro milioni e mezzo di elettori registrati e sei milioni di abitanti. Al repubblicano Mike Braun è quindi bastato poco più di un milione di voti per ottenere un seggio in Campidoglio, mentre al democratico Beto O'Rourke, che correva per i democratici in Texas, quattro milioni scarsi non sono stati sufficienti (Ted Cruz, il suo avversario repubblicano, ne ha presi appena duecentomila in più). Se l'affluenza fosse più alta (e in queste ultime elezioni sta aumentando), il sistema risulterebbe ancora più iniquo, dal momento che prevede che il mezzo milione di cittadini del Wyoming sia rappresentato a Washington da due senatori, esattamente come i quaranta milioni di cittadini della California. Neanche a farlo apposta, in Wyoming votano per lo più repubblicano, mentre in California la sfida era un derby tra candidati democratici. Il calcolo è abbastanza brutale: il voto di un elettore californiano al Senato vale ottanta volte meno di quello del Wyoming. Chi può avere concepito un sistema così iniquo? Nessuno.

Il principio che assegna due rappresentanti a ogni Stato si trova nel primo articolo della Costituzione del 1787, quando di Stati Uniti ce n'erano appena tredici, tutte ex colonie inglesi aggrappate sulla costa est. I firmatari non potevano sapere quanto sarebbe diventata grande e complessa l'Unione che tenevano a battesimo. Soprattutto non avrebbero potuto immaginare quanto grande sarebbe stato lo squilibrio tra le zone più urbanizzate e quelle che dopo 250 anni risultano ancora scarsamente popolate. Un principio comunque lo avevano ben chiaro, visto che lo avevano appena impugnato per scacciare gli inglesi: non c'è tassazione senza rappresentazione. I californiani pagano meno tasse degli abitanti del Wyoming? Di sicuro non ottanta volte in meno. Perché il loro voto deve valere così poco? Nel Regno Unito dell'Ottocento, anche a causa delle migrazioni interne causate dalla rivoluzione industriale, i distretti elettorali spopolati in cui bastavano poche centinaia di voti per ottenere un seggio a Westminster venivano chiamati Rotten boroughs, "borghi putridi". Il sistema era così iniquo che una riforma si rese inevitabile. Negli USA purtroppo sta succedendo l'opposto: invece di rendere più equo il meccanismo di rappresentanza al Senato, i legislatori approfittano della loro posizione per distorcere quello più proporzionale della Camera, attraverso il procedimento che già nell'Ottocento era stato battezzato Gerrymandering, (dal nome di un governatore del Massachussetts, Gerry, che aveva ridisegnato un distretto a forma di salamandra). Non sono stati soltanto i Repubblicani ad approfittare del diritto di poter ridisegnare i distretti a piacere, ma è soprattutto grazie a loro che qua e là in tutta l'Unione abbiamo distretti a forma di drago o di serpente. Il principio è sempre lo stesso: disseminare le comunità da cui ci si aspetta un voto omogeneo in tante diverse circoscrizioni dove il loro voto risulterà in minoranza. Il Gerrymandering è un fenomeno odioso, ma perfettamente legale, e in un qualche modo autorizzato dalla consuetudine: in fondo la stessa mappa dei Cinquanta Stati (alcuni piccoli e popolatissimi, altri grandi e disabitati) è a suo modo un Gerrymandering.

