Inginocchiarsi per chi, per cosa

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Le foto sono strumenti potenti, ma non dicono necessariamente la verità. Le foto che immortalarono il podio olimpico dei 200 metri all'Olimpiade del 1968 mostrano due atleti neri col braccio alzato e il pugno chiuso – anche se non sappiamo ancora quanto il gesto costerà a entrambi, intuiamo di trovarci davanti a un gesto forte di protesta. A rendere l'immagine così potente è soprattutto il contrasto col terzo atleta, bianco e apparentemente indifferente: è lui a creare l'asimmetria necessaria. Il bianco guarda avanti, i neri protestano. Per innalzare quelle mani guantate serve così tanta forza di volontà che a Tommie Smith e John Carlos non ne resta per alzare la testa: sanno di essere vittime sacrificali ma fanno quel che è giusto fare, e poi sia quel che sia. Dopo aver visto queste foto è facile provare un moto d'odio per Peter Norman, il velocista australiano medaglia d'argento che guarda avanti e pare inconsapevole. È inevitabile ma è anche un errore: Norman non solo simpatizzava coi due colleghi e collaborò alla loro protesta (pagando anch'egli un prezzo alto); ma fu proprio lui a suggerire a Smith e Carlos di alzare in quel modo i pugni che, se ci fate caso, sono complementari: uno alza il destro e uno il sinistro.

John Carlos, Tommie Smith, Peter Norman (pubblico dominio).
John Carlos, Tommie Smith, Peter Norman (pubblico dominio).


In effetti l'idea originaria era di alzare insieme pugni destri e sinistri, in una posa che avrebbe potuto essere scambiata per quella dell'atleta trionfante: a rendere esplicita la protesta nei confronti del segregazionismo USA sarebbero stati i guanti neri – oltre alla coccarda del movimento che promuoveva la protesta, l'Olympic Project for Human Rights. Carlos però si era scordato i guanti al villaggio olimpico. Fu Norman a suggerire a Smith di prestargli uno dei suoi: forse da australiano gli sfuggiva l'ostilità del pubblico mainstream americano nei confronti della gestualità del pugno chiuso, da decenni associata all'antagonismo di sinistra. Quello che invece Norman colse al volo è che mostrare i pugni spettava solo ai due colleghi: la loro protesta era giusta, ma era la loro protesta. Un pugno bianco e non guantato l'avrebbe soltanto annacquata. Norman si accontentò di indossare la coccarda dell'Olympic Project: tanto gli bastò per essere squalificato dalla federazione australiana. Ma perché mi sono messo a raccontare di un episodio di protesta sportiva di più mezzo secolo fa?

Molti lettori potrebbero averlo già capito (in fondo sono lettori del Post). Magari l'intento è confrontare le epiche e iconiche proteste del passato – quando alzare un pugno ti costava la carriera – con la situazione presente in cui ogni azione diventa immediatamente standardizzata e pigra, al punto che agli Europei non si capisce nemmeno più se il gesto veramente politico sia inginocchiarsi o no. Ecco, sì, forse volevo scrivere un pezzo del genere, ma come la metto con Colin Kaepernick? Come faccio a definire 'pigro' il gesto che ha inventato e che gli è costato una carriera professionistica nel football americano, non nel 1968 ma dal 2017 in poi? Quando Kaepernick smise di alzarsi durante l'inno nazionale Trump si era appena insediato alla Casa Bianca e i media stavano documentando una inquietante recrudescenza degli episodi di violenza delle forze dell'ordine nei confronti dei cittadini afroamericani (chi ricollega il gesto al più tardo assassinio di George Floyd sta già facendo della mitologia). In una prima fase Kaepernick rimaneva semplicemente seduto: un gesto di rottura molto forte nei confronti di una ritualità particolarmente consolidata negli USA, dove vige tuttora un rispetto religioso per simboli unificanti come l'Inno e la Bandiera. Ai giornalisti che glielo domandarono rispose senza mezzi termini: "Non mi alzerò per mostrare orgoglio per la bandiera di un Paese che opprime la gente nera e la gente di colore. Per me questo è più importante del football, e sarebbe egoista da parte mia guardare da un'altra parte. Ci sono morti nelle strade e gente stipendiata che uccide e la passa liscia". In seguito, dopo una serie di discussione con colleghi e veterani, Kaepernick decise di non restare seduto durante l'inno, ma di inginocchiarsi.


Il gesto nasce quindi da un compromesso: Kaepernick non intendeva offendere chi serve con orgoglio la sua nazione, ma continuava a far presente che questo orgoglio non poteva condividerlo. Così codificato, il gesto cominciò a essere imitato da alcuni colleghi, ma soprattutto divenne un'ossessione per Trump, che a più riprese chiese il licenziamento per chi lo praticava. Kaepernick probabilmente passerà alla Storia, proprio come Carlos e Smith: nel frattempo però ha smesso di giocare; nessuna squadra l'ha più cercato. Protestare è ancora un gesto rischioso, quando la causa è controversa e il pubblico non è pronto – ovvero, in tutti i casi in cui protestare ha veramente senso. Ecco, forse ora è chiaro dove sto andando a parare: quello che è nato negli USA all'interno di un movimento preciso (Black Lives Matter) con richieste precise (eliminare la violenza poliziesca soprattutto nei confronti della comunità afroamericana), forse in Europa è arrivato un po' di rimbalzo, più che per emulazione che per una reale esigenza sociale. Sto veramente arrivando lì? Perché non è molto lontano da quel che potrebbero dichiarare Orban e Salvini sull'argomento. Faccio ancora in tempo a correggere un po' la rotta?

A quanto pare i primi a inginocchiarsi in Europa sono stati i calciatori della Premier League – come sempre la Gran Bretagna è il filtro da cui ci arriva la cultura americana, un filtro tutt'altro che neutro. Inginocchiarsi su un campo di calcio inglese è un gesto irrituale, ma senza quella punta di blasfemia e vilipendio che veniva percepita sugli spalti degli stadi americani; la pratica si ispira esplicitamente al movimento Black Lives Matter, ma spostando l'obiettivo verso un più generico antirazzismo. Se è comunque abbastanza chiaro per cosa si stiano inginocchiando i calciatori inglesi, è un po' più difficile capire contro chi. Il bersaglio polemico non sembra più l'autorità costituita e le sue forze di polizia; in molti casi sembra che l'avversario sia il pubblico, le frange di tifosi che in effetti talvolta reagiscono fischiando. È uno scenario molto più vicino a quello degli spettatori italiani: la tensione tra squadre sempre più meticce e tifosi sempre più identitari o razzisti. A ogni contestazione, il sindacato dei calciatori professionisti ribadisce che i suoi iscritti continueranno a inginocchiarsi e che il pubblico questa cosa la deve accettare; insomma inginocchiarsi è un modo di chiedere al pubblico: da che parte stai? Anche in questo caso dietro al successo di un gesto di protesta c'è una negoziazione: inginocchiarsi è un gesto semplice, non rovina lo spettacolo e crea senz'altro meno tensioni e strascichi di altri (pensate ai casi in cui un calciatore o un'intera squadra reagisce ai cori razzisti ritirandosi dal campo e incorrendo in una squalifica).

Più che un gesto di protesta, in Europa l'inchino diventa un gesto identitario: appoggiare il ginocchio significa dichiarare rapidamente il proprio antirazzismo. Ed eccoci agli Europei, dove – contrariamente a quello che si sente in giro – nessun organo ufficiale ha chiesto ai calciatori di inginocchiarsi. I calciatori inglesi hanno fatto sapere che lo avrebbero fatto, gli scozzesi hanno scelto di farlo in occasione di Inghilterra-Scozia; altre nazionali sono andate in ordine sparso; la UEFA si è limitata a chiedere rispetto per chi decideva di inginocchiarsi. Nel frattempo però l'argomento ha raggiunto le prime pagine, forse perché la fase a gironi non è così eccitante (se a Cristiano Ronaldo basta spostare una bottiglietta per far discutere un paio di giorni). Con un'inversione tipica delle guerre culturali contemporanee, la scelta identitaria è diventata quella di non inginocchiarsi: persino Orban ha dedicato un po' del suo tempo a spiegare perché i calciatori ungheresi non sono tenuti a farlo. In effetti chi si inginocchia sta ancora protestando, o si sta limitando a citare in favore di videocamera un gesto ormai estrapolato dal contesto originario? La forza del movimento Black Lives Matter risiedeva anche nel modo in cui circoscriveva la sua protesta. Non un generico antirazzismo, ma le Vite dei Neri Contano: uno slogan che non a caso gli avversari hanno cercato di scimmiottare per depotenziarlo, con lo slogan All Lives Matter. La standardizzazione dell'inchino pre-partita corre forse lo stesso rischio: chi si inchina rischia di non sapere perché lo fa. Senz'altro non per chiedere il taglio dei fondi alla polizia americana, come chiedono gli attivisti BLM: e allora per cosa? Se è un gesto che si limita a definire un'identità, il rischio è che si trasformi in una ritualità vuota, l'ennesima pratica di virtue signaling un po' fine a sé stessa; col non trascurabile effetto collaterale di far emergere, per contrasto le posizioni di chi rivendica a voce alta il rifiuto dell'inchino, l'insofferenza per un antirazzismo imposto dall'alto più con la pressione mediatica che con la forza degli argomenti.

