Chi ha paura del profeta Ezechiele
10-04-2019, 01:28Bibbia, Israele-Palestina, medio oriente, repliche, santiPermalink10 aprile - Sant'Ezechiele, profeta (620-550 aC circa).
[2012]. I profeti biblici più familiari ai bambini della mia generazione erano Zaccaria ed Ezechiele. Zaccaria era il nome di un cono pralinato, la risposta Algida al Blob Toseroni; Ezechiele, beh, era Ezechiele Lupo, quello che dava la caccia ai porcellini nelle storie centrali di Topolino. Il motivo per cui il Big Bad Wolf del più fortunato cortometraggio di Walt Disney a un certo punto sia stato ribattezzato "Zeke" in inglese ed "Ezechiele" in italiano non è tuttora stato chiarito, e il sospetto che c'entri un qualche pregiudizio antisemita non è mai scomparso del tutto. Senz'altro nella sua prima apparizione cinematografica il Lupo Cattivo si travestiva anche da venditore ambulante di spazzole affettando un accento yiddish: e sappiamo che il riferimento era già considerato offensivo nel dopoguerra, quando la Disney portò in tv una versione autocensurata del cortometraggio.
(Però c'è anche chi sostiene che la versione originale sia quella a destra, e che la maschera col nasone sia un'aggiunta successiva: la Disney non ha nessun interesse a chiarire la situazione).
Per Laurence Olivier il personaggio disneyano era ispirato a un suo Riccardo III, e in quest'ultimo Olivier aveva voluto ritrarre un produttore teatrale che detestava, Jed Harris, nato a Vienna da famiglia di origini ebraiche come Jacob Hirsch Horowitz. Potremmo persino sforzarci di cercare nella ferinità del personaggio e nella sua determinazione a cucinare i grassi e rosei porcellini qualche traccia delle più nere leggende medievali sugli infanticidi rituali degli ebrei. Però per quanto grassi e rosei sono pur sempre porcellini; se Ezechiele Lupo fosse anche solo una caricatura di ebreo, non dovrebbe andarne così ghiotto. Del resto i nomi biblici negli USA erano condivisi da ebrei e protestanti, e forse Ezechiele è più popolare presso questi ultimi. Non il lupo, dico: proprio il profeta.
C'è poco da scherzare, con Ezechiele Profeta. Stiamo parlando di uno degli scrittori più influenti della storia. Ebrei, musulmani e cristiani di tutte le confessioni lo venerano come uomo di Dio; persino gli ufologi lo apprezzano molto per quella pagina in cui si ritrova al cospetto della gloria divina su una specie di carro alato che è la cosa più simile a un'astronave aliena che sia possibile trovare nella Bibbia; non solo, ma persino il processo di pace in Medio Oriente (e quindi nel mondo intero) dipende non in minima parte dall'interpretazione di alcuni suoi versetti oscuri - non sto scherzando, e non è il solito complotto rettiliano, è tutto alla luce del sole purtroppo.
È curioso, ma non del tutto inappropriato, che a tanta fama Ezechiele sia arrivato senza essere un grande scrittore: lo schiaccia soprattutto il confronto con gli altri due profeti maggiori della Bibbia, Isaia e Geremia, che lo precedono nel canone biblico. A Ezechiele manca l'afflato lirico del primo, e il pathos rancoroso del secondo; ma forse è proprio per compensare le sue carenze stilistiche che è costretto lavorare con gli effetti speciali, inventando un nuovo stile visionario e teatrale a base di mostri, oggetti volanti, battaglie titaniche, morti che risuscitano... già qualche esegeta ebreo storceva il naso, considerandolo un contadino al cospetto del nobile Isaia, eppure le sue allucinazioni avranno un enorme successo. Postumo, ovviamente, perché i grandi profeti biblici in vita sono quasi sempre inascoltati e sbeffeggiati. Nemmeno l'aver azzeccato la caduta di Gerusalemme e la deportazione nella Babilonia di Nabucodonosor II gli guadagnerà la stima dei contemporanei. Con Ezechiele però comincia la letteratura apocalittica, quella che descrive un futuro imminente o remoto a base di visioni allegoriche e oscure. Alle sue macchine volanti e alle sue battaglie finali si ispireranno gli autori del Libro di Daniele e dell'Apocalisse di San Giovanni. Ma il contributo di Ezechiele alla storia del mondo non si conclude certo lì.
Siamo nei primi mesi del 2003. L'invasione angloamericana dell'Iraq è ormai data per certa: si tratta soltanto di definire i dettagli, capire chi abbia voglia di dare una mano (Berlusconi, in quel momento, pochissima). Jacques Chirac è all'Eliseo che sbriga le sue faccende quando gli passano il telefono più importante che hanno, non so se all'Eliseo ci siano i telefoni colorati come una volta alla Casa Bianca, ma è un dettaglio che ci possiamo anche inventare e non farà sembrare la storia meno verosimile. Insomma, dall'altra parte del filo c'è George W. Bush. Chirac quando prende in mano la cornetta si immagina già cosa il tizio più potente del mondo vorrebbe da lui: l'appoggio francese alla Coalizione dei Volenterosi. E tuttavia Bush riesce ugualmente a sorprenderlo. Le Président non riesce a capire di cosa stia parlando: non è un problema linguistico, c'è senz'altro un interprete in mezzo, ma i ragionamenti di Bush sono talmente sconnessi che farfuglia anche l'interprete. Ci sono due tizi, Gog e Magog, operativi in Medio Oriente... una profezia biblica si sta per compiere e una nuova era sta per giungere, et toute cette sorte de conneries. Chirac si mantiene sul vago, le faremo sapere, e poi chiama il suo staff: si può sapere chi sono questi Gog e Magog, e perché io non ne sapevo niente? Che figure mi fate fare in società?
Lo staff, invece di limitarsi a googlare, chiama un esperto di Scritture, Thomas Römer dell’università di Losanna. Di questa storia c’è la testimonianza di Chirac e quella di Römer, non la sto inventando io, non sono così bravo. Römer ridà una controllatina ai testi per essere sicuro di non essersi perso niente, e poi spiega: “Gog e Magog” è un modo di dire che compare una volta sola nell’Apocalisse di Giovanni, in un passo in cui gli eserciti della terra si stanno radunando per la battaglia finale (non è l’Armagheddon, è qualcosa di ancora più definitivo, mille anni dopo). Gog e Magog insomma vuol dire tutto e niente, è un po’ come Tizio e Caio, questo e quello, e patatì e patatà: insomma, se arrivano anche Gog e Magog vuol proprio dire che alla battaglia ci saranno tutti. Dietro c’è un riferimento ormai stereotipato e quasi irriconoscibile a Ezechiele 38, in cui si parla di un Gog re di Magog, che invaderà Israele da nord alla testa di una coalizione di maligni, per volontà di Dio, e da Dio stesso Magog sarà sbaragliato con pioggia scrosciante, pietre di ghiaccio, fuoco e zolfo
Seguono in Ezechiele 39 i dettagli su dove scavare una fossa comune grande come una città, perché di Magog non resterà un solo superstite: il profeta calcola che solo per seppellire i nemici gli ebrei ne avranno per sette mesi. “Cosí da quel giorno in poi la casa d’Israele riconoscerà che io sono l’Eterno”, un Eterno che quando c’è da distruggere non bada a spese, tanto poi a pulire c’è la casa d’Israele, ma vabbe’, dettagli. Chirac a questo punto ha un brivido: sul serio il presidente degli Stati Uniti mi ha chiamato per farmi un sermone apocalittico? Sul serio pensa che io, il punto di arrivo del più laico dei sistemi educativi, possa bermi una profezia escogitata quasi tre millenni fa? Oppure, il che è peggio, è in buona fede! cioè queste per lui non sono solo le chiacchiere che si dicono e si ascoltano per raccattare voti nella Bible Belt, ci crede veramente in Gog e Magog e compagnia bella? Devo insomma pensare, con la mia cultura laica e illuminista, che l’unica superpotenza mondiale è governata da un mattoide fanatico? E suo padre, il petroliere, lo sa? La Francia non entrò nella Coalizione dei volenterosi, questo lo sapete tutti. Ma ci resta il dubbio: quello di Bush fu il discorso sincero di un cristiano “born again”, o un semplice modo di dire mal calibrato? Magari Bush voleva soltanto parlare un po’ colorito, attingendo al suo vocabolario di riferimento, che nel suo caso è la Bibbia così come nel caso di Berlusconi è un libro illustrato di barzellette sconce.
Nel corso dei secoli “Gog e Magog” è diventato davvero un modo di dire per chi mastica un po’ di Bibbia, e forse se Chirac fosse provenuto dal sistema educativo italiano le tre sillabe non lo avrebbero trovato impreparato: di Gog e Magog parla Marco Polo, piazzandoli da qualche parte a nord nel suo planisfero immaginario. Di Gog e Magog parlano un po’ tutti gli apprendisti fantarcheologi del medioevo, tutti sicuri di avere trovato la chiave del mistero: sono i Romani, anzi no, sono i Barbari che invadono l’impero, più precisamente i Goti, no, meglio, gli Unni, ma perché non gli Ungari? Senz’altro Ezechiele aveva in mente gli Ungari… anche se, aspetta, anche questi Khazari… e i Tartari, massì, sono chiaramente i Tartari. Nel frattempo il folklore europeo li trasforma in due giganti; su Gog e Magog, popoli affamati che non osano oltrepassare il cancello eretto dal grande Alessandro, Giovanni Pascoli scrive uno dei suoi più suggestivi poemi conviviali. Insomma, uno studente italiano non dovrebbe avere scuse, noi la Bibbia la studiamo. O no?
Credo che dovremmo. La Bibbia è un libro sacro, che Dio l’abbia dettata o no. Non ha così importanza: se uno o più popoli si scelgono un libro sacro, quello diventa sacro per forza. Se contiene delle profezie, alcune si avvereranno. Non è solo statistica (in fondo, che ci vuole a immaginare un’invasione del nord da qui a un migliaio d’anni): un popolo che crede in una profezia prima o poi la fa avverare. Il problema con la Bibbia è che molte profezie finiscono con enormi fosse comuni, e anche al popolo di Dio viene pronosticato un futuro da becchini intensivi.
Per questo io, che non ho nessuna paura del calendario dei Maya, ogni volta che sento parlare del programma nucleare iraniano e degli eventuali raid israeliani ho un brivido: ci risiamo, penso, Gog e Magog…
Tra i loro alleati (38,5) “la Persia, l’Etiopia e Put”. La Persia, si sa, oggi si chiama Iran. L’Etiopia, è vero, sembra in tutt’altre faccende affaccendata, ma nei pressi c’è quel ribollente calderone che è il Sudan (e il Sud Sudan). Quanto a Put… meglio non pensare a come si chiama l’autocrate di un grande impero settentrionale che al momento è il migliore amico dei persiani moderni. La punizione di Dio, a base di pioggia zolfo e pietre di ghiaccio, ha tutta l’aria di un armamento non convenzionale. Lo so, sono solo coincidenze. Ma non ha importanza: quel che importa è che qualcuno le trovi verosimili, e che possa concretamente dare una mano al caso affinché la profezia di una battaglia apocalittica si autoavveri. Ma chi? Non gli ebrei, che l’Apocalisse di Giovanni non la leggono, e anche Ezechiele lo prendono con le molle. Viceversa, negli Stati Uniti, milioni di cristiani evangelici (bisognerebbe chiamarli evangelicali, ma è un nome così brutto) prendono il loro contenuto per oro colato. E votano.
Bush jr non fu il primo presidente a parlare di Gog & co.; trent’anni prima li aveva evocati Reagan: ovviamente lui pensava all’URSS. In seguito Iraq e Al Qaeda hanno avuto il loro momento; adesso tocca all’Iran. Gli evangelicali si dividono in tante congregazioni e credenze; alcuni aspettano il regno millenario di Gesù, per altri il regno è già finito e siamo alla battaglia finale; su una cosa però tutti concordano, ed è che la battaglia prevista da Giovanni (e da Ezechiele) potrà avere luogo soltanto se il popolo di Israele si fa trovare là; insomma, affinché il disegno di Dio si realizzi compiutamente, ci dev’essere uno Stato Ebraico e dev’essere attaccato da nord. Dopodiché, apocalisse per tutti, ebrei compresi – solo allora accetteranno che Gesù Cristo è il Messia, prima no. La sto raccontando come una barzelletta perché non vorrei annoiare nessuno, ma non c’è niente da scherzare: è un’interpretazione della Bibbia come tante, ma è anche la chiave di volta dell’alleanza tra cristiani fondamentalisti americani – il cuore dell’elettorato repubblicano – e sionisti israeliani. Giusto per sfatare il mito della lobby ebraica: no, negli USA milioni di appassionati sostenitori (e talvolta finanziatori) dello Stato di Israele sono cristiani, cristiani born again. Per loro c’è un motivo escatologico per cui Israele deve stare proprio là, non esattamente al riparo, anzi in balia degli invasori del nord. Il tutto alla luce del sole, perché tutto si può dire dei cristiani rinati salvo che facciano mistero dei loro piani.
Insomma, gli ebrei di Israele non hanno solo dei nemici che dichiarano di volerli eliminare dalla cartina geografica, ma anche dei simpaticissimi “amici” che li vogliono tenere lì a fare da esca escatologica per Gog e Magog, Saddam Hussein e Ahmadinejad e tutti gli altri mostri della fine del mondo: e tutto questo magari perché una notte di duemilaseicento anni fa sant’Ezechiele profeta aveva mangiato un po’ pesante. E questa è la nostra storia, la storia dei nostri giorni e dei prossimi futuri. Voi direte che no, la nostra storia è fatta di altro: di democrazia e totalitarismo, denaro e materie prime, gasdotti e oleodotti, e che tutto questo è molto più importante delle profezie di Ezechiele. Ecco, mi piacerebbe darvi ragione, perché se è una questione di soldi e di petrolio, in un qualche modo ci si può mettere d’accordo. Ma se c’entra anche la Bibbia, se c’è gente importante che ci crede davvero e non fa finta, beh, per sapere come va a finire basta leggere Ezechiele 39:
[2012]. I profeti biblici più familiari ai bambini della mia generazione erano Zaccaria ed Ezechiele. Zaccaria era il nome di un cono pralinato, la risposta Algida al Blob Toseroni; Ezechiele, beh, era Ezechiele Lupo, quello che dava la caccia ai porcellini nelle storie centrali di Topolino. Il motivo per cui il Big Bad Wolf del più fortunato cortometraggio di Walt Disney a un certo punto sia stato ribattezzato "Zeke" in inglese ed "Ezechiele" in italiano non è tuttora stato chiarito, e il sospetto che c'entri un qualche pregiudizio antisemita non è mai scomparso del tutto. Senz'altro nella sua prima apparizione cinematografica il Lupo Cattivo si travestiva anche da venditore ambulante di spazzole affettando un accento yiddish: e sappiamo che il riferimento era già considerato offensivo nel dopoguerra, quando la Disney portò in tv una versione autocensurata del cortometraggio.
(Però c'è anche chi sostiene che la versione originale sia quella a destra, e che la maschera col nasone sia un'aggiunta successiva: la Disney non ha nessun interesse a chiarire la situazione).
Per Laurence Olivier il personaggio disneyano era ispirato a un suo Riccardo III, e in quest'ultimo Olivier aveva voluto ritrarre un produttore teatrale che detestava, Jed Harris, nato a Vienna da famiglia di origini ebraiche come Jacob Hirsch Horowitz. Potremmo persino sforzarci di cercare nella ferinità del personaggio e nella sua determinazione a cucinare i grassi e rosei porcellini qualche traccia delle più nere leggende medievali sugli infanticidi rituali degli ebrei. Però per quanto grassi e rosei sono pur sempre porcellini; se Ezechiele Lupo fosse anche solo una caricatura di ebreo, non dovrebbe andarne così ghiotto. Del resto i nomi biblici negli USA erano condivisi da ebrei e protestanti, e forse Ezechiele è più popolare presso questi ultimi. Non il lupo, dico: proprio il profeta.
C'è poco da scherzare, con Ezechiele Profeta. Stiamo parlando di uno degli scrittori più influenti della storia. Ebrei, musulmani e cristiani di tutte le confessioni lo venerano come uomo di Dio; persino gli ufologi lo apprezzano molto per quella pagina in cui si ritrova al cospetto della gloria divina su una specie di carro alato che è la cosa più simile a un'astronave aliena che sia possibile trovare nella Bibbia; non solo, ma persino il processo di pace in Medio Oriente (e quindi nel mondo intero) dipende non in minima parte dall'interpretazione di alcuni suoi versetti oscuri - non sto scherzando, e non è il solito complotto rettiliano, è tutto alla luce del sole purtroppo.
È curioso, ma non del tutto inappropriato, che a tanta fama Ezechiele sia arrivato senza essere un grande scrittore: lo schiaccia soprattutto il confronto con gli altri due profeti maggiori della Bibbia, Isaia e Geremia, che lo precedono nel canone biblico. A Ezechiele manca l'afflato lirico del primo, e il pathos rancoroso del secondo; ma forse è proprio per compensare le sue carenze stilistiche che è costretto lavorare con gli effetti speciali, inventando un nuovo stile visionario e teatrale a base di mostri, oggetti volanti, battaglie titaniche, morti che risuscitano... già qualche esegeta ebreo storceva il naso, considerandolo un contadino al cospetto del nobile Isaia, eppure le sue allucinazioni avranno un enorme successo. Postumo, ovviamente, perché i grandi profeti biblici in vita sono quasi sempre inascoltati e sbeffeggiati. Nemmeno l'aver azzeccato la caduta di Gerusalemme e la deportazione nella Babilonia di Nabucodonosor II gli guadagnerà la stima dei contemporanei. Con Ezechiele però comincia la letteratura apocalittica, quella che descrive un futuro imminente o remoto a base di visioni allegoriche e oscure. Alle sue macchine volanti e alle sue battaglie finali si ispireranno gli autori del Libro di Daniele e dell'Apocalisse di San Giovanni. Ma il contributo di Ezechiele alla storia del mondo non si conclude certo lì.
Siamo nei primi mesi del 2003. L'invasione angloamericana dell'Iraq è ormai data per certa: si tratta soltanto di definire i dettagli, capire chi abbia voglia di dare una mano (Berlusconi, in quel momento, pochissima). Jacques Chirac è all'Eliseo che sbriga le sue faccende quando gli passano il telefono più importante che hanno, non so se all'Eliseo ci siano i telefoni colorati come una volta alla Casa Bianca, ma è un dettaglio che ci possiamo anche inventare e non farà sembrare la storia meno verosimile. Insomma, dall'altra parte del filo c'è George W. Bush. Chirac quando prende in mano la cornetta si immagina già cosa il tizio più potente del mondo vorrebbe da lui: l'appoggio francese alla Coalizione dei Volenterosi. E tuttavia Bush riesce ugualmente a sorprenderlo. Le Président non riesce a capire di cosa stia parlando: non è un problema linguistico, c'è senz'altro un interprete in mezzo, ma i ragionamenti di Bush sono talmente sconnessi che farfuglia anche l'interprete. Ci sono due tizi, Gog e Magog, operativi in Medio Oriente... una profezia biblica si sta per compiere e una nuova era sta per giungere, et toute cette sorte de conneries. Chirac si mantiene sul vago, le faremo sapere, e poi chiama il suo staff: si può sapere chi sono questi Gog e Magog, e perché io non ne sapevo niente? Che figure mi fate fare in società?
Lo staff, invece di limitarsi a googlare, chiama un esperto di Scritture, Thomas Römer dell’università di Losanna. Di questa storia c’è la testimonianza di Chirac e quella di Römer, non la sto inventando io, non sono così bravo. Römer ridà una controllatina ai testi per essere sicuro di non essersi perso niente, e poi spiega: “Gog e Magog” è un modo di dire che compare una volta sola nell’Apocalisse di Giovanni, in un passo in cui gli eserciti della terra si stanno radunando per la battaglia finale (non è l’Armagheddon, è qualcosa di ancora più definitivo, mille anni dopo). Gog e Magog insomma vuol dire tutto e niente, è un po’ come Tizio e Caio, questo e quello, e patatì e patatà: insomma, se arrivano anche Gog e Magog vuol proprio dire che alla battaglia ci saranno tutti. Dietro c’è un riferimento ormai stereotipato e quasi irriconoscibile a Ezechiele 38, in cui si parla di un Gog re di Magog, che invaderà Israele da nord alla testa di una coalizione di maligni, per volontà di Dio, e da Dio stesso Magog sarà sbaragliato con pioggia scrosciante, pietre di ghiaccio, fuoco e zolfo
Così mi magnificherò e mi santificherò e mi farò conoscere agli occhi di molte nazioni, e riconosceranno che io sono l’Eterno».
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Dis donc mais tu rigoles, n'est-ce pas? |
Nel corso dei secoli “Gog e Magog” è diventato davvero un modo di dire per chi mastica un po’ di Bibbia, e forse se Chirac fosse provenuto dal sistema educativo italiano le tre sillabe non lo avrebbero trovato impreparato: di Gog e Magog parla Marco Polo, piazzandoli da qualche parte a nord nel suo planisfero immaginario. Di Gog e Magog parlano un po’ tutti gli apprendisti fantarcheologi del medioevo, tutti sicuri di avere trovato la chiave del mistero: sono i Romani, anzi no, sono i Barbari che invadono l’impero, più precisamente i Goti, no, meglio, gli Unni, ma perché non gli Ungari? Senz’altro Ezechiele aveva in mente gli Ungari… anche se, aspetta, anche questi Khazari… e i Tartari, massì, sono chiaramente i Tartari. Nel frattempo il folklore europeo li trasforma in due giganti; su Gog e Magog, popoli affamati che non osano oltrepassare il cancello eretto dal grande Alessandro, Giovanni Pascoli scrive uno dei suoi più suggestivi poemi conviviali. Insomma, uno studente italiano non dovrebbe avere scuse, noi la Bibbia la studiamo. O no?
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Anche di carte come queste, su google images ce n'è un fottio. Ognuno è il Gog e Magog di qualcun altro. |
Per questo io, che non ho nessuna paura del calendario dei Maya, ogni volta che sento parlare del programma nucleare iraniano e degli eventuali raid israeliani ho un brivido: ci risiamo, penso, Gog e Magog…
Tra i loro alleati (38,5) “la Persia, l’Etiopia e Put”. La Persia, si sa, oggi si chiama Iran. L’Etiopia, è vero, sembra in tutt’altre faccende affaccendata, ma nei pressi c’è quel ribollente calderone che è il Sudan (e il Sud Sudan). Quanto a Put… meglio non pensare a come si chiama l’autocrate di un grande impero settentrionale che al momento è il migliore amico dei persiani moderni. La punizione di Dio, a base di pioggia zolfo e pietre di ghiaccio, ha tutta l’aria di un armamento non convenzionale. Lo so, sono solo coincidenze. Ma non ha importanza: quel che importa è che qualcuno le trovi verosimili, e che possa concretamente dare una mano al caso affinché la profezia di una battaglia apocalittica si autoavveri. Ma chi? Non gli ebrei, che l’Apocalisse di Giovanni non la leggono, e anche Ezechiele lo prendono con le molle. Viceversa, negli Stati Uniti, milioni di cristiani evangelici (bisognerebbe chiamarli evangelicali, ma è un nome così brutto) prendono il loro contenuto per oro colato. E votano.
Bush jr non fu il primo presidente a parlare di Gog & co.; trent’anni prima li aveva evocati Reagan: ovviamente lui pensava all’URSS. In seguito Iraq e Al Qaeda hanno avuto il loro momento; adesso tocca all’Iran. Gli evangelicali si dividono in tante congregazioni e credenze; alcuni aspettano il regno millenario di Gesù, per altri il regno è già finito e siamo alla battaglia finale; su una cosa però tutti concordano, ed è che la battaglia prevista da Giovanni (e da Ezechiele) potrà avere luogo soltanto se il popolo di Israele si fa trovare là; insomma, affinché il disegno di Dio si realizzi compiutamente, ci dev’essere uno Stato Ebraico e dev’essere attaccato da nord. Dopodiché, apocalisse per tutti, ebrei compresi – solo allora accetteranno che Gesù Cristo è il Messia, prima no. La sto raccontando come una barzelletta perché non vorrei annoiare nessuno, ma non c’è niente da scherzare: è un’interpretazione della Bibbia come tante, ma è anche la chiave di volta dell’alleanza tra cristiani fondamentalisti americani – il cuore dell’elettorato repubblicano – e sionisti israeliani. Giusto per sfatare il mito della lobby ebraica: no, negli USA milioni di appassionati sostenitori (e talvolta finanziatori) dello Stato di Israele sono cristiani, cristiani born again. Per loro c’è un motivo escatologico per cui Israele deve stare proprio là, non esattamente al riparo, anzi in balia degli invasori del nord. Il tutto alla luce del sole, perché tutto si può dire dei cristiani rinati salvo che facciano mistero dei loro piani.
Insomma, gli ebrei di Israele non hanno solo dei nemici che dichiarano di volerli eliminare dalla cartina geografica, ma anche dei simpaticissimi “amici” che li vogliono tenere lì a fare da esca escatologica per Gog e Magog, Saddam Hussein e Ahmadinejad e tutti gli altri mostri della fine del mondo: e tutto questo magari perché una notte di duemilaseicento anni fa sant’Ezechiele profeta aveva mangiato un po’ pesante. E questa è la nostra storia, la storia dei nostri giorni e dei prossimi futuri. Voi direte che no, la nostra storia è fatta di altro: di democrazia e totalitarismo, denaro e materie prime, gasdotti e oleodotti, e che tutto questo è molto più importante delle profezie di Ezechiele. Ecco, mi piacerebbe darvi ragione, perché se è una questione di soldi e di petrolio, in un qualche modo ci si può mettere d’accordo. Ma se c’entra anche la Bibbia, se c’è gente importante che ci crede davvero e non fa finta, beh, per sapere come va a finire basta leggere Ezechiele 39:
«In quel giorno avverrà che darò a Gog, là in Israele un luogo per sepoltura, la valle di Abarim, a est del mare; essa ostruirà il passaggio ai viandanti, perché là sarà sepolto Gog con tutta la sua moltitudine; e quel luogo sarà chiamato la Valle di Hammon-Gog.
La casa d’Israele, per purificare il paese, impiegherà ben sette mesi a seppellirli.
Li seppellirà tutto il popolo del paese, ed essi acquisteranno fama il giorno in cui mi glorificherò», dice il Signore, l’Eterno...
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La Salle vuole te
07-04-2019, 02:01dialoghi, Il Post, racconti, santi, scuolaPermalink7 aprile – San Giovanni Battista della Salle (1651-1719), patrono degli insegnanti, che ne hanno bisogno
Anche in paradiso non è che uno possa sempre fare quel che vuole, bisogna scendere a compromessi. Giovan Battista della Salle, per esempio, non è che abbia mai richiesto la sua postazione al Collocamento. Ma i colloqui qualcuno deve pur saperli fare e almeno è un bell'ufficio, grandi finestre sull'orto di San Foca. Con un po' di fortuna di prima mattina puoi vedere quel vecchio gentile innaffiare gli oleandri con una brocca di legno antico quanto lui, mentre ascolti l'ennesimo tizio che vorrebbe fare lo scrittore.
"Lo scrittore! Che bella idea!"
"È più che un'idea, praticamente è tutta la mia vita. Sa io ho già pubblicato una raccolta di racconti per Busillis e inoltre..."
"Quindi le piace leggere".
"Leggere, beh, sì, senz'altro, ma soprattutto..."
"Farsi leggere dagli altri".
"In che senso, scusi".
"Ma niente riflettevo a voce alta... secondo lei ogni quanti lettori dovrebbe fiorire uno scrittore interessante?"
"Non sono sicuro di aver capito".
"Cercherò di spiegarmi meglio. Lei è uno scrittore, quindi le serviranno dei lettori. A ogni scrittore servono lettori. Secondo lei qual è il rapporto ottimale tra scrittori e lettori? Uno su cento?"
"Non saprei".
"Spari un numero".
"Teniamo conto che i lettori possono leggere migliaia di libri, e quindi... cioè il rapporto potrebbe anche essere uno a uno: tutti scrivono, tutti leggono".
"È vero, potrebbe anche essere così".
"Ma non è così, vero?"
"No, neanche un po'".
"Uno su cinquanta?"
"Eh, è ottimista lei".
"Ma si sa il numero preciso?"
"Abbiamo stime abbastanza precise ormai, sa, abbiamo avuto moltissimo tempo a disposizione per elaborarle".
"Ed è?"
"Premesso che negli ultimi secoli è sceso di molto, ma per ora sta intorno a millesettecentotrentanove virgola sei periodico".
"Ah".
"Quindi lei, insomma, capisce il problema".
"No, ancora no".
"Ha ragione, le manca un altro dato importante. Quest'anno mi sono arrivati quassù già centocinquantamila scrittori, gente brava eh? E non sto dicendo che non sia bravo anche lei, ma per dare un posto a tutti ci servirebbero..."
"150.000x1739,6=..."
"Ottocentosessantanove milioni di lettori".
"E non li avete?"
"Per adesso no".
"Ma forse in seguito aumenteranno".
"Ma certo, è quel che speriamo tutti, ma potrebbero anche aumentare gli aspiranti scrittori, mi capisce?"
"Mi sta dicendo che non potrò fare quel che ho sempre desiderato di fare?"
"Ma no, no, perché. Siamo nel migliore dei mondi possibili, prima o poi una soluzione la troviamo. E comunque noi abbiamo un grande bisogno di gente come lei".
"Ma se mi ha appena fatto capire che sono inutile".
"No, no, non volevo, mi perdoni se le ho suggerito questa idea, mi creda. Non è affatto inutile".
"E che tutte le mie aspirazioni erano malriposte".
"Niente di più sbagliato. Le sue aspirazioni erano preziose. Lei è prezioso. Abbiamo tutto il posto che vuole per le persone come lei".
"In che senso?"
"E non c'è nemmeno da fare anticamera. Se accetta questo incarico può cominciare anche domattina, è una scuola molto simpatica vicina alla rosticceria di San Lorenzo..."
"Una scuola? Dovrei lavorare nella scuola?"
"È una zona molto verde, si troverà bene".
"Mi dispiace io non... non credo di essere adatto. A me piace scrivere".
"Meraviglioso, quindi insegnerà agli altri".
"Io non... non credo di essere capace".
"Ha paura di crescere allievi più bravi di lei? In effetti è un rischio. Ma non si preoccupi, non deve insegnare a scrivere. È sufficiente che insegni a leggere".
"Non è davvero quello che mi aspettavo".
"Rifletta. Se ogni 1739 lettori fiorisce uno scrittore, lei non ha che da insegnare a leggere a 1739 anime e..."
"Posso essere sincero?"
"Deve".
"Non credo che sarei un bravo insegnante. Mi sentirei frustrato, incompleto, e sfogherei la mia frustrazione sugli studenti. Non solo non sarebbe paradiso per me, ma per loro sarebbe un inferno".
"Un inferno, ehi, ehi, che parole. Guardi che a scuola ci si diverte anche. È chiaro, a volte è faticoso. Dovrebbe leggere i temi".
"No i temi no".
"Mentre a lei piace scriverli".
"Non c'è davvero niente'altro che io possa fare?"
"Per adesso no, al massimo la posso mettere in lista per il reddito di beatitudine. Sono due spicci però, è sicuro di non volerci ripensare?"
"I temi no".
"Io comunque sono qui, se cambia idea..."

A metà mattina passa san Fiacrio a curare le siepi di rose, che hanno le spine anche nel Paradiso perché, perché, misteriosi disegni di Dio. San Cristoforo sta portando a pisciare San Guinefort. Qualcuno in un ufficio di fianco ha portato il caffè e Gianbattista ne assapora il profumo denso, anche se sta cercando di smettere, mentre risponde a un signore che ha le idee molto chiare.
"Insomma, teatro".
"Sono nato per farlo".
"Meraviglioso".
"E se non lo faccio muoio. Ora lei mi troverà ridicolo, ma..."
"Ridicolo, e perché?"
"Chissà quanti le hanno già detto la stessa cosa".
"Tre milioni e qualcosa, ma che vuol dire?"
"Sul serio?"
"Non lo so, dopo i tre milioni ho smesso di contare, è stato qualche anno fa, comunque il trend è costante dall'Ottocento".
"Quindi sta per dirmi che non c'è pubblico per tutti quelli che vogliono fare teatro".
"E perché? Siamo in paradiso, c'è pubblico per tutti".
"Davvero?"
"Certo, bisognerà modificare un poco il repertorio".
"Il repertorio non è un problema".
"Allora posti ce n'è finché ne vuole".
"Sul serio?"
"Però la devo avvertire: può essere un lavoro molto faticoso, sfibrante".
"Oh lo so".
"Magari non lo sa ancora del tutto".
"Quando posso cominciare?"
"Domattina, presso l'Istituto Don Bosco in via..."
"Ma... ma è una scuola".
"Ha anche un giardino meraviglioso".
"È uno scherzo? Io ho chiesto di fare teatro".
"Le garantisco che ne farà tutti i giorni".
"No".
"Quattro o cinque ore al giorno, per il pubblico più esigente".
"Non è quello che mi aspettavo".
"Potrà improvvisare e declamare a memoria. Piangerà, farà piangere. Riderà, farà ridere. Tutto quello che succede a teatro, tranne forse..."
"Gli applausi?"
"Eh, applausi in effetti pochissimi. Ma sono così importanti? È quello che veramente cercava nel teatro?"
"La prego, niente prediche, io..."
"Il teatro è dedizione, è sacrificio, è disciplina, gli applausi sono un contentino per i filodrammatici. Il vero attore agonizza nel silenzio, o peggio ancora, nel frastuono che segue la campanella".
"Io li odio gli studenti. Sono il pubblico peggiore".
"Sono solo i più esigenti".
"Non riuscirei nemmeno a farli tacere".
"Allora forse non è un grande attore".
"Davvero?"
"Mi perdoni, mi è sfuggita".
"È quello che pensa di me?"
"È quel che penso in generale. Insegna chi ha le palle, firmato de la Salle".
"Non fa ridere".
"No, in effetti no".
"Sta cercando di provocarmi?"
"Io?"
"Lei vorrebbe che io le rispondessi vaffanculo, le faccio vedere io chi ha le palle qui, lei vorrebbe che io firmassi per finire domattina a declamare Shakespeare in un inferno di bambini ridacchianti finché non si arrendono loro a Shakespeare o io alla mia mediocrità".
"Non deve sottovalutare Shakespeare".
"Senta ma quella cosa che diceva il tizio che è uscito prima... il reddito di santità..."
"Di beatitudine".
"È una cosa seria?"
"No, non tanto".
"Insomma non c'è alternativa".
"Un'alternativa a passare l'eternità a far conoscere Shakespeare ai ragazzi? Pensando che ogni volta sarà la prima volta? Un'eternità di Giuliette al balcone? Davvero ha bisogno di un'alternativa a questo?"
"Mi ci faccia pensare".
"Ma certo. Io comunque resto qui".

A pranzo gli piacerebbe sedersi sulla panchina sotto agli aceri ad ammirare il foliage, ma è da milletrecento anni che ci siede San Simeone Stilita, e non si schioda. Anche per questo ha chiesto di fare orario continuato, e il primo pomeriggio mentre digerisce un sandwich del distributore automatico di solito passano quelli più strani, quelli che per esempio vogliono combattere il Male.
"Il Male? Ma ha studiato medicina per caso?"
"No no, io intendo un Male più nel senso morale del termine".
"Ma certo, mi scusi, che sciocco. E in che modo lo vorrebbe combattere?"
"L'ideale sarebbe sparare, ma mi rendo conto che..."
"Sparare! Ma siamo in paradiso".
"Lo so, ma..."
"Non ha mai pensato che si potrebbe far male qualcuno?"
"È... è un po' il senso della cosa".
"Far soffrire i malvagi".
"Detta così suona molto stupida, ma io..."
"Lei sente che è questa la sua missione".
"Io senso che se non mi si darà qualcosa di nobile per cui lottare, o anche solo qualcosa di spregevole da combattere, finirò comunque per combattere, ma per delle sciocchezze. Perché sono fatto così e non credo di poter farci niente".
"Dovrebbe combattere contro sé stesso".
"E perderei".
"La ringrazio per la franchezza".
"Non dovrei nemmeno essere qui, vero?"
"E perché mai? Lei è una persona onesta, con un forte senso morale, che chiede di poter lottare..."
"A volte mi domando se la morale non sia solo un pretesto. La verità è che mi piace combattere, e ovviamente vorrei sentirmi dalla parte dei buoni. Sulla Terra era molto facile fregare quelli come noi. Ci davano in mano un'arma, ci additavano i malvagi e..."
"Buffo, le stavo per proporre la stessa cosa".
"In che senso?"
"Nel senso che si dà il caso che io abbia un sacco di malvagi da sconfiggere e sarei molto lieto di additarglieli. Ho anche qualche arma da fornire... certo non esplosivi, ma..."
"Sul serio?"
"Sì, anche in paradiso esistono le guerre sante. Ciò la stupisce?"
"Di solito c'è sempre la fregatura".
"Qui no. Mi basta una firma qui e domattina può andare a combattere l'analfabetismo e la superstizione presso l'istituto Sant'Ignazio che dà sui giardini del..."
"No no no. Lei sta proponendo una scuola anche a me".
"La trovo adattissima all'incarico".
"Io sono una persona semplice, per me esiste il bianco e il nero, non capisco le sfumature".
"C'è bisogno anche di quelli come lei".
"Senta, piuttosto mi dia anche solo uno scudo, un bastone, mi dica di difendere una città fortificata da ventimila infedeli, ma in una classe preferirei non entrarci più".
"Ha già esperienze di insegnamento?"
"Ho fatto una supplenza, una volta".
"Ha fatto una supplenza, e poi la guerra".
"Già".
"E preferirebbe tornare in guerra".
"La trovo più semplice. Si vince, si perde".
"Anche a scuola, no?"
"No, a scuola si perde soltanto. Tutti i giorni".
"A volte si vince pure".
"Non mi ricordo che sia mai successo".
"Eh, in effetti si scopre molto tempo dopo, e il più delle volte non ti mandano nemmeno un telegramma".
"Ma nel frattempo dovrei ritrovarmi in trincea tutti i giorni, davanti alla sconfitta tutti i giorni, non ce la posso fare".
"Ma in guerra non è la stessa cosa? Mi scusi: qual è la vera differenza? Perché l'unica che mi viene in mente... è che la guerra dopo un po' finisce".
"Già".
"Mentre la scuola riapre tutti i giorni".
"Mi dia un bastone piuttosto, davvero".
"Quindi insomma lei è pronto a combattere il Male... purché la lotta sia breve".
"Se vuole metterla così".
"Potrei metterla in un altro modo: dove ha messo le palle?"
"Eh".
"Mi ha capito bene. Lei viene da me poco dopo mezzogiorno, con tutti i suoi propositi eroici, il suo alto senso della moralità, e io ho qui pronta per lei l'unica guerra che valga la pena di essere combattuta, giorno per giorno, metro per metro, e lei si sgonfia così? Sul serio: dove le ha messe?"
"Lei... lei non dovrebbe parlare così".
"Io parlo come voglio e posso, soldato! Sull'attenti!"
"Sissignore".
"Ha letto qua fuori: ufficio smidollati?"
"Nossignore".
"Crede che io abbia da perdere il mio prezioso tempo con gli smidollati?"
"Nossignore".
"Tutte le mattine alle sette e mezza il Sant'Ignazio apre i cancelli. È in un brutto quartiere, gli studenti puzzano e non sanno stare seduti e c'è una cattedra vacante. Hanno bisogno di un docente con le palle, purtroppo oggi non ne ho ancora visto uno. Può sempre andare lei, se entro domattina le ritrova. Nel frattempo si tolga dalle mie".
"Grazie, signore. Mi scusi signore. Arrivederci, signore".

Verso le cinque del pomeriggio l'idea limpida di una birra cruda si insinua dietro la fronte di Giovanni Battista della Salle. Gli piacerebbe berla sotto il pergolato, prima di cena, qualche volta ha anche ceduto alla tentazione. Ma stasera ha ancora un colloquio, con uno che non ha sbocchi, dice lui, perché è un... un filosofo? Addirittura?
"Indirizzo sociologico. Mi sta già disprezzando, vero?"
"E perché mai? Di tutti c'è bisogno. Mi faccia controllare..."
"Non c'è bisogno di fingere con me".
"Non sto fingendo. Sto davvero controllando una lista, vede? Dunque..."
"Ma sappiamo benissimo entrambi come va a finire".
"C'è posto anche qui dietro, alle figlie dell'Immacolata".
"È una scuola".
"Con un magnifico giardino".
"Me lo avevano pur detto. Lei ci fa parlare ma alla fine, qualsiasi cosa diciamo, lei ci manda tutti a scuola".
"No, non tutti".
"Non tutti?"
"Capitasse un idraulico, ne abbiamo una necessità disperata. Ma ne arrivano pochi".
"Come sulla Terra".
"No, no, molti meno, ah ah".
"E mi avevano anche detto questo, che le sue battute erano terribili".
"Sì, beh, servono più a rompere il ghiaccio... lei è sociologo, capirà benissimo..."
"Fin troppo. Dunque lei è San Giovanni de la Salle, l'inventore della scuola dei poveri".
"Dicono questo di me? Pazzesco".
"Cosa c'è di pazzesco? Ha ispirato i regolamenti di dodici congregazioni, ha lottato per la scuola gratuita, ha praticamente inventato le classi elementari..."
"Ma scusi, la scuola esisteva già, i poveri pure, bastava fare entrare i secondi nella prima, non è che ci volesse un genio".
"E secoli dopo è ancora qui. Tutti quelli che capitano nel suo ufficio, lei li fa parlare un po' e poi li manda a scuola".
"Che ci posso fare se lì c'è un sacco di posto?"
"Ma ci sono davvero tutte queste scuole in paradiso?"
"Perché non dovrebbero esserci? ci sono molti bambini. E sa quanti buoni maestri servono a crescere un uomo?"
"Abbiamo il numero?"
"Mediamente una dozzina. Si rende conto? E qui arriva sempre più gente. Il lavoro non mancherà mai, nelle scuole".
"Ma non è il lavoro che uno si aspetta di fare, quando arriva qui".
"Lo so, e questo mi tormenta. Ma insomma l'umanità è così. Vorrebbero tutti fare gli scrittori, e nessuno vuole insegnare a leggere la gente. Tutti attori, tutti condottieri, tutti vorrebbero un pubblico, ma Dio non ci ha creati così".
"Ci ha destinati al dolore, a quanto pare".
"Non saprei. Ognuno vede il proprio dolore, ma Dio non ci ha creati uno alla volta. Ci ha creato tutti assieme, in un solo grande giardino. Un po' di sofferenza forse è necessaria, come le spine alla rosa".
"E insomma questo suo Dio ci avrebbe creato comparse, ma con manie di protagonismo".
"Immagino che queste manie, come le chiama, siano necessarie a farci combinare qualcosa di interessante".
"Ma non è onnipotente? Non avrebbe potuto creare un mondo senza dolore, senza comparse, senza frustrazioni?"
"Magari lo ha fatto, poi lo ha trovato noioso e ne ha creato un altro. Lo sa che è inutile farsi queste domande, vero?"
"Senta, io non sono molto d'accordo con questa cosa. Se potessi, non so... fare domanda per il Nirvana..."
"Il Nirvana, buon dio, ma lo sa che non c'è proprio niente laggiù?"
"Lo preferisco a tutto questo. Il giardino a cui invidia i profumi e i colori, io lo guardo più da vicino e lo scopro popolato da insetti che si divorano, organismi animati dalla paura e dalla fame. Siamo uno spettacolo doloroso, congegnato da un Dio indifferente o crudele. Vorrei alienarmi da tutto questo. Posso?"
"Non lo so, ma se lo lasci dire, lei parla davvero bene".
"E adesso crede di raggirarmi coi complimenti".
"Ha mai pensato di diffondere il suo pensiero? Credo che potrebbe fare molti, come si dice, seguaci. Potrebbe perfino creare una, una..."
"Sta cercando un sinonimo per scuola?"
"Ops, sì".
"Ma lo capisce che non sono tutti come lei? Non sono tutti pervasi dal sacro fuoco dell'insegnamento?"
"Ma io non sono pervaso da nessun sacro fuoco, io anzi avrei voglia di bermi una birra guardi, io..."
"Lo sa perché sono venuto qui? Potevo anche rifiutarmi, ma alla fine la curiosità mi ha vinto".
"Era curioso di me?"
"Di una sola cosa che non riesco a capire. Lei passa l'eternità qui, in questo ufficio, a convincere povere anime ad andare a scuola. Ma perché non c'è andato lei?"
"Ah, buona domanda, davvero buona".
"Se è davvero il lavoro più interessante, il più nobile, il più eroico, perché non l'hanno voluta?"
"Onestamente non lo so".
"Non lo sa?"
"La cosa mi imbarazza anche un po', ma dunque, è andata così. Mi hanno mandato proprio in questo ufficio, ovviamente c'era un altro seduto al mio posto, e ho cominciato a spiegare, dunque mi chiamo Giovanni Battista de la Salle, ho fondato alcuni istituti scolastici, blablablà, insomma il tizio mi ha offerto di prendere il suo posto, e mi è sembrato inelegante dir di no".
"E non gli ha offerto una cattedra?"
"Buffo, no".
"Ma poteva pur chiedere un trasferimento".
"Ah sì, l'ho chiesto quasi subito. Non che mi dispiaccia il posto, si sta bene, però..."
"E perché non l'ha ottenuto? Lo dice anche lei che c'è sempre posto, a scuola".
"Ecco, io non ho chiesto di andare a scuola".
"No?"
"No. Per carità se mi ci mandassero, ok, ma se devo essere sincero non è che abbia tutta questa voglia di tornare laggiù. È un mestiere faticoso, sfibrante".
"E quindi... dove ha chiesto di essere trasferito?"
"Ah, proprio qui di fianco".
"Qui di fianco?"
"Questo bel giardino, vede? Ma è complicato, c'è una lunga fila, è una posizione molto ambita..."
"Non vedo niente, ormai si è fatta sera".
"Già. Io direi che per oggi basta così, magari continuiamo un'altra volta. O per caso ha voglia di bersi una birra?"
"Una birra?"
"A quest'ora Brigida ha appena aperto, i fusti sono freddissimi, ci mettiamo nel pergolato, non dovrebbe ancora esserci molta gente".
"Non pensavo che bevesse".
"Ufficialmente no".
"Lei è un personaggio simpatico, alla fine".
"Grazie, confesso che fa piacere un complimento ogni tanto".
"E gli applausi?"
"Quelli sono adatti ai ragazzini, alla mia età li trovo quasi sconci. Lei no?"
"Sono convinto che sarebbe un ottimo insegnante".
"Ah ah ah, me lo dicono tutti, ma non esistono gli ottimi insegnanti".
"No?"
"Forse il martedì. Qualcuno anche al mercoledì. Ma se cerchi di essere un ottimo insegnante al giovedì, al venerdì sei in burnout. Io ho bisogno di insegnanti mediocri, che mi arrivino al sabato ancora in piedi".
"E pensa che io potrei essere un insegnante abbastanza mediocre?"
"Ma certo. C'è un mediocre in ciascuno di noi, se siamo abbastanza umili da cercarlo".
"Beviamoci questa birra, offro io".
"Allora dovrò offrire la seconda".
"E poi ci sarà una terza, una quarta..."
"...ma no".
"Finché non mi sveglierò nella toilette di Brigida con un cerchio alla testa e un contratto firmato per cent'anni di cattedra al Sant'Ignazio".
"Ahah, non farei mai una cosa del genere".
"No?"
"Non sono mica un reclutatore dell'esercito".
"No?"
Giovanni Battista de La Salle è il patrono degli insegnanti, che ne hanno bisogno, così come la scuola ha bisogno di insegnanti, e il mondo di scuole: perlomeno questo mondo è andato così, il prossimo vedremo.
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Se non sai le cose, SALLE |
"Lo scrittore! Che bella idea!"
"È più che un'idea, praticamente è tutta la mia vita. Sa io ho già pubblicato una raccolta di racconti per Busillis e inoltre..."
"Quindi le piace leggere".
"Leggere, beh, sì, senz'altro, ma soprattutto..."
"Farsi leggere dagli altri".
"In che senso, scusi".
"Ma niente riflettevo a voce alta... secondo lei ogni quanti lettori dovrebbe fiorire uno scrittore interessante?"
"Non sono sicuro di aver capito".
"Cercherò di spiegarmi meglio. Lei è uno scrittore, quindi le serviranno dei lettori. A ogni scrittore servono lettori. Secondo lei qual è il rapporto ottimale tra scrittori e lettori? Uno su cento?"
"Non saprei".
"Spari un numero".
"Teniamo conto che i lettori possono leggere migliaia di libri, e quindi... cioè il rapporto potrebbe anche essere uno a uno: tutti scrivono, tutti leggono".
"È vero, potrebbe anche essere così".
"Ma non è così, vero?"
"No, neanche un po'".
"Uno su cinquanta?"
"Eh, è ottimista lei".
"Ma si sa il numero preciso?"
"Abbiamo stime abbastanza precise ormai, sa, abbiamo avuto moltissimo tempo a disposizione per elaborarle".
"Ed è?"
"Premesso che negli ultimi secoli è sceso di molto, ma per ora sta intorno a millesettecentotrentanove virgola sei periodico".
"Ah".
"Quindi lei, insomma, capisce il problema".
"No, ancora no".
"Ha ragione, le manca un altro dato importante. Quest'anno mi sono arrivati quassù già centocinquantamila scrittori, gente brava eh? E non sto dicendo che non sia bravo anche lei, ma per dare un posto a tutti ci servirebbero..."
"150.000x1739,6=..."
"Ottocentosessantanove milioni di lettori".
"E non li avete?"
"Per adesso no".
"Ma forse in seguito aumenteranno".
"Ma certo, è quel che speriamo tutti, ma potrebbero anche aumentare gli aspiranti scrittori, mi capisce?"
"Mi sta dicendo che non potrò fare quel che ho sempre desiderato di fare?"
"Ma no, no, perché. Siamo nel migliore dei mondi possibili, prima o poi una soluzione la troviamo. E comunque noi abbiamo un grande bisogno di gente come lei".
"Ma se mi ha appena fatto capire che sono inutile".
"No, no, non volevo, mi perdoni se le ho suggerito questa idea, mi creda. Non è affatto inutile".
"E che tutte le mie aspirazioni erano malriposte".
"Niente di più sbagliato. Le sue aspirazioni erano preziose. Lei è prezioso. Abbiamo tutto il posto che vuole per le persone come lei".
"In che senso?"
"E non c'è nemmeno da fare anticamera. Se accetta questo incarico può cominciare anche domattina, è una scuola molto simpatica vicina alla rosticceria di San Lorenzo..."
"Una scuola? Dovrei lavorare nella scuola?"
"È una zona molto verde, si troverà bene".
"Mi dispiace io non... non credo di essere adatto. A me piace scrivere".
"Meraviglioso, quindi insegnerà agli altri".
"Io non... non credo di essere capace".
"Ha paura di crescere allievi più bravi di lei? In effetti è un rischio. Ma non si preoccupi, non deve insegnare a scrivere. È sufficiente che insegni a leggere".
"Non è davvero quello che mi aspettavo".
"Rifletta. Se ogni 1739 lettori fiorisce uno scrittore, lei non ha che da insegnare a leggere a 1739 anime e..."
"Posso essere sincero?"
"Deve".
"Non credo che sarei un bravo insegnante. Mi sentirei frustrato, incompleto, e sfogherei la mia frustrazione sugli studenti. Non solo non sarebbe paradiso per me, ma per loro sarebbe un inferno".
"Un inferno, ehi, ehi, che parole. Guardi che a scuola ci si diverte anche. È chiaro, a volte è faticoso. Dovrebbe leggere i temi".
"No i temi no".
"Mentre a lei piace scriverli".
"Non c'è davvero niente'altro che io possa fare?"
"Per adesso no, al massimo la posso mettere in lista per il reddito di beatitudine. Sono due spicci però, è sicuro di non volerci ripensare?"
"I temi no".
"Io comunque sono qui, se cambia idea..."

A metà mattina passa san Fiacrio a curare le siepi di rose, che hanno le spine anche nel Paradiso perché, perché, misteriosi disegni di Dio. San Cristoforo sta portando a pisciare San Guinefort. Qualcuno in un ufficio di fianco ha portato il caffè e Gianbattista ne assapora il profumo denso, anche se sta cercando di smettere, mentre risponde a un signore che ha le idee molto chiare.
"Insomma, teatro".
"Sono nato per farlo".
"Meraviglioso".
"E se non lo faccio muoio. Ora lei mi troverà ridicolo, ma..."
"Ridicolo, e perché?"
"Chissà quanti le hanno già detto la stessa cosa".
"Tre milioni e qualcosa, ma che vuol dire?"
"Sul serio?"
"Non lo so, dopo i tre milioni ho smesso di contare, è stato qualche anno fa, comunque il trend è costante dall'Ottocento".
"Quindi sta per dirmi che non c'è pubblico per tutti quelli che vogliono fare teatro".
"E perché? Siamo in paradiso, c'è pubblico per tutti".
"Davvero?"
"Certo, bisognerà modificare un poco il repertorio".
"Il repertorio non è un problema".
"Allora posti ce n'è finché ne vuole".
"Sul serio?"
"Però la devo avvertire: può essere un lavoro molto faticoso, sfibrante".
"Oh lo so".
"Magari non lo sa ancora del tutto".
"Quando posso cominciare?"
"Domattina, presso l'Istituto Don Bosco in via..."
"Ma... ma è una scuola".
"Ha anche un giardino meraviglioso".
"È uno scherzo? Io ho chiesto di fare teatro".
"Le garantisco che ne farà tutti i giorni".
"No".
"Quattro o cinque ore al giorno, per il pubblico più esigente".
"Non è quello che mi aspettavo".
"Potrà improvvisare e declamare a memoria. Piangerà, farà piangere. Riderà, farà ridere. Tutto quello che succede a teatro, tranne forse..."
"Gli applausi?"
"Eh, applausi in effetti pochissimi. Ma sono così importanti? È quello che veramente cercava nel teatro?"
"La prego, niente prediche, io..."
"Il teatro è dedizione, è sacrificio, è disciplina, gli applausi sono un contentino per i filodrammatici. Il vero attore agonizza nel silenzio, o peggio ancora, nel frastuono che segue la campanella".
"Io li odio gli studenti. Sono il pubblico peggiore".
"Sono solo i più esigenti".
"Non riuscirei nemmeno a farli tacere".
"Allora forse non è un grande attore".
"Davvero?"
"Mi perdoni, mi è sfuggita".
"È quello che pensa di me?"
"È quel che penso in generale. Insegna chi ha le palle, firmato de la Salle".
"Non fa ridere".
"No, in effetti no".
"Sta cercando di provocarmi?"
"Io?"
"Lei vorrebbe che io le rispondessi vaffanculo, le faccio vedere io chi ha le palle qui, lei vorrebbe che io firmassi per finire domattina a declamare Shakespeare in un inferno di bambini ridacchianti finché non si arrendono loro a Shakespeare o io alla mia mediocrità".
"Non deve sottovalutare Shakespeare".
"Senta ma quella cosa che diceva il tizio che è uscito prima... il reddito di santità..."
"Di beatitudine".
"È una cosa seria?"
"No, non tanto".
"Insomma non c'è alternativa".
"Un'alternativa a passare l'eternità a far conoscere Shakespeare ai ragazzi? Pensando che ogni volta sarà la prima volta? Un'eternità di Giuliette al balcone? Davvero ha bisogno di un'alternativa a questo?"
"Mi ci faccia pensare".
"Ma certo. Io comunque resto qui".

A pranzo gli piacerebbe sedersi sulla panchina sotto agli aceri ad ammirare il foliage, ma è da milletrecento anni che ci siede San Simeone Stilita, e non si schioda. Anche per questo ha chiesto di fare orario continuato, e il primo pomeriggio mentre digerisce un sandwich del distributore automatico di solito passano quelli più strani, quelli che per esempio vogliono combattere il Male.
"Il Male? Ma ha studiato medicina per caso?"
"No no, io intendo un Male più nel senso morale del termine".
"Ma certo, mi scusi, che sciocco. E in che modo lo vorrebbe combattere?"
"L'ideale sarebbe sparare, ma mi rendo conto che..."
"Sparare! Ma siamo in paradiso".
"Lo so, ma..."
"Non ha mai pensato che si potrebbe far male qualcuno?"
"È... è un po' il senso della cosa".
"Far soffrire i malvagi".
"Detta così suona molto stupida, ma io..."
"Lei sente che è questa la sua missione".
"Io senso che se non mi si darà qualcosa di nobile per cui lottare, o anche solo qualcosa di spregevole da combattere, finirò comunque per combattere, ma per delle sciocchezze. Perché sono fatto così e non credo di poter farci niente".
"Dovrebbe combattere contro sé stesso".
"E perderei".
"La ringrazio per la franchezza".
"Non dovrei nemmeno essere qui, vero?"
"E perché mai? Lei è una persona onesta, con un forte senso morale, che chiede di poter lottare..."
"A volte mi domando se la morale non sia solo un pretesto. La verità è che mi piace combattere, e ovviamente vorrei sentirmi dalla parte dei buoni. Sulla Terra era molto facile fregare quelli come noi. Ci davano in mano un'arma, ci additavano i malvagi e..."
"Buffo, le stavo per proporre la stessa cosa".
"In che senso?"
"Nel senso che si dà il caso che io abbia un sacco di malvagi da sconfiggere e sarei molto lieto di additarglieli. Ho anche qualche arma da fornire... certo non esplosivi, ma..."
"Sul serio?"
"Sì, anche in paradiso esistono le guerre sante. Ciò la stupisce?"
"Di solito c'è sempre la fregatura".
"Qui no. Mi basta una firma qui e domattina può andare a combattere l'analfabetismo e la superstizione presso l'istituto Sant'Ignazio che dà sui giardini del..."
"No no no. Lei sta proponendo una scuola anche a me".
"La trovo adattissima all'incarico".
"Io sono una persona semplice, per me esiste il bianco e il nero, non capisco le sfumature".
"C'è bisogno anche di quelli come lei".
"Senta, piuttosto mi dia anche solo uno scudo, un bastone, mi dica di difendere una città fortificata da ventimila infedeli, ma in una classe preferirei non entrarci più".
"Ha già esperienze di insegnamento?"
"Ho fatto una supplenza, una volta".
"Ha fatto una supplenza, e poi la guerra".
"Già".
"E preferirebbe tornare in guerra".
"La trovo più semplice. Si vince, si perde".
"Anche a scuola, no?"
"No, a scuola si perde soltanto. Tutti i giorni".
"A volte si vince pure".
"Non mi ricordo che sia mai successo".
"Eh, in effetti si scopre molto tempo dopo, e il più delle volte non ti mandano nemmeno un telegramma".
"Ma nel frattempo dovrei ritrovarmi in trincea tutti i giorni, davanti alla sconfitta tutti i giorni, non ce la posso fare".
"Ma in guerra non è la stessa cosa? Mi scusi: qual è la vera differenza? Perché l'unica che mi viene in mente... è che la guerra dopo un po' finisce".
"Già".
"Mentre la scuola riapre tutti i giorni".
"Mi dia un bastone piuttosto, davvero".
"Quindi insomma lei è pronto a combattere il Male... purché la lotta sia breve".
"Se vuole metterla così".
"Potrei metterla in un altro modo: dove ha messo le palle?"
"Eh".
"Mi ha capito bene. Lei viene da me poco dopo mezzogiorno, con tutti i suoi propositi eroici, il suo alto senso della moralità, e io ho qui pronta per lei l'unica guerra che valga la pena di essere combattuta, giorno per giorno, metro per metro, e lei si sgonfia così? Sul serio: dove le ha messe?"
"Lei... lei non dovrebbe parlare così".
"Io parlo come voglio e posso, soldato! Sull'attenti!"
"Sissignore".
"Ha letto qua fuori: ufficio smidollati?"
"Nossignore".
"Crede che io abbia da perdere il mio prezioso tempo con gli smidollati?"
"Nossignore".
"Tutte le mattine alle sette e mezza il Sant'Ignazio apre i cancelli. È in un brutto quartiere, gli studenti puzzano e non sanno stare seduti e c'è una cattedra vacante. Hanno bisogno di un docente con le palle, purtroppo oggi non ne ho ancora visto uno. Può sempre andare lei, se entro domattina le ritrova. Nel frattempo si tolga dalle mie".
"Grazie, signore. Mi scusi signore. Arrivederci, signore".
Verso le cinque del pomeriggio l'idea limpida di una birra cruda si insinua dietro la fronte di Giovanni Battista della Salle. Gli piacerebbe berla sotto il pergolato, prima di cena, qualche volta ha anche ceduto alla tentazione. Ma stasera ha ancora un colloquio, con uno che non ha sbocchi, dice lui, perché è un... un filosofo? Addirittura?
"Indirizzo sociologico. Mi sta già disprezzando, vero?"
"E perché mai? Di tutti c'è bisogno. Mi faccia controllare..."
"Non c'è bisogno di fingere con me".
"Non sto fingendo. Sto davvero controllando una lista, vede? Dunque..."
"Ma sappiamo benissimo entrambi come va a finire".
"C'è posto anche qui dietro, alle figlie dell'Immacolata".
"È una scuola".
"Con un magnifico giardino".
"Me lo avevano pur detto. Lei ci fa parlare ma alla fine, qualsiasi cosa diciamo, lei ci manda tutti a scuola".
"No, non tutti".
"Non tutti?"
"Capitasse un idraulico, ne abbiamo una necessità disperata. Ma ne arrivano pochi".
"Come sulla Terra".
"No, no, molti meno, ah ah".
"E mi avevano anche detto questo, che le sue battute erano terribili".
"Sì, beh, servono più a rompere il ghiaccio... lei è sociologo, capirà benissimo..."
"Fin troppo. Dunque lei è San Giovanni de la Salle, l'inventore della scuola dei poveri".
"Dicono questo di me? Pazzesco".
"Cosa c'è di pazzesco? Ha ispirato i regolamenti di dodici congregazioni, ha lottato per la scuola gratuita, ha praticamente inventato le classi elementari..."
"Ma scusi, la scuola esisteva già, i poveri pure, bastava fare entrare i secondi nella prima, non è che ci volesse un genio".
"E secoli dopo è ancora qui. Tutti quelli che capitano nel suo ufficio, lei li fa parlare un po' e poi li manda a scuola".
"Che ci posso fare se lì c'è un sacco di posto?"
"Ma ci sono davvero tutte queste scuole in paradiso?"
"Perché non dovrebbero esserci? ci sono molti bambini. E sa quanti buoni maestri servono a crescere un uomo?"
"Abbiamo il numero?"
"Mediamente una dozzina. Si rende conto? E qui arriva sempre più gente. Il lavoro non mancherà mai, nelle scuole".
"Ma non è il lavoro che uno si aspetta di fare, quando arriva qui".
"Lo so, e questo mi tormenta. Ma insomma l'umanità è così. Vorrebbero tutti fare gli scrittori, e nessuno vuole insegnare a leggere la gente. Tutti attori, tutti condottieri, tutti vorrebbero un pubblico, ma Dio non ci ha creati così".
"Ci ha destinati al dolore, a quanto pare".
"Non saprei. Ognuno vede il proprio dolore, ma Dio non ci ha creati uno alla volta. Ci ha creato tutti assieme, in un solo grande giardino. Un po' di sofferenza forse è necessaria, come le spine alla rosa".
"E insomma questo suo Dio ci avrebbe creato comparse, ma con manie di protagonismo".
"Immagino che queste manie, come le chiama, siano necessarie a farci combinare qualcosa di interessante".
"Ma non è onnipotente? Non avrebbe potuto creare un mondo senza dolore, senza comparse, senza frustrazioni?"
"Magari lo ha fatto, poi lo ha trovato noioso e ne ha creato un altro. Lo sa che è inutile farsi queste domande, vero?"
"Senta, io non sono molto d'accordo con questa cosa. Se potessi, non so... fare domanda per il Nirvana..."
"Il Nirvana, buon dio, ma lo sa che non c'è proprio niente laggiù?"
"Lo preferisco a tutto questo. Il giardino a cui invidia i profumi e i colori, io lo guardo più da vicino e lo scopro popolato da insetti che si divorano, organismi animati dalla paura e dalla fame. Siamo uno spettacolo doloroso, congegnato da un Dio indifferente o crudele. Vorrei alienarmi da tutto questo. Posso?"
"Non lo so, ma se lo lasci dire, lei parla davvero bene".
"E adesso crede di raggirarmi coi complimenti".
"Ha mai pensato di diffondere il suo pensiero? Credo che potrebbe fare molti, come si dice, seguaci. Potrebbe perfino creare una, una..."
"Sta cercando un sinonimo per scuola?"
"Ops, sì".
"Ma lo capisce che non sono tutti come lei? Non sono tutti pervasi dal sacro fuoco dell'insegnamento?"
"Ma io non sono pervaso da nessun sacro fuoco, io anzi avrei voglia di bermi una birra guardi, io..."
"Lo sa perché sono venuto qui? Potevo anche rifiutarmi, ma alla fine la curiosità mi ha vinto".
"Era curioso di me?"
"Di una sola cosa che non riesco a capire. Lei passa l'eternità qui, in questo ufficio, a convincere povere anime ad andare a scuola. Ma perché non c'è andato lei?"
"Ah, buona domanda, davvero buona".
"Se è davvero il lavoro più interessante, il più nobile, il più eroico, perché non l'hanno voluta?"
"Onestamente non lo so".
"Non lo sa?"
"La cosa mi imbarazza anche un po', ma dunque, è andata così. Mi hanno mandato proprio in questo ufficio, ovviamente c'era un altro seduto al mio posto, e ho cominciato a spiegare, dunque mi chiamo Giovanni Battista de la Salle, ho fondato alcuni istituti scolastici, blablablà, insomma il tizio mi ha offerto di prendere il suo posto, e mi è sembrato inelegante dir di no".
"E non gli ha offerto una cattedra?"
"Buffo, no".
"Ma poteva pur chiedere un trasferimento".
"Ah sì, l'ho chiesto quasi subito. Non che mi dispiaccia il posto, si sta bene, però..."
"E perché non l'ha ottenuto? Lo dice anche lei che c'è sempre posto, a scuola".
"Ecco, io non ho chiesto di andare a scuola".
"No?"
"No. Per carità se mi ci mandassero, ok, ma se devo essere sincero non è che abbia tutta questa voglia di tornare laggiù. È un mestiere faticoso, sfibrante".
"E quindi... dove ha chiesto di essere trasferito?"
"Ah, proprio qui di fianco".
"Qui di fianco?"
"Questo bel giardino, vede? Ma è complicato, c'è una lunga fila, è una posizione molto ambita..."
"Non vedo niente, ormai si è fatta sera".
"Già. Io direi che per oggi basta così, magari continuiamo un'altra volta. O per caso ha voglia di bersi una birra?"
"Una birra?"
"A quest'ora Brigida ha appena aperto, i fusti sono freddissimi, ci mettiamo nel pergolato, non dovrebbe ancora esserci molta gente".
"Non pensavo che bevesse".
"Ufficialmente no".
"Lei è un personaggio simpatico, alla fine".
"Grazie, confesso che fa piacere un complimento ogni tanto".
"E gli applausi?"
"Quelli sono adatti ai ragazzini, alla mia età li trovo quasi sconci. Lei no?"
"Sono convinto che sarebbe un ottimo insegnante".
"Ah ah ah, me lo dicono tutti, ma non esistono gli ottimi insegnanti".
"No?"
"Forse il martedì. Qualcuno anche al mercoledì. Ma se cerchi di essere un ottimo insegnante al giovedì, al venerdì sei in burnout. Io ho bisogno di insegnanti mediocri, che mi arrivino al sabato ancora in piedi".
"E pensa che io potrei essere un insegnante abbastanza mediocre?"
"Ma certo. C'è un mediocre in ciascuno di noi, se siamo abbastanza umili da cercarlo".
"Beviamoci questa birra, offro io".
"Allora dovrò offrire la seconda".
"E poi ci sarà una terza, una quarta..."
"...ma no".
"Finché non mi sveglierò nella toilette di Brigida con un cerchio alla testa e un contratto firmato per cent'anni di cattedra al Sant'Ignazio".
"Ahah, non farei mai una cosa del genere".
"No?"
"Non sono mica un reclutatore dell'esercito".
"No?"
Giovanni Battista de La Salle è il patrono degli insegnanti, che ne hanno bisogno, così come la scuola ha bisogno di insegnanti, e il mondo di scuole: perlomeno questo mondo è andato così, il prossimo vedremo.
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Ma se invece fosse un asessuale
05-04-2019, 21:215Stelle, omofobie, sessoPermalinkNaturalmente, ora che il PR del suo partito ha venduto gli scatti intimi all'industria del gossip, tutti stiamo cominciando a pensare davvero che il vicepresidente del consiglio dei ministri sia gay (sarebbe un problema?) represso (sarebbe un problema). Un outing talmente maldestro che fa venire il sospetto che sia architettato: mettiamo in scena una tua relazione etero così la gente comincerà a pensare che non sei etero, ma allo stesso tempo rifiuti la militanza lgbt, diabolico Casalino. Oppure?
Oppure potrebbe essere un asessuale. Perché esistono anche loro, e sono tra noi: persone scarsamente o punto attratte da persone di qualsiasi sesso. Il che non significa che non ne facciano, ma insomma, non lo considerano una priorità. Il vicepresidente potrebbe essere uno di loro. E sarebbe un problema, perché l'asessualità, quella sì, è davvero un tabù. Piuttosto di confessare di non avere una vita sessuale, un politico oggi potrebbe sentirsi costretto a fingere di avere una relazione, in modo così smaccato da suggerire al pubblica una doppia torbida vita sessuale che ci allontani ancor più dal pensiero che invece al vicepresidente il sesso più di tanto non interessi – potremmo mai fidarci di un politico sulla trentina senza appetiti sessuali? Più facile fidarsi di Casalino, diabolico Casalino.
Oppure potrebbe essere un asessuale. Perché esistono anche loro, e sono tra noi: persone scarsamente o punto attratte da persone di qualsiasi sesso. Il che non significa che non ne facciano, ma insomma, non lo considerano una priorità. Il vicepresidente potrebbe essere uno di loro. E sarebbe un problema, perché l'asessualità, quella sì, è davvero un tabù. Piuttosto di confessare di non avere una vita sessuale, un politico oggi potrebbe sentirsi costretto a fingere di avere una relazione, in modo così smaccato da suggerire al pubblica una doppia torbida vita sessuale che ci allontani ancor più dal pensiero che invece al vicepresidente il sesso più di tanto non interessi – potremmo mai fidarci di un politico sulla trentina senza appetiti sessuali? Più facile fidarsi di Casalino, diabolico Casalino.
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Benedetto el Negher (di Sicilia)
04-04-2019, 16:38razzismi, repliche, santiPermalinkSan Benedetto il moro, francescano nero lombardo di Sicilia (1526-1589)
[2016]. Brot negher, torna all'infer'n. Immaginate la scena: una squadra di braccianti ha circondato un pastore, un ragazzino che porta due buoi al pascolo. Lo prendono in giro perché è scuro di pelle. Molto scuro. Figlio di schiavi dell'Africa nera, forse etiopi. Lui li guarda preoccupato ma cerca di tenere basso lo sguardo, non vuole grane. Se gli prendono i buoi è rovinato. E forse è a quello che puntano. Una parola sbagliata, uno sguardo di traverso, e un coltello si fa presto a tirar fuori...
Per fortuna arriva il frate. Non è neanche un frate vero e proprio, è Girolamo Lanza, un giovane di San Frau che si è messo in testa di fare il francescano per i fatti suoi; ha donato la sua eredità e si è trovato un eremo poco lontano, a Santa Domenica. Insomma arriva fra Girolamo e domanda: che succede, perché tormentate questo ragazzo? Vi ho visto, sapete. Lui non vi ha fatto niente. È un tipo a posto, secondo me ne sentirete parlare. I braccianti si ritirano di buon ordine: fra Girolamo sarà anche un mezzo matto, ma il suo cognome in paese pesa ancora. L'eremita resta solo col pastore. Magari gli chiede: "Ma di chi sono questi buoi?"
"Della mia famiglia".
"Ma tuo padre non è Cristoforo, che ha preso il cognome di Manasseri dal padrone che lo ha liberato? Quando mai hanno avuto animali i vecchi schiavi dei Manasseri?"
"Li ho comprati io".
"Due buoi? Con che soldi?"
"Avevo dei risparmi".
"E che volevano quei braccianti? Che ti dicevano?"
"Non ascoltavo".
Nella mia testa ovviamente non potevano che dargli del negher-de-merda. Perché a Benedetto non era capitato di nascere soltanto in Sicilia, dove la sua carnagione era già abbastanza eccezionale da suscitare, lo vedremo, forme di psicosi di massa; ma tra tutti i castelli e i villaggi di Sicilia, una serie di circostanze non chiarite avevano portato il padrone del padre a liberarlo a San Fratello, ridente cittadina della provincia messinese di lingua longobarda. Esatto, a San Frau (cattiva traduzione del latino Sanctus Filadelphus) gli abitanti parlavano un dialetto lumbàrd, come a Nicosia, a Sperlinga, a Piazza Armerina, ad Aidone (EN): e a differenza di Acquedolci, di Montalbano Elicona, e di Novara di Sicilia (ME), lo parlano ancora. Non si sa neanche esattamente quando abbiano iniziato - l'ipotesi è che queste zone siano state ripopolate dopo l'invasione normanna (1090), trapiantando in zona contadini e allevatori che provenivano da qualche anfratto non ben localizzato della valpadana occidentale, una zona tra Asti, Cuneo e Savona. Oggi insomma non li considereremmo nemmeno lumbard in senso stretto: ma erano longobardi, o addirittura franzosi, per i siciliani del tempo, che non capivano una parola. In mille anni poi la lingua è cambiata, a volte accettando a volte combattendo le parlate circostanti (trovate qualche esempio di sanfratellese nei romanzi di Vincenzo Consolo, Il sorriso dell'ignoto marinaio e Lunaria). Per dire non credo proprio che oggi si dica "negher" in sanfratellese: oggi no, ma nel Cinquecento magari sì.
"Senti, perché non ti disfai di questi buoi?"
"Ma sono miei".
"Rivendili. Potrai donare il ricavato ai poveri".
"I miei sono poveri".
"A maggior ragione".
"E poi che faccio?"
"Vieni con me".
"A fare il frate?"
"Molto meglio che fare il pastore. E poi cos'hai da perdere?"
"Due buoi!"
"Non ci crederà mai nessuno che sono tuoi".
"E perché non dovrebbero..."
"Perché sei un negher!"
(Lo sguardo di traverso che Benedetto era riuscito a risparmiarsi in mezzo ai braccianti, ora fra Girolamo se lo prende in pieno).
"Ti ho offeso? Scusa ma insomma, si vede da lontano. E un pastore negro qua non s'è mai visto. Ma se vieni con me, io posso farti diventare..."
"Un frate negro?"
"Un santo".
"Un santo negro?"
"E quelli vanno forte".
"I santi negri?"
"Fidati di me. Vendi quei buoi".
Anche ad Aidone si parlava lombardo. Il santo patrono è Filippo apostolo: però la statua di Aidone è nera d'ebano "Ha occhi neri e acuti che fanno paura: e quando viene messo in movimento per il giro della città, desta un senso di sbalordimento e di raccapriccio". Il colore scuro testimonierebbe il transito del santo dal mondo dei morti. Altrove si venera un altro San Filippo, siriaco, molto efficace contro i demoni, talvolta definito "schiavo negro". Popolarissimo in tutta la Sicilia (e in particolare ad Agrigento) è San Calogero, sempre raffigurato nerissimo benché greco di Costantinopoli, al punto che in età moderna qualcuno ipotizzò un errore di traduzione: da Chalkhidonos (di Calcedonia, città sull'altra riva di Costantinopoli), a Karchidonos, cartaginese. Ma anche a Cartagine non nascono scuri così... poi ci sono le madonne nere, tipiche dell'iconografia bizantina e molto diffuse in Sicilia già prima dell'arrivo degli arabi. Finché a un certo punto non arrivano i neri veri: Benedetto non è il solo. A Noto c'è il Beato Antonio l'Etiope, detto anche Catagerò d'Avola, eremita e guaritore, poi inquadrato nei francescani, e morto verso il 1550 (ma altri etiopi, tutti chiamati Antonio, risultano a Caltagirone e a Camerano. Notiamo en passant che "etiope" poteva semplicemente significare "nero ma cristiano": il modo più semplice di rendere credibile questa curiosa compresenza di tratti somatici non europei e fede cristiana era evocare il mitico Paese cristiano al di là delle terre islamiche). Lo stesso Antonio di Lisbona, che in Valpadana tutti chiamano Antonio da Padova e raffigurano con l'incarnato roseo di un bambino, era secondo alcuni testimoni piuttosto scuro di pelle. Insomma, essere neri in Europa non è mai stato facile, ma in certe carriere poteva rivelarsi un bizzarro vantaggio.
Negli anni successivi, Girolamo e Benedetto dovranno spesso cambiare eremo per seminare i pellegrini che arrivavano da tutta la Sicilia a chiedere miracoli al frate nero. Il quale magari ci provava pure, a fare qualche miracolo – e non è escluso che qualche guarigione gli riuscisse – in ogni caso, male che andasse, i pellegrini potevano andare a casa e raccontare di aver visto un frate nero. Pensateci: voi quand’è che avete visto un nero per la prima volta? I vostri figli se li trovano all’asilo e non fanno nemmeno in tempo a farci caso. Io devo averne visti migliaia in tv per più di dieci anni, prima di incontrare un nero in carne e ossa. Cinquecento anni fa, quando la fantasia visiva si nutriva al massimo degli affreschi e delle vetrate delle chiese, che emozione poteva essere vedere un uomo nero? E dopo averlo visto, scoprire che malgrado l’incredibile ed evidentissima differenza, è proprio un uomo come noi. Mangia e beve come noi. Parla come noi – salvo quell’accento un po’ esotico, già: lombardo.
Otto anni nella valle di Nazara; poi a Mancusa. Qui Benedetto guarisce un malato di troppo e il traffico di pellegrini diventa tale che i seguaci di Girolamo decidono di trasferirsi sul Monte Pellegrino, fuori Palermo. Gli affari andavano talmente bene che a un certo punto la Chiesa ufficiale si fece sentire, e obbligò i francescani improvvisati a porre termine a ogni forma di spontaneismo. A quel punto Girolamo aveva già lasciato il mondo dei vivi, e i suoi seguaci avevano nominato superiore Benedetto. Niente male per un pastore analfabeta. Forse anche l’idea di avere una congregazione francescana guidata da un nero alle porte di Palermo potrebbe aver lasciato perplesso qualche elemento della gerarchia: fatto sta che nel 1550 Pio IV revocò i permessi. Benedetto scelse di entrare nei Frati Minori, che gli trovarono un posto nelle cucine del convento di Sant’Anna di Giuliana.
Da superiore a sguattero: però la prese bene. Fece ancora carriera: diventò capo-cuoco a Santa Maria del Gesù (Palermo), poi guardiano del convento, e, allo scadere del mandato, maestro dei novizi. Ma la cucina è l’ambiente che gli è rimasto più attaccato, come a Martin de Porres l’infermeria. Tra i suoi miracoli più famosi, oltre alle guarigioni, un paio di moltiplicazioni di pani e pesci – quel tipo di prodigio alla portata di un cuoco che sappia gestire con oculatezza materie prime e avanzi. L’ultimo suo viaggio, dal convento di Sant’Anna a quello di Santa Maria, lo aveva fatto tra due ali di folla venute a toccare il taumaturgo nero. Che magari non li avrebbe guariti, ma potevano pur sempre tornare a casa e raccontare di aver toccato un nero.

Qui siamo a Cuiabà, in Mato Grosso
Benedetto lascia questa terra il quatto aprile del 1589 – 427 anni fa oggi – senza nemmeno sospettare quanto sarebbe diventato importante. L’affetto di confratelli e novizi, la venerazione di palermitani e messinesi non è che una piccola frazione di quello che sta per succedere al di là dell’Atlantico. C’è un intero continente da cristianizzare, ci sono moltitudini di neri da battezzare, e di un santo con la pelle scura c’è un disperato bisogno. Il processo di beatificazione a dire il vero andrà un po’ per le lunghe (bisognerà aspettare Benedetto XIV, aka Prospero Lambertini, già in pieno Settecento: due anni prima, nel 1743, aveva pubblicato una severissima enciclica contro la schiavitù). Nel frattempo i francescani avevano già stampato e diffuso milioni di santini col cuoco nero che tiene in braccio il bambino biondo – l’iconografia più diffusa di Benedetto il moro è, in sostanza, una copia carbone di quella di Antonio di Padova. In Venezuela Benedetto diventa il protagonista di una settimana di festa che prosegue il Natale fino al sei gennaio. L’idea che dietro al santo siciliano si nasconda qualche rito non proprio omologato è qualcosa di più di un sospetto: in Brasile a un certo punto il festeggiamento prevede un matrimonio e un’incoronazione. A sposarsi e a regnare per un giorno sono il re e la regina del Congo, ma anche San Benedetto e la Madonna del Rosario.
[2016]. Brot negher, torna all'infer'n. Immaginate la scena: una squadra di braccianti ha circondato un pastore, un ragazzino che porta due buoi al pascolo. Lo prendono in giro perché è scuro di pelle. Molto scuro. Figlio di schiavi dell'Africa nera, forse etiopi. Lui li guarda preoccupato ma cerca di tenere basso lo sguardo, non vuole grane. Se gli prendono i buoi è rovinato. E forse è a quello che puntano. Una parola sbagliata, uno sguardo di traverso, e un coltello si fa presto a tirar fuori...
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Il ritratto (anonimo) più credibile. |
"Della mia famiglia".
"Ma tuo padre non è Cristoforo, che ha preso il cognome di Manasseri dal padrone che lo ha liberato? Quando mai hanno avuto animali i vecchi schiavi dei Manasseri?"
"Li ho comprati io".
"Due buoi? Con che soldi?"
"Avevo dei risparmi".
"E che volevano quei braccianti? Che ti dicevano?"
"Non ascoltavo".
Nella mia testa ovviamente non potevano che dargli del negher-de-merda. Perché a Benedetto non era capitato di nascere soltanto in Sicilia, dove la sua carnagione era già abbastanza eccezionale da suscitare, lo vedremo, forme di psicosi di massa; ma tra tutti i castelli e i villaggi di Sicilia, una serie di circostanze non chiarite avevano portato il padrone del padre a liberarlo a San Fratello, ridente cittadina della provincia messinese di lingua longobarda. Esatto, a San Frau (cattiva traduzione del latino Sanctus Filadelphus) gli abitanti parlavano un dialetto lumbàrd, come a Nicosia, a Sperlinga, a Piazza Armerina, ad Aidone (EN): e a differenza di Acquedolci, di Montalbano Elicona, e di Novara di Sicilia (ME), lo parlano ancora. Non si sa neanche esattamente quando abbiano iniziato - l'ipotesi è che queste zone siano state ripopolate dopo l'invasione normanna (1090), trapiantando in zona contadini e allevatori che provenivano da qualche anfratto non ben localizzato della valpadana occidentale, una zona tra Asti, Cuneo e Savona. Oggi insomma non li considereremmo nemmeno lumbard in senso stretto: ma erano longobardi, o addirittura franzosi, per i siciliani del tempo, che non capivano una parola. In mille anni poi la lingua è cambiata, a volte accettando a volte combattendo le parlate circostanti (trovate qualche esempio di sanfratellese nei romanzi di Vincenzo Consolo, Il sorriso dell'ignoto marinaio e Lunaria). Per dire non credo proprio che oggi si dica "negher" in sanfratellese: oggi no, ma nel Cinquecento magari sì.
"Senti, perché non ti disfai di questi buoi?"
"Ma sono miei".
"Rivendili. Potrai donare il ricavato ai poveri".
"I miei sono poveri".
"A maggior ragione".
"E poi che faccio?"
"Vieni con me".
"A fare il frate?"
"Molto meglio che fare il pastore. E poi cos'hai da perdere?"
"Due buoi!"
"Non ci crederà mai nessuno che sono tuoi".
"E perché non dovrebbero..."
"Perché sei un negher!"
(Lo sguardo di traverso che Benedetto era riuscito a risparmiarsi in mezzo ai braccianti, ora fra Girolamo se lo prende in pieno).
"Ti ho offeso? Scusa ma insomma, si vede da lontano. E un pastore negro qua non s'è mai visto. Ma se vieni con me, io posso farti diventare..."
"Un frate negro?"
"Un santo".
"Un santo negro?"
"E quelli vanno forte".
"I santi negri?"
"Fidati di me. Vendi quei buoi".
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Antonio l'Etiope, il nero d'AvolaAHAHAH CHE SPASSO LA RUBRICA DEI SANTI DEL POST. |
Negli anni successivi, Girolamo e Benedetto dovranno spesso cambiare eremo per seminare i pellegrini che arrivavano da tutta la Sicilia a chiedere miracoli al frate nero. Il quale magari ci provava pure, a fare qualche miracolo – e non è escluso che qualche guarigione gli riuscisse – in ogni caso, male che andasse, i pellegrini potevano andare a casa e raccontare di aver visto un frate nero. Pensateci: voi quand’è che avete visto un nero per la prima volta? I vostri figli se li trovano all’asilo e non fanno nemmeno in tempo a farci caso. Io devo averne visti migliaia in tv per più di dieci anni, prima di incontrare un nero in carne e ossa. Cinquecento anni fa, quando la fantasia visiva si nutriva al massimo degli affreschi e delle vetrate delle chiese, che emozione poteva essere vedere un uomo nero? E dopo averlo visto, scoprire che malgrado l’incredibile ed evidentissima differenza, è proprio un uomo come noi. Mangia e beve come noi. Parla come noi – salvo quell’accento un po’ esotico, già: lombardo.
Otto anni nella valle di Nazara; poi a Mancusa. Qui Benedetto guarisce un malato di troppo e il traffico di pellegrini diventa tale che i seguaci di Girolamo decidono di trasferirsi sul Monte Pellegrino, fuori Palermo. Gli affari andavano talmente bene che a un certo punto la Chiesa ufficiale si fece sentire, e obbligò i francescani improvvisati a porre termine a ogni forma di spontaneismo. A quel punto Girolamo aveva già lasciato il mondo dei vivi, e i suoi seguaci avevano nominato superiore Benedetto. Niente male per un pastore analfabeta. Forse anche l’idea di avere una congregazione francescana guidata da un nero alle porte di Palermo potrebbe aver lasciato perplesso qualche elemento della gerarchia: fatto sta che nel 1550 Pio IV revocò i permessi. Benedetto scelse di entrare nei Frati Minori, che gli trovarono un posto nelle cucine del convento di Sant’Anna di Giuliana.
Da superiore a sguattero: però la prese bene. Fece ancora carriera: diventò capo-cuoco a Santa Maria del Gesù (Palermo), poi guardiano del convento, e, allo scadere del mandato, maestro dei novizi. Ma la cucina è l’ambiente che gli è rimasto più attaccato, come a Martin de Porres l’infermeria. Tra i suoi miracoli più famosi, oltre alle guarigioni, un paio di moltiplicazioni di pani e pesci – quel tipo di prodigio alla portata di un cuoco che sappia gestire con oculatezza materie prime e avanzi. L’ultimo suo viaggio, dal convento di Sant’Anna a quello di Santa Maria, lo aveva fatto tra due ali di folla venute a toccare il taumaturgo nero. Che magari non li avrebbe guariti, ma potevano pur sempre tornare a casa e raccontare di aver toccato un nero.

Qui siamo a Cuiabà, in Mato Grosso
Benedetto lascia questa terra il quatto aprile del 1589 – 427 anni fa oggi – senza nemmeno sospettare quanto sarebbe diventato importante. L’affetto di confratelli e novizi, la venerazione di palermitani e messinesi non è che una piccola frazione di quello che sta per succedere al di là dell’Atlantico. C’è un intero continente da cristianizzare, ci sono moltitudini di neri da battezzare, e di un santo con la pelle scura c’è un disperato bisogno. Il processo di beatificazione a dire il vero andrà un po’ per le lunghe (bisognerà aspettare Benedetto XIV, aka Prospero Lambertini, già in pieno Settecento: due anni prima, nel 1743, aveva pubblicato una severissima enciclica contro la schiavitù). Nel frattempo i francescani avevano già stampato e diffuso milioni di santini col cuoco nero che tiene in braccio il bambino biondo – l’iconografia più diffusa di Benedetto il moro è, in sostanza, una copia carbone di quella di Antonio di Padova. In Venezuela Benedetto diventa il protagonista di una settimana di festa che prosegue il Natale fino al sei gennaio. L’idea che dietro al santo siciliano si nasconda qualche rito non proprio omologato è qualcosa di più di un sospetto: in Brasile a un certo punto il festeggiamento prevede un matrimonio e un’incoronazione. A sposarsi e a regnare per un giorno sono il re e la regina del Congo, ma anche San Benedetto e la Madonna del Rosario.
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La terra piatta di Sant'Isidoro
03-04-2019, 00:58internet, repliche, santi, StoriaPermalink4 aprile - Sant'Isidoro di Siviglia, dottore della Chiesa, enciclopedista, patrono di Internet.
[2013]. I posteri non ci leggeranno, i posteri non leggeranno in generale. Smetteranno di imparare l'alfabeto come noi abbiamo smesso di fare le aste e le O. Per capire quel che c'è da capire probabilmente guarderanno cose sospese nell'aria, in fondo lo stanno già facendo. E rideranno di noi. Ci considereranno dei deficienti. Ogni tanto verranno a guardare come si imparava ai nostri tempi - sfoglieranno i libri, guarderanno le figure, e rideranno per cose che non fanno ridere. Un atlante geografico, per esempio, un planisfero, che risate.
"Ma guarda, ahah".
"Cosa c'è da ridere, stronzetto".
"Com'eravate buffi. Pensavate che la terra fosse piatta".
"Ma no, niente affatto".
"E allora perché la disegnavate così?"
"Tanto per cominciare non è un disegno, ma una proiezione. E poi non avevamo scelta, se volevamo raffigurarla su un libro dovevamo proiettarla su una superficie piatta, dal momento che... mi stai ascoltando?"
"No, scusa, sto facendo sesso in chat3d"
Devo scrivere un pezzo su Isidoro di Siviglia, a cui un papa - il terzultimo, ormai - ha affidato il padronato di Internet. Per cui capite che non posso assolutamente far finta che il quattro aprile non si festeggi Sant'Isidoro, il celebre erudito, l'ultimo dottore dell'Antico Occidente, prima dei secoli veramente oscuri; ma questo non vuol dire che ne sappia molto. Solo perché ho una prestigiosa rubrica sul Post la gente crede che io sia un pozzo di scienza ma non è vero, la più parte delle volte do solo un'occhiata su internet il giorno prima. Di solito su wikipedia. Che non è il massimo, eh, ci ha tanti difetti, però è sempre il primo posto in cui vai a cercare. È comoda, a portata di clic. Quando proprio voglio ostentare una profonda conoscenza della materia seguo un paio di link che partono da lì. Mi piacerebbe saperne davvero di più, ma ho tante altre cose da fare, sapeste a che ora mi alzo. Su Isidoro poi pensavo che avrei trovato tantissime cose, ma come succede spesso non è affatto così; dovunque trovo più o meno le stesse tre-quattro nozioni. Ho anche dato un'occhiata ai libri che ho in casa ma non dicono nulla di più; potrei sellare i buoi e recarmi in una biblioteca seria - ma a quel punto mi troverei davanti i venti volumi delle Etymologiae in edizione critica, e poi che ci faccio? Troppo materiale è uguale a nessun materiale.
Isidoro ha scritto migliaia di pagine che non si legge quasi nessuno, ed è stato messo in croce per un disegnino. A un certo punto, dovendo spiegare nella sua enciclopedia di tutto lo scibile umano una questione abbastanza secondaria, una mera curiosità - com'è fatto il mondo? - Isidoro ne traccia uno schizzo semplificatissimo: una T dentro una O. La O è l'Oceano, che circonda le terre emerse; la T è costituita dal Mediterraneo, che a oriente si biforca in due fiumi (il Nilo e il Don) dividendo i tre continenti: Asia in alto (est), Europa a sinistra (nord), Africa a destra (sud).
Isidoro sapeva benissimo che il mondo era più complicato di così; probabilmente condivideva l'opinione degli antichi navigatori che lo consideravano sferico e non piatto; lui stesso aveva viaggiato per terra e per mare, emigrando da Cartagine in occasione dell'invasione bizantina, e trovando riparo nella Spagna visigota. Sapeva benissimo che Europa e Africa avevano coste irregolari e frastagliate; il suo schizzo non era una cartina geografica, ci sbagliamo a interpretarlo così. Era un simbolo, un ideogramma, un modo per raffigurare un concetto e mandarlo a mente. La forma circolare non alludeva a una presunta piattezza della Terra - del resto anche noi, con tutte le nostre approfondite conoscenze geografiche, sui libri usiamo ancora figure piatte, pardon, proiezioni.
Sappiamo benissimo che tutte le cartine piatte raccontano qualcosa di falso - la Terra non è piatta - semplificando un concetto più complicato. Ma le usiamo lo stesso, sono comode. Anche Isidoro, sappiamo benissimo che aveva conoscenze più approfondite di quelle espresse con la T nell'O. Ma ci è comodo semplificarlo così, inserirlo nella Storia che ci raccontiamo nel ruolo dell'ultimo compendiatore del mondo antico, sul suo terrazzino spagnolo sospeso sull'abisso dei Secoli Oscuri: si fece buio su tutta la terra e la gente smise di viaggiare, pensate che l'unica cartina che ancora si copiavano nei manoscritti era una T iscritta in un cerchio! È anche un'ottima occasione per fare sfoggio di un sano relativismo culturale, visto che di lì a poco in Ispagna arriveranno gli Arabi con mappe assai più precise, schizzate da navigatori che sapevano orientarsi tra un porto e l'altro.

Ma quello di Isidoro è un mondo che nessun navigatore avrebbe potuto esplorare. È un mondo di libri, di parole, di lettere. Isidoro lo raffigura con un calligramma perché lo considera realmente un calligramma: le lettere dell’alfabeto sono i suoi unici strumenti a disposizione. Deve riassumere tutto lo scibile umano in venti agili volumi che possano essere ricopiati a mano per una decina di secoli, e non ha a disposizione cannocchiali per vedere più lontano, o microscopi per vedere più piccino. Ha solo la grammatica, soltanto l’alfabeto – ma l’alfabeto per Isidoro non è un insieme di simboli arbitrari: è il Codice segreto in cui è stato scritto il mondo. Le sue etimologie, che ci sembrano così stiracchiate e fantasiose, sono tentativi di decifrare il mondo, che non è certo una T iscritta in una O: il mondo è un libro, un glossario di termini inventati da Dio, che forse gioca a ruzzle da un’eternità: da quando digitò la prima parola, tre lettere, “lux”, e la luce fu.
Isidoro non era un topo di biblioteca: fu un personaggio politico di primo piano, convocò un paio di concili della Chiesa di Spagna, contrastò l’eresia ariana. Ma il mondo che descrive nelle Etymologiae è un mondo di pergamena, tutto ricostruito nelle citazioni degli Autori venuti prima di lui. Persino Siviglia, la città dove viveva e lavorava, è un fantasma libresco. Millequattrocento anni prima di Wikipedia, Isidoro aveva fatto tesoro della Terza Direttiva: Niente Ricerche Originali (WP:NRO). Wiki però è una comunità di migliaia di persone; a Isidoro toccava arrangiarsi da solo, sperando che i copisti non lo maltrattassero troppo. Aveva però un vantaggio importante: i diritti d’autore non sarebbero stati codificati per altri dodici secoli. Copiare era insomma consentito, anzi, consigliato. Isidoro è il definitivo artista del copia-incolla: non si esprime a parole, ma a citazioni: come il tipico studente insicuro, che sfoglia le enciclopedie in cerca di un testo da ricopiare pari pari, ecco, la prima enciclopedia è stata scritta da uno studente del genere. Molto spesso non sa nemmeno cosa sta citando esattamente: la maggior parte degli autori non li ha potuti leggere in originale, con la solita scusa che era iniziato il Medioevo, e prima i Suebi e poi i Vandali e infine i Visigoti, insomma molte biblioteche erano marcite o andate in fiamme: e così a Isidoro non restava che citare Varrone attraverso riassunti altrui, bignamini anonimi. Chissà se era poi vero. Magari frugando un po’ nell’archivio qualche dozzina di volumi di Varrone avrebbe anche potuto reperirli; ma poi bisognava leggerli, e indicizzarli, sarebbero serviti degli anni, e Isidoro magari aveva fretta. Anche lui al mattino poi doveva alzarsi presto.
Isidoro lavorava su materiali di seconda e terza mano, come gli studenti che studiano riassunti di altri studenti che hanno copiato da libri che riprendono altri libri, e se ci riflettete non c’è nulla di strano, è la tipica cultura scolastica: quel sistema per cui esci dal liceo con la sensazione di aver “studiato” Cartesio (cioè di aver studiato un riassuntino di due paginette di un manuale di filosofia che a sua volta riassume una monografia dedicata al Discorso sul metodo), di aver “studiato” Kant. Passa qualche anno e cominci a metterti in discussione: cosa ho studiato, realmente, di Kant? Magari a quel punto vai su internet e trovi più o meno le stesse cose, riversate da qualche studente come te, specie da quando Google ha deciso di mettere al primo posto Wikipedia. Che ha tanti difetti, però è comoda, e rapidamente ha soppiantato le altre fonti. Più in profondità magari ci sono contenuti più complessi e originali, ma servirebbe molto tempo per cercarli, e dobbiamo tutti alzarci presto. Così alla fine ci aggrappiamo tutti a Wikipedia, che galleggia su terabyte di nozioni che non si legge più nessuno.
Isidoro voleva solo rendersi utile, ridurre lo scibile umano in venti agili volumi per la classe dirigente del suo tempo; non aveva la minima idea del disastro che ne sarebbe derivato. La sua enciclopedia piacque così tanto che molte sue fonti dirette e indirette sparirono dalla circolazione. Non c’era più bisogno di loro: le Etymologiae bastavano e avanzavano, e così nessuno si prese la briga di copiarli. Non c’era tempo, bisognava copiare Isidoro.
I posteri queste cose non le capiranno. Tempo e spazio saranno a loro completa disposizione. Scansioneranno i palinsesti finché non troveranno tutti i libri di Varrone andati persi sotto una pandetta o un laudario. Vivranno immersi in archivi fatti a nuvola, densi di tutto ciò che è stato scritto, di tutto ciò che si potrebbe leggere, avendone il tempo. E tempo ne avranno, ma non sapranno più leggere: solo ogni tanto sul tapis roulant verso casa visualizzeranno qualche concetto volante, e un giorno da qualche parte un documentario interattivo sui blog italiani del XXI secolo si bloccherà per errore di sistema su uno screenshot di questa pagina, con la mappa di Isidoro in primo piano. Qualcuno chiederà: che roba è? Un disegno del mondo? Piatto? Nel XXI secolo? Come erano stupidi.
[2013]. I posteri non ci leggeranno, i posteri non leggeranno in generale. Smetteranno di imparare l'alfabeto come noi abbiamo smesso di fare le aste e le O. Per capire quel che c'è da capire probabilmente guarderanno cose sospese nell'aria, in fondo lo stanno già facendo. E rideranno di noi. Ci considereranno dei deficienti. Ogni tanto verranno a guardare come si imparava ai nostri tempi - sfoglieranno i libri, guarderanno le figure, e rideranno per cose che non fanno ridere. Un atlante geografico, per esempio, un planisfero, che risate.
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AHAH CHE RIDERE, GOOGLE PENSAVA CHE LA TERRA FOSSE UN RETTANGOLO. |
"Cosa c'è da ridere, stronzetto".
"Com'eravate buffi. Pensavate che la terra fosse piatta".
"Ma no, niente affatto".
"E allora perché la disegnavate così?"
"Tanto per cominciare non è un disegno, ma una proiezione. E poi non avevamo scelta, se volevamo raffigurarla su un libro dovevamo proiettarla su una superficie piatta, dal momento che... mi stai ascoltando?"
"No, scusa, sto facendo sesso in chat3d"
Devo scrivere un pezzo su Isidoro di Siviglia, a cui un papa - il terzultimo, ormai - ha affidato il padronato di Internet. Per cui capite che non posso assolutamente far finta che il quattro aprile non si festeggi Sant'Isidoro, il celebre erudito, l'ultimo dottore dell'Antico Occidente, prima dei secoli veramente oscuri; ma questo non vuol dire che ne sappia molto. Solo perché ho una prestigiosa rubrica sul Post la gente crede che io sia un pozzo di scienza ma non è vero, la più parte delle volte do solo un'occhiata su internet il giorno prima. Di solito su wikipedia. Che non è il massimo, eh, ci ha tanti difetti, però è sempre il primo posto in cui vai a cercare. È comoda, a portata di clic. Quando proprio voglio ostentare una profonda conoscenza della materia seguo un paio di link che partono da lì. Mi piacerebbe saperne davvero di più, ma ho tante altre cose da fare, sapeste a che ora mi alzo. Su Isidoro poi pensavo che avrei trovato tantissime cose, ma come succede spesso non è affatto così; dovunque trovo più o meno le stesse tre-quattro nozioni. Ho anche dato un'occhiata ai libri che ho in casa ma non dicono nulla di più; potrei sellare i buoi e recarmi in una biblioteca seria - ma a quel punto mi troverei davanti i venti volumi delle Etymologiae in edizione critica, e poi che ci faccio? Troppo materiale è uguale a nessun materiale.
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Non sembra, ma questa è la prima versione a stampa (Günther Zainer, 1472. Il disegnino compare in alcuni manoscritti, ma non siamo sicuri che ci fosse anche nell'originale di Isidoro. |
Isidoro sapeva benissimo che il mondo era più complicato di così; probabilmente condivideva l'opinione degli antichi navigatori che lo consideravano sferico e non piatto; lui stesso aveva viaggiato per terra e per mare, emigrando da Cartagine in occasione dell'invasione bizantina, e trovando riparo nella Spagna visigota. Sapeva benissimo che Europa e Africa avevano coste irregolari e frastagliate; il suo schizzo non era una cartina geografica, ci sbagliamo a interpretarlo così. Era un simbolo, un ideogramma, un modo per raffigurare un concetto e mandarlo a mente. La forma circolare non alludeva a una presunta piattezza della Terra - del resto anche noi, con tutte le nostre approfondite conoscenze geografiche, sui libri usiamo ancora figure piatte, pardon, proiezioni.
Sappiamo benissimo che tutte le cartine piatte raccontano qualcosa di falso - la Terra non è piatta - semplificando un concetto più complicato. Ma le usiamo lo stesso, sono comode. Anche Isidoro, sappiamo benissimo che aveva conoscenze più approfondite di quelle espresse con la T nell'O. Ma ci è comodo semplificarlo così, inserirlo nella Storia che ci raccontiamo nel ruolo dell'ultimo compendiatore del mondo antico, sul suo terrazzino spagnolo sospeso sull'abisso dei Secoli Oscuri: si fece buio su tutta la terra e la gente smise di viaggiare, pensate che l'unica cartina che ancora si copiavano nei manoscritti era una T iscritta in un cerchio! È anche un'ottima occasione per fare sfoggio di un sano relativismo culturale, visto che di lì a poco in Ispagna arriveranno gli Arabi con mappe assai più precise, schizzate da navigatori che sapevano orientarsi tra un porto e l'altro.

(La realtà è solo apparenza, l'universo è tutto un codice).
Ma quello di Isidoro è un mondo che nessun navigatore avrebbe potuto esplorare. È un mondo di libri, di parole, di lettere. Isidoro lo raffigura con un calligramma perché lo considera realmente un calligramma: le lettere dell’alfabeto sono i suoi unici strumenti a disposizione. Deve riassumere tutto lo scibile umano in venti agili volumi che possano essere ricopiati a mano per una decina di secoli, e non ha a disposizione cannocchiali per vedere più lontano, o microscopi per vedere più piccino. Ha solo la grammatica, soltanto l’alfabeto – ma l’alfabeto per Isidoro non è un insieme di simboli arbitrari: è il Codice segreto in cui è stato scritto il mondo. Le sue etimologie, che ci sembrano così stiracchiate e fantasiose, sono tentativi di decifrare il mondo, che non è certo una T iscritta in una O: il mondo è un libro, un glossario di termini inventati da Dio, che forse gioca a ruzzle da un’eternità: da quando digitò la prima parola, tre lettere, “lux”, e la luce fu.
Isidoro non era un topo di biblioteca: fu un personaggio politico di primo piano, convocò un paio di concili della Chiesa di Spagna, contrastò l’eresia ariana. Ma il mondo che descrive nelle Etymologiae è un mondo di pergamena, tutto ricostruito nelle citazioni degli Autori venuti prima di lui. Persino Siviglia, la città dove viveva e lavorava, è un fantasma libresco. Millequattrocento anni prima di Wikipedia, Isidoro aveva fatto tesoro della Terza Direttiva: Niente Ricerche Originali (WP:NRO). Wiki però è una comunità di migliaia di persone; a Isidoro toccava arrangiarsi da solo, sperando che i copisti non lo maltrattassero troppo. Aveva però un vantaggio importante: i diritti d’autore non sarebbero stati codificati per altri dodici secoli. Copiare era insomma consentito, anzi, consigliato. Isidoro è il definitivo artista del copia-incolla: non si esprime a parole, ma a citazioni: come il tipico studente insicuro, che sfoglia le enciclopedie in cerca di un testo da ricopiare pari pari, ecco, la prima enciclopedia è stata scritta da uno studente del genere. Molto spesso non sa nemmeno cosa sta citando esattamente: la maggior parte degli autori non li ha potuti leggere in originale, con la solita scusa che era iniziato il Medioevo, e prima i Suebi e poi i Vandali e infine i Visigoti, insomma molte biblioteche erano marcite o andate in fiamme: e così a Isidoro non restava che citare Varrone attraverso riassunti altrui, bignamini anonimi. Chissà se era poi vero. Magari frugando un po’ nell’archivio qualche dozzina di volumi di Varrone avrebbe anche potuto reperirli; ma poi bisognava leggerli, e indicizzarli, sarebbero serviti degli anni, e Isidoro magari aveva fretta. Anche lui al mattino poi doveva alzarsi presto.
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Per dire, questo è Al-Idrisi (arabo di Sicilia) nel 1150. (Il nord è verso il basso). |
Isidoro lavorava su materiali di seconda e terza mano, come gli studenti che studiano riassunti di altri studenti che hanno copiato da libri che riprendono altri libri, e se ci riflettete non c’è nulla di strano, è la tipica cultura scolastica: quel sistema per cui esci dal liceo con la sensazione di aver “studiato” Cartesio (cioè di aver studiato un riassuntino di due paginette di un manuale di filosofia che a sua volta riassume una monografia dedicata al Discorso sul metodo), di aver “studiato” Kant. Passa qualche anno e cominci a metterti in discussione: cosa ho studiato, realmente, di Kant? Magari a quel punto vai su internet e trovi più o meno le stesse cose, riversate da qualche studente come te, specie da quando Google ha deciso di mettere al primo posto Wikipedia. Che ha tanti difetti, però è comoda, e rapidamente ha soppiantato le altre fonti. Più in profondità magari ci sono contenuti più complessi e originali, ma servirebbe molto tempo per cercarli, e dobbiamo tutti alzarci presto. Così alla fine ci aggrappiamo tutti a Wikipedia, che galleggia su terabyte di nozioni che non si legge più nessuno.
Isidoro voleva solo rendersi utile, ridurre lo scibile umano in venti agili volumi per la classe dirigente del suo tempo; non aveva la minima idea del disastro che ne sarebbe derivato. La sua enciclopedia piacque così tanto che molte sue fonti dirette e indirette sparirono dalla circolazione. Non c’era più bisogno di loro: le Etymologiae bastavano e avanzavano, e così nessuno si prese la briga di copiarli. Non c’era tempo, bisognava copiare Isidoro.
I posteri queste cose non le capiranno. Tempo e spazio saranno a loro completa disposizione. Scansioneranno i palinsesti finché non troveranno tutti i libri di Varrone andati persi sotto una pandetta o un laudario. Vivranno immersi in archivi fatti a nuvola, densi di tutto ciò che è stato scritto, di tutto ciò che si potrebbe leggere, avendone il tempo. E tempo ne avranno, ma non sapranno più leggere: solo ogni tanto sul tapis roulant verso casa visualizzeranno qualche concetto volante, e un giorno da qualche parte un documentario interattivo sui blog italiani del XXI secolo si bloccherà per errore di sistema su uno screenshot di questa pagina, con la mappa di Isidoro in primo piano. Qualcuno chiederà: che roba è? Un disegno del mondo? Piatto? Nel XXI secolo? Come erano stupidi.
Comments (1)
Ciccio, eremita a corte del re
02-04-2019, 00:57repliche, santiPermalink![]() |
Tre uomini in saio, attraverso lo stretto di Messina |
[2014]. Essere eremiti di successo è complicato. La logistica, ad esempio: devi vivere in un luogo lontano da tutti, ma non del tutto irraggiungibile, sennò rischi che i pellegrini si scelgano un altro venerato maestro. A Paola (provincia di Cosenza) a un certo punto si decise di costruire un ponte tra le due sponde scoscese di un torrente, che avrebbe accorciato di molto il faticoso percorso dei devoti all'eroe locale, Francesco detto Ciccio. Per fare i ponti, però, bisogna venire a patti col demonio: ciò è noto sin dal tempo dei Longobardi, e anche i santi più facili al miracolo si sono rassegnati: Dio fa tante cose, ma i ponti sono una specialità demoniaca.
Persino Francesco di Paola, che aveva attraversato lo stretto di Messina sul suo mantello per non pagarsi il traghetto; Francesco di Paola che aveva resuscitato il suo agnellino preferito facendolo uscire illibato dal forno da dove gli operai si aspettavano uscisse un abbacchio cotto e croccante; Francesco che per i suoi prodigi sarebbe stato invitato alla corte del re di Francia; persino lui dovette chiedere una consulenza ingegneristica al demonio. In cambio il demonio, come sempre in questi casi, richiese l'anima del primo essere vivente che avrebbe transitato sul ponte. Francesco accettò e, a lavori ultimati, fece attraversare il ponte a un cane.
Il demonio si arrabbiò molto, o almeno così dice la leggenda: ma siccome il trucco era vecchio di secoli, e adoperato in dozzine di ponti medievali in tutta Europa, viene il sospetto che sia tutta una messinscena, e che il demonio sia al contrario piuttosto ghiotto di anime di cani, maiali o altri animali. Non si spiega altrimenti la buona volontà con cui è disposto a edificare ponti a qualsiasi altezza, dimostrando capacità ingegneristiche elevate, sempre col pretesto di pigliarsi la prima anima che passa, e sempre costretto ad accontentarsi della povera bestiola il cui transito è una specie di cerimonia inaugurale, forse di origine pagana, tanto è diffusa in tutto il continente. Ponti del diavolo ce n'è dappertutto anche in Italia: quello di Paola è anzi uno degli ultimi, il medioevo ormai è finito. Il diavolo che finge di adirarsi col santo sembra volersi prestare a un'ultima sacra rappresentazione: la colluttazione lascia sul ponte una traccia, una buca in cui ancora oggi i viandanti sputano, anche chewing-gum se capita di averne in bocca.
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Dai, non dite che non ci somiglia |
Nel 1429 entra quindi in un convento a Cosenza, ma vi resta solo per l'anno di prova, quanto basta per stupire i confratelli con un primo assaggio di effetti speciali: Ciccio si sta già esercitando a reggere i carboni ardenti nelle mani, è in grado di accendere le candele con un semplice sfioramento; a volte riesce a essere simultaneamente sia nella cappella sia nel refettorio (è la bilocazione, un altro grande classico di Padre Pio). Ma il saio dei francescani regolari gli sta troppo stretto, o troppo largo, a seconda dei punti di vista. L'anno successivo coinvolge i genitori in una specie di grand tour della spiritualità nell'Italia centrale: visita Assisi, Loreto, Montecassino, nonché ovviamente Roma, dove rimprovera un cardinale per gli abiti sfarzosi. Al suo ritorno, decide di fare il francescano in proprio, ritirandosi sui monti. È una scelta estrema e anche un po' pericolosa: non solo l'epoca d'oro degli anacoreti era tramontata da secoli, ma da almeno cent'anni le gerarchie ufficiali della Chiesa guardavano con sospetto a chi interpretava la povertà francescana in senso troppo letterale. Lo scontro tra frati conventuali e spirituali era terminato con l'espulsione di questi ultimi; altre esperienze borderline, come quella dei fraticelli, erano state represse con la spietatezza riservata alle correnti eretiche. La povertà era potenzialmente rivoluzionaria.
Ciccio in realtà non rischia niente finché nessuno si accorge di lui: le cose cambiano quando i cacciatori cominciano a parlare di un sant'uomo ritirato sulle montagne. Ai primi ammiratori che lo raggiungono, Ciccio impone un regime durissimo: niente carne né latticini o uova, una quaresima di trecentosessantacinque giorni che si aggiunge ai tre voti francescani (povertà, castità, obbedienza). Anche all'ispettore ecclesiastico inviato da Roma, Baldassarre de Gutrossis, Francesco non nasconde la sua dieta vegan. Questo regime è impossibile, gli obietta il prelato. Nulla è impossibile a chi ama Dio, ribatte Ciccio, prendendo in mano un tizzone ardente a mo' di dimostrazione. Baldassarre riparte in fretta per Roma, deposita una relazione entusiastica, e ritorna a Paola, dove aiuterà il santo verdurista a organizzare un vero e proprio Ordine. Quando l'approvazione del Papa arriva, nel 1474, Francesco ha quasi sessant'anni, e anche se tra la corte di Napoli e la Sicilia ha viaggiato molto più di quanto ci si sarebbe aspettato da un eremita, tutti si aspettano che termini i suoi giorni in uno degli eremi da lui fondati. E invece, nel 1482, l'imprevisto: Francesco riceve un invito che non può rifiutare, dal più potente regnante europeo, Luigi XI detto il prudente.
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Lui si è fasciato la testa per anni, poi è morto e suo figlio ha sbattuto la sua contro una trave. |
A quel punto la fama di Francesco aveva già oltrepassato i confini, ma il santo non si sarebbe certo lasciato smuovere né da un ordine del re né dalle sue donazioni: il valore che dava a queste ultime lo aveva già dimostrato alla corte del re di Napoli Ferdinando, facendo stillare il sangue da una moneta spezzata. Strana parodia di miracolo eucaristico che, se aveva un significato politico (le tue ricchezze sono fondate sul sangue dei tuoi sudditi, ecc.), lo perse immediatamente nei resoconti degli agiografi. L’unico sistema per portare Ciccio in Francia era ottenere che glielo ordinasse il Papa, a cui tutti i frati devono obbedienza. Sisto IV, il pontefice dell’omonima cappella (che non vide mai affrescata) cercò di trasformare il viaggio di Ciccio in un’ambasciata: in cambio di una guarigione il re Luigi avrebbe dovuto rivedere le sue prerogative sulla chiesa di Francia, che in certi casi scavalcavano quelle del Papa. A quel punto Francesco doveva partire – e possibilmente salvare la vita al re.
Partendo a piedi dalla Calabria (s’imbarcherà solo a Civitavecchia), il frate ha cura di lasciarsi dietro una scia di miracoli che ci consentono di ricostruire il suo cammino a tappe forzate. Più volte si ritrova nella situazione paradossale del mendicante che non ha nulla ma vorrebbe lasciare qualcosa di prezioso: messo alle strette può sempre staccarsi un dente, come fece effettivamente quando la sorella gli chiese un ricordino. A un altro compaesano lascia un pezzo di pane che sarebbe resistito fresco e profumato per anni (finché non fu divorato durante una carestia). Sul Monte Pollino lascia le sue impronte in una roccia; a Castelluccio (provincia di Potenza) spilla vino da una botte vuota per rinfrancare i compagni; a Lauria (sempre Potenza) il suo asino si libera miracolosamente dei ferri, dal momento che il maniscalco pretende d’essere pagato; a Polla (Salerno) regala alla famiglia che lo ospita un suo autoritratto miracoloso, inciso nell’intonaco… che però un giorno scompare altrettanto miracolosamente. E così via, e non siamo neanche a Napoli. E tuttavia, al termine di questa odissea dei miracoli, Ciccio si ritrova a Tours davanti a un re provato dalla malattia – e non lo guarisce. Il miracolo più atteso di tutti non arriva: Luigi muore qualche mese dopo, nell’agosto 1483.
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Carlo VIII, nel ritratto ufficiale, con quell’ineffabile espressione da figlio di capitano d’industria un attimo prima di intonare lodi alla meritocrazia. |
Nel frattempo il suo Ordine cresceva anche in Francia: negli ultimi anni Francesco diede un significato più penitenziale alle privazioni che imponeva ai confratelli, ma non le alleviò: anche sul letto di morte rifece il vecchio trucco delle braci in mano. I suoi frati in Francia si chiamano bons-hommes, dal soprannome che re Luigi diede al suo mancato guaritore, “buon uomo”; in Italia “minimi”, o “paolotti”; in Germania “paulaner”: il fatto che il nome ricordi quello di un’ottima birra torbida ci lascia immaginare un certo addolcimento nel regime.
Francesco morì nei pressi di Tours nel 1507, dieci anni prima dell’arrivo a corte di un altra celebrità italiana, Leonardo Da Vinci. Fu canonizzato rapidissimamente, dodici anni dopo, da un Papa a cui da bambino aveva profetizzato l’elezione, Leone X. Nel 1562 gli ugonotti profanarono la sua tomba, dando fuoco a una salma che fino a quel momento (dicunt) si era conservata “incorrotta”. Oggi non restano che cinque frammenti ossei, custoditi nel santuario di Paola. Francesco è patrono di Napoli, di Calabria e di Sicilia; dei naviganti e dei pescatori; è invocato contro incendi, sterilità ed epidemie; ma anche mangiare tanta verdura può aiutare.
Maria, la meretrice nel deserto
31-03-2019, 11:41prostituzione, repliche, santi, sessoPermalink![]() |
Qui è ancora vestita. |
[2012] Mettete a letto i bambini. Siamo nella Giordania del V secolo, gli anni ruggenti dei martiri sono finiti. Adesso vanno di moda gli eremiti. Gente che va nel deserto e ci resta per anni senza mangiare niente: la gente ne va matta, molti attraversano il Giordano alla ricerca di questi anoressici modelli di perfezione. Tra questi cercatori vi è un monaco palestinese, Zosimo (o Zozima), già stimato e riverito da tutti per la saggezza e la rettitudine. Un giorno una voce gli ha detto: Zosimo, o Zozima che dir si voglia, ma chi ti credi di essere, un Santo? Ma va', va', attraversa il Giordano se vuoi vedere quelli che fanno sul serio. Zosimo obbedisce, e si inoltra nel deserto alla ricerca di qualche "santo padre antico solitario". Dopo venti giorni di nulla, gli appare da lontano un'ombra, un miraggio, si direbbe... una donna, una vecchietta dai capelli d'argento e dalla pelle secca. Zosimo si mette a correre verso di lei, ma la donna gli sfugge. "Perché mi fuggi? Ti prego, fermati, parlami". "Zosimo, abbi pazienza, non vedi che sono nuda? Se vuoi che io parli con te, gettami il tuo palio, acciocché possa coprirmi". Accidenti, pensa Zosimo, questa sa persino come mi chiamo, è una santa seria. E adesso cosa fa? Si è inginocchiata a oriente, ma... per san Girolamo, sta volando! Ehi, ma siamo sicuri che non è un'allucinazione? Dopotutto è da venti giorni che vago nel deserto praticamente senza mangiare né...
"Zosimo, o Zozima che dir si voglia, non dubitare. Io non sono un'allucinazione o uno spirito maligno, ma una femmina peccatrice. Vuoi conoscere la mia storia? A dire il vero ho paura che ascoltandola fuggirai da me, non potendo il tuo cuore reggere tanta iniquità: ma se proprio insisti..."
Flashback! Quarantasette anni prima, su un dock di Alessandria d'Egitto, una donna si accosta a un gruppo di dieci marinai: ehi belli, ve ne salpate di già? Che peccato, e dove andate? Portiamo un carico di pellegrini a Gerusalemme, sai, il Santo Sepolcro. "Ah, ecco cos'era tutto questo movimento in giro, i pellegrini. Sentite, ma mi portereste con voi?" "Se hai il denaro per il naviglio, volentieri". "Il denaro non ce l'ho, ma una volta a bordo sarò io il vostro naviglio, ah ah". Dice proprio così. Qualcuno dei marinai si allontana schifato, qualcun altro sorride magari perché l'ha riconosciuta: costei è Maria d'Egitto, non è una come tutte le altre. Lei, per dirla col poeta, lo faceva per passione:
Diciassette anni fui meritrice pubblica e sì disonesta e libidinosa che non m’inducea a ciò cupidità o necessità di guadagno, come suole addivenire a molte, ma solo cupidità di quella misera dilettazione; in tanto ch’io m’andava profferendo impudicamente e non volea altro prezzo da’ miei corruttori, reputandomi a prezzo e a soddisfazione solo la corruzione della lussuria: onde gli giuochi, l’ebrietadi, e altre cose lascive e induttive a quel peccato, io riputava guadagno; e spesse volte rinunziava al guadagno e ai doni per trovare più corruttori, sicché nullo si scusasse e lasciasse di peccare con meco per non avere che darmi; e questo non faceva io perch’io fossi ricca, ma avvegnach’io fossi indigente, sommo mio disiderio e diletto era stare in risi e in giuochi e in disonesti conviti e ‘n corruzione continova.La vita di Maria d'Egitto ci arriva in tre versioni. La prima è di san Sofronio, patriarca di Gerusalemme tra sesto e settimo secolo, ed è forte il sospetto che se la sia inventata lui (e complimenti patriarca per la fervida fantasia). L'idea di un eremita che attraversa il deserto per incontrarne uno ancora più santo sembra ricalcata sulla storia dei santi Antonio e Paolo scritta da Girolamo (anche in quel caso i due si scambiavano il pallio). La seconda è un riassuntino di una nostra vecchia conoscenza, Jacopo di Varazze o Varagine. La terza versione è quella che sto citando, ed è già in volgare: avete notato come scorre bene, malgrado la patina medioevale? Perché è di Domenico Cavalca, un domenicano del Due-Trecento che scriveva benissimo. La vita di Maria Egiziaca è considerata il suo capolavoro: Gianfranco Contini la riporta nella sua antologia della Letteratura italiana delle origini, che è dove l'avete letta voi, popolo di laureati in lettere. Ma probabilmente non c'era bisogno di ricordarvelo, probabilmente di quel mattone è l'unica pagina che vi rammentavate, dopotutto Maria è la cosa più hard che succede nella letteratura italiana fino al Boccaccio. Per farla breve, Maria si mette in testa di pagarsi il viaggio in natura, ed è una di quelle situazioni in cui si dice che non conta la destinazione (il Santo Sepolcro de che?), ma come ci si arriva:
E per tutto quel viaggio la mia vita non fu altro se non ridere e dissolvermi in canti e in giuochi vani, e inebriarmi e fare avolterii e fornicazioni, ed altre cattive e laide cose e parole dire e fare, le quali tutte sufficientemente la lingua non può isprimere. E non mi ritraeva da tanti mali né paura di tempesta di mare, né vergogna della gente che v’era; ma era io sì sfrontata e lieve, che eziandio uomini gravi e onesti invitava a corruzione e facevagli cadere, sicchè veramente la mia fetidissima carne era esca del diavolo a tirare l’anime in abisso e in perdizione.Mentre Maria viaggia nella turpitudine, anche noi ci facciamo un giro nelle fantasie erotiche di un patriarca del settimo secolo, felicemente riprese e rielaborate da un domenicano del quattordicesimo. L’abisso di perdizione è tale che la stessa Maria si domanda com’è possibile che il vascello non vi sia sprofondato, "e inghiottimmi viva viva". Si vede, pensa Maria, che Dio voleva che arrivassimo sani e salvi a Gerusalemme, affinché potessimo pentirci. Nel frattempo chiudeva l’occhio sui gangbangisti in crociera – Dio senz’altro l’occhio lo chiudeva, ma Sofronio e Jacopo e Domenico sbirciavano; a maggior gloria di Dio, ma sbirciavano. Comunque in un modo o nell’altro la nave arriva in porto, e i passeggeri, esausti ma di ottimo umore, si incamminano per il Santo Sepolcro. Basta seguire la folla: vengono da tutto il mondo, il Cristianesimo è religione di Stato e l’Islam non è ancora stato inventato. Maria segue la corrente; ha ventinove anni, pratica il mestiere da diciassette. Ma cos’è dunque quella forza misteriosa che, giunta alla soglia della chiesa più sacra della cristianità, non la lascia passare? Maria non sa neanche bene dove si trova: sa solo che gli altri passano e lei resta bloccata fuori. Ci riprova. Niente da fare. Si mette davanti a un folto gruppo di pellegrini, “mi spingeranno loro”, pensa. Macché. C’è un esercito invisibile che fa quadrato alla porta e non lascia entrare solo lei, di tutti i pellegrini del mondo: solo lei.
E avvenendomi così più volte, e io pure volendomi mettere per entrare, stancai, sicch’io rimasi tutta rotta del corpo e dolorosa e afflitta dell’anima; e così piena d’amaritudine puosimi in un cantone molto istanca, e pensava piangendo per che cagione questo m’avvenisse. E aprendomi Iddio lo cuore, conobbi che per le mie sordide iniquitadi non permettea Iddio che io così immonda e iniqua entrassi nel suo tempio.Disperata, Maria trova in quel cantone un’immagine della Madonna e si mette a pregare: fammi entrare tu, e prometto che con questa vita ho chiuso.

Per strada un tizio le regala tre monetine con cui compra tre pani per il viaggio. Le basteranno per 47 anni, di cui i primi 17 veramente terribili, trascorsi a fuggire incessanti pensieri di tentazione, mentre i vestiti le marciscono addosso. In seguito – spiega a Zosimo – le cose erano andate meglio; ma insomma per tutto questo tempo Maria era vissuta in perfetta solitudine, senza incontrare nemmeno un animale.
Zosimo è sconvolto. Prima di conoscere la donna del deserto credeva di essere un santo, ma ora si rende conto che di fronte a un esempio del genere lui non è nulla: niente più che una comparsa in una leggenda di Santi altrui. La donna gli chiede di non dire nulla in giro, e di tornare di lì a un anno, per Pasqua: quindi scompare (con il suo pallio), prima che Zosimo possa chiederle come si chiama. Per tutto l’anno rimane con la curiosità, ma poi quando a Pasqua si rivedono (lei porta ancora il suo pallio) Zosimo le impartisce la comunione ma si dimentica di nuovo di chiederle il nome. Il terzo anno la trova morta, un mucchietto d’ossa nel suo pallio: in fondo aveva ottant’anni e il paradiso è sicuro, però Zosimo ci resta ugualmente male perché… non sa nemmeno come si chiama.
Ora forse è una suggestione, ma l’angoscia di Zosimo per il nome della santa, il desiderio di sapere mescolato alla repulsione a domandare, è un tratto che la letteratura successiva assegnerà spesso al fruitore che si innamora della meretrice. Per fortuna che Zosimo
vide a capo di questo corpo una scritta, che dicea: «Abate Zozima, seppellisci questo corpicello di me misera Maria, e òra per me a Dio, per lo cui comandamento del mese d’aprile passai di questa vita». Per la quale iscrittura Zozima conoscendo lo suo nome, lo quale infino allora non avea saputo, fu molto allegro; e computando bene lo tempo della sua morte, conobbe che incontanente ch’egli l’anno precedente l’ebbe comunicata al fiume Giordano, corse questa santissima al predetto luogo, dove giaceva morta.
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Addio (e grazie per il pallio) |
Perlomeno, a Sofronio e Jacopo e Domenico interessava arrivare qui. Ma io sono un uomo di un altro millennio, ho una scala di valori diversa, io la gente che va a digiunare per cinquant’anni nel deserto non la capisco, semplicemente: non riesco a vedere cosa ci sia di positivo in qualcuno che si tira fuori dalla mischia dell’umanità. Oso dire che se Maria ha fatto qualcosa di buono nella vita, secondo la mia scala di valori, ebbene forse lo ha fatto prima, per esempio, riavvolgiamo un attimo la videocassetta, torniamo al punto in cui il nastro è un po’ più liso.
Dunque, siamo su questa nave. C’è un sacco di gente triste, gente brutta, povera, che al sesso proprio non ci pensa. Non si fa, non si può, non ce lo si può permettere. Guarda il mozzo, è terrorizzato, probabilmente in cambusa si accettano scommesse sul primo marinaio ubriaco che lo sodomizzerà. Quand’ecco arriva Maria, e all’improvviso sono tutti più rilassati e contenti. A sodomizzare il mozzo non ci pensa più nessuno, a meno che non sia lui che prende l’iniziativa, in tal caso ok. E il viaggio passa così, le acque sono tranquille, Dio chiude l’occhio e li aspetta tutti a Gerusalemme per perdonarli, ci fu mai una crociera più felice? Senz’altro non fu il viaggio di ritorno.
Me li immagino, tutti contenti di tornare a casa belli purificati dal peccato, compresa Maria… no, Maria non c’è. Dov’è? Non si trova. Ah, peccato. Però. Mandiamo qualcuno a cercarla? È già partito il mozzo. Volevo ben dire. Ma è appena tornato! Cosa dice? Che l’hanno vista sconvolta, fuori dal Sepolcro, diceva che voleva cambiar vita. Un vecchio gli ha venduto tre pani e gli ha mostrato la via per il Giordano. Il Giordano? Ahi! Perché, che roba è questo Giordano? È un fiume, un fiume della Bibbia. Dall’altra parte ci stanno gli eremiti del deserto, quelli che non mangiano e non bevono e non fanno all’amore. Ah. E quindi? E quindi niente, si vede che Maria ha deciso così, buon per lei, no? Ed è meglio anche per noi, niente niente che in mezzo al mare ci venisse l’uzzo di risporcarci l’anima, andava a finire che eravamo andati fino a Gerusalemme per niente. Giusto, con quel che costano i viaggi per mare. Quindi partiamo, no? Sì, partiamo.
“Certo che però Maria…”
“Cosa vuoi farci, la santità è così. Una voce che ti chiama e tu vai”.
“Sì, però… un po’ egoista, no? Lei sente la voce… e noi?”
“E noi cosa?”
“No, dico, noi”.
“Noi ce ne torniamo belli puliti a casa nostra, meglio così no?”
“Già”.
“Ma senti, hai visto il mozzo in giro?”
“È in cambusa”.
“Grazie”
“Ma devi metterti in fila, comincia dietro il cassero di prua”.
“Grazie ancora”.
La beata che sfidava i nazisti (a crocefissi?)
30-03-2019, 17:54cristianesimo, memoria del 900, miti, nazismo, repliche, santiPermalink"Tu sei il Male, io sono l'Anestesista" |
[2012] Uno potrebbe anche pensare che i tempi ruggenti dell'agiografia siano finiti per sempre - quei secoli, hai presente, in cui c'eri solo tu, in un monastero perso nel nulla, con un po' d'inchiostro e della vecchia cartapecora raschiata, e ti chiedevano: "Oggi è Sant'Albano d'Ungheria, dai raccontaci la storia di Sant'Albano d'Ungheria". "Ma io mica la so, manco so cosa sia, l'Ungheria". "E inventa". Al limite si poteva sempre scrivere: martire sotto Diocleziano (Diocleziano andava sempre bene, Diocleziano li aveva fatti fuori tutti, Diocleziano pasteggiava a carne di martiri e brindava a sangue di vergini, Diocleziano probabilmente in certi eremi andava forte anche come criptobestemmia: ma Dio cleziano! Quel porco! E il priore non poteva dirti nulla).
Ma oggi che ci sono biblioteche in ogni piazza, google in ogni tasca, oggi non puoi più inventarti niente, o no? Per esempio il 30 marzo si celebra tra le altre la memoria di una Beata novecentesca, Maria Restituta. Su di lei ci sarà ben poco da inventare, penserai. In effetti ci sono i documenti. Sappiamo che è nata Helen Kafka, nel 1890 a Brno, prima impero Austro-Ungarico, poi Cecoslovacchia, poi Protettorato di Boemia e Moravia sotto il Terzo Reich, poi di nuovo Cecoslovacchia, oggi Rep. Ceca. Che prese i voti nell'ordine delle francescane della Carità, diventando suor Maria Restituta (detta "Resoluta" per i modi spicci) e che si distinse per la dedizione e la professionalità con cui esercitò la professione di infermiera e anestesista. Sappiamo che è morta a Vienna nel 1943, decapitata dai nazisti per alto tradimento. L'ha beatificata Giovanni Paolo II nel 1998, che l'unica suora decollata dai nazisti non poteva proprio perdersela. E tutto questo è Storia, voglio dire, abbiamo pure le foto. Non ci puoi ricamare, su Helen Kafka: con tutte le monografie che si saranno su di lei, nelle biblioteche, su internet, insomma, se improvvisi ti sgamano. O no?
Ecco, no.
Una delle cose fantastiche che scopri studiando i santi è che il medioevo, quello fiabesco delle leggende dipinte sulle vetrate, è a portata di clic. Me ne stavo infatti leggendo la scheda di Famiglia Cristiana, quando mi capita di inciampare sulle ultime due righe. Leggi anche tu:
E in faccia agli assassini, prima che il carnefice alzi la mannaia, suor Restituta dice al cappellano: "Padre, mi faccia sulla fronte il segno della Croce".Tutto abbastanza verosimile tranne... la mannaia? Va bene, lo abbiamo visto, dei nazisti si può raccontare tutto e nessuno si lamenterà - i nazisti sono un po' il nostro Diocleziano moderno. Ma ce le vedete le SS che tagliano la testa di una suora con la mannaia? Non suona un po' anacronistico? In effetti basta sfogliare un po' di Internet in altre lingue per rendersi conto che suo Maria fu decapitata, sì, ma mediante ghigliottina: il vecchio trabiccolo illuminista con cui i nazisti a Vienna avevano sostituito la tradizionale forca austriaca così tristemente nota ai nostri patrioti. E la mannaia? Un ricamo di Famiglia Cristiana. Uno solo? Vien voglia di dare un'occhiata più da vicino.
Visito quattro o cinque biografie in inglese, francese e tedesco (quelle in tedesco non le leggo, guardo solo le parole, al liceo a volte funzionava). Sono tutte molto brevi – in effetti cosa ti aspetti dalla vita di un’anestesista, ancorché provetta? Riprendo in mano la scheda di FamigliaC. Mi cade l’occhio su queste altre due righe:
E quando i nazisti tolgono il Crocifisso anche dagli ospedali, lei tranquillamente lo va a rimettere, a testa alta, sfidando comandi e comandanti.Ecco, magari sarà una coincidenza, ma questa notizia del crocefisso (nemmeno inverosimile) l’ho trovata solo nelle biografie italiane. Da qualche parte ho letto che suor Restituta riuscì a ottenere che fosse esposto il crocefisso nell’ala nuova di un ospedale, appena costruita, dove le autorità naziste non lo avevano previsto. Tutto lì. Solo su Famiglia Cristiana l’esposizione del crocefisso diventa una sfida “a testa alta”, peraltro l’unica sfida esplicita tra la suora e i nazisti: sicché al lettore vien fatto di pensare che la suora sia caduta in disgrazia perché continuava a rimettere i crocefissi dove i nazisti li toglievano. E invece no, mi è parso di capire che l’accusa vertesse su due documenti critici nei confronti del Reich, scritti dalla suora stessa: la wikipedia francese li chiama “poemi satirici”, ma non sono riuscito a leggerli.
Però, insomma, la suora scriveva. Criticava il nazismo in forma scritta. È una notizia che Famiglia Cristiana non dà. L’unica forma esplicita di critica al nazismo che interessa a Famiglia Cristiana è la lotta per rimettere al loro posto i crocefissi. Ripeto: è un’informazione che ho trovato solo lì e in un’altra breve scheda biografica in italiano, sempre pubblicata in Santiebeati.it, che sembra per molti versi debitrice di quella di Famiglia Cristiana. Guarda per esempio come il tema del crocefisso viene sottoposto a un’ulteriore rielaborazione, un’ulteriore ricamatura:
Il crocifisso nelle stanze e nelle corsie dell’ospedale diventa invece quasi una questione personale: Suor Restituta, risoluta come sempre, si prende l’incarico di personalmente andare a rimpiazzarli là dove sono stati tolti: sa di rischiare parecchio con quel suo gesto provocatorio, ma intanto più crocifissi vengono eliminati e più lei ne risistema.
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Non era la musona che tutti credono |
Comments (1)
Gonna be a mammy soon
25-03-2019, 01:24karaoke esistenziale, musica, santiPermalink25 marzo – Annunciazione
Forse bisognerebbe fare come in Toscana nel medioevo: contare gli anni a partire dal 25 marzo, l'annunciazione di Maria. Se oggi concepisci un bambino, dovrebbe nascere intorno a Natale. Come lo concepisci naturalmente è affare tuo.
I Thin Lizzy nel '73 erano un power trio che ce la stava mettendo tutta, ma se vieni dall'Irlanda forse è più difficile. Volevano fare hard rock, ma andavano in classifica con le ballate celtiche. Il frontman Phil Lynott aveva tratti somatici ben poco celtici (il padre veniva dalla Guyana), un approccio pre-punk al basso e un occhio attento a quello che gli succedeva intorno, per le piccole storie suburbane alla Kinks – ma la gente voleva sentir cantare di eroi e folletti e vite esagerate. Ai Thin Lizzy nel '73, tra qualche pezzo hard rock e qualche ballata capitò di incidere Little Girl in Bloom, che è più o meno come se a un imbrattatele sconosciuto di Dublino uscisse un'Annunciazione di Guido Reni. Sono cose che a volte capitano: certo, bisogna saperle cogliere al volo. Dire sì a un angelo è meno facile di quanto sembri.
Little Girl in Bloom è un brano senza tempo, il che non è necessariamente un complimento. A me piace che i brani abbiano un tempo riconoscibile, mi piace sorseggiarli e affermare con sicumera "questo è un '76", "questo è decisamente un '93". Little Girl in Bloom non è niente del genere, è un pomeriggio nuvoloso, è una ragazza alla finestra che guarda gli uomini giocare a cricket. Ha un segreto nel grembo, deve spiegarlo a suo padre, sarà complicato. Rilassati, dice Lynott. Aspetta di essere sola con lui. È difficile trovare le parole giuste in certi casi, specie se nel frattempo stai anche suonando il basso, ma per Lynott non è un grosso problema: non fa che suonare due note, per quasi tutta la canzone. Una cosa piuttosto barbara per gli standard del '73, ma sai che c'è? Non importa più.
Little girl in bloom
All the clouds will go drifting by
So sing your lullabying tune
Every word is in your eyes
As you sit and softly croon
Little girl in bloom
Your love it fills the air
With the scent of the sweetest, sweet perfume
You feel so good you just don't care
You're gonna be a mammy soon
Poi, quando l'angelo alla finestra ha detto tutto quel che poteva dire – e magari la partita di cricket è finita, il sole è tramontato, il papà sta salendo le scale – all'improvviso il chitarrista si risveglia ed è come se la canzone cominciasse solo a quel punto. Buon anno. Diventeremo tutti più grandi, da qui a Natale.
(Il disco non andò nemmeno in classifica. Qualche anno dopo i Thin Lizzy riuscirono a sfondare con The Boys Are Back in Town, e divennero il gruppo rock anni '70 che speravano di diventare. I '70 in realtà stavano già finendo, e lo stesso Lynott non sarebbe sopravvissuto di molto. Ma sai che c'è? Ha scritto Little Girl in Bloom).
Forse bisognerebbe fare come in Toscana nel medioevo: contare gli anni a partire dal 25 marzo, l'annunciazione di Maria. Se oggi concepisci un bambino, dovrebbe nascere intorno a Natale. Come lo concepisci naturalmente è affare tuo.
I Thin Lizzy nel '73 erano un power trio che ce la stava mettendo tutta, ma se vieni dall'Irlanda forse è più difficile. Volevano fare hard rock, ma andavano in classifica con le ballate celtiche. Il frontman Phil Lynott aveva tratti somatici ben poco celtici (il padre veniva dalla Guyana), un approccio pre-punk al basso e un occhio attento a quello che gli succedeva intorno, per le piccole storie suburbane alla Kinks – ma la gente voleva sentir cantare di eