6 dicembre - San Nicola vescovo (270-343), taumaturgo, portatore di doni, icona postmoderna
Chiesa di San Nicola a Myra, Licia, oggi Turchia
Il santo più popolare del calendario non è Pietro. Lui ha solo la basilica più grossa, e in molte vignette fa il portiere, ma diciamo la verità, non lo invocano in tanti San Pietro. Anche Paolo, e sì che tutta la baracca del cristianesimo in fondo l'ha messa in piedi lui, ma i teologi non sono mai veramente popolari. Non è padre Pio, perlomeno non ancora; Wojtyla il suo quarto d'ora l'ha già avuto; il santo più popolare del calendario, a pensarci bene, dovrebbe essere la Madonna: cioè non c'è gara, pensa solo a quante feste e quante apparizioni, e icone, statue, quadri e tondi - ma proprio mentre sto per dichiarare chiuso il televoto, mi assale un dubbio: la Madonna sarà pure la diva di Lourdes e Loreto, ma quante letterine riceve? C'è un santo che ne riceve tutti gli anni da ogni angolo del mondo, un santo venerato persino dove i cattolici non hanno mai veramente preso piede - in Russia, negli USA, in Turchia - un santo che i bambini imparano a pregare e ad aspettare assai prima di frequentare catechismo. Un santo che da solo nel 2006 riceveva il 90% di tutta la posta recapitata in Finlandia, non male per uno che in Finlandia non c'è mai veramente stato. Quel santo è, ovviamente, Babbo Natale. Cioè Santa Klaus, Sinterklaas, San Nicola. Il vescovo di Myra (Licia), nato a Patara (Licia). Ma dov'è la Licia? Oggi è in un angolino della Turchia in basso a sinistra, ma per molto tempo ha fatto parte del mondo greco, poi romano, poi bizantino. Il modo in cui un vescovo dell'epoca costantiniana sia diventato, in seguito a un complicato sovrapporsi di immagini e racconti, il testimonial della Coca-Cola e il portatore di doni più famoso di tutti i tempi, meriterebbe un libro a parte. Che probabilmente è stato già scritto. Facciamo finta di averlo letto e tracciamone un agevole riassunto.
Odino cavalca Sleipnir, cavallo a otto zampe.
Antefatto. Nelle lunghe, lunghissime notti antecedenti al solstizio d'inverno, i barbari dell'Europa centrosettentrionale intrattengono e blandiscono i bambini raccontando di Odino, il Dio guercio che cavalca nella notte in testa al suo corteo di demoni. Di uscire di casa quindi non se ne parla, ma se si lascia qualche carotina sul davanzale per Sleipnir, il cavallo a otto zampe di Odino (sulla cui origine incestuosa è meglio sorvolare), e poi si va a letto presto senza fare capricci, Egli lascerà qualche leccornia, o un regalino: balocchi di legno intagliato, noccioline, calze di lana, roba del genere. Le farà passare dal camino. Ma bisogna dormire o almeno tenere gli occhi ben chiusi, Odino mai e poi mai vorrebbe essere sorpreso mentre si intrufola nel nostro camino. Tutto chiaro fin qui? Ora cambiamo drasticamente latitudine.
Dà la vertigine pensare che, a differenza di altri santi popolarissimi, Nicola è realmente esistito, in un mondo diversissimo dal nostro, un mondo senza coca-cola e panettone, ma un mondo non immaginario. Eppure è abbastanza probabile che ci sia stato un vescovo, contemporaneo dell'imperatore Costantino, che si distinse per la condotta irreprensibile, lo zelo con cui difendeva i bisognosi, e perché no, i regali. Era probabilmente il rampollo di una locale famiglia facoltosa, e la carica di vescovo se l'era guadagnata a suon di donazioni. L'impero romano era una formidabile macchina militare e burocratica senza nessun welfare state, niente mutua, niente assicurazioni, la pensione solo ai militari. La Chiesa nasce anche per colmare questa lacuna: i cristiani più ricchi donano del loro alla collettività, e ricevono in cambio ruoli e titoli di prestigio.
In uno dei miracoli di più antica circolazione, Nicola salva tre fanciulle bellissime che il padre, ridotto in miseria, aveva ormai destinate al meretricio. Nicola risolve il problema con uno stratagemma che ha qualcosa di familiare: nottetempo getta attraverso le finestre dei sacchetti pieni d'oro, e scompare. Da buon cristiano non cerca ricompensa sulla terra per le buone azioni che commette. Dei tanti aneddoti riferiti a lui, non è solo il primo riportato nella Legenda Aurea (libro un po' noioso, la maggior parte dei lettori si ricorda solo le prime pagine di ogni capitolo), ma è anche il primo in cui a Nicola sono associati dei sacchi. Al terzo lancio il padre delle ragazze, rimasto sveglio per curiosità, riuscirà finalmente a sorprendere lo strano ladro all'incontrario. Il vescovo gli ordinerà di non fare il suo nome, i regali devono restare un segreto (qualcosa non deve essere andata per il verso giusto, visto che 1700 anni dopo siamo ancora qui a parlarne)
La statua del patrono di Bari è stata annerita appositamente.
Il numero tre compare in molti altri episodi associati a Nicola, compreso il più antico, che potrebbe essere ispirato a un fatto reale: tre sono i generali, ingiustamente imprigionati da Costantino, che pregano e implorano l'intercessione di Nicola, salvo che questi è ancora vivo. Eppure anche da vivo Nicola può apparire in sogno all'imperatore e chiedergli conto della sua prepotenza. Al miracolo delle tre fanciulle e a quello dei generali possiamo aggiungere un racconto assai più tardo, già intessuto su uno sfondo nordico medievale, in cui Nicola interviene a salvare tre fanciulli squartati da un efferato macellaio, e chiusi in tre pentole. Come il racconto dei tre generali sia diventato la fiaba di tre fanciulli, non si sa, ma l'ipotesi più semplice è che qualche pittore medievale, molto scarso, abbia dipinto la prima storia disegnando dei generali giovani, quasi imberbi, liberati da celle di prigione piccole, quasi pentole. Poi magari passa un secolo e a un predicatore tocca spiegare chi sono quei tre, e cosa c'entrano le pentole, e l'unica cosa chiara di tutto l'affresco (o la vetrata istoriata) è che il protagonista è Nicola, se ha la barba bianca e il cappello da vescovo è Nicola. In questi casi un predicatore professionista che fa? Inventa, magari si ricorda di qualche vecchia fiaba che le raccontò la nonna, un proto-Hansel-e-Gretel. Rimane da spiegare che ci faccia Nicola in Europa centro-settentrionale, non era un vescovo del basso mediterraneo?
I motivi dello straordinario successo di Nicola a tutte le latitudini sono probabilmente due. Il primo è un olio. Non sappiamo bene di cosa fosse fatto (probabilmente venivano usate piante del luogo) ma sappiamo che per qualche secolo fu il prodotto di erboristeria più richiesto nel bacino del mediterraneo. Guariva qualsiasi cosa, ma in giro non ce n'era molto, per via che si diceva distillato lentamente dal luogo di sepoltura del santo. Il secondo motivo sono i naufragi. Non importa che Nicola abbia vissuto probabilmente gran parte della sua vita nei pochi chilometri di terraferma tra Myra e Patera: la Licia è una regione esposta al mare, separata dal resto dell'Anatolia dagli alti monti del Tauro; ci si arriva per mare, per mare vi si riparte. È una fermata quasi obbligata di quella trafficata autostrada tardoantica che è il mediterraneo, in una zona complicata e burrascosa. I naviganti minacciati dalle tempeste invocano spesso San Nicola: quelli che sopravvivono gli diventano straordinariamente devoti. Via mare la devozione a Nicola arriva in tutti i porti della cristianità (Nicola diventa il patrono di Amsterdam) e lentamente penetra anche le terre dove il mare è lontano: è il santo più amato di tutte le Russie.
L'immagine archetipica di Thomas Nast per Harper's Magazine
Nel frattempo la sua cattedrale, a Myra, è seriamente minacciata dalle incursioni dei turchi, che ormai trattano la zona come cosa loro, e nel giro di qualche secolo la Storia darà loro ragione. A un certo punto (1100) i veneziani decidono di salvare le ossa del patrono dei marinai, che loro chiamano Niccolò; inviano una spedizione in Licia... giusto per scoprire che è troppo tardi, a rubare le sante spoglie ci hanno già pensato dei mercanti giunti da Bari tredici anni prima. I veneziani però non demordono: impossibile che i baresi ci abbiano pensato prima di noi, impossibile, di sicuro si saranno presi qualche sòla, il vero santo dev'essere ancora qui, si sente l'odore, diteci dov'è. Mettono sotto torchio gli ultimi quattro canonici della chiesa, fanno lunghe ispezioni nei dintorni cercando col naso quel buon profumo che emanano i luoghi santi... finché non ritrovano sepolto nelle vicinanze un cadavere intriso nell'olio: è lui il vero Niccolò, nascosto provvidenzialmente secoli prima onde evitare che i turchi lo trovassero, ma ai veneziani non la si fa. Quello portato a Bari invece è qualcun altro, perlomeno a Venezia decidono di pensarla così.
A Bari (dove la pensano ovviamente al contrario) nasce anche la strana idea che Nicola sia scuro di pelle: l'equivoco nasce dalla resa cromatica delle icone bizantine, molto più scure delle raffigurazioni occidentali. Sdoppiato a Bari e Venezia, Niccolò-Nicola continua ad attirare pellegrini malati o scampati ai naufragi, in due città finalmente al sicuro dalle invasioni turche. Ma anche dove i turchi arrivano (ad esempio a Famagosta, porto di Cipro, capitale di uno degli ultimi baluardi crociati), l'unica immagine sacra a scampare alla trasformazione del duomo gotico in moschea è un'immagine di un vescovo Nicola. A dire il vero non è il Nicola giusto, non ha la barba ed è più probabilmente l'icona di un vescovo locale: ma è un Nicola è tanto basta, gli abitanti di Famagosta possono essere forzati a convertirsi all'Islam, ma non a rinunciare a un'immagine di Nicola.