Spero di non essere frainteso (ma è inevitabile): sono contento se molti calciatori si sentono antirazzisti e vogliono testimoniarlo sul campo; ovviamente preferirei che avessero obiettivi chiari e non un generico antirazzismo d'importazione, visto che anche in Italia c'è molto da fare (pensate se qualche calciatore italiano s'inginocchiasse per le vittime delle forze dell'ordine italiane o per le vittime del razzismo italiano: pensate che scandalo vero sarebbe). Mi dispiace che tutto debba sempre essere importato acriticamente dall'America, non perché gli americani non abbiano ottimi motivi per protestare come protestano, ma perché sono motivi che non capiamo e comunque non sono i nostri. Ho la sensazione che l'inchino in Italia venga percepito come il blackface, cioè una cosa che non si è capito come funziona tranne che se ti sbagli tutto il resto del mondo ti dà del razzista e quindi anche chi non capisce prima o poi si adegua – laddove capire sarebbe sempre la cosa più importante. Trovo controproducente la pressione mediatica che sospinge giornalisti e politici a etichettare come razzisti i calciatori che rimangono in piedi e che magari semplicemente hanno le idee confuse (anche i calciatori a volte possono averle confuse). I gesti di protesta dovrebbero fare scalpore e generare emulazione, come successe a Carlos, Smith e a Kaepernick; se invece diventano divisivi, rischiamo che un sacco di gente si ritrovi sul lato dei razzisti semplicemente perché erano in piedi quando abbiamo fatto le squadre. Quando vedo un gruppo di calciatori un po' in ginocchio e un po' no, cerco di combattere l'impulso a dividerli in buoni e cattivi; lo stesso impulso che mi faceva odiare Peter Norman, quando ancora non conoscevo la sua storia e l'equilibrio con cui seppe stare dalla parte dei giusti senza togliere loro l'onore della ribalta.

 

(Quasi dimenticavo: oggi 23 giugno ricorre la festa dei 1003 Santi Martiri di Nicomedia, che si presentarono davanti all'imperatore Diocleziano per testimoniare la loro fede, e Diocleziano li fece ammazzare tutti e 1003. Giusto per ribadire che protestare è sempre stato pericoloso. Chi non rischia qualcosa non sta protestando davvero. Vale per tutti noi, in ginocchio o dritti in piedi).

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Albergatori, mettetevi in giogo

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Poi mi rendo conto di non essere l'unica persona al mondo con qualche problema, ma una volta all'anno i giornali potrebbero anche interessarsi ai miei. Per esempio, uno di questi fine settimana mi piacerebbe passarlo al mare, diciamo riviera di Levante. Mi piacerebbe trovare un albergo vista mare, niente di speciale, e potrei pagarlo 80 euro. 

Beh, ci crederete? Ho chiamato tutti, da Lerici a Sestri, e niente: stanze ne avrebbero, ma a 80 non me le vogliono dare. E non credo solo a me. Penso che migliaia di cittadini abbiano lo stesso problema.

Allora ho pensato che forse ci converrebbe metterci d'accordo, federarci, mandare qualcuno a farsi intervistare dai giornali. Qualcuno che dicesse chiaro e tondo che gli albergatori non possono continuare così, devono mettersi in gioco, rinunziare alle sovvenzioni e tirare fuori gli spiriti animali del capitalismo. Ho pensato che magari qualche pesce abboccherebbe, del resto i giornali una volta a questo servivano: a incartarci il pesce. E forse è ancora un po' così. 


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Marina e l'invidia del saio

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18 giugno – Santa Marina di Bitinia, travestita

Non so di chi sia,
è convenzionale ma
è la rappresentazione più
 androgina che ho trovato.
[2013] Santa Marina vergine visse in Bitinia o da qualche altra parte, tra il terzo e l’ottavo secolo, una vita pia e abbastanza noiosa come capita alle monache, con un’importante eccezione: Marina la visse in un monastero maschile, col nome di “Marino”. Orfana di madre, Marina si nascose nel saio per restare vicina al padre che aveva deciso di entrare in un monastero. Come eccezione non è nemmeno così eccezionale: di sante travestite, soprattutto in area bizantina, ne fiorirono diverse. Santa Eufrosina, Santa Matrona, Sant’Anna, Santa Eugenia, Sant’Anastasia (che aveva fatto perdere la testa a un imperatore e si nascondeva dalle ire della di lui moglie), Santa Teodora, e chissà quante altre, l’invidia del saio era insomma una patologia diffusa e non c’era probabilmente monastero senza la sua mascotte. Un sistema per scansare i sospetti era dichiarare di essere eunuco; questo poteva spiegare la voce acuta e la difficoltà a far crescere una barba monacale. Sempre che ce ne fosse il bisogno. Nel caso di Marina, il travestimento fu così efficace che la santa fu accusata di aver messo incinta una cameriera. 

L'episodio un po’ boccaccesco fece il giro del mediterraneo e ci è arrivato in dozzine di versioni diverse. In sostanza, il giovane Marino/Marina, già stimato da tutti i confratelli per la rettitudine e le virtù eccetera, viene inviato da qualche parte insieme con una delegazione di monaci. Nella locanda dove pernottano, un soldato giunto nottetempo stupra la figlia dell’oste. Quando i genitori se ne accorgono è troppo tardi, il soldato è già tornato alla tenebra donde è venuto, e la fanciulla è disonorata per sempre. L’unica è incolpare qualcun altro; in questo sono fortunati, perché Marino, l’irreprensibile Marino, denunciato davanti al suo superiore, non osa difendersi. Anzi, a un certo punto confessa la sua impossibile colpa. In questo possiamo ravvedere il masochismo tipico del folle di Dio, che decide di caricarsi delle colpe degli altri, ma anche un atteggiamento più prosaico: Marino aveva ben altro da temere che un’accusa di violenza sessuale, robetta. Al risarcimento ci avrebbe pensato il monastero. Quello che rischiava veramente, Marino/a, era il rogo per travestitismo: indossare indumenti non confacenti al proprio sesso era peccato mortale, e mille anni dopo sarebbe stato ancora il cardine di tutto il processo-farsa a Giovanna d’Arco. Marina insomma è una peccatrice, che diventa santa proprio in quanto peccatrice: una contraddizione che si spiega soltanto se immaginiamo la sua storia all’incrocio tra due civiltà diverse.

Il Vangelo di Tommaso prometteva il Regno dei Cieli a “ogni donna che si farà uomo” – ma fu escluso abbastanza presto dai testi canonici. Quando la storia di Marina comincia a diffondersi nel Mediterraneo, il cristianesimo è già una cultura egemone che aspira prima d’ogni cosa all’ordine: donne e uomini se ne stiano al loro posto. Ma il nocciolo della storia contiene ancora l’anima del cristianesimo degli inizi, una setta di folli che in attesa di una fine imminente avevano abolito la proprietà e le differenze di ceto e di genere. Marina nel frattempo deve abbandonare il monastero, ma pazienza: basta trasferirsi lì nei pressi, vivere rettamente e aver pazienza, prima o poi l'avrebbero riaccolto/a – figurati se lo bandiscono a vita per uno stupro, uno stupro solo? figurati.

Nove mesi dopo, la sorpresa.

Marino/a si trova un fagotto davanti alla porta di casa. Non le resta che improvvisarsi padre. Con che latte? Qui le versioni divergono: chi s’immagina una miracolosa montata lattea nella vergine-monaco, chi suggerisce che il latte glielo portassero i pastori. Preferisco quest’ultima: mi lascia il sospetto che una storia del genere possa essere capitata davvero. Marina cresce il figlio non suo come un padre, avviandolo ovviamente alla carriera monacale; e ovviamente se lo porta con sé quando i confratelli decidono di riammetterlo, a tre anni dal fattaccio. Continuerà a mostrarsi un esempio di rettitudine e virtù per il resto della sua esistenza; il suo segreto sarà scoperto soltanto quando i monaci ne spoglieranno il cadavere per pulirlo. Questo aspetto della storia a un certo punto divenne un po’ scabroso (monaci scoprono vagina in un cadavere), sicché nacque la variante del biglietto: prima di morire Marina avrebbe lasciato scritto: “sono una donna, ciao, non fate troppi pettegolezzi”, o qualcosa del genere. Noi ovviamente preferiamo la scena in cui i monaci si trovano davanti alla vagina di un cadavere:

“Ehi, aspetta, ma l'affare dov'è?”

“Non capisco. Forse è molto piccolo”.

“Pure pare lo sapesse usare”.

“Zitto! Cerca bene, dev’esserci”.

“Ma succede così quando muori? Ti si ritira?”

“Miracolo!”

“Ma sta’ zitto! Questa è una vagina”.

“Che cosa?”

“È una vagina, ti dico”.

“Fratello, non può essere!”

“Invece è così”.

“Come fai poi a esserne così sicuro?”

“Ne... ne vista una, da ragazzino a Tessalonica”.

“A Tessalonica?”

“Da ragazzino. Quella. È. Una. Vagina”.

“Io non sarei così sicuro, fratello, di quel che hai visto da ragazzino in un bordello a Tessalonica”.

“Ehi, ritira quello che hai detto”.

Segue rissa. Per cercare di disbrigare il bandolo, i monaci tornano alla locanda fatale. L’oste cade dalle nuvole; la figlia invece confessa durante una crisi isterica, o come si diceva allora, esorcismo. San Marina è patrona delle gravidanze difficili, dei genitori non standard, e si invoca per far sgorgare l’acqua o il latte. Il nome l’ha resa molto popolare tra i marinai, i monaci del mare, anche loro spesso inclini a favoleggiare di fanciulle travestite, compresse in abiti da mozzo. Dopo il crollo dell’Impero Bizantino, Venezia ne volle a tutti i costi le spoglie e le trovò, ma non fu sempre un’ospite all’altezza.
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Al fiol dal mecanic

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Nella macchina nuova si è accesa una spia enorme, una spia del motore. Al telefono il concessionario ci tranquillizza, se la luce è arancione non è niente, portatecela e fissiamo un appuntamento. Ma è enorme. È il motore. 

Apro il cofano, non sembra neanche un motore da tanto che è pulito, brilla quasi. Dov'è la lancia dell'olio? Sembra che non ci sia olio. Gripperà sulla strada del concessionario, io lo so, ero il figlio del meccanico, io. Sono cresciuto respirando nafta, capivo dal rumore se stava parcheggiando un diesel o un motore a scoppio, ma siete sicuri che non picchia in testa tra due isolati? Ma sì dai, fissiamo un appuntamento.

E dàgli col fissare gli appuntamenti, cosa siete diventati, parrucchiere? Adesso la porto e vediamo.

C'è un'officina enorme dietro la concessionaria, ma non puzza di officina. L'odore di olio frusto e benzina, la morchia, non si sente più. Non è neanche la prima officina dove non riesco a sentirlo, ma almeno qui le piastrelle del pavimento sono rettangolari e rosso mattone, almeno quello. Ci sono computer dappertutto, il tizio mi ascolta con un orecchio e con un altro ha già attaccato un laptop a uno spinotto misterioso sotto il volante. Un tizio lo sta tormentando perché ha testato il suo suv con tre tester diversi e continua a dargli un messaggio 404 "problemi al sistema cinematico", cos'è il sistema cinematico? mi vengono in mente gli avengers e mi vergogno.

Dove sono i ripostigli a rotelle pieni di chiavi inglesi buttate alla cazzo, dove sono i crick mobili a forma di enormi monopattini di ghisa, dov'è il figlio deficiente del gestore che gira in skate in braghette in mezzo agli attrezzi dov'è la mia infanzia.

Non era neanche il Duemila quando m'imbattei in una delle prime barzellette on line, c'era Bill Gates re del mondo che spiegava che se la Mercedes negli ultimi dieci anni avesse fatto i progressi nel suo campo della Microsoft, le macchine volanti sarebbero state pronte a conquistare la luna. Al che gli ingegneri della Mercedes rispondevano che se avessero fatto nel loro campo i progressi della Microsoft, ogni auto si sarebbe fermata in mezzo all'autostrada con il segnale: spegnere e ricominciare l'autostrada dall'inizio. La trovavo molto divertente e oggi ci sono dentro.

Mio padre dopo una giornata di duro lavoro si grattava la morchia dalle mani con una pasta rugosa che non so nemmeno se è ancora in commercio. Quando confrontavo le mie mani con quelle degli adulti, mi sembravano strumenti completamente diversi e dubitavo che sarei mai cresciuto, anche mio padre suppongo dubitasse. Avevamo ragione.


Già fine anni Ottanta suo fratello non vedeva più il futuro nell'autoriparazione e lo convinse a investire in autogrù più grandi che caricavano qualsiasi cosa, alzavano i silos in mezzo alla pianura, arrivavano, puntavano sei piedi a terra ed estraevano questo braccio superfallico con scritto sopra: Tondelli. Alla Festa del Lambrusco il braccio svettava sopra il campanile, reggeva una vecchia botte di legno, voi lettori modenesi l'avete vista di sicuro ma con la ricordate. Con quel che bevevate. 

D'estate quando avevo vent'anni ogni tanto mi portava con sé in un cantiere, lo aiutavo a muovere qualche leva, una volta poi tornammo a casa e non so dov'era il resto della famiglia, forse al mare? Io tirai fuori dallo scantinato una boccia di bianco e vomitai tutto l'indomani. Tuttora non posso respirare nei dintorni di chi ha aperto un Bianco di Castelfranco (effettivamente un vino da sciagurati). Ero già allergico a tante cose, mio padre dovette concludere che lo ero anche al lavoro e non mi portò più. Spiegargli che ero semplicemente un ventenne coglione sarebbe stato troppo doloroso.

Ancora vent'anni dopo, mio padre mi controllava l'olio e non importa dove mi trovassi, a che ora e in che situazione, io sapevo che mi bastava chiamarlo e sarebbe arrivato, con una gru o un carro attrezzi o quel che serviva, mi avrebbe appeso un gancio e mi avrebbe sollevato di peso da qualsiasi fossato, da qualsiasi problema, senza dirmi niente, perché era mio padre e non doveva mai dirmi niente. Doveva salvarmi e basta. 

E ora eccomi qui. Alla fine con la macchina non era niente: uno scompenso di pressione in un affare, un falso positivo, invece l'olio era ok.
"Eh io temevo l'olio".
"Si preoccupano tutti per l'olio. Comunque se succede di nuovo telefona, e..."
"Fissiamo un appuntamento".
"Esatto sì grazie".
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It's getting better giovedì sera a Carpi

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Buongiorno a tutti. Giovedì sera 10 giugno alle 19:30 (le vere 19:30, ché bisogna finire presto) presenterò per la prima volta dal vivo di Getting Better a pochi metri da dove l'ho scritto, cioè al Mattatoio di Carpi. Accorrete puntuali, distanziati e mascherati. 

 


Non preoccupatevi, non ci sono solo io che parlo ma anche un po' di musica anche se non posso dire di che genere. 

Colgo l'occasione per segnalarvi che, in occasione dell'80esimo compleanno di Bob Dylan, Niccolò Vecchia ha organizzato uno speciale su di lui su Radio Popolare chiedendo ad alcuni dylaniti italiani qual è il loro disco preferito. (L'ha chiesto anche a me) (non vi dico qual è, dovete sentire il podcast).

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Breve invito a non speculare sui suicidi

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State tutti parlando di un suicidio e non si fa. Peggio: state cercando di fare politica con un suicidio, ed è una mossa disperata. Cioè non dico che non possa funzionare – talvolta il mondo è stato cambiato anche dalle discussioni scatenate da un suicidio, abbiamo una manciata di esempi, quindi è vagamente possibile – ciò che invece è statisticamente sicuro è che discutendo di suicidi, si provocano altri suicidi: il fattore emulazione è molto forte, lo sappiamo da due secoli e non ci è consentito fingere che no.

Sarebbe cosa giusta, ogni tanto, imparare dai nostri errori: abbiamo ripudiato la guerra, abbiamo smesso di considerare il terrorismo una forma di lotta accettabile, nessuno definisce più il sequestro di persona come una valida alternativa alla pastorizia o alla disoccupazione; sarebbe ora che un mero calcolo costi/benefici ci portasse a censurare anche il suicidio come pratica cento volte più nociva che utile. 

Liquideremo dunque la pratica del suicidio come gesto antisociale, anche quando non lo è: le lettere dei suicidi, per quanto toccanti non le leggeremo (o lo faremo di nascosto), e in società non ne parleremo se non per esprimere superficiali note di biasimo. La depressione è una malattia, merita rispetto e trattamenti sanitari, non morbose attenzioni di romantici fuori tempo massimo. Per combattere chi fa violenza su di sé la faremo anche noi a noi stessi, liquidando Majakovskij come un depresso, Mishima come un fanatico, e Jan Palach avrebbe dovuto risparmiare la benzina per tirarla a un carro sovietico.  Non ascolteremo le canzoni su di loro; considereremo decadente chi le scrive e speculatore chi ci guadagna. Noi canteremo piuttosto come Battiato (e Sgalambro): Questa parvenza di vita ha reso antiquato il suicidio; questa parvenza di vita, signore, non lo merita. Solo una migliore.

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La figlia di San Pietro, o forse no

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31 maggio – Santa Petronilla martire, I secolo

Di tanti santi non ci resta che un nome sul muro. È comunque notevole quante storie siamo riusciti a inventarci, con quel nome e poco altro. L'esempio limite sono sempre le undicimila vergini di Sant'Orsola, nate tutte e undicimila da un errore di trascrizione; quanto a Santa Petronilla, a un certo punto si ritrovò su altari importanti semplicemente perché il suo nome ricordava quello di Pietro: e in seguito, per lo stesso motivo, fu accantonata. Sic transit gloria coeli.

 

L'affresco della matrona, nella Catacomba di Domitilla.

Il nome Petronella mart[yr] si legge in quello che forse è il più antico affresco cristiano che si sia conservato, risalente al IV secolo, presso la Catacomba di Domitilla, sulla via Ardeatina. Petronilla è raffigurata mentre indica alla matrona Santa Veneranda una pergamena (le Scritture?) e forse la conduce in cielo. Tutto qui. "Petronella" però è un nome curioso. L'origine non è difficile da rintracciare: la gens Petronia era una delle più importanti famiglie Romane nel periodo repubblicano e imperiale. Oggi la ricordiamo soprattutto per quello scrittore sconcio, ma fior di senatori e latifondisti hanno portato il nome Petronius. Prima che ironizziate sulla scarsa fantasia di uno di questi Petroni che avrebbe chiamato sua figlia "Petronilla", cioè piccola Petronia, vi devo rammentare che non funzionava così, cioè i Romani non davano un vero nome alle loro figlie – o forse lo davano, ma era talmente privato che non veniva mai divulgato agli estranei, né registrato dai documenti, e quindi non lo conosciamo. In società le donne venivano chiamate col femminile del nome gentilizio del padre, che in periodo imperiale assume spesso la forma diminutiva: per cui se nascevi figlia di un Domizio eri Domitilla; se invece ti dava la vita un Petronio, eri Petronilla e stop. Se poi avevi sorelle, per distinguerti potevano chiamarti "Prima", "Secunda", "Tertia", a seconda dell'ordine dell'arrivo. Possiamo trovare l'usanza un po' barbara (in realtà furono i barbari ad abolire l'usanza), ma senz'altro ha risparmiato a generazioni di genitori quei nove mesi di discussioni. Di Santa Petronilla, assente dai più antichi martirologi, si conosceva insomma soltanto la famiglia d'origine, e nient'altro: ma a partire dal V secolo anche questo dettaglio fu rimosso, in favore di un'ipotesi più suggestiva accreditata a partire dalla Passione dei martiri Nereo e Achilleo: che il nome "Petronilla" cioè non discendesse da "Petronio", bensì da "Pietro", il primo tra gli apostoli nonché fondatore della Chiesa di Roma. Proprio a Roma, mentre esercitava il suo apostolato, Pietro avrebbe avuto una figlia, che sarebbe morta martire come lui. Ovviamente non ci sono prove, ma se è per questo anche quelle che collegano Pietro Apostolo a Roma sono molto labili.

Ne abbiamo già discusso: non c'è un solo versetto del Nuovo Testamento che affermi esplicitamente un passaggio di Pietro a Roma. Viceversa è proprio Pietro a concludere la sua Prima Lettera porgendo i suoi saluti da Babilonia. "Babilonia" ai tempi di Pietro era ancora uno dei nomi di una città reale, ovvero Seleucia-Ctesifonte sul fiume Tigri; per estensione poteva indicare tutta la regione mesopotamica, dove davvero Pietro potrebbe essersi spinto dopo dopo il suo soggiorno ad Antiochia di Siria, questo sì attestato dagli Atti degli Apostoli. E allo stesso tempo "Babilonia" potrebbe essere un riferimento in codice a Roma in quanto tronfia capitale del peccato, immediatamente decifrabile per tutti i cristiani e appassionati lettori di Isaia. Così almeno hanno voluto leggerlo nei secoli successivi i cristiani romani e in generale tutti gli autori a cui premeva insistere sul primato petrino. Certo, è curioso che Luca, l'autore degli Atti, a un certo punto abbandoni completamente Pietro e si concentri soltanto su Paolo di Tarso, che nel finale del libro arriva a Roma ed è messo agli arresti domiciliari. Se in quel periodo anche Pietro fosse già stato a Roma, Luca ce lo avrebbe detto: a meno che Pietro non fosse in quel periodo un clandestino, un ricercato, ed è possibile anche questo.

Comunque tutte le successive avventure di Pietro nell'Urbe sono contenute in testi che già la Chiesa dei primi secoli liquidava come apocrifi. La presenza di Pietro a Roma era però necessaria per giustificare il principio del primato del vescovo di Roma su tutti gli altri presuli della cristianità: ogni indizio in tal senso era prezioso. Si può immaginare quanto avrebbero apprezzato, i successori di Pietro, una sola iscrizione di epoca imperiale recante il nome dell'Apostolo: ma non la trovarono. In compenso trovarono una Petronella mart.: meglio che niente.

L'antica Basilica di San Pietro in un'incisione rinascimentale: il primo edificio a pianta circolare dall'alto era la Cappella di Santa Petronilla, già mausoleo di Onorio.

La necessità di accostare Petronilla a tanto padre portò alla produzione di ulteriori leggende in cui San Pietro guariva la figlia da questo o quel male. Nell'ottavo secolo papa Stefano II decide che Petronilla deve riposare nei pressi del padre, sulla cui supposta tomba già in epoca costantiniana era sorta l'Antica Basilica. La traslazione viene effettivamente ordinata dal successore, papa Paolo I: le ossa attribuite a Petronilla martire vengono spostate dalla catacomba a un edificio che sorgeva a fianco della Basilica. Si trattava dell'ultimo mausoleo imperiale di Roma, quello dell'imperatore Onorio (V secolo), da lì in poi conosciuto come Cappella di Santa Petronilla.

Nel frattempo sta finendo l'ottavo secolo. Il papato deve scegliere da che parte stare tra Franchi e Longobardi, e questi ultimi danno meno affidamento, anche solo perché a Roma li conoscono meglio. Quando Carlo non-ancora-Magno arriva a Roma la prima volta, papa Adriano lo porta in visita anche alla tomba di Petronilla, la cui cappella viene ora dedicata ai re Franchi. È un piccolo gesto di enorme significato: il regno dei Franchi è adottato come un figlio dalla Chiesa, così come Petronilla è figlia di Pietro. E siccome sulla tomba di Petronilla pare fosse inciso un delfino, questo simbolo entrerebbe a far parte dell'araldica imperiale, dove sarebbe stato associato soprattutto alla contea di Vienne sul Rodano, dal XIV secolo in poi destinata all'erede al trono di Francia, conosciuto fino all'Ottocento come il "Delfino".

Petronilla insomma ha le carte in regola per diventare la patrona di uno dei più importanti regni della cristianità: e invece dal decimo secolo in poi la sua fama si eclissa. Nessun re Franco e poi francese viene effettivamente tumulato nella cappella; il nome "Petronilla" resiste ancora in quanto associato all'edificio, finché nel Rinascimento gli umanisti non decidono che doveva trattarsi di un antico Tempio di Apollo e non cominciano a chiamarlo così. Nel 1519 viene comunque demolito senza troppi rimpianti per far spazio al complesso architettonico della nuova Basilica. Nel frattempo Petronilla era tornata a essere poco più di un nome inconsueto su qualche antico documento. Cos'era successo? In breve, l'idea che Pietro avesse avuto una figlia era ormai diventata imbarazzante.