Il Gerrymandering è solo uno dei tanti fenomeni che di fatto limitano o distorcono il meccanismo elettorale USA. Rispetto ad altri forse ci interessa di più perché a un certo punto abbiamo pensato di importarlo in Italia – del resto si sa, gli americani ci piacciono con tutte le loro magagne. Una delle primissime bozze della riforma costituzionale Renzi-Boschi prevedeva che il Senato italiano diventasse una copia di quello federale americano, con due seggi per ogni regione (tranne la Val d'Aosta). Il risultato non sarebbe stato iniquo quanto quello di Washington, ma comunque il voto di un cittadino lombardo (ce ne sono dieci milioni) sarebbe stato trenta volte meno determinante di quello di un cittadino molisano (ce ne sono appena trecentomila). L'idea per fortuna tramontò abbastanza presto, ma è indicativo anche solo che qualche politico italiano ne abbia parlato come di una proposta ragionevole. La versione definitiva della riforma aveva riabbracciato l'idea che i seggi vanno assegnati in modo più proporzionale, ma anche a causa della necessità di riconoscere alle regioni a Statuto Speciale una quantità fissa di seggi, manteneva un rapporto assolutamente sbilanciato, al punto che il voto dell'elettore molisano sarebbe stato comunque cinque volte più determinante di quello dell'elettore ligure. Uno squilibrio senza senso, che penalizzava le regioni più popolate ed economicamente dinamiche senza un motivo chiaro che non fosse quello di imitare le istituzioni USA, se non nei loro pregi almeno nei difetti più evidenti. La riforma non è passata, probabilmente per altri motivi: ma prima o poi qualcuno tornerà a parlarne, e gli stessi Renzi e Boschi non è che si siano dati per vinti. Ecco, per quando succederà, meglio farsi un appunto: magari certe cose dagli americani le possiamo ancora copiare, ma il Gerrymandering per favore no. Molise e Val D'Aosta sono bellissime regioni che hanno diritto a essere rappresentate equamente, non borghi putridi.
Comments (8)

Quanto fascista sei? (no, adesso, seriamente).

Permalink

C'è stato un momento, almeno io me lo ricordo, in cui tutta l'internet italiana non discuteva della fine del fidanzamento di Salvini, e nemmeno delle opinioni di Calenda sui videogiochi. E di cosa discutevamo in quei giorni? Del fascistometro di Michela Murgia. Una simpatica trovata pubblicitaria che ha fatto arrabbiare molti lettori, difficile adesso ricordare il perché. Forse perché il fascismo è una cosa un po' più complessa. Ecco, probabilmente il motivo era quello. Sarà per questo che a un certo punto, mentre avevo molte altre cose da fare, mi sono ritrovato a concepire un fascistometro alternativo, molto più rispettoso della complessità del fenomeno. Eccolo qui, e spero che non vi spiaccia troppo. Tanto anche se vi spiace ci cascherete lo stesso. Si fa in un paio di minuti, giuro.

Clicca qui per accedere al test: Quanto fascista sei?
Comments (3)

Il ritorno di Tutti i Santi, o quasi

Permalink
Ognissanti non è un giorno come gli altri, su questa pagina. La rubrica sulla vita dei Santi, inizialmente snobbata dalla più parte dei lettori, col tempo si è conquistata la sua nicchia e oggi è uno dei principali motivi per cui qualcuno ancora si ritrova qui, o sulle mie pagine del Post. Io nel frattempo ho scritto altre cose che adesso non ha senso andarsi a rileggere; ma i santi tornano tutti gli anni, è il loro bello. Certo, avrei potuto scriverne meglio. No, sul serio, alcuni mi sono venuti davvero imbarazzanti. Altri così così. Altri persino molto belli, tranne quei due o tre errori che mi fanno vergognare. Insomma se avessi il tempo li rifarei da capo, ma questo si potrebbe dire per qualsiasi cosa.


(A proposito: io sto bene anche se qualcuno ha notato che qui non scrivo da due mesi. Ovviamente sono molto impegnato, ma altre volte che mi è capitato di essere molto impegnato scrivevo comunque come un matto, mentre stavolta no e non sono sicuro del perché. Stava diventando più faticoso che divertente e non è che ho smesso: non sono più riuscito a cominciare. C'entrerà anche il fatto che se invece mi vengono da scrivere due cazzate estemporanee c'è facebook, e tutto finisce lì).

Così, in attesa che mi passi questa specie di blocco che forse è semplicemente la maturità (la vecchiaia), ho pensato di usare il vecchio blog per riprendere i vecchi Santi e rifarli meglio.

Proprio così, mi spiace. Nelle prossime settimane – nei prossimi mesi – nei prossimi anni – sul blog ricompariranno Santi di cui si era già parlato. Non diventerà un blog di soli Santi: spero di avere altri argomenti; però ogni tanto ci saranno i Santi e a volte saranno i soliti Santi che potreste avere già letto. Alcuni pezzi saranno quasi uguali agli originali, tranne quei due o tre errori che vorrei non avere mai commesso. Altri saranno molto diversi, magari completamente diversi. Alcuni cominceranno uguali e poi diventeranno diversissimi, e il bello è che per saperlo vi toccherà rileggerli tutti da capo (ah ah ah). Alcuni scompariranno e nessuno ricorderà che siano mai esistiti, qualcuno in un commento si chiederà: ma che fine ha fatto quel pezzo su San Tale? Sssst, non è mai esistito San Tale, te lo sei sognato. Cancellerò anche molti riferimenti a Umberto Eco, non perché non siano pertinenti, ma perché senza accorgermene lo citavo in un pezzo su due ed è triste scoprirsi alla mia età ancora fanboy di Eco – meglio che fanboy di un sacco di altra gente, ma comunque. L'unica cosa sicura è che continueranno a essere pezzi poco seri, con un sacco di asserzioni buttate lì senza fonti.