Haddon Sundblom (sì, è quello che ha disegnato tutte quelle pinup, sì).
La popolarità del santo gli conquista un posto d'onore nel calendario: tocca a lui aprire il periodo più allegro dell'anno, che è poi, e non è una coincidenza, il più buio e oscuro, quello in cui è necessario rallegrare i bambini con qualche ghiottoneria - ma anche convincerli a restare a letto, gli occhi ben chiusi, e in generale a comportarsi bene. Lentamente, almeno dal XII secolo in poi, prende forma la tradizione di un santo che nella notte si aggira come un ladro, ma è un ladro al contrario: porta confetti e doni a tutti i bimbi buoni. I bambini cattivi invece hanno di che dolersi: Nicola-Niccolò non viaggia solo, ma in compagnia di uno strano personaggio. È un folletto, un orco in miniatura, uno strano essere irsuto e selvatico: una creatura che Nicola ha trovato nei boschi. È cattivo? Diciamo che fa il lavoro sporco: se i bambini si comportano male, sarà lui a punirli.
Questa bizzarra entità che può visitarci nella notte (all'inizio è la notte di San Nicola, quella del sei dicembre, insomma questa), informe e indefinita come è giusto che siano le creature dei sogni, ha un destino notevole. È forse quello che resta dell'antico culto di Odino, il dio guercio che cavalcava nella notte: a un certo punto mentre cavalcava davanti ai suoi demoni deve avere incontrato il nuovo boss, Nicola, che lo ha evangelizzato e ammansito notevolmente. L'ultima parola non è ancora detta, però, perché a partire dal Cinquecento la riforma protestante vibra un duro colpo al culto dei santi. I nostri amici aureolati escono dalle chiese e dai calendari in mezza Europa, e a malincuore devono cedere il passo anche nelle leggende. Il signore barbuto e corpulento che si infila nella cappa del camino, anche se ancora pretende in alcuni paesi di chiamarsi Santa Klaus, è in realtà una contaminazione del vescovo col suo servitore irsuto e diciamolo, un po' demoniaco, che man mano che l'Europa si laicizzava ha preso il sopravvento. Peraltro il vero luogo di nascita di Santa, là dove se ne fissano nel giro di pochi anni i caratteri fondamentali (il pancione, l'abito, il sacco coi regali, ho ho ho! e tutto il resto) è dall'altra parte dell'oceano, a New York. L'immagine elaborata da Thomas Nast per l'Harper's Weekly del 1863 mette definitivamente a fuoco un personaggio che già da quarant'anni popolava la pubblicistica stagionale, e aveva persino fatto un cameo, come "fantasma dei Natali presenti", in un popolarissimo libro del più popolare degli scrittori, Charles Dickens (devo dire quale?)
Nast mette assieme i caratteri di una vecchia allegoria inglese del Natale come personaggio anziano e gaudente, Father Christmas, e qualche lontana reminiscenza di Nicola, l'antico patrono dei primi coloni di New Amsterdam. Nast però secondo me lavorava in bianco e nero: anche se ci viene istintivo immaginare il tizio vestito in rosso, è probabile che all'inizio i lettori potessero pensare piuttosto al verde, il colore del vischio e della foresta da cui la creatura proveniva (prima di essere spostata al Polo, o in Lapponia, o in Finlandia, o a Capo Nord, dipende dalla nazionalità di chi ve la racconta). D'altro canto anche il rosso aveva i suoi argomenti: tanto per cominciare è il colore del manto vescovile di Nicola - che per la verità, essendo un presule del quarto secolo, vestiva in un modo del tutto diverso, ma lasciamo stare. Il rosso però diventerà definitivamente associato a Santa soltanto con le prime campagne invernali della Coca Cola Company. Per fissare un'immagine archetipica non c'è niente come una campagna di affissione di dimensioni continentali. All'inizio degli anni '30 la C-C-C aveva un problema: fatturava soltanto nei mesi caldi. Ci voleva un un'idea per convincere gli americani a bere intrugli frizzanti a base di caramello (i nove milligrammi di cocaina per bicchiere erano già stati eliminati nel 1903). Ci voleva un personaggio giusto, che sprizzasse benessere e autorevolezza. Il Babbo Natale di Haddon Sundblom diventò il testimonial stagionale della coca, e lo rimase per quasi settant'anni - prima di essere quasi ovunque soppiantato dagli orsi bianchi meno religiosamente connotati. Perché sì, è difficile da immaginare, ma in tanta parte del mondo il Babbo è ancora visto non come un emissario del consumismo, ma ancor peggio, come un vecchio vescovo, un tronfio rappresentante dell'imperialismo cristiano.
HO! HO! HO! BENVENUTI IN TURCHIA!
Myra oggi si chiama Demre, è una città turca di media grandezza, dove d'estate fa un caldo non descrivibile a parole. Il turismo è ancora una voce molto importante: l'antico teatro greco è ben conservato, e da lì è possibile vedere le favolose tombe scolpite nella pietra. Anche la chiesa dove per settecento anni fu sepolto Nicola continua a essere meta di pellegrini, in cerca di grazie, o scampati ai naufragi, o semplicemente bagnanti che nei villaggi sulla costa dopo un po' si annoiano. Qualche anno fa i russi, che a Nicola ci tengono veramente parecchio, donarono alla città una statua in bronzo, da esporre sulla rotonda, in mezzo al traffico. Il municipio di Demre in un primo momento accettò di buon grado, dopotutto i turisti russi sono una risorsa. Però evidentemente quel santo di bronzo, in mezzo alla rotonda, era complicato da mandar giù - insomma, a un certo punto l'hanno spostato. Ora è nel prato davanti alla basilica. Nella rotonda invece c'è un babbo Natale di resina colorata, abbastanza ridicolo - tanto più se ci vai d'estate, con quaranta gradi all'ombra - ma ai turchi piace più così. "Questa statua", dichiarò il sindaco alla stampa "è il modo migliore per introdurre il visitatore a San Nicola, perché il mondo intero conosce questa sua rappresentazione con abito e cappello rosso, col sacco dei regali e la campanella in mano". Se vi fa strano, un sindaco turco che vi spiega com'è fatto San Nicola, pensateci un attimo: il vero conterraneo di Nicola è lui, volete che non lo sappia?
Eppure, disperso nella nebbia dei secoli, sepolto tra bibite al caramello e orchi e altre leggende, un Nicola, un vero Nicola è vissuto davvero. Immaginate di resuscitarlo - non è escluso che qualche suo osso sia ancora lì sotto, e poi chi l'ha detto che non abbiano preso una sòla sia i baresi che i veneziani - e di spiegargli che il tizio rosso col barbone è lui una sua immagine venerata in tutto il mondo, appena millesettecento anni dopo.
"Ma perché la barba? Io ero una persona importante e un uomo di Dio, ovviamente mi tenevo il volto in ordine".
"Monsignore, sì, ma di lì a poco in ambito orientale si è diffusa questa idea per cui gli uomini di Dio non dovevano curare troppo l'aspetto esteriore, e quindi..."
"E quindi si andava in giro come dei selvaggi?"
"...la barba bianca è diventata l'elemento con cui Lei, monsignore, veniva identificato nelle icone".
"Misericordia. E il sacco?"
"Il sacco contiene dei regali per... per tutti i bambini buoni".
"E a quelli cattivi?"
"Tendenzialmente, carbone. Comunque ci pensa un'altra entità".
"Divertente. Ma perché tutto quel rosso?"
"Quella fu un'idea pubblicitaria, sono i colori dell'etichetta di... di una bibita frizzante".
"Cos'è un'etichetta?"
"Ahem, meglio mettersi comodi".
3 dicembre – San Francesco Saverio, missionario ed esploratore, evangelizzatore di massa
…apud campum babylonicum ducem impiorum in cathedra ignea et fumosa sedere, horribilem figura vultuque terribilem (Ignazio di Loyola, Exercitia Spiritualia, 140)
Suppongo che vi ricordiate quando sono diventato, per un po’, marinaio di acqua dolce.
"Uomo condannato al rogo
dall'Inquisizione di Goa".
Ma cominciamo con ordine. In quel tempo ero tornato a Goa, al collegio. Ufficialmente ero in ritiro spirituale. Stavo cercando di smettere con l’oppio, anche. Non ridete. Me lo aveva prescritto un dottore indiano contro l’ulcera. Senza accorgermene avevo iniziato ad aumentare le dosi. È difficile spiegare a chi non l’ha provato. Ti sembra di entrare in un mondo diverso, che al risveglio non sai raccontare nemmeno a te stesso. Potrebbe essere il paradiso, ma più probabilmente è un altro luogo.
In ogni caso, avevo visto uomini migliori di me partire e non tornare, ed ero determinato a non seguirli. Così mi ero chiuso in una cella col mio Eymerich tascabile e il flagello. Quando i miei nervi cominciavano a tendersi e a chiedere il frutto del papavero, io cercavo di strapparmeli a nerbate. Poi il dolore mi teneva sveglio tutta notte e un po’ d’oppio dovevo prenderlo comunque, per non impazzire. Vedevo le pareti della cella stringersi intorno a me, e pensavo alla giungla. Sentivo di diventare sempre più debole, e vedevo gli idoli diventare sempre più forti – stavo sbagliando metodo, evidentemente.
Goa, fottuto posto. Ma ognuno ottiene quello che vuole, alla fine. Io volevo una missione; e per scontare i miei peccati me ne assegnarono una davvero speciale; una volta conclusa, non ne avrei volute altre.
Non posso raccontarvi tutto, naturalmente. Ricevetti un invito a pranzo che non si poteva rifiutare. Mi buttai sotto un getto d’acqua gelida per togliermi la giungla dalle palpebre, e nel giro di un paio d’ore ero di nuovo un domenicano nel suo saio pulito e bianconero, al cospetto dell’Inquisitore Generale.
Si era fatto arredare un bell’ambientino, nel palazzo di un Khan locale. Il disprezzo per gli idoli, le vacche sacre in particolare, lo manifestava facendone arrostire generose porzioni per gli ospiti.
“Buongiorno padre”.