La cosa in sé non era scandalosa: nei vangeli di Marco e Luca, Gesù guarisce la suocera di Pietro, che quindi come minimo era sposato. Nella sua Prima Lettera, proprio mentre saluta da Babilonia, Pietro cita un Marco come "suo figlio", quindi non era impossibile che ne avesse avuto altri. Impossibile no, ma poco edificante per i suoi successori che dall'Anno Mille in poi insistono sempre di più sul celibato sacerdotale. È una fase in cui papi importanti come Leone IX e Gregorio VII cercano di recuperare la credibilità di un clero sempre più corrotto. I mali del secolo si chiamano simonia e nicolaismo: il primo è la compravendita di titoli ecclesiastici, molto ricercati dalle nobili famiglie che dovevano piazzare i figli non primogeniti esclusi dall'asse ereditario. Il risultato è che molti seggi vescovili anche importanti erano occupati da figli di papà non esattamente portati al sacerdozio, con una conseguente rilassatezza dei costumi che è facile immaginare. Eppure il nicolaismo era una piaga anche peggiore, e consisteva nell'abitudine dei sacerdoti a prendere concubine o addirittura a sposarsi, lasciando dunque eredi, malgrado già da secoli vescovi e padri della Chiesa lo sconsigliassero fortemente, quando non lo vietavano proprio. Questi divieti venivano troppo spesso ignorati e i preti continuavano a far figli a cui spesso cercavano di intestare parte dei propri benefici, il che minava alle fondamenta tutta l'istituzione.

Gregorio VII, al secolo Ildebrando di Soana

Non si trattava tanto di una questione di castità (i sacerdoti non fanno voto di castità, ma appunto di celibato): a scandalizzare i laici di ogni classe sociale era il modo in cui questi chierici sposati amministravano i beni della Chiesa, badando più agli interessi famigliari che a quelli della diocesi o della parrocchia. Gregorio VII reagì alla questione con intransigenza, pretendendo che i vescovi rispettassero e facessero rispettare il principio: con il suo papato, la Chiesa fece un passo definitivo verso la trasformazione in quella gerarchia di celibi che è tuttora, un'enorme organizzazione che assorbe benefici e donazioni in ogni continente senza doverne mai cedere una parte a nessun erede legale. Ma a quel punto l'idea che il primo degli Apostoli e il primo dei Pontefici romani avesse avuto una figlia diventava scomoda da gestire. Di questa Petronilla nulla di certo si sapeva, tranne che aveva il nome del padre e in virtù di questo si era meritata una cappella tutta sua di fianco alla Basilica più importante: non un buon esempio per una Chiesa che volesse respingere il nicolaismo e il nepotismo. Già in qualche leggenda più tarda Petronilla è soltanto una figlia adottiva, o una convertita che assume il nome dell'Apostolo in modo non dissimile da come gli schiavi affrancati derivavano il loro nome da quello dell'ex padrone che li aveva liberati. La stessa Francia si dota col tempo di Santi più blasonati e storicamente attestabili come Re Luigi IX o Giovanna d'Arco.  Quest'ultima rischia per un soffio di sovrapporsi a lei anche nel calendario, dove Petronilla è festeggiata nell'ultimo giorno di maggio. Giovanna invece fu bruciata a Rouen il giorno prima, il 30 maggio del 1431.

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Su un'iscrizione antica, rinvenuta in un abisso

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e il naufragar m'è dolce in questo mare

immensità s'annega il pensier mio

e viva, e il suon di lei Così tra questa

e le morte stagioni  e la presente

vo comparando e mi sovvien l'eterno

infinito silenzio a questa voce

odo stormir tra queste piante io quello

il cor non si spaura E come il vento

io nel pensier mi fingo ove per poco

silenzi, e profondissima quïete

spazi di là da quella, e sovrumani

Ma sedendo e mirando, interminati

dell'ultimo orizzonte il guardo esclude

e questa siepe, che da tanta parte

Sempre caro mi fu quest'ermo colle


Misteriosa iscrizione rinvenuta sui gradini di una scalinata della Roma Inabissata dai sommozzatori della quinta missione mediterranea. Si tratta di un testo poetico in endecasillabi sciolti che gli studiosi collocano tra il XVI e la prima metà del XX secolo – l'incertezza della datazione è dovuta alla notoria scarsità di documenti in lingua italiana di quel periodo. Per dirla con le parole di Zhwng Hõu👴, capospedizione e filologo romanzo, "non capiremo mai cosa volesse dire [l'anonimo poeta], ma certo lo disse in modo sublime". 

Di seguito l'interpretazione di Qwjng Kji👩, la più apprezzata tra gli esperti. "Il testo comincia in medias res, con una congiunzione copulativa ("e il naufragar" che ci lascia intendere che il brano non sia che il frammento di una più lunga riflessione. Il poeta afferma che naufragar gli è dolce, in un mare-immensità in cui annega non soltanto il suo pensiero, ma anche il suono di "lei", una donna di cui nulla sappiamo tranne che è "viva". Si tratta probabilmente di un suono soave, forse un canto che invita il poeta a paragonare ("vo comparando") questa persona alle stagioni morte e alla presente: questa bizzarra attività comparativa, unita al persistente ricordo di "questa voce" lo conduce a ricordarsi di un "eterno infinito silenzio". L'estasi contemplativa (uno stato autoipnotico?) viene però turbata dallo stormire di qualcosa tra le fronde: il poeta, ancora perso come un naufrago nella propria coscienza, si domanda se non è lui stesso colui che fa stormire le fronde ("io, quello?"), con le estensioni fisiche di un corpo che ormai percepisce come lontanissimo. Forse lui finge di essere il vento ("E come il vento io nel pensier mi fingo"), ogni volta che per poco si instaurano silenzi, come a impedire che la profondissima quiete spazi (voce del verbo spaziare) al di là da quella, quella chi? Forse la donna di cui il poeta continua a ricordare il suono, ora in compagnia di non meglio precisati "sovrumani", figure semidivine che la proteggono. Costoro sono tuttavia come gli angeli creature allo stesso tempo superiori agni uomini e incomplete ("interminati"), in quanto forse prive dell'esperienza del peccato e della morte. Perciò forse lo "sguardo" (di Dio?) li esclude "dall'ultimo orizzonte" (quello della pienezza della vita eterna?) Lo stesso sguardo esclude la siepe su cui si è fissato il poeta, che cresce da una base molto folta ("da tanta parte"). Questa complessa meditazione avviene su un colle solitario a cui nell'ultimo memorabile verso il poeta rinnova il suo affetto". 


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Dua Lipa contro il sionismo, chi vincerà?

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twitter.com/matthewduchesne
Sabato scorso una pagina del NY Times chiedeva a Bella e Gigi Hadid e Dua Lipa di "condannare Hamas immediatamente". Si trattava di un'inserzione pagata da un gruppo di pressione sionista statunitense che ha l'obiettivo di "diffondere i valori ebraici nel mondo", immaginiamo la contentezza degli ebrei del mondo. 

Bella e Gigi Hadid sono due modelle di origine palestinese, lo so pure io perché vivo in un distretto di maglierie; Dua Lipa non è palestinese né (mi pare) modella, ma ha anche lei espresso rilievi critici nei confronti della politica israeliana in questi giorni, il che anche stavolta significherebbe essere emissari di Hamas; e in effetti non  ha ancora condannato Hamas, quindi insomma Israele è in serio pericolo. L'inserzione contiene la solita citazione antisemita presa dallo statuto di Hamas, il giorno del giudizio non verrà finché i musulmani non avranno ucciso gli ebrei eccetera. Chi ha anche solo due o tre contatti sionisti sui social queste cose ormai le sa a memoria; per tutti gli altri imbattersi in argomentazioni del genere è sempre uno choc culturale. L'inserzione è uno choc culturale. Ogni militanza ideologica richiede un minimo di fantasia, ma il momento in cui qualcuno cerca di venderti Dua Lipa come voce di Hamas è sempre il momento in cui ti guardi attorno per vedere se qualcuno ha montato una candid camera. Perché i sionisti fanno sempre queste figure? È antisemita chiederselo? Probabilmente è antisemita anche solo chiedersi di chiederselo, ma ops, ormai mi è scappata, tanto vale andare avanti.

Ci siamo passati tutti, anch'io durante almeno un paio di crisi israelopalestinesi sono stato inserito in un qualche organigramma di Hamas, errori di gioventù. Probabilmente non tutti i sionisti ragionano così, sono sicuro che ce n'è di intelligenti in giro, ma essendo intelligenti non perdono tempo a discutere con me (e nemmeno con Dua Lipa). Gli ottusi, al contrario... Su internet l'argomentazione idiota scaccia quella intelligente, più volte ho fatto notare che i sionisti sembrano farsi la parodia da soli ma è probabilmente vero per chiunque. Però, ecco, per loro un po' di più. In questo universo di bolle autoreferenziali la loro mi sembra quella che vortica più lontano di tutte, ormai irraggiungibile da qualsiasi disperato tentativo di ripristinare un minimo di oggettività, di buon senso. Esagero, in realtà c'è di peggio: novax, schiachimisti, però ecco, il sionismo non dovrebbe gareggiare in una categoria del genere. Un tizio che accosta il Gran Muftì a Hitler può essere un propagandista che tira l'acqua al suo mulino e fino a un certo punto è un gioco legittimo: il Gran Muftì collaborò coi tedeschi, lo sappiamo. Un tizio che si mette a dire che il Gran Muftì ispirò a Hitler la soluzione finale è uno che negli ingranaggi del suo mulino ci è rimasto incastrato e sarebbe uno spettacolo buffo, spesso lo è, ma è anche una tragedia culturale e sociale. A un certo punto Netanyahu questa cosa la proclama al mondo, e il problema non è che gli israeliani continuino a votarlo (gli italiani hanno continuato a votare Berlusconi anche dopo la storia della nipote di Mubarak); il problema è che potrebbe crederci pure lui ormai, a furia di sentirselo dire. La propaganda però dovrebbe servire per convincere gli altri, non te stesso. O no? E se non convince nessuno tranne te stesso, non abbiamo un problema?

Dal ritiro di Gaza in poi i sionisti hanno avuto ormai vent'anni per impostare il dibattito secondo la narrativa che preferivano. Sono organizzati, sono determinati, i fondi non mancano, tanti ex nemici ormai sono alleati; in certi teatri periferici, come l'Italia, non c'è più un partito in parlamento che osi manifestare solidarietà ai palestinesi. E malgrado tutto, appena ripartono i bombardamenti, il conto delle vittime crea il solito imbarazzo. È la natura asimmetrica del conflitto, non c'è niente da fare: gli oppositori a Israele fungano spontanei sui social, nessun Soros li paga. È gente qualsiasi, di qualsiasi estrazione ideologica o religiosa, che si domanda com'è possibile che in un angolo del mondo succeda questa cosa assurda. I sionisti prontamente rispondono: guardate che Israele è costretta, è minacciata nella sua stessa esistenza. Ma l'aritmetica dei morti e dei feriti ogni volta dice una cosa diversa e intollerabile, bisognerà una volta buona dichiarare antisemita l'algebra (il nome in effetti suona un po' sospetto). 

Finisce che il sionismo diventa uno spettacolo a sé, e non se lo merita. Ogni volta che tirano fuori dal repertorio il solito trucco benaltrista, ogni volta che ti chiedono: ma perché ti interessi dei palestinesi invece che dei siriani / armeni / nordirlandesi / saharawi? sono tentato di rispondere: guarda che io mica mi interesso ai palestinesi, poveracci: sei tu quello interessante. Sei tu che ogni volta mi lasci con la mascella a terra, quando dopo dieci razzi paventi la distruzione di Israele e il complotto mondiale di George Soros, Dua Lipa e Roger Waters. Sei tu che una volta eri progressista e adesso fai discorsi sulla necessità di salvaguardare l'identità religiosa, l'identità etnica, ma nel frattempo la tua identità te la ricordi? ti sei visto ultimamente? Cosa ti è successo, sei cambiato, come sono cambiate le città più multietniche di Israele ormai a un passo dalla guerra tra bande. Come avete fatto a ridurvi così, era inevitabile? Forse succede a tutti i militanti, a un certo punto, di dover scegliere tra la causa e il senso del ridicolo. Forse. L'alternativa del resto quale sarebbe: vivere alla giornata, soppesare ogni argomento finché non va a male? Io ho questa cosa, che di fronte a un problema a volte non so cosa scrivere. So benissimo che scrivere non è la soluzione del problema, perlomeno fuori da me; dentro di me invece qualche fila decente di parole basterebbe a farmi sentire in pace con quel disastro che è il mondo, ma non le trovo – per fortuna! Poter dire che comunque avevo ragione io, mentre la casa va in fiamme: non mi è consentito. Son vent'anni che ho un blog e decisamente la mia prosa non ha apportato nessun contributo fattivo alla risoluzione della questione palestinese. È un problema? I sionisti da tastiera, loro sanno sempre cosa scrivere: sempre le stesse cose, che nella loro testa funzionano. Sembrano risolti. Felici no; un po' ansiosi, talvolta terrorizzati: ma risolti. Loro sono i buoni, fuori ci sono i cattivi e tramano, tramano, ma ognuno di loro può fare nel suo piccolo qualcosa per sconfiggerli, anche solo ripostare per la millesima volta l'articolo 7 dello Statuto di Hamas in una conversazione in cui nessuno sta sostenendo Hamas. Per loro è tutto molto semplice e anche tu, che non sei d'accordo con loro, dovresti fare loro il favore di assumere un punto di vista più semplice possibile: critichi Israele? E allora si vede che stai con Hamas e con nazisti, che poi è la stessa cosa. Confessa, dai, che ci vuole.  

A un certo punto della storia – non saprei veramente dire quando – il sionismo ha deciso di appostarsi mentalmente sull'ultima spiaggia, quella dove o si salva Israele o si muore. Da quel momento è saltato qualsiasi ragionamento sulle proporzioni: non che nei ministeri non li sappiano fare, ma nel dibattito non si può più: ogni razzo che parte da Gaza è una minaccia-alla-nostra-stessa-esistenza, ogni critica alle azioni di Tsahel o alle deliberazioni della Knesset è antisemitismo, ogni palestinese è un potenziale nazista, e contro queste minacce nessuna rappresaglia sarà mai esagerata. Ripeto: questo solo da un punto di vista ideologico, in realtà nella stanza dei bottoni i conti li sanno fare, però questi conti prima del cessate-il-fuoco prevedono sempre un rapporto 1:10 tra vittime israeliane e vittime palestinesi (approssimato molto per difetto). Questo per il resto del mondo è scandaloso, è guerra, è apartheid; per loro è routine. Bisogna anche ogni tanto sforzarsi di vedere la faccenda dal loro punto di vista; per noi quella tra Israele e palestinesi è ancora una guerra, infatti ce ne accorgiamo soltanto quella volta ogni 3-4 anni che partono i razzi. Per gli israeliani invece questa è la pace: non ne hanno mai avuta una molto migliore; senz'altro è preferibile al periodo in cui la gente saltava in aria sugli autobus (ai vecchi tempi uno stallo del genere, in cui i combattimenti sono periodici e coinvolgono solo una parte periferica della popolazione, veniva definita guerra fredda). Il ritiro da Gaza è stato decisivo: in cambio del controllo del suo feudo, Hamas si è in un qualche modo addomesticata. Per molti versi si è trasformato nel nemico ideale, quello che Israele ha coltivato (approfittando di ogni occasione per minare la legittimità di Al Fatah e dell'ANP). Di tutte le possibili identità palestinesi, Hamas ha sempre rappresentato quella meno presentabile all'estero: è un'organizzazione islamica, non ha mai rinnegato i metodi del terrorismo, riceve senz'altro aiuti dall'Iran ma alla fine un aiuto decisivo glielo dà Israele, che ogni 3-4 anni dà una bella sfrondata ai grattacieli di Gaza e alla classe dirigente intercettata nei tunnel, e il resto del tempo lascia che cresca in seno a una comunità che non ha alternative o speranze. Israele e Hamas si legittimano a vicenda, non è che la scopro io oggi questa cosa. Bisognerebbe trovare un modo per contrastarle entrambi ed è esattamente quello che entrambi ti impediscono di fare, continuando a tirarsi razzi in modalità asimmetrica.

Quel che è davvero terribile, è che la situazione ormai sembra essersi assestata. A noi sembra orribile, intollerabile (e anche molti sionisti, ogni 3 o 4 anni, condividono dall'altra parte della barricata lo stesso orrore; cioè su questo almeno dovremmo trovare un accordo: non può continuare così). Ma agli israeliani no, e anche agli abitanti di Gaza forse no. È orribile per noi osservatori, che abbiamo alternative. Una di queste alternative è guardare da un'altra parte, e dopo un po' lo facciamo. 

(Ah se me lo chiedete, io condanno Hamas. E l'occupazione marocchina del Sahara Occidentale. Per altre questioni chiedete nei commenti).

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Dylan vive, Dylan sogna

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Rough and Rowdy Ways (2020)

Il disco precedente: Tempest;
(vedi anche Murder Most Foul).
Il disco successivo: chi lo sa.
 

Cavaliere Nero, Cavaliere Nero, dimmi quando e come,
se è mai stato il momento, fa' che sia adesso.
Lasciami andare, apri la porta,
la mia anima è angosciata, la mia mente è in guerra.
Non abbracciarmi, non lusingarmi, non fare il pagliaccio:
Prenderò una spada e ti taglierò il braccio.

Morire è già di per sé una faccenda penosa: ma immagina di essere una celebrità. Immagina tutti i necrologi e le retrospettive che dovrà leggersi il tuo fantasma prima di riposare, tutte quel fiume di lusinghe inutili e sassolini cavati da scarpe stagionate di cinquant'anni, immagina la rottura di coglioni. Finché sei vivo puoi semplicemente cambiare canale e non leggere il giornale, ma chissà se una volta morto funziona così, chissà se una volta abbandonato questo groviglio mortale ti lasciano il telecomando a portata di mano. Magari no, chi può dirlo con certezza, magari nell'Oltretomba ti tocca pure ascoltare i rilievi di Red Ronnie, t'immagini? Vien quasi voglia di non morire più. È questo lo scrupolo che dà alla sventura una vita così lunga. Andate avanti voi, Dylan si ferma un altro po' a Key West, a guardare l'orizzonte. È una posa un po' scontata, indubbiamente: è più o meno quello che gli vediamo fare da Not Dark Yet in poi (un quarto di secolo fa, vertigine!), ma che altro può fare, finché non ripartono i concerti?

 

Il punto più a sud degli Stati Uniti (continentali), su un molo di Key West, in Florida. CC BY-SA 3.0

A un certo punto della vita, Dylan deve aver deciso che morire non gli interessava. Attraversatelo voi il Rubicone, quel fiume che per noi italiani profuma di Trebbiano e Sangiovese e per gli americani è rosso ("ruby") di sangue, il confine tra Roma e Gallie, tra Repubblica e Impero. Ogni volta che si è imbattuto nel Cavaliere Nero, Dylan ha sempre trovato un motivo per dire di no. Sul Glasco Turnpike, in moto a 25 anni; a fine Settanta, quando era ridiventato una rockstar inseguito da groupie, spacciatori e avvocati divorzisti, finché in un qualche corridoio d'albergo non s'imbatté in Gesù. A metà anni Ottanta, quando anche Gesù aveva preso le distanze dalla sua discografia e lui si aggirava sul palco come un pugile suonato e fradicio. A fine Novanta, quando una brutta istoplasmosi rischiò di fare di Time Out of Mind un disco postumo (e che gran disco postumo sarebbe stato). Quante volte Dylan se l'è visto davanti, il Cavaliere; quante volte si sarà sentito dire che era il momento buono, che è dovere delle Leggende morire relativamente presto e lasciare un bel cadavere, che lassù c'era già Jimi, Janis, Elvis, c'era John, insomma ancora un po' e rischi di perdere il posto. Finisci in seconda fila nel limbo delle rockstar, pensaci, hai presente dove ti misero in USA For Africa? Una cosa del genere ma per l'eternità. Non è meglio se muori prima dei tuoi critici più affezionati, quando è ancora in giro qualcuno che sappia scolpirti un monumento decente? E tutte le volte Dylan ha trovato un motivo per rispondere: grazie, no. Ho la mia vita, i miei dischi, i miei concerti, a posto così.

Come se fosse facile, e non una scelta quasi impossibile per un maschio adulto di una certa età e di un certo successo. Voglio dire, è più facile scrivere Blowing in the Wind o smettere di bere a cinquant'anni quando chiunque ti sia abbastanza vicino da farti un rilievo puoi licenziarlo in tronco? Quanta impressione fa riprendere in mano una biografia degli anni '90, come Jokerman, e ritrovare nelle pagine finali l'immagine di un rudere prossimo alla pensione. A un certo punto Dylan si è sbloccato, non abbiamo mai capito il perché e neanche lui è riuscito davvero a spiegarcelo: e sì che ci ha provato. Da fuori l'impressione è che lo abbia salvato la musica: i concerti soprattutto. Lui che si era già stancato di suonare dal vivo nel '66, dal 1987 è partito per fare un po' di date ed è come se non fosse più tornato a casa. Le stagioni si alternavano inesorabili, i presidenti si alternavano ogni quattro o otto anni, dichiaravano guerre e le dichiaravano vinte, e Dylan continuava a suonare. Quando a Stoccolma volevano consegnargli il Nobel, lui aveva delle date prenotate a Las Vegas e andò a Las Vegas, ché l'Accademia di Svezia mica ti paga le penali. Nulla lo avrebbe fermato, terremoti, uragani, epidemie. No, in realtà l'epidemia lo ha fermato, e a quel punto abbiamo cominciato a preoccuparci. Cosa farà Bob Dylan senza i suoi ottanta concerti all'anno? Reggerà la mancanza di stress, i pomeriggi vuoti ad ascoltare dischi che sa a memoria, a cominciare libri di cui si stanca a metà?

Qualche giorno fa qualcuno è riuscito a fargli una foto mentre entra in un bar e insomma, pare che un anno di Covid abbia fatto a Bob Dylan meno danni che a me. Quando ha smesso i concerti, si è rimesso a incidere canzoni, come fosse la cosa più naturale del mondo. Un filo di parole che sembrava tranciato netto otto anni fa, lui l'ha ripreso con apparente naturalezza e si è rimesso a raccontarci le sue serie di sogni, scombinati come i sogni sono sempre. Quelli dei vecchi forse sono un po' più elaborati perché contengono moltitudini: gli anziani devono smaltire più ricordi (i sogni a questo servono), e più cultura. Da un po' abbiamo scoperto che Chronicles I, un libro di memorie, era in realtà un libro di ritagli di altri libri. Ormai non c'è più una sola parola, nelle canzoni di Dylan, che non rimandi certamente a qualche altra canzone o poesia o testo. Quando Dylan nella strofa successiva spiega al Cavaliere Nero che "le dimensioni del tuo uccello non ti porteranno da nessuna parte" ("the size of your cock won't get you nowhere") Alessandro Carrera ci rimane un po' male, gli sembra una caduta di stile; poi però si mette a cercare finché non trova un il riferimento, e questo in parte lo consola: sarà anche una caduta, ma è una citazione da Giovenale, Satira IX, dai, ci può anche stare. Si capisce che in questo modo potremmo perdonare a Dylan qualsiasi testo senza capo né coda – non è in fondo quello che facciamo da sempre? I sogni vanno presi per quel che sono: mentre ci sei dentro credi che abbiano una trama coerente, ma quando ti svegli capisci che la verità si fa vedere solo a sprazzi, qua e là, senza avvisare e senza salutare. Se c'è un buon verso (e ce n'è parecchi), teniamocelo per detto e ringraziamo: che altro vorremmo chiedere al Sognatore, più coerenza strutturale, più trama? Per queste cose c'è Netflix. Magari My Own Version of You all'inizio era un vecchio film in bianco e nero, magari Dylan all'inizio era Frankenstein, se non direttamente il mostro di Frankenstein deciso a fabbricarsi una compagna. E già qualcosa si sta sfilacciando, la "mia versione di te" è diventata una "versione di me", e nel frattempo le parole per associazione ne hanno evocate altre e Dylan non sa più cosa sta raccontando, ma che importa, "mica mi perderò in dettagli insignificanti".

Non è un procedimento consapevole, è semplicemente il modo in cui un anziano pensa e sogna. Se si trova sulla spiaggia di Key West, il punto della Florida più vicino a Cuba, gli viene in mente il presidente McKinley, che Cuba la conquistò agli spagnoli e ai soldati americani (tra cui Theodore Roosevelt) che si imbarcavano da lì; e che McK fu assassinato nell'anno in cui le onde radio arrivarono negli USA; ma a quel punto gli vengono anche in mente Radio Luxembourg e le altre emittenti radio pirata che cambiarono la storia della musica (però in Europa); intanto McKinley è diventato un profeta e un pirata, magari anche per allitterazione; e il suo assassinio non può che condurre Dylan a rimuginare sul ben più traumatico assassinio di Kennedy. È tutta una serie di sogni, il profeta non può uscirne. Key West è un posto dove andare in attesa dell'immortalità.

Dal Vangelo di Giovanni, 21,21-23: Pietro dunque, vedutolo, disse a Gesù: «Signore, e lui?». Gesù gli rispose: «Se voglio che egli rimanga finché io venga, che importa a te? Tu seguimi». Si diffuse perciò tra i fratelli la voce che quel discepolo non sarebbe morto. Gesù però non gli aveva detto che non sarebbe morto, ma: «Se voglio che rimanga finché io venga, che importa a te?».

Insomma Dylan è vivo e continua a scrivere buone canzoni, le solite elegie e i soliti bluesacci, con testi sconnessi ma non più del solito. Ma anche in caso contrario, che motivo avevamo di stare in pensiero per lui? In qualsiasi momento arrivasse il Cavaliere Nero, non sarà già abbondantemente in ritardo? ("I’ve already outlived my life by far", riconosce in Mother of the Muses). Chi può dire di aver vissuto una vita altrettanto avventurosa e ricca di soddisfazioni. quanti altri dischi/capolavori abbiamo il diritto di aspettarci da un ottantenne? Ok, eppure è in giro da così tanto tempo, il vecchio Bob, che ormai sembra ingiusto privarcene. Secondo un'antichissima leggenda – già attestata in Gv 21,21-23 – San Giovanni Evangelista in realtà non è mai morto; è ancora da qualche parte che aspetta di assistere al Secondo Avvento di Gesù nella gloria. Questo potrebbe spiegare come mai in My Own Version of You Dylan lo inserisca in una serie di pianisti celebri, tra Leon Russell e Liberace. I critici americani restano perplessi, ci informano che ai tempi di Giovanni Evangelista il pianoforte ancora non esisteva: grazie critici americani, se non ci foste voi. Ma se l'Apostolo Che Gesù Amava non fosse mai morto, dove potrebbe essersi nascosto per tutti questi secoli? Un tizio che a cent'anni scriveva l'Apocalisse, cosa potrebbe fare a duecento, cinquecento, eccetera? È lecito immaginare che abbia scritto qualche apocalisse in più. Appena ha potuto si è messo a imparare qualche strumento, di sicuro quando hanno inventato il pianoforte aveva già qualche secolo di esperienza con le tastiere occidentali, e anche la chitarra elettrica per lui sarà stata una robetta. Solo la voce l'ha sempre tradito per quel matusalemme che era. E così eccoti qua, Giovanni Apostolo. Come dobbiamo chiamarti? Ebreo errante, Robert Zimmerman, Jimmy Reed?

Abito in una strada che ha il nome di un santo, le donne nelle chiese hanno addosso cipria e fondotinta. Qui pregano ebrei, cattolici e musulmani, ma so riconoscere un protestante da un miglio. Arrivederci Jimmy Reed, Jimmy Reed, proprio te: dammi la cara vecchia religione, è quella di cui ho bisogno...

Un altro esempio di come Dylan può far impazzire gli esegeti americani, che qui insorgono: cosa c'entra Jimmy Reed con la "old time religion", cosa c'entra l'ubriacone autore di Bright Lights, Big City con Gesù? Sono domande che è inutile porre all'inconscio, e in particolare all'inconscio di Dylan dove da sempre "cristianesimo protestante" e "blues" sono corridoi paralleli e comunicanti. Se aggiungi che "religion" nei vecchi brani blues e folk può essere la magia nera (e quindi il blues), capisci come tutto possa significare sempre il contrario di tutto, e il senso vada cercato proprio in quell'opposizione. Dylan ha nostalgia del vecchio blues come della vecchia America protestante: tutto questo multiculturalismo che vede trionfare nel suo quartiere non è che lo scandalizzi, ma a volte lo stanca; ognuno idealizza la sua infanzia e ai suoi tempi le chiese erano ancora segregate e le cartolerie, vi ricordate? vendevano cartoline delle impiccagioni. Era un mondo di contrasti, ma erano contrasti che Dylan ancora riusciva a capire. Senz'altro la vecchia religione dei predicatori e la vecchia musica dei bluesmen non sono la stessa cosa, ma Dylan le rimpiange assieme, nello stesso sogno che è la stessa canzone. Ed è un rimpianto senza velleità apocalittiche, Dylan non le rivuole davvero indietro, sta soltanto intonando un addio, l'ennesimo. Che altro dovrebbe fare.

Questo pezzo è l'appendice di un lungo viaggio che intrapresi sul Post quattro anni fa: ogni settimana raccontavo un disco di Dylan, dal primo all'ultimo che a quel tempo era Tempest (sui dischi di cover confidenziali, chiedo scusa, non ho ancora trovato niente da scrivere). Quando è uscito Rough and Rowdy Ways non sapevo bene cosa dirne, ho preferito aspettare. Non sono molto bravo ad ascoltare i dischi nuovi, ci metto mesi a separare il grano dal loglio, nel frattempo qualcuno avrebbe deciso per me se era un capolavoro o un'opera senile; qualcuno mi avrebbe aiutato a risolvere gli indovinelli. Non è andata così. I critici per lo più lo hanno trovato buono, ma con accenti entusiasti che mi fanno dubitare della loro oggettività, e del resto come si fa a giudicare oggettivamente un disco di Dylan, che ormai è in una categoria a sé? La cosa più saggia è confrontarlo a Tempest, un disco meno compatto ma forse più avventuroso. Rough and Rowdy Ways in linea di massima è una raccolta di canzoni più riuscite, cantati con più raccoglimento da una voce che negli ultimi anni si è assestata – alla fine i dischi di cover sono stati un'ottima palestra – e non oscilla più pericolosamente tra il guaito e la tosse grassa. Dylan canta un po' meglio del solito, ma non è la prima volta che succede e non è la prima volta che ci fa rimpiangere certi brani assurdi che oggi non comporrebbe più, incisi con una voce a brandelli che oggi non ha più. Mancano i guizzi, insomma, gli alti e i bassi che ci tenevano svegli in altri dischi; è del tutto scomparso quello swing sui generis che aveva rianimato la sua carriera da "Love and Theft" in poi, insomma un brano come Duquesne Whistle nel nuovo disco non c'è e un po' lo rimpiango; non è che posso pretendere un'altra Visions of Johanna da un compositore ottantenne, ma un'altra Duquesne sì, non mi sarebbe dispiaciuta.

Dylan non è più lo scavezzacollo settantenne che le prova tutte, e quando gli va male scrive una litania interminabile come Tempest (la canzone), ma quando gli va bene azzecca un numero ipnotico e teatrale come Tin Angel. Sulla soglia degli ottant'anni sembra aver tirato i remi in barca: è ritornato ai vecchi blues in dodici battute ma se li fa cucinare dalla sua band più sporchi del solito, grezzi e chiassosi ("rough and rowdy"), con qualche incertezza ritmica che ci ricorda i suoi esordi elettrici. Tra un bluesaccio e l'altro una ballata: qua e là (soprattutto in Key West) si sente un'eco lontana delle atmosfere scoperte collaborando con Daniel Lanois. L'unico numero eccezionale è il finale, che nella versione CD sta su un disco a parte: l'interminabile elegia per Kennedy, Murder Most Foul, che uscì in anteprima l'anno scorso e di cui qui si è già parlato. E quindi? È un capolavoro questo Rough and Rowdy Way, o siamo tutti semplicemente inteneriti dallo spettacolo di un ex folksinger, ex rockstar, ex simbolo generazionale, che è sopravvissuto a ogni ondata che doveva travolgerlo, al punto che ormai gli perdoniamo qualsiasi caduta di stile, qualsiasi incoerenza e ripetizione, qualsiasi cosa ci canti, purché ci canti ancora?

Non saprei. Cioè è un buon disco, tutto sommato, però... mi lascia insoddisfatto, credo che in seguito lo considereremo un disco di transizione. Puoi sognare di meglio, vecchio Dylan, non fermarti. Ah, e buon compleanno.

Gli altri dischi di Bob Dylan: 1962: Bob Dylan, Live at the Gaslight 19621963: The Freewheelin’ Bob DylanBrandeis University 1963Live at Carnegie Hall 19631964: The Times They Are A-Changin’The Witmark Demos, Another Side of Bob DylanConcert at Philharmonic Hall1965: Bringing It All Back HomeNo Direction HomeHighway 61 Revisited1966: The Cutting Edge 1965-1966Blonde On BlondeLive 1966 “The Royal Albert Hall Concert”, The Real Royal Albert Hall 1966 Concert1967: The Basement TapesJohn Wesley Harding1969: Nashville Skyline1970: Self PortraitDylanNew MorningAnother Self Portrait1971: Greatest Hits II1973: Pat Garrett and Billy the Kid1974: Planet WavesBefore the Flood, 1975: Blood on the TracksDesireThe Rolling Thunder Revue1976Hard Rain1978: Street-LegalAt Budokan1979Slow Train Coming1980Saved1981Shot of Love1983Infidels1984Real Live1985Empire BurlesqueBiograph1986Knocked Out Loaded1987Down in the GrooveDylan and the Dead1988The Traveling Wilburys Vol. 11989Oh Mercy1990Under the Red SkyTraveling Wilburys Vol. 31991The Bootleg Series Vol 1-3 (Rare and Unreleased)1992Good As I Been to You1993World Gone Wrong, 1994MTV Unplugged1997Time Out of Mind2001“Love and Theft”2006: Modern Times2008Tell Tale Signs2009Together through LifeChristmas in the Heart2012Tempest2020: Murder Most Foul.

 

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