Anche sul Post i pezzi saranno un po' rieditati, ma resteranno appesi al link che hanno adesso. Anzi alcuni finalmente si ripotranno leggere nella loro forma integrale, visto che a un certo punto c'è stato un pasticcio col codice e alcune pagine si sono nascoste (non perse). Così alla fine di questa opera di riscrittura avremo su questo blog due versioni di quasi tutti i brani, più la versione del Post che sarà diversa da entrambe. Insomma molto più casino di prima. Trovo la cosa irresistibilmente medievale e assai appropriata.

Per secoli nei conventi un frate a turno ha intrattenuto a pranzo i confratelli leggendo le agiografie sanguinolente di Iacopo da Varazze. Questo blog quasi per caso si è ritrovato a fare la stessa cosa. Voi che ci capitate in pausa pranzo (o in attesa di un autobus – o dello stimolo giusto al gabinetto) avete la rara opportunità di sentirvi parte di una conversazione millenaria! Prego, è un piacere (nei prossimi giorni qui sotto rimetterò anche a posto il cestino della questua).

(A tutti quelli che hanno chiesto di farci un libro: ci si è provato, anche più di una volta: ma anche se non ci fosse la crisi dell'editoria, la crisi economica, la crisi climatica... temo che sarebbe comunque colpa mia: mi sono scelto uno degli argomenti meno pubblicabili in Italia e l'ho sviluppato nel modo più frammentario possibile. Tanta carta risparmiata, mettiamola così).
Comments (9)

Non è una scuola per insegnanti (maschi)

Permalink
"Scusami, sto cercando una maestra".
È un cattivo segno quando i genitori la prima volta ti danno del tu. Non è mancanza di rispetto. È proprio che non hanno capito che mestiere stai facendo. 
"Ci sono io".
"Sì, ma cercavo una maestra".
"Beh io insegno qui".
In questi casi la giacca può fare la differenza. Senza giacca è possibile che ti prendano per un bidello. Con la giacca puoi passare anche per un vicepreside. Ma un maestro no, non pensano mai al maestro.
"Ah, mi scusi, non avevo capito".
È una questione di istanti: alla sorpresa subentra il sospetto. D'accordo, ho davanti un insegnante di sesso maschile. Cos'è andato storto con lui? Perché non è da qualche parte a fare un lavoro meglio pagato? Che errori ha commesso? Che peccati sta scontando? Forse semplicemente non aveva abbastanza ambizione.

È difficile essere insegnanti di sesso maschile? Probabilmente non quanto essere ingegneri di sesso femminile. O vigili del fuoco di sesso femminile. O insomma avere il sesso femminile, in generale, in tutti i luoghi di lavoro dove è minoritario e cioè praticamente dappertutto tranne che a scuola e forse in qualche infermeria. Questo è più vero nelle scuole italiane che in quelle di altri Paesi; più nelle scuole primarie che nelle secondarie (all'università, man mano che aumenta il prestigio e il salario, il rapporto si inverte). È una di quelle disparità intorno alle quali ancora oggi è costruita la nostra società. Anche nei più avanzati Paesi al mondo, ci si aspetta ancora che la donna trascorra mediamente più tempo dell'uomo in casa e coi figli: l'insegnamento è un mestiere che lo consente. Certo, con l'aumento del benessere aumenta la fluidità: una donna può permettersi di dedicarsi alla carriera mentre il marito si accontenta di fare un mestiere che gli piace e che gli consente di gestirsi qualche pomeriggio coi figli. Proprio per questo è allarmante il fatto che nei prossimi anni in Europa il gap tra insegnanti maschi e femmine aumenterà. Evidentemente la società si sta irrigidendo, e la scuola non può che rifletterlo. Per esempio, quando i maestri australiani ammettono di avere difficoltà con il contatto fisico, è chiaro che sono vittima di uno stereotipo di genere: nessuno si spaventa se una maestra tocca un bambino, perché con un collega maschio dovrebbe essere diverso? Allo stesso tempo lo stereotipo si basa su un senso comune confermato da dati statistici: la maggior parte dei sex-offenders risultano essere di sesso maschile, e spesso gli individui con tendenze pedofile scelgono una professione che consenta loro di lavorare a contatto coi bambiniCerto, se ci fossero più insegnanti maschi, il sospetto si diraderebbe (ma aumenterebbe anche la possibilità che un maestro risulti davvero un sex-offender). Negli Stati Uniti i maestri elementari non hanno smesso di essere una rarità, ma stanno diventando una rarità ricercata: pare infatti che a parità di condizioni, ottengano mediamente risultati migliori delle colleghe. Ma se questo accade è proprio perché insegnare, per un uomo, è ancora uno stigma sociale, un potenziale disonore che dissuade dall'intraprendere la professione chiunque non sia fortemente motivato. I maestri, insomma, sarebbero buoni proprio perché sono rari: il che significa che diventeranno sempre meno buoni man mano che aumentano e forse ci accorgeremo di aver ottenuto l'uguaglianza quando cominceremo a trovarne di scarsi (continua su TheVision).

x
Comments

I pazzi e il Pendolo

Permalink
Tutto questo non potevamo aspettarcelo: ai posteri cercheremo di spiegarla così. Complottisti al governo, antivaccinisti alla sanità; sottosegretari che non credono alle missioni lunari. Si discute se possa presiedere la Rai un giornalista che ha diffuso notizie sul satanismo di Hilary Clinton. Tutta questa paranoia non l'abbiamo vista arrivare: come avremmo potuto? È troppo irrazionale, e tutto quello che è irrazionale non dovrebbe essere reale. Ai posteri cercheremo di spiegarla così, ma non è detto che ci cascheranno: ma certo che potevate aspettarvelo. Ci sarebbe bastato guardare meglio in giro, studiare con più attenzione i fenomeni, anche soltanto leggere i libri giusti. Ce n'era uno che prevedeva tutto questo con trent'anni d'anticipo, e non era un saggio di antropologia o di sociologia, macché: un romanzo. Un best-seller, addirittura – certo, non il più leggibile dei best-seller.
Solo per voi, figli della dottrina e della sapienza, abbiamo scritto quest'opera...
Si chiamava Il pendolo di Foucault, e trent'anni esatti fa era l'argomento più caldo dell'estate (bisogna dire che era un'estate dolce e pigra, Gimme Five di Jovanotti duellava con Nick Kamen in cima alle classifiche, Craxi aveva finalmente acconsentito a un governo De Mita che sarebbe durato un altro anno, gli Europei di calcio erano già finiti da un mese e le olimpiadi di Seoul sarebbero iniziate soltanto in settembre). In quell'agosto sostanzialmente tranquillo, sulla stampa italiana cominciarono ad apparire recensioni non autorizzate del secondo romanzo di Umberto Eco, che sarebbe uscito soltanto in autunno. Tutto questo malgrado le proteste dell'autore e del suo editore, Bompiani, che poi sarebbero stati accusati di avere occultamente orchestrato la fuga di notizie per vendere ancora più copie. Non che ne avessero la minima necessità: il primo romanzo di Eco, Il nome della rosa, era appena uscito dalle classifiche italiane di vendita dopo otto anni. Tradotto in più di 40 lingue, si stima che abbia venduto più di trenta milioni di copie: nel dicembre di quello stesso 1988 il film di Jean-Jacques Annaud con Sean Connery sarebbe stato visto su Rai1 da 17 milioni di telespettatori, il pubblico di una partita della nazionale.

"Quando uno tira in ballo i Templari è quasi sempre un matto"
[seguono centinaia di pagine sui templari].

Nel 1988 insomma Umberto Eco dava l'impressione di poter piazzare milioni di copie persino di un trattato di cabala babilonese. A qualcuno il Pendolo sembrò esattamente questo: un gioco esageratamente intellettualistico. A chi si aspettava un altro godibile giallo medievale, stavolta Eco infliggeva un labirinto narrativo articolato non solo nello spazio (Gerusalemme, Parigi, Milano, le Langhe) ma nel tempo (dal processo dei Templari agli intrighi massonici dell'Ottocento, dalla Resistenza al '68 alla Milano-da-bere contemporanea), affidato a due voci narranti – addirittura scritto in due font diversi.

Eppure il Pendolo, a rileggerlo trent'anni dopo, non sembra così complicato. C'è da dire che nel frattempo il best-seller postmoderno, il genere che Eco stava collaudando, è diventato un prodotto editoriale codificato: il citazionismo spinto e l'uso sistematico dei flashback non sorprendono più. Ma il sospetto è che già nel 1988 Eco li stesse usando soprattutto per mettere alla prova il lettore (come aveva dichiarato nelle Postille al Nome della rosa): gran parte delle difficoltà si concentrano nei primi capitoli. Proprio il più faticoso, il delirio iniziale di Casaubon al Conservatoire des Arts et Métiers, fu scelto per essere pubblicato in anteprima dall'Espresso. Più che a promuoversi, Eco sembrava deciso a sacrificare parte del pubblico che aveva conquistato. Poteva permetterselo (continua su TheVision).



Il Pendolo scalò immediatamente le classifiche, divivendo i critici (memorabile la stroncatura di Salman Rushdie) e spaventando molti lettori.

Se Il nome della rosa inghiottiva il lettore in un universo compatto, un medioevo ricostruito in laboratorio, Il Pendolo disorientava, accostando pagine autobiografiche ai divertissement eruditi alla Diario minimo. Era un testo scoppiettante, che attirava e respingeva, e verso il finale non resisteva alla tentazione di ammazzare qualche protagonista in scena come certi feuilleton ottocenteschi tanto amati dall’autore. La trama ruotava intorno a un gruppo di intellettuali che, per interesse anche economico, cominciano a frequentare il mondo dell’occultismo, fino a venire risucchiati in un apparente complotto universale che – come nel Nome – si rivela poi solo un grande equivoco. Nel Pendolo, Eco usciva dal suo confortevole Medioevo per cimentarsi con la contemporaneità, arrivando a prestare alcuni ricordi d’infanzia a uno dei protagonisti, Jacopo Belbo. Spesso i protagonisti dei thriller sono versioni idealizzate dei loro autori, uomini tutti d’un pezzo. Nel Pendolo tutto il contrario: Belbo è un Eco che non ce l’ha fatta, che non è riuscito a diventare uno scrittore e non se ne dà pace. Una cultura enciclopedica non lo riscatta dalla mediocrità, anzi sembra fornirgli strumenti più affilati per torturarsi. Troppo giovane per la Resistenza, troppo maturo per la Contestazione, Belbo mentre confida i suoi sogni di riscatto eroico al suo personal computer, continua a compromettersi col sistema; tra le sue mansioni di collaboratore editoriale c’è quella di selezionare i gonzi, gli autori di manoscritti da attirare nella truffaldina ragnatela escogitata dal diabolico editore Garamond. Personaggi ancora più mediocri di lui, poeti da strapazzo ed eruditi della domenica, impiegati e funzionari con un sogno di gloria nel cassetto: chi avrebbe mai pensato che sarebbero legione, movimento, forza di governo? Eco nel 1988 ci stava pensando.





Il pensiero complottista, ci spiegava, farà seguaci non soltanto tra i poveri di spirito, ma anche tra gli intellettuali come Belbo, sedotti anche per un solo istante da un Piano che spieghi ogni mistero e giustifichi ogni fallimento. È una lezione sulla quale forse non abbiamo ancora riflettuto abbastanza, oggi, mentre insistiamo a interpretare il trionfo dei movimenti complottisti e xenofobi come un problema di analfabetismo funzionale (eppure il partito più votato dai laureati è il M5S). L’avversario che ci additava trent’anni fa non era l’ignoranza, ma erano la frustrazione, l’insoddisfazione, l’incapacità di rassegnarsi alla mediocrità. Lo avrebbe ribadito sette anni più tardi in quella famosa lezione alla Columbia che oggi si ritrova in libreria sotto il titolo Il fascismo eterno: “L’ Ur-Fascismo scaturisce dalla frustrazione individuale o sociale. Il che spiega perché una delle caratteristiche tipiche dei fascismi storici sia stato l’appello alle classi medie frustrate, a disagio per qualche crisi economica o umiliazione politica, spaventate dalla pressione dei gruppi sociali subalterni. Nel nostro tempo in cui i vecchi proletari stanno diventando piccola borghesia (e i Lumpen si autoescludono dalla scena politica), il Fascismo troverà in questa nuova maggioranza il suo uditorio”.

Sfogliando manoscritti alla ricerca di gonzi da spennare, Belbo aveva scoperto alcuni temi ricorrenti: l’occultismo, i misteri del passato, i soliti Templari (“Quando uno tira in ballo i Templari è quasi sempre un matto”). Nel 1988 forse era presto per capire che Il Pendolo metteva a fuoco con precisione chirurgica la transizione tra anni Settanta e Ottanta, il momento in cui in certe piccole librerie di Milano i saggi sui templari avevano rimpiazzato quelli sul marxismo. L’irrazionalismo di uno Zolla o di un Cioran poteva apparire ancora un fenomeno di nicchia, una nuvola pittoresca e inoffensiva che veniva a stemperare gli incubi ideologici degli anni di piombo. L’impegno con cui Eco si dedicava a smontarlo e sbeffeggiarlo poteva sembrare eccessivo; un voler tirare alle zanzare col cannone. Nel 1988 c’erano cose che ci preoccupavano di più, anche se oggi è difficile ricordare cosa.



Quando nel 2003 le librerie furono infestate da un thriller fanta-storico, Il Codice Da Vinci di Dan Brown, qualcuno si ricordò che l’idea di un Gesù fondatore della stirpe dei Merovingi non era poi così nuova. Ne aveva parlato per esempio Eco; ma la circostanza è un po’ più bizzarra. La trama del Codice era stata anticipata in una pagina del Pendolo in cui i tre protagonisti si divertivano a interpretare le frasi emesse da un computer in sequenza casuale. Lo stesso Eco avrebbe più volte definito Dan Brown come un suo personaggio; e in effetti, il suo stile un po’ meccanico ricorda quello di un computer che si sforza di imitare gli scrittori in carne e ossa. Al di là delle coincidenze abbastanza facili da spiegare (sia Eco che Brown attingevano la loro mitologia da testi precedenti), quel che sorprende è che sia Il Pendolo a funzionare come una parodia del Codice, benché sia uscito quindici anni prima. Una parodia che non solo mette in luce l’ingenuità del complottismo alla Dan Brown, ma ne preannuncia persino il successo. Attenzione, voleva dirci il Pendolo: questa roba sembra ridicola, inoffensiva, ma funziona.

Torniamo a oggi. Quando è crollato il ponte Morandi, nel giro di poche ore su internet sono fiorite le prime ipotesi complottiste sulla “demolizione programmata”. È la prassi, dall’undici settembre in poi; dietro non c’è nessuna mente diabolica, né un’epidemia di analfabetismo di ritorno: solo l’umana esigenza di inserire ogni tragedia in un Piano che la giustifichi e ne dia la colpa a qualcun altro. È un fenomeno interessante, inquietante e ancora abbastanza oscuro: dovremmo analizzarlo meglio, forse avremmo dovuto cominciare a studiarlo per tempo: ma in fondo chi se lo sarebbe aspettato che queste buffonate sarebbero diventate così importanti? Ai posteri cercheremo di spiegarla così. E se siamo fortunati, magari i posteri non avranno letto quello strano romanzo in cui Umberto Eco ci metteva in guardia, ormai trent’anni fa.
Comments (6)

Novità in libreria! (settembre 2018)

Permalink
Un'altra estate è andata, autunno è alle porte, le vetrine delle librerie sostituiscono i best-seller cartonati da leggere in spiaggia con... cosa? Secondo gli esperti del mercato in autunno la leggibilità passa in secondo piano; le classifiche di vendita premiano altri parametri. Ecco una breve incursione tra le più interessanti uscite del mese.


DJ CONTENTO: I canti e altre poesie di Giacomo Leopardi, Copycut editrice.

Si fa ancora chiamare Dj, ma i tempi di CRISTO-MIA-ZIA! sono ormai un ricordo lontano. Contento non è più il bimbominchia spiritato che movimentava la scena dei primi anni Zero copia-incollando pagine dei classici della letteratura senza neanche darsi la pena di leggerli. L'importante era il groove, amava ripetere mentre mescolava versi di Carducci alle memorie di Natalia Ginzburg; e per un po' le classifiche dei download gli diedero ragione. Chi avrebbe mai immaginato che Contento negli anni diventasse uno degli autori più interessanti della sua generazione? A partire da Le Satire di Montale ma anche un po' di Giovenale (2011), Contento ha iniziato a usare sempre meno forbici e sempre più colla - digitale, s'intende - scivolando più o meno consapevolmente dalla poetica del Remix a quella dadaista dell'Objét Trouvé, centrata in pieno con la sua opera più conosciuta, Le città invisibili di Italo Calvino. Se il successivo I Promessi Sposi di Alessandro Manzoni pativa forse di un'eccessiva lunghezza, coi Canti e altre poesie di Giacomo Leopardi Contento ci offre forse il vertice della sua produzione. È straordinario come il suo copia-incolla riesca a trasformare composizioni ormai consunte da secoli di uggiosa consuetudine scolastica in qualcosa di nuovo: A SilviaIl Sabato del Villaggio, perfino L'Infinito, grazie all'intervento minimale di Contento, brillano di una luce contemporanea che finalmente ce le fa apprezzare, regalandoci tutte quelle sensazioni che simulavamo al liceo per fare buona impressione sull'insegnante. Ormai è settembre, credo di potermi sbilanciare: I canti e altre poesie di Giacomo Leopardi di Dj Contento è il miglior libro italiano del 2018.

ALEX BHUPAL: Gli abissi fluviali, edizioni Adelfi.

Per la stagione autunno-inverno le edizioni Adelfi ripropongono un classico: la copertina lillà scuro, impreziosita da un'illustrazione. che attinge al catalogo un po' abusato (ma di pubblico dominio) delle avanguardie storiche. Il prezzo, come sempre, è la caratteristica più interessante del prodotto. Le Adelfi si sono imposte negli ultimi anni come l'alternativa di fascia bassa all'Adelphi – una volta sistemate sulla mensola sembrano identiche, benché costino meno della metà. Il contenuto boh, ho provato a sfogliarne un paio di pagine ma si scollavano, ho la sensazione che sia un manuale di ittiologia copiato da internet e impaginato in un Baskerville molto aggraziato. Insomma il libro ideale per dare un senso a quella mensola in alto che non sapete come riempire, o da portare su una panchina quando si vuole far colpo sulla tizia con gli occhiali che passa tutti i pomeriggi a pisciare il cane.





E. L. JAMES: Cinquanta sfumature di viola, c'è scritto Mondadori ma è un fake.

La trilogia sado-soft di E. L. James è già oggi uno dei testi più parodiati di tutti i tempi. Cinquanta sfumature di viola va più in là della semplice presa in giro, collocandosi a metà tra 'geniale operazione situazionista' e 'abominevole truffa'. Sotto lo pseudonimo "E. L. James" stavolta si nasconde un collettivo di femministe dall'umorismo molto discutibile, che si aggirano per le migliori librerie italiane sistemando il loro volume (assolutamente simile ai tre ufficiali) in posizioni strategiche. Le sprovvedute lettrici che si porteranno a casa Cinquanta sfumature di viola convinte di leggere il quarto episodio della saga, resteranno fortemente scioccate: la trama del romanzo prevede infatti che Anastasia, rapita da un misterioso nemico del marito, sia orribilmente torturata dalla prima all'ultima pagina, mentre attende fiduciosa l'arrivo di Grey - solo per scoprire che quest'ultimo in realtà si sta godendo lo spettacolo via webcam. Facendo tesoro della lezione del Sade più narrativo e meno teorico, il collettivo E. L. James non chiude mai uno spiraglio di speranza sull'ingenua protagonista, riuscendo a mantenere l'attenzione del lettore orripilato fino al ributtante finale che non vi anticipo perché, mio dio, poveri criceti. E questa è roba che smerciano alle ragazzine. Un'amica di mia nipote l'altro giorno per sbaglio ha iniziato a leggerlo, adesso non esce più di casa e la notte urla i criceti i criceti. Le librerie dovrebbero essere chiuse, tutte, con gli scrittori dentro.
Comments (1)
See Older Posts ...