“Buongiorno fra Marcelo. Ha già conosciuto il Generale?”
“No padre, non di persona”.
“Lei ha lavorato molto in autonomia, è vero?”
“Sì padre, è così”.
“Nel suo dossier si parla di un paio di autodafè nei distretti a nord di Goa”.
“Al momento mi dichiaro non disponibile a parlarne, padre”.
“Lei non ha già lavorato per l’Inquisizione?”
“No padre”.
“Non ha bruciato tre idolatri e due musulmani in un villaggio a venti leghe da qui?”
“Non… non mi risultano le attività da lei menzionate. Né sarei propenso a parlarne qualora tali attività…”
“Cos’è quel brutto taglio sul collo?”
“Un incidente di pesca durante le attività ricreative, Padre”.
“È profondo. Sembra un gatto a nove code. Lei fa uso del gatto a nove code nella sua cella?”
“No padre”.
“Lo sa che è proibito?”
“Certo padre”.
“Va bene, si sieda. Ha l’aria di uno che digiuna da un mese. Vediamo quello che abbiamo qui. C’è dell’arrosto, di solito è buono. Ma se vuole provare i crostacei, non dovrà fornirci ulteriori prove di coraggio”.
“Grazie, padre”.
“Mi serve nel pieno delle forze. Ha mai sentito parlare di Francisco de Jasso Azpilcueta Atondo y Aznares de Javier?”
“Nato in Navarra nel 1506, al collegio fu compagno di cella del fondatore dell’ordine noto come Compagnia del Gesù, Íñigo López Loiola. Inviato da questi a Goa nel 1541 su richiesta di sua maestà il re del Portogallo, estese l’opera di evangelizzazione delle Indie fino a Malacca, alle Molucche e a Cipango, battezzando milioni di indigeni e compiendo centinaia di prodigi…”
“…Non tutti risultanti al nostro Sacro Ufficio. Vada avanti”.
Convertili tutti, Dio riconoscerà i suoi
“Nel 1552, desideroso di portare il messaggio di Nostro Signore Gesù Cristo nell’impero della Cina, parte su una giunca diretta all’estuario del fiume delle Perle, ma muore di febbre nell’isola detta di Sanclan. Dio dà, Dio toglie, Dio sia benedetto”.
“Amen. Tutto qui, figliolo?”
“Più o meno sì”.
“È sicuro di non aver sentito altre voci?”
“Niente di rilevante, padre”.
“A proposito di un padre gesuita che addentrandosi nel fiume delle Perle con un carico di fucili, avrebbe portato la coltivazione del papavero nel cuore del Guangdong?”
“Lo apprendo da voi, padre”.
“Francisco Javier è stato uno dei migliori pastori che la Chiesa abbia mai inviato nelle Indie. Un cavaliere e un santo. Spiritoso, intelligente. Ma in un qualche modo non riusciva ad accontentarsi. Lo avremmo voluto più spesso presso di noi, a Goa. Come sa, c’è tantissimo lavoro da fare per le anime dei sudditi indiani del Re, senza andare in capo al mondo. Sappiamo che lo stesso Loyola gli aveva chiesto di fermarsi. E invece… le Molucche, e poi il Giappone, e poi… la giungla. Lei conosce la giungla, fra Marcelo?”
“Ci sono stato”.
“Poi però ha dovuto andarsene… ha conosciuto i tormenti dell’ulcera, mi hanno detto”.
“Cibi troppo speziati”.
“Che altro ha conosciuto?” L’orrore.
“Si sta ancora curando?”
“No, padre, sono guarito”.
“Me ne rallegro. Stavo dicendo… quando Francisco si addentrò nel Fiume delle Perle, le sue lettere cominciarono ad apparirci… insane. Abbiamo pertanto stabilito di non divulgarle. Eccole qui”.
Con le stesse mani con cui aveva affettato il manzo, mi porse un pacchetto. Se non si stava prendendo gioco di me, dentro c’erano missive inedite di Francisco Javier, l’uomo che aveva in pochi mesi procurato alla chiesa cattolica più anime di quante gliene avesse perse l’immondo Lutero in trent’anni. A Roma si parlava già di beatificarlo.
“A quel che ci risulta, ha rilevato un latifondo nell’entroterra. Dirige una vera e propria impresa commerciale, che rifornisce di oppio i mercati di tutta la Cina meridionale. Gli affari vanno così bene che i prezzi sono crollati persino qui a Goa, ne avrà sentito parlare”. L’orrore.
“Devo darle un’altra informazione inquietante: pare che i suoi contadini lo temano e lo venerino. Eseguono ogni suo ordine, anche il più assurdo. Nella giungla, come sa, il bene e il male si intrecciano in modi che ancora non capiamo. In mezzo a quegli idolatri persino il più santo degli uomini può essere tentato di credersi… Dio”.
“Dio?”
“In ogni uomo c’è un punto di non ritorno. Francisco Javier è andato oltre, ed è ormai evidente che sia del tutto impazzito”.
Che cosa volevano da me?
“La sua missione consiste nel risalire il Fiume delle Perle a bordo di una giunca. Ottenere un permesso per entrare nel territorio dell’Impero è molto difficile, e in ogni caso non intendiamo dare nell’occhio. Pertanto indosserà gli abiti di un bonzo. Lungo il tragitto raccoglierà informazioni. Una volta trovato padre Francisco deve infiltrarsi nella sua impresa e… porre fine al suo comando”.
“Porre fine a… padre Javier?”
“Quell’uomo è ormai completamente fuori controllo. Porre fine con estrema determinazione. Ha capito, sì?”
“Sì, padre”.
Da un po’ stava armeggiando con un attrezzo di cui avevo sentito già parlare, senza averlo mai visto. Una cannuccia di legno con un minuscolo fornellino all’estremità. Ora che finalmente all’interno aveva preso fuoco qualcosa – spargendo nella stanza un odore non sgradevole – si mise in bocca l’altra estremità. Sembrava che succhiasse.
“Lei non fuma, vero figliolo?”
“Mi perdoni?”
“Un po’ la invidio. È un vizio nuovo, che ci arriva dalle indie occidentali. Un’alternativa assai più sana al masticare oppio. Vuole provare?”
“Grazie, no”.
“Le sarà chiaro, fra Marcelo, che questa missione non esiste. Francisco Javier è morto nel 1552 di febbre sull’isola di Shangchuan, dopo aver convertito milioni di fedeli. Nelle Indie tutti parlano dei suoi prodigi. Dio l’assista”.
“Sempre sia lodato”.
Quando accettai la missione non ero certo un educando. Quante persone avevo già ucciso? Cinque, sei? Avevo ancora addosso l’odore di bruciato delle loro carni sul rogo. Stavolta però si trattava di uccidere un santo. Accettai la missione: che altro potevo fare? Ma non sapevo ancora come mi sarei comportato al suo cospetto.
(Continua…)
[Pezzo pubblicato la prima volta li 2/12/2015].
Si è ormai capito che uno degli aspetti 'barbarici' del M5S, che più sgomenta i giornalisti e i commentatori, è che a volte sbagliano i nomi di battesimo: denunciano il Calabresi sbagliato, invitano lo Zingaretti sbagliato. E tu dici, vabbe', divertente, ma fossero tutti qui i problemi e invece no, e invece no, e invece sbagliare i nomi di battesimo in Italia è imperdonabile.
Proprio perché il giornalista-figlio ci tiene a dimostrare di non essere proprio il giornalista-padre o zio o fratello, l'idea di una forza politica che di queste finezze proprio se ne frega, e googla il primo che capita, è insostenibile.
Pallidi, smorti, due stracci grigi messi ad asciugare su uno sfondo rosso drago, i due imperatori della moda non vi sono mai sembrati così nudi, così ridicoli: e adesso infatti li irridete. Adesso.
Il problema non è avere un cannolo grande.
Adesso Crozza li può prendere in giro; adesso Gianni Riotta può ammettere che la crisi con la Cina è stata una débâcle – “Agire in un mondo unico e social come se vivessimo ancora nell’Italia chiusa anni Cinquanta, porta a disastri”; adesso Vittorio Zucconi su La Repubblica può persino mettere in dubbio la versione ufficiale dell’azienda, quella secondo cui i tweet violentemente anticinesi partiti dall’account di uno stilista sarebbero stati scritti da un malvagio hacker. Come se fosse la prima volta che da quell’account partono tweet disastrosi e autolesivi, come se lo stesso responsabile dell’account non avesse mai definito “brutta” Selena Gomez, o “fascista” Elton John. Fino a venerdì però non c’era quotidiano italiano che osasse mettere in discussione la bizzarra teoria degli hacker. Fino alla settimana scorsa non c'era quotidiano che potesse permettersi a cuor leggero di mettere in discussione Dolce e Gabbana. E così, mentre i siti di e-commerceritiravano i prodotti griffati, il Ministero cinese annullava la sfilata-evento e su Instagram si postavano video di falò alimentati con i vestiti della coppia di stilisti, per i giornalisti italiani Dolce e Gabbana al massimo avevano sbagliato uno spot, urtato qualche indigeno troppo suscettibile.
Poi però è arrivato il loro grottesco video di scuse, e qualcosa è cambiato. Come se i predatori del circo mediatico avessero sentito l’odore del sangue: Dolce e Gabbana improvvisamente non erano più intoccabili. Non più i capricciosi tiranni del lusso, quelli che qualche anno fa per una recensione negativa avevano ritirato le inserzioni pubblicitarie a un quotidiano. Dolce e Gabbana erano stati colpiti. Non sono immortali, dunque. E quindi addosso – comodo, adesso.
Così comodo che forse vale la pena di chiamarsi fuori. Tanto la frittata è fatta, no? Dolce e Gabbana lavorano sugli stereotipi: lo hanno sempre fatto e per molto tempo ha funzionato. La caricatura di Italia che spacciavano al mondo era davvero ferma agli anni Cinquanta, e potrebbe persino essere stata controproducente per l’immagine della nostra nazione all’estero: ma funzionava, vendeva, e quindi perché lagnarsene. I problemi sono nati quando il metodo Dolce e Gabbana è stato esteso al resto del mondo globalizzato, in aree forse più sensibili ai problemi che gli stereotipi portano con sé.
Il problema è avere un grande cannolo
Un primo segnale d’allarme arrivò durante la sfilata primavera-estate 2013, quando alcune modelle si presentarono in passerella con un ingombrante orecchino che lasciò perplessi i giornalisti anglosassoni (“Are they racist?“): rappresentava la testa di una donna nera; somigliava non troppo vagamente ai quelle raffigurazioni stilizzate e grottesche degli individui afroamericani stigmatizzate da Spike Lee in Bamboozled . In quell’occasione l’azienda si limitò a precisare che avevano voluto citare le “teste di moro”, un simbolo del folklore siciliano. Uno choc culturale interessante, su cui la stampa italiana non trovò molto da dire.
Così come si allarmò particolarmente l’anno dopo, quando le foto dell'”Hallowood Disco Africa” con gli stilisti truccati da africani fecero il giro del mondo e arrivarono in America, dove la “blackface” è ancora vista come un oltraggio dalla comunità afroamericana: un ricordo di quei minstrels show in cui attori bianchi truccati da neri ne irridevano i costumi mentre si appropriavano della loro musica. Gabbana non portava una blackface, ma delle foto sembrava divertirsi, sinceramente inconsapevole dei problemi che avrebbe potuto crearsi con i clienti di oltreoceano. Tanto chi si indigna di queste cose non compra Dolce e Gabbana, no?
I giornalisti italiani si fecero invece sentire nel 2015, quando lo stesso Gabbana definì “sintetico” il figlio di Elton John e quest’ultimo reagì annunciando che non avrebbe mai più comprato prodotti della griffe; al che Gabbana reagì definendolo“fascist“. Forse fu un hacker anche in quell’occasione, non si può escludere, ma non è questo il punto. Il punto è che allora i giornalisti italiani intervennero, sì: ma per difendere Gabbana; per cercare di spiegare e Elton John che quella di Gabbana su suo figlio era un’opinione, e le opinioni vanno rispettate. Certo, non credo che Elton John si sia scosso più di tanto per i rilievi di Beppe Severgnini, ma il problema resta: quello di una stampa nazionale che sembra spalleggiare Gabbana (o il suo hacker) per partito preso, anche a costo di scadere nel ridicolo... (continua su TheVision).
In un mondo globale sempre più insofferente nei confronti degli stereotipi culturali e di genere, se Dolce e Gabbana hanno potuto remare per anni in direzione contraria è anche colpa di chi, per tutto questo tempo, si è sforzato di trovarli geniali, fingendo di non vedere anche gli esempi più eclatanti, come la pubblicità che alludeva a una violenza sessuale di gruppo. Tutto questo finché un giorno non sono andati a sbattere contro la Repubblica Popolare Cinese. Adesso è tutta colpa loro: gli imperatori sono nudi, gli ex ciambellani di corte si accaniscono su coloro che fino a un momento fa veneravano. Trovano brutto il comunicato di scuse, poco credibile. Chissà se qualche autoeletto guru della comunicazione ha già fatto notare quello che per un qualsiasi studente della Storia del Novecento rasenta l’ovvio: quel video apparentemente imbarazzante è ancora una volta una rielaborazione di stereotipi orientali (l’autocritica maoista) e occidentali (Dolce e Gabbana sembrano due ostaggi davanti alla videocamera fissa).
Costretti a recitare con voce atona formule grottesche come “Chiediamo scusa ai cinesi perché ce ne sono tanti”, Dolce e Gabbana insistono sulla redenzione, ma in realtà stanno dicendo un’altra cosa: umiliazione. È vero che mancano i cappelli di carta con cui le Guardie Rosse di Mao cingevano le teste dei nemici del popolo, ma chi è nato e cresciuto dopo la Rivoluzione Culturale non dovrebbe faticare a cogliere un riferimento, anche inconscio: Dolce e Gabbana si comportano come due capitalisti rieducati, proletarizzati, pronti per indossare la tutina e inforcare la bicicletta.
Nel frattempo l’osservatore occidentale ridacchia, ma percepisce un altro messaggio preciso: Aiuto, siamo prigionieri. Ovviamente non crediamo in quello che stiamo dicendo, siamo ostaggi di questo nuovo mondo globale. Venite a salvarci, o almeno abbiate pietà di noi. Un video così goffo riesce a muovere le corde giuste di due pubblici opposti e complementari. Non male, per essere la mossa disperata di due stilisti a cui adesso, e solo adesso, gli Esperti rimproverano l’incapacità di comunicare. Lavorare sugli stereotipi è pericoloso, e prima o poi ci si brucia. Ma se Dolce e Gabbana ci hanno insistito fin qui, è perché fin qui tutto sommato funzionava. E funziona ancora, a dispetto di ogni critica. Anche coi cinesi, anche con noi.
Più di ogni altra cosa il re indiano Avenir desiderava che suo figlio Iosafat fosse felice. Più di ogni cosa temeva quelle nuove sette che arrivavano dall'occidente, quei corvacci neri che speculavano sulla paura della morte, quei cristiani. Li aveva già visti rovinare uomini ricchi e potenti, dignitari di corte ridotti a vestirsi di sacco e a mendicare. Così quando un astrologo predisse che Iosafat si sarebbe convertito al cristianesimo, per poco non impazzì...
Questo è Gautama Buddha,
il Budda storico…
Decise così di nascondere suo figlio al mondo, di crescerlo il più lontano possibile dalla sola idea della morte, della sofferenza. Lo rinchiuse bambino in un palazzo ricolmo di ogni lusso; gli diede amici e amiche in abbondanza, tutti sani e senza difetto: quando qualcuno si ammalava, nottetempo veniva sostituito con qualcun altro in salute; e così Iosafat cresceva senza conoscere né malattia né dolore, eppure non era felice.
(Dove ho già sentito questa storia?)
C'era come un vuoto che gravava sul suo capo, la sensazione di galleggiare sulla superficie delle cose. Un giorno piantò una grana, non avrebbe più mangiato né bevuto finché il papà non lo avesse lasciato uscire a fare un giro nel mondo. Alla fine il re acconsentì. Preparò l'uscita in ogni dettaglio, infiltrò i suoi ministri nella scorta del figlio, fece per la prima volta ripulire le strade in cui sarebbe passato il corteo principesco, disseminando lungo il percorso danzatori e ballerine, affinché tutto sembrasse il più possibile ameno. Qualcosa però dovette andare storto, perché appena Iosafat uscì, incontrò un cieco e un lebbroso, che lo stupirono molto.
"Sono malanni che capitano agli uomini", risposero gli uomini del re.
"A tutti gli uomini?"
"No, a tutti no".
"Meno male. E si sa già prima a chi accadono questi malanni, o sono imprevedibili?"
"Il futuro nessuno può prevederlo, o sire".
"Quindi anch'io potrei un giorno diventare cieco come questo cieco, o lebbroso come questo lebbroso?"
"Si è fatto tardi, rientriamo".
...questo invece è Budai, non c'entra quasi niente.
Il vuoto che gravava sul capo del principe cominciò a riempirsi di angoscia e di paura, sentimenti a cui non sapeva nemmeno dare un nome. Un'altra volta che volle uscire, la security fu più efficiente: non trovò nel suo percorso né paralitici né appestati, tutto andava per il meglio, finché non passò un vecchietto. Un vecchietto assolutamente standard, niente di eclatante, ecco forse perché le guardie non avevano pensato a tenerlo lontano: la faccia un po' vizza, la schiena curva, i denti pencolanti, ma a parte questo in forma. Lo aveste visto voi, avreste pensato: che bel vecchietto, spero di poter invecchiare anch'io così. Ma lo vide Iosafat, e Iosafat non aveva mai visto un vecchio.
"E questa che malattia è? Una sottospecie di lebbra?"
"Sire, questa non... non è una malattia".
"In che senso? Il tizio quasi non si regge in piedi, se non è una malattia questa qui..."
"È solo vecchiaia. Non è una malattia, nel senso che... che viene a tutti".
"A tutti? State scherzando? E si guarisce?"
"...No, sire, non si guarisce".
"Ma allora il mondo dovrebbe essere pieno di vecchi come questo qui, dai. Mi state prendendo in giro".
"No sire, no. Effettivamente la vecchiaia non dura in eterno. Al massimo venti, trent'anni..."
"Eh? Trent'anni così? Siete matti?"
"Ma poi si muore, pur troppo - o per fortuna".
"Che significa si muore?"
"Si è fatto tardi..."
"No, adesso mi spiegate sul serio cos'è questa cosa, io con tutto che ho studiato non riesco a immaginare niente di peggiore che questa roba che chiamate... vecchiaia, e invece adesso salta fuori che c'è una cosa peggiore e si chiama... come avete detto che si chiama?
"Si chiama morte, è... è la fine".
"La fine di cosa?"
"Di tutto, la fine della vita".
"La vita finisce? E perché non mi avete detto niente?"
"Suo padre preferiva non disturbarla..."
"E come si fa a evitare questa cosa?"
"Evitare la morte? Non si può".
"Come sarebbe a dire non si può, mi state dicendo che moriremo tutti? Tutti? Anche voi?"
"Certo che moriremo, sire".
"E perché non impazzite al solo pensiero?"
"In effetti, ora che ce lo fa pensare, perché non impazziamo?"
"Io impazzirei".
"Non avrebbe tutti i torti. Si vive per settant'anni, ottanta con un po' di fortuna, si scansa per quanto possibile la lebbra e altre malattie, per arrivare al momento in cui si muore, questa in ultima analisi è la vita".
"Settant'anni? E me lo dite così?"
Iosafat comunica il suo desiderio di farsi monaco, in un manoscritto greco del Duecento
Iosafat ovviamente non impazzirà, anzi conoscerà un saggio monaco di nome Barlaam, che lo stordirà di apologhi e lo convertirà alla vera fede, dopodiché dovrà sfidare il padre che arriverà al punto di riempirgli il palazzo di giovani fanciulle seminude per metterlo in tentazione – ma niente da fare. Invece di continuare nella storia – che altri hanno raccontato meglio di me – vorrei chiedere se non vi suona in qualche modo familiare. Dovrebbe.
È in effetti una leggenda antichissima, che il solito Iacopo da Varazze attribuisce a San Giovanni di Damasco (l'arabo che amava la Madonna), ma in realtà è probabilmente entrata in Europa da ovest. Un autore ebraico di Barcellona, Abraham ibn Chisnai, la porta qui nel dodicesimo secolo. In seguito, opportunamente cristianizzata, la leggenda del principe che non conosceva la morte conosce un successo strepitoso: in meno di cent'anni è tradotta persino in islandese, e di lì a poco Iosafat e il suo amico Barlaam entrano nel calendario. Ma la storia è ben più antica.
Se ne rende conto un navigatore portoghese nel Seicento, Diego do Couto. Ascoltando un resoconto cingalese dell'adolescenza di Gautama Buddha, quando era ancora un Bodhisattva, un uomo che non aveva ancora ricevuto l'illuminazione, do Couto esclama: ma questo principe chiuso in un palazzo che non conosce né malattia né morte io lo conosco: è San Iosafat: Bodhisattva=Iosafat! Ma allora... allora... questi pagani hanno fondato la loro religione sulla vita di un santo cristiano! Il buddismo è un equivoco!
Benedetto Antelami, leggenda di Barlaam, Battistero di Parma
A noi oggi sembra abbastanza ovvio il contrario: la fiaba di Iosafat e Barlaam è la vita di Budda, cristianizzata quanto basta per entrare nei martirologi cristiani. Ma ci vollero altri due secoli perché gli studiosi europei lo ammettessero. Eppure già nel Duecento Marco Polo aveva menzionato nel Milione un personaggio simile, anche lui vissuto a "Seila" (Ceylon), Sergamon Borgani:
Ora era tanto tempo istato in casa ch’egli non avea mai veduto veruno morto né alcuno malato; il padre si vollé uno dí cavalcare per la terra con questo suo figliuolo. E cavalcando loro, il figliuolo si ebbe veduto uno uomo morto che si portava a sotterare ed avea molta gente dietro. E ’l giovane disse al padre: «Che fatto è questo?». E ’l re disse: «Figliuolo, è uno uomo morto». E quegli isbigotío tutto, e disse al padre: «Or muoiono tutti li uomini?». E ’l padre disse: «Figliuolo, sí». E ’l giovane non disse piú nulla, ma rimase molto pensoso.
"Sergamon" è la prima traduzione in veneto di Sakyamun, "saggio della famiglia Sakya", uno dei tanti appellativi del Budda. "Borgani" deriva dal sanscrito Bhagavan, "signore", che è anche la più probabile origine di "Barlaam". "Iosafat" invece dovrebbe venire da Bodhisattva; la B potrebbe essersi trasformata in I durante un lungo percorso di traslitterazione dal sanscrito all'arabo al latino. Il romanzo della giovinezza di Buddha è stato messo per iscritto più o meno nel primo secolo dopo Cristo: Buddha dovrebbe essere vissuto cinque secoli prima. È popolarissimo in Sri Lanka, in India, in Nepal (suo luogo d'origine), in Cina, in Giappone, dove i cristiani clandestini lo usavano come copertura per i crocefissi e le altre immagini sacre.
In occidente, nel frattempo, veneravamo Buddha come santo cattolico e apostolico, senza accorgercene. Era già quel tipico budda occidentale, quel soprammobile fuori contesto (spesso confuso con un altro), sconosciuto e familiare, che se ne sta su qualche ripiano a prender polvere. Eppure la sua storia è anche la nostra, ci racconta con poche variazioni quel giorno lontanissimo e vicino in cui abbiamo visto per la prima volta il dolore, e abbiamo scoperto che si muore, che è normale, che capiterà anche a noi, infallibilmente: e chissà perché non siamo impazziti. Già, in effetti, ripensandoci, perché.
26 novembre - San Leonardo di Porto Maurizio, inventore della Via Crucis, salvatore del Colosseo
Il solito allegrone
È inutile che proviate a farmi gli auguri adesso, miei cari lettori, ipocriti, fratelli; il mio onomastico era il 6 novembre, San Leonardo abate di Limoges – e anche stavolta non se n'è ricordato nessuno. Questo Leonardo non è meno importante del primo, diciamo che gioca in tutt'altra categoria: è un predicatore francescano del Settecento, secolo finora colpevolmente snobbato da questa rubrica, come se per cent'anni non ci fossero stati santi interessanti. Non è decisamente così, però riflettete un attimo sul Settecento che conoscete, sul Settecento che avete studiato a scuola, o quello che poi vi è ricapitato sott'occhio al cinema o in tv. Non vi sembra anche voi di avere un buco? Il secolo dei Lumi, vi dicevano gli insegnanti. Sì ma gli illuministi a ben vedere erano una manciata di persone in tutt'Europa sparsi tra le corti e le caffetterie; ok, gli abbonati all'Encyclopédie erano parecchi di più, però il secolo senz'altro non è tutto lì. C'erano i libertini, questa è cosa nota, almeno un film o un libro di libertini lo abbiamo consumato. Poi verso la fine partono le rivoluzioni, e quelle le studiamo già con più interesse, ma fidatevi che se al liceo vi è capitato di saltare una cinquantina di pagine di Storia d'Italia, erano tutte tra Seicento e Settecento.
Soprattutto nella penisola sembra che non succeda nulla. E invece succedono tantissime cose, tra cui parecchie guerre che cambiano un po' la cartina – prende forma tra l'altro il Regno di Sardegna – ma alla fine della fiera tutto cambia perché non cambi nulla, più o meno finché non arriva Napoleone. Qualche sovrano effettivamente legge Voltaire e si dà arie di principe illuminato, ma è quella crosta sottile della società che segue le mode: il Paese reale, come si chiama adesso, pende ancora dalle labbra dei predicatori, come ai tempi di Bernardino tre secoli prima. Leonardo di Porto Maurizio è uno di prima scelta, otterrà persino degli incarichi diplomatici. Ma preferiamo ricordarlo per averci dato una grossa mano a salvare il Colosseo, si fa per dire. Diciamo che senza di lui il Colosseo poteva arrivarci in uno stato ancor peggiore.
Come doveva apparire, l'Anfiteatro Flavio, più massiccio
e meno evocativo. All'inizio il "Colosso" era la grande statua
di bronzo all'esterno (Nerone?)
Un giorno il Colosseo (che poi si chiama Anfiteatro Flavio) andrà rifatto. Lo scrivo così, per abituarmi all'idea. Nulla dura in eterno, nemmeno i luoghi più sacri e appartati, e non è certo il caso di un'arena tirata su nel centro di Roma a scopi propagandistici. C'è chi dice che Vespasiano abbia voluto offrire al popolo quello che il dittatore precedente, Nerone, gli aveva tolto; secondo altri gli fu molto utile il bottino del saccheggio del tempio di Gerusalemme; impossibile non ricordare poi che fu lo stesso imperatore che mise una tassa sui gabinetti pubblici, che è poi il motivo per cui il suo nome è ancora sulla bocca di tutti duemila anni dopo. Poteva immaginarselo? Difficile, ai suoi tempi il passato non esisteva nella forma in cui esiste adesso. Esistevano miti, leggende, e pietre vecchie già un po' dappertutto, ma Roma non aveva nemmeno compiuto mille anni: e 1930 anni dopo il suo anfiteatro è ancora più o meno lì. In ogni caso l'estate scorsa si è saputo che la curva sud pende di 40 cm., quasi quanto la Torre di Pisa. Un giorno o l'altro potrebbe venir giù, non sarebbe la fine del mondo - a meno che non abbia ragione Beda il Venerabile:
Finché starà in piedi il Colosseo, esisterà anche Roma;
quando cadrà il Colosseo, cadrà anche Roma;
quando cadrà Roma, cadrà anche il mondo.
Al tempo in cui Beda scriveva le sue storie, nell'ottavo secolo in una landa lontana – l'Inghilterra – il Colosseo se la cavava ancora abbastanza bene. Era adibito a necropoli o forse a fortezza (come il mausoleo di Adriano, diventato Castel Sant'Angelo). I gladiatori non ci giocavano più dal 400: a rovinare il divertimento era stato l'imperatore Onorio. I combattimenti contro gli animali, ugualmente sanguinosi (leoni e orsi, a volte aizzati contro condannati a morte) erano proseguiti per un altro secolo; poi l'anfiteatro aveva smesso di essere tale. La vera decadenza cominciò a partire dall'847, con un terremoto catastrofico, in seguito al quale il monumento fu declassato a cava di marmo. Seguono secoli oscuri, in cui il Colosseo diventa un palazzo, anzi parte di un palazzo della famiglia Frangipane. Ma anche questa destinazione d'uso non dura più di tanto, e l'emorragia di blocchi di travertino prosegue per tutto il Cinquecento (un secolo in cui il nuovo amore per la classicità non impedì ai pontefici di saccheggiarla a tutto spiano), e buona parte del Seicento. Poi le cose cominciarono lentamente a cambiare. Forse fu anche merito del turismo. L'unica forma di turismo di massa che esistesse a quel tempo: il pellegrinaggio, soprattutto in occasione dei giubilei.
Progressivamente divenne chiaro che ai pellegrini che arrivavano a Roma per ottenere l'indulgenza plenaria bisognava mostrare pure qualcosa del periodo antico, non si poteva smontare tutto per adornare Palazzo Barberini. Quel poco di anfiteatro rimasto continuava a essere una mole impressionante, bisognava trovare un modo per sfruttarla, però cristianamente. Del resto, se il cristianesimo era fiorito sul sangue dei martiri, quale suolo ne era più pregno di quello dell'anfiteatro, dove a migliaia erano stati sbranati dalle fiere sotto questo o quell'imperatore?
L'idea era fondata soltanto sulle antiche leggende; non c'era nessuna evidenza storica o archeologica di una simile pratica. Ci mise anche un po' a passare. Le prime notizie di celebrazioni religiose nel Colosseo risalgono all'ultimo giubileo del Seicento (1675); settant'anni più tardi, Benedetto Quattordicesimo fece il salto di qualità, consacrando il Colosseo a Tutti i Martiri. Esatto, sì, il Colosseo diventò una chiesa. E meno male. Se l'idea fosse venuta un po' prima, l'anfiteatro ci sarebbe arrivato in uno stato migliore: come il Pantheon, che chiesa lo era diventato quasi mille anni prima, e la differenza si vede: è l'unica cupola antica che ci è arrivata quasi intatta.
Consacrare un edificio è un'operazione delicata – specie se lo stesso edificio è stato in precedenza una cava di marmo, un luogo disabitato per coppiette, un castello, un cimitero, una plaza de bestias, un'arena di gladiatori. Bisogna in qualche modo resettare l'immaginario, sostituire 1700 anni di storia con qualcosa di altrettanto interessante, ma cosa? Papa Benedetto chiamò per l'occasione il miglior predicatore sulla piazza, Leonardo di Porto Maurizio, inventore di una nuova concezione di spettacolo religioso: la Via Crucis. Sacre rappresentazioni ne esistevano da secoli, ma quella standardizzata in quattordici stazioni, quella che vi ricorda immediatamente certe fresche sere primaverili, l'odore delle rose misto alla cera delle candele, quella l'ha inventata lui. Nel 1744 le quattordici stazioni diventarono quattordici edicole all'interno del Colosseo. Quattro anni più tardi a Napoli Carlo III di Borbone inviava l'ingegnere spagnolo Rocque Joaquin de Alcubierre a compiere qualche scavo alle pendici del Vesuvio, un po' più a sud di Ercolano dove già si era trovato qualcosa d'interessante. Joaquin cercava l'antica Stabia, ma lì sotto avrebbe trovato (senza accorgersene davvero) qualche traccia di Pompei. Che c'entra con Leonardo di Porto Maurizio? Niente.
È solo interessante che sia vissuto proprio negli stessi anni in cui nasce l'archeologia moderna. L'interesse che porterà ben presto studiosi e artisti a Pompei è già tipico di quel Settecento che conosciamo noi, quello illuminista e scientifico; dai dipinti delle ville pompeiane nasce anche, è superfluo dirlo, lo stile neoclassico che i vari Canova e David avrebbero imposto in tutta Europa. La forza del neoclassico sta nel suo essere insieme antico e modernissimo: il segreto è nei fanghi di Pompei, da cui si poteva estrarre un ideale di bellezza vecchio di millesettecento anni come una cosa mai vista, inedita, come la scoperta di una civiltà extraterrestre.
Più a nord, i ruderi romani non se l'erano cavata altrettanto bene. Nessun fango provvidenziale li aveva coperti: erano rimasti lì per tutto il medioevo, esposti all'incuria, ai terremoti, al piscio delle pecore e dei pastori. Per sfangare il medioevo il caro vecchio Anfiteatro Flavio le ha provate tutte: è stato cimitero ed è stato castello; senza che nessuno lo decidesse è spontaneamente diventato uno degli orti botanici più biodiversi del mondo; e per uno scorcio di secolo si è improvvisato anche basilica. Per inciso, la storia dei martiri divorati dalle belve nell'arena potrebbe davvero essere una bufala: non abbiamo nessuna prova che i cristiani venissero giustiziati così. È vero che gli schiavi giudicati colpevoli dei crimini peggiori potevano essere travestiti da eroi mitologici e finire sbranati da orsi e leoni nella tarda mattinata (quando gli spettatori più raffinati andavano a mangiare; a guardare l'intermezzo restava solo il popolino sgranocchiante); tra i condannati potrebbe anche esserci stato qualche cristiano, ma non lo sappiamo. Per fortuna che San Leonardo e il suo Papa ci credevano – o trovavano comodo crederci. Di lì a pochi anni l'archeologia si sarebbe reimpossessata anche di Roma, ma forse per il vecchio Flavio sarebbe stato troppo tardi.
Prima o poi sarà troppo tardi: nulla è per sempre, tantomeno una vecchia arena costruita per ospitare migliaia di spettatori e duelli all'ultimo sangue. Non è mica una piramide: è un monumento al chiasso, al divertimento, alla dissipazione, e prima o poi cederà al traffico, al turismo di massa, all'inquinamento. Ci sarà poi il problema di rifarlo, bisognerebbe cominciare a pensarci. Bisognerà inventare nuove leggende, i miti classici non ci bastano più, e anche le vie crucis settecentesche cominciano a segnare il tempo. Per esempio leggevo che ieri il sindaco Alemanno e sua moglie Isabella Rauti lo hanno illuminato contro la violenza sulle donne. Non sono sicurissimo di aver capito cosa significhi, in che modo l'illuminazione di un monumento possa avere una connessione con la violenza sulle donne, o in qualche modo rappresentare un modo di porsi il problema. Immagino che si tratti di una cosa postmoderna che non capisco, e non è detto che abbia un senso, ma almeno è un tentativo di inventare qualcosa di nuovo, perché qualcosa di nuovo prima o poi dovremo trovarlo, così non può mica durare per sempre. Sempre che non abbia ragione Beda.
[Questo pezzo è comparso per la prima volta nel 2012].
25 novembre - Santa Caterina vergine e martire (III secolo)
Caterina trae il suo nome da catha, che vuol dire "universo", e ruina, "rovina", come a significare "rovina universale". Con lei infatti ogni edificio del diavolo cadde in rovina... (Iacopo da Varazze, Legenda Aurea).
Non mi fate scrivere chi è il pittore, dai
Caterina era una principessa che non dormiva mai mai mai, hai presente mai? come dire neanche adesso. Il re suo padre e la regina sua madre ci avevano provato in tutti i modi, con le fiabe di Grimm e di Andersen e di Calvino e di Vladimir Propp, e le canzoni dello zecchino d'oro d'argento e di bronzo i grandi successi di Mina e la Voce del Padrone, ma neanche il libro dei Salmi e la tavola degli elementi facevano addormentare la principessa Caterina, che invece di dormire imparava tutto. Infatti era anche intelligentissima, nonché molto intonata, e tutti potevano udirla alle tre del mattino cantare:
Folle, folle banderuola folle banderuola segnatempo...
Avendo l'imperatore Massenzio convocato tutti, ricchi e poveri, ad Alessandria (EG) perché immolassero agli idoli pagani, proprio mentre stavano cominciando le celebrazioni sul più bello arrivò Caterina e disse dai, ma smettila, cosa sono tutti questi affari di ferro e legno e plastica non omologati CE? Non mi piacciono!, e sbing e sbleng e sbadabvong in dieci minuti aveva rotto tutti gli idoli del potente imperatore Massenzio, che disse: ma chi sei o giovane fanciulla impertinente?
"Sono Caterina", ella disse, "la patrona delle ruote dei carri-attrezzi e dei filatoi, perché giro tutta la notte e non mi fermo mai".
"Caterina, hai fatto un bel pasticcio. Ma adesso avrai sonno, almeno".
"Sonno io? No mai. Mi leggi un rotolo?"
"Che rotolo? Vuoi scherzare? Qui abbiamo solo papiri pregiati... ferma! stai strappando un Qumran originale!"
"Auff, le figure dove sono?"
"Senti Caterina, non ho tempo, sono il potente imperatore Massenzio, ho molti idoli da onorare, per cui adesso ci salutiamo, è stato un piacere, buonanotte e..."
"Che noia i tuoi idoli, lo sai che messi assieme non valgono nulla in confronto a mio papà?"
"E chi sarebbe tuo papà?"
"Mio papà è il più grande e il più bello di tutti, inoltre sa come va a finire la fiera dell'est".
"Ah-Ah, Caterina, tu scherzi, nessuno sa a come va a finire la fiera dell'est. Neanche Gugol".
"Lui ne sa più di Gugol, perché è mio papà".
"Dai Caterina piantala".
"No sul serio lui sa chi uccise il bue che bevve l'acqua che spense il fuoco che bruciò il bastone che picchiò il cane..."
Quando udì queste parole Massenzio rimase molto turbato, perché nessun suddito del suo impero conosceva la canzone fino al punto in cui il bue beveva l'acqua - anche il più anziano dei gugol di corte sapeva risalire fino all'acqua che spense il fuoco, ma il ruolo del bue in tutto ciò era stato ormai dimenticato da generazioni, insomma Caterina ne sapeva proprio a pacchi e Massenzio cominciò a tentennare, vuoi vedere che suo papà è davvero uno potente. Mah, boh, che si fa? Per prima cosa legàtela, disse Massenzio ai suoi collaboratori a tempo determinato.
"Sire, non si può, ella gira e non sta ferma un attimo".
"Dannata gioventù".
"Ci ha già fatto stramazzare tre cavalli a dondolo e uno gnu".
"Sfiancatela con l'altalena".
"Ha consumato la catena".
"Caterina ma insomma sei un totale disastro, cosa vuoi da me?"
"Devi accettare che mio papà è il più grande di tutti".
"Caterina ma insomma mettiti nei miei panni sono un imperatore malvagio che figura ci faccio?"
"Silenzio ora canterò la sigla della Pimpa originale".
"Ah ah Caterina piantala, nessuno si ricorda la sigla della Pimpa originale".
"E la Pimpa corre e va / in campagna ed in città".
"Per gli dèi non è possibile! Tutte le videocassette della serie originale sono state distrutte nel rogo del quarantadiciannove! Com'è possibile che tu abbia accesso a codeste informazioni?"
"Me la canta sempre mio papà".
"Caterina senti non ho voglia di litigare, mi sembri una fanciulla piena di spirito e di sapienza, onora gli dei e farò di te la prima principessa del regno, anzi dell'impero, tutti si prostreranno a te e..."
"Non è che hai del panino?"
"Va bene, allora adesso facciamo così. Inviterò i cinquanta saggi più saggi dell'impero, verranno qui e discuteranno con te, ti confuteranno e ti surclasseranno in sapienza e a quel punto ti addormenterai, d'accordo?"
"Una zebra à pois, à pois, à pois".
"E non cambiare sempre argomento".
I cinquanta saggi all'inizio non volevano venire, millantavano impegni pregressi e dicevano: ma sul serio ci scomodi per una minorenne? Cioè per chi ci hai preso? Ti mandiamo uno stagista, ne abbiamo di molto bravi che non costano e non sporcano.
"No, no, dovete venire proprio voi. Vi prometto ricchi premi e un sontuoso coffibrek, ma addormentatela, addormentatela ve ne prego".
"Beh vabbe' se insisti veniamo, ma non piangere, dai, sei un imperatore crudele o cosa sei?"
"Non ce la faccio più! Non dormo da una settimana! Sul lavoro ho le allucinazioni! Mi trottola sempre da ogni parte del campo visivo!"
"Non te la devi prendere, son ragazzi".
"Ho una pila di papiri arretrati che non finisce più, al lavoro non so più che scusa inventarmi, vi prego fate qualcosa".
I saggi scossero le lunghe barbe e salirono in groppa agli stagisti. Il viaggio durò una settimana. Nel frattempo ad Alessandria ormai la prodigiosa Caterina era sulla bocca di tutti, per via che sapeva contare fino a dodici e distingueva le macchine rosse da quelle blu, e tutti lodavano la sua sapienza. Quando i saggi arrivarono, lei volle tirare le barbe a ciascuno di loro, trovandole tutte in ogni caso deludenti rispetto a quella di papà. Il colloquio verté su argomenti di filosofia, diritto naturale, e su quale fosse la precisa sequenza degli animali nel Pulcino Pio. Ben presto i saggi cominciarono a traballare, e quindi a stramazzare al suolo addormentati, uno alla volta. Dopo tre ore l'imperatore bussò ma nessuno gli apriva, così entrò da solo e vide Caterina seduta su un tappeto di vecchie barbe addormentate che cantava I Più Grandi Successi Del Quartetto Cetra.
"Svegliatevi!" urlò. "Con quello che mi costate di rimborso spese! Possibile che una giovane fanciulla tenga testa a tutti voi?"
"Sire non c'è niente da fare", dissero quelli. "Conosce le lingue degli uomini e degli animali da cortile, e i nomi dei sette nani".
"Di tutti i sette nani? Mi prendete in giro. Nessuno è mai riuscito a..."
"E riconosce ogni singolo barbapapà per nome colore e competenza. A malincuore dobbiamo ammettere che suo papà è veramente un tizio tosto".
Al sentire queste parole, Massenzio fu scosso da una terribile ira e ordinò che fossero tutti torturati con l'aspirazione nasale.
"NO! Ti preghiamo, crudele imperatore, scanna i nostri stagisti e nutricati delle loro frattaglie, ma l'aspirazione nasale no!"
Ma l'imperatore fu irremovibile. E poi, siccome i martiri sono un po' come le ciliegie, uno tira l'altro, decise già che c'era di ordinare uno strumento di tortura per la giovane Caterina, un meccanismo con molte ruote dentate. Ma Caterina, che ve lo dico a fare? Appena provarono a legarla si mise a girare, e girava così forte che la ruota dentata grippò, e l'ingranaggio saltò in testa al re, che ne riportò un bernoccolo con prognosi riservata per duemila anni.
E poi basta, Caterina non è mica stata martirizzata nel terzo secolo come dicono certi stupidi calendari, certe stolte leggende auree o argentee o bronzee. Nessuno poteva martirizzarla, Caterina era troppo veloce, e non potevano neanche aspettare che si addormentasse, perché Caterina non dormiva mai. E non dorme neanche adesso, se senti bene in fondo al corridoio senti che canta
Folle, folle banderuola
folle banderuola senza tempo
che giri come il sole e come il lampo
sul tetto rrrrrrosso del mio cuor
tirintirintin tì!
[Questo pezzo è stato pubblicato la prima volta nel 2012].
Le primarie non le vincerà, ma almeno il Congresso Pd sembra averlo portato a casa Dario Corallo. A distanza di qualche giorno il suo intervento è l’unico rimasto in mente a chi non segue il dibattito congressuale per mestiere o masochismo. Non era neanche così imprevedibile che un outsider ottenesse questo risultato, anzi, è una situazione ricorrente nelle fasi più critiche della storia del partito: qualcosa di molto simile capitò quasi 10 anni fa dopo la caduta di Veltroni, quando a un’assemblea parlò una giovane Debora Serracchiani. Corallo non era nemmeno l’unico giovane a proporre l’ennesima tabula rasa, l’ennesima rottamazione; se è riuscito a battere la concorrenza e a imporsi su YouTube è perché ha avuto l’idea di scatenare una polemica con un personaggio che in rete funziona meglio di qualsiasi quadro del Pd: Roberto Burioni.
Con una mossa apparentemente pretestuosa, al culmine di un ragionamento un po’ confuso, Corallo ha avuto quel guizzo di genio che gli ha permesso di apparire sulle homepage di più testate nazionali. Anche perché Burioni se l’è presa – ma questa era la cosa più prevedibile di tutte – mettendo in guardia il Pd dalla “tentazione di fregarsene della scienza (e della salute delle persone), per accarezzare il pelo all’ignoranza”.
Vale la pena di spiegare l'equivoco? Corallo ovviamente non proponeva di ”fregarsene della scienza”, ma lamentava che il Pd avesse fatto proprie un insieme di dottrine economiche – più liberali che socialdemocratiche – scambiandole per scienza “esatta” e rifiutandosi di discuterle con gli elettori, così come Burioni si rifiuta di discutere seriamente coi NoVax. È un paragone piuttosto sghembo: i NoVax sono una frangia tutto sommato modesta dell’elettorato (anche se blandita da M5S e Lega); il Pd deve porsi il problema di recuperare un bacino molto più ampio.
Evocando Burioni, Corallo è riuscito a dirottare un po’ di attenzione su di sé, ma il risultato è che ora non stiamo parlando davvero di Corallo: stiamo parlando di Burioni. Malgrado abbia colto l’occasione per ribadire che non intende impegnarsi in politica, è lui il vero vincitore del congresso. Non come candidato, ma come programma politico. Chiunque vincerà le Primarie – Zingaretti o Minniti, la gara non entusiasma – si troverà davanti a un bivio: essere burionisti o rinnegare il burionismo? Il Pd del 2019 sarà il partito delle eccellenze, dei professionisti di successo, o sarà il partito del “99% che non ce la fa”? Sembra che alla fine lo scontro – perché di uno scontro c'è bisogno – sarà questo. In attesa che Renzi si rifaccia vivo (impossibile pensare che non vorrà di nuovo dire la sua); in mancanza di candidati dalla personalità forte; nell’eclissi generale dell’ideologia, il burionismo è almeno un argomento su cui ci si può confrontare.
Ha anche il pregio della chiarezza: il burionismo non è così difficile da definire. È una forma di meritocrazia – parla solo chi è competente, parla solo chi è laureato – che da lontano può somigliare a quel caro vecchio elitismo, quell’attitudine snob che gli avversari della sinistra le hanno sempre imputato. Salvo che una volta la sinistra respingeva la definizione o, quando proprio non poteva respingerla, l’ammetteva con pudore, come una debolezza, un peccato originale; mentre il burionismo oggi rivendica la propria superiorità senza vergogna, anzi con una certa sfacciataggine – e in questo modo, paradossalmente, perde tutta quella patina snob e talvolta finisce per somigliare, nei toni urlati e sprezzanti, ai populisti che combatte: vedi come ha reagito all’intervento di Corallo la fanbase dei seguaci di Burioni su Twitter.
Il burionismo, poi, non poteva che nascere sui social: è una strategia comunicativa che ha senso soprattutto lì. E forse non è un caso che i grandi “blastatori” italiani su Twitter siano quasi tutti professionisti ultracinquantenni, che scoprono il mezzo quando ormai i giorni in cui erano abituati a confrontarsi tra pari sono un ricordo lontano. Paradossalmente è proprio questo approccio verticale a dare spettacolo, quando impatta contro l’architettura democratica dei social network e produce scintille: le “blastate”. La differenza tra il burionismo e il grillismo, o il leghismo 2.0 rifondato su Facebook da Salvini e Morisi non è il mezzo, infatti, ma il fine: il burionismo è arrogante perché deve proteggere la scienza e salvare delle vite. Di questo Burioni è convinto e non si stanca di spiegarlo – anche se non ha ancora i numeri per provarlo: blastare funziona. A chi gli obietta che le umiliazioni e gli insulti non hanno mai convinto nessuno, Burioni risponde che il suo scopo non è convincere i NoVax – per Burioni sono irrecuperabili – ma impressionare il pubblico che assiste agli scambi, e che evidentemente si lascia conquistare più da un blastaggio che da un ragionamento pacato. Il burionismo è uno scientismo cinico: crede nella scienza e solo nella scienza, ma allo stesso tempo non ritiene che la scienza sia comprensibile a tutti. La divulgazione dev’essere semplice, e includere qualche momento catartico-liberatorio in cui l’ignorante viene sollevato dallo spettacolo dell’umiliazione di qualcuno più ignorante di lui.
Luca Morisi
Questo per sommi capi è il burionismo, e non è detto che non funzioni. Il personaggio c’è, vende libri, va in tv, egemonizza il dibattito del principale partito d’opposizione, e nel frattempo le vaccinazioni aumentano – non necessariamente grazie a lui, ma aumentano. Non è così strano che il nome di Burioni desti più attenzione di quello di qualsiasi concorrente alla segreteria del Pd. Il Pd è reduce da un insuccesso storico; Burioni, per dirlo con le sue parole, è: “Qualcosa di unico sia dal punto di vista social media sia dal punto di vista editoriale, non solo nel nostro Paese”. Ma il burionismo può davvero diventare la base programmatica e la strategia comunicativa del Pd? Burioni diventò famoso quando gli capitò di scrivere che la scienza non è democratica, un’affermazione abbastanza controversa che fece breccia però immediatamente, al punto da alimentare un sospetto: non è che a tanti burionisti la scienza piace proprio perché non è democratica? Un bell’argomento per chi si scopre critico nei confronti del suffragio universale, per chi periodicamente propone di “superarlo”.
Può il Partito Democratico ospitare in sé un punto di vista così poco democratico? E cosa succede – si domandava Corallo – quando dalla scienza “dura” si passa a discipline più controverse, come l’economia, la sociologia, l’ecologia? Come impedire che la fiducia nella competenza si trasformi in dogma, e il burionismo diventi una specie di religione? Ammesso che blastare i NoVax funzioni, possiamo pensare di blastare allo stesso modo i NoTav, fingendo che non abbiano argomenti e obiezioni sensati, basati su osservazioni, calcoli, ragionamenti?
Si sarà capito che per me tutte queste sono domande retoriche. Non credo che si possa essere burionisti e democratici, bisognerebbe scegliere: e in un partito che si chiama ancora “Democratico”, la scelta mi sembra ovvia – sempre che possiamo ancora permetterci di essere democratici. Perché ecco, forse il problema è proprio questo: possiamo ancora permettercelo?
Corallo propone di andare verso il popolo, una proposta fin troppo ovvia per quello che in teoria sarebbe un partito di (centro) sinistra. Ma nella pratica il popolo è già stato opzionato da altri due partiti populisti, che si sono contesi lo stesso bacino elettorale con promesse imbattibili, e attualmente governano insieme. Certo, prima o poi saranno costretti a vedere i loro bluff, prima o poi ogni promessa elettorale rivelerà il suo lato oscuro. Ma potrebbe volerci ancora qualche anno, e a quel punto è persino possibile che gli elettori reagiscano alla delusione cercando qualcosa di sensibilmente diverso. Per un partito politico in crisi la ricerca di un’identità coincide spesso con la ricerca di una nicchia elettorale e con due avversari populisti al governo, il Pd non potrebbe essere popolare e democratico, neanche se ci tenesse davvero (continua su TheVision sempre più menagramo).
Quando 14 anni fa (e mi sembra ieri) una banda armata rapì in Iraq Simona Pari e Simona Torretta, non eravamo esattamente gli stessi italiani di adesso, ma non credo nemmeno che fossimo così tanto diversi. L'idea che se la fossero andata a cercare – la stessa idea che Gramellini ha tentato di addomesticare in prima pagina sul Corriere ieri mattina – magari non arrivava sulle prime pagine più illustri, ma circolava liberamente tra i tinelli e gli spogliatoi e i bar sport e affiorava qua e là sui quotidiani più squallidi, quelli che molto spesso dirigeva Vittorio Feltri. Renato Farina, in seguito noto come agente Betulla, le chiamò "vispe terese". Quando si seppe che volevano ripartire Giuliano Ferrara, più signorilmente, propose che facessero una colletta per ripagare il riscatto. Insomma quando 14 anni fa due giovani cooperanti furono rapite, non eravamo esattamente gli stronzi di adesso; ma a nostro modo eravamo già piuttosto stronzi.
Quando tre anni fa (e mi sembra un secolo) altre due cooperanti furono rapite in Siria, eravamo già più o meno gli stessi italiani di adesso, maniacalmente attratti non tanto dalle notizie di cronaca, ma dai boati che scatenano quando si immergono nei social. Ci tuffavamo alla ricerca dei tweet più squallidi, dei commenti più sessisti e trucidi, uno dei quali talmente tremendo che affiorò, ripreso da un vicepresidente del Senato. Lo spettacolo della bassezza di quelli che ritenevamo fossero i nostri avversari ci ipnotizzava, ci abbacinava; l'angoscia di vivere in mezzo a gente che scriveva roba del genere stemperava l'esaltazione di sentirci superiori alla gente che scriveva roba del genere. Cos'era davvero cambiato? Eravamo gli stessi stronzi, ma i social ci avevano riempito di specchi e la nostra stronzaggine era diventato il principale spettacolo in cartellone.
Qual è la novità del 2018? Che Gramellini sul Corriere si attesti più o meno sullo stesso livello di Feltri nel 2004? Non è una grande scoperta, è uno slittamento che abbiamo notato tutti, per quanto sia avvenuto lentamente. Abbiamo anche già pronto il colpevole, lo stesso Gramellini oggi prova ad additarcelo: sono i social. Gramellini non sarebbe sceso così in basso, se sulla sua strada non avesse trovato i social. Probabilmente sarebbe riuscito a mantenere un livello di ipocrisia più accettabile, una volta si diceva: borghese. Ma tutto intorno la gente non fa che parlare, nei tinelli, negli spogliatoi, e soprattutto su twitter, su facebook, e tutto questo rumore Gramellini lo sente; si sente obbligato in un qualche modo ad assorbirlo – è il motivo per cui lo pagano – a renderlo presentabile; e allora ecco "Cappuccetto Rosso", la ventenne illusa di cambiare il mondo che merita una bella "ramanzina".
Accusando gli odiatori di Silvia Romano di insultare il fantasma della propria giovinezza, Gramellini doveva essersi persuaso di aver colpito con sufficiente mira sia il cerchio che la botte. E invece no, invece, indovina? La Rete Odia. Come scrive stamattina: "I social hanno instaurato la dittatura dell'impulso, che porta a linciare prima di sapere e a sostituire la voglia di capire con quella di colpire. Si tratta di una minoranza esigua, ma non trascurabile, perché determinata a usare uno strumento alla moda per condizionare, storpiandola, la realtà". Beh, sai una cosa illustro corsivista? Hai ragione. Hai perfettamente ragione. Guarda come ti hanno condizionato. Guarda come ti hanno storpiato. Guarda come hanno ridotto un giovane giornalista di belle speranze, uno che probabilmente a 20 anni voleva cambiare il mondo eccetera; guarda come specchiandoti nei social lentamente ma inesorabilmente ti sei trasformato nel nuovo Vittorio Feltri.
Ci vediamo tra qualche anno, quando rapiranno di nuovo una ragazza bianca, e probabilmente tu, (sempre con molta attenzione e garbo ed eufemistico equilibrio), sposterai l'asticella un po' più in basso. Poi magari non succede, eh, mi piacerebbe tanto sbagliarmi una volta tanto.
Sta tutto su un rotolo
(Mosaico della basilica di S. Marco,
Venezia).
19 novembre - Sant'Abdia (600 aC) - minuscolo profeta di sventura
Nella Bibbia ebraica c'erano quattro libri intestati ai profeti: Isaia, Geremia, Ezechiele e i Minori (e Daniele? Non conta, è un caso a parte, lo raccontiamo un'altra volta). Isaia – che in realtà è il nom de plume di più profeti – è il poeta; Geremia il brontolone, Ezechiele il visionario, i Minori sono dodici e hanno il libro più breve. I cristiani ebbero la bella pensata di dividerlo in dodici minuscoli libretti, alcuni poco più che cartigli. Quello di Abdia è il più corto di tutti: una pagina scarsa, ventuno versetti, appena lo spazio sufficiente per augurare sciagure a un popolo beduino (gli Edomiti) colpevole di aver collaborato con Nabucodonosor II, l'invasore babilonese.
Gli Edomiti discenderebbero da Esaù, il figlio di Isacco che cedette la primogenitura al fratellino Giacobbe in cambio d'un piatto di lenticchie: così che al posto della famosa terra del latte e del miele alla sua discendenza capitò il deserto del Negev, e una malcelata invidia per il popolo eletto. Non è chiaro quanto gli edomiti effettivamente contribuirono alla sconfitta del Regno di Giuda, ma sicuramente profittarono delle deportazioni ordinate da Nabucodonosor per sconfinare e trasferirsi in quella terra più fertile. Agli ebrei non restava che maledirli, ed è quello che fece, molto sinteticamente, Abdia: vi siete appostati ai bivi per sterminare i nostri fuggiaschi? Avete consegnato al nemico i suoi superstiti, nel giorno della sventura? Bene, il giorno del Signore è vicino: tutte le vostre azioni ricadranno sul capo. Giacobbe sarà fuoco e voi sarete paglia. Sarete sterminati, ovviamente, e le tribù d'Israele s'ingrandiranno sulle vostre rovine...
Negli ultimi versetti Abdia da profeta si trasforma in notaio della Volontà divina davanti a una mappa catastale: dal giorno del Signore in poi, spiega, gli israeliti del sud “possederanno il monte di Esaù; quelli della pianura possederanno il paese dei Filistei, il territorio di Efraim e quello di Samaria; e Beniamino possederà Galaad” eccetera eccetera, insomma Giacobbe (detto anche Israele) trionferà. È andata così?
Ovviamente no – ci fosse un solo profeta nella Bibbia che ne avesse azzeccata una. È vero che spostandosi verso la Palestina gli Edomiti persero progressivamente le loro postazioni nell’entroterra desertico e montuoso, dove furono soppiantati non da Israele bensì dai Nabatei (quelli che costruirono Petra, nuova meraviglia del mondo). Ma non furono sterminati: rimasero nella zona anche dopo il ritorno degli israeliti dalla deportazione, e cinque secoli dopo Abdia furono costretti a convertirsi all’ebraismo da un sovrano maccabeo. Alcuni fecero carriera – gli Erodi erano di origine edomita, e anche grazie all’alleato romano regnarono su Israele (anche noi italiani del resto abbiamo avuto tre re savoiardi). Quella di Abdia è l’ennesima frustrata fantasia biblica di sterminio, e il fatto che sia piccola piccola la rende in un qualche modo più suggestiva: tanti secoli fa, in un Paese lontano, c’era un popolo piccolo piccolo che le prendeva sempre da tutti gli altri popoli, e si sfogava ispirando a profeti piccoli piccoli degli stermini di massa (ma piccoli piccoli).
Tutto questo ovviamente avveniva secoli fa: oggi quei popoli non esistono più. Qualcuno forse è scomparso, la maggior parte più probabilmente si è mescolata come sempre avviene. Alcuni mantengono ancora nomi e tradizioni di qualche millennio fa: ma nessuno ovviamente pretende di occupare il Negev e il Wadi Araba sulla base di quel che scrisse millenni fa un profeta piccolo piccolo su un piccolo, piccolo cartiglio. Pensate anche solo per un momento a quanto sarebbe assurdo.
[Questo pezzo è stato pubblicato per la prima volta il 19/11/2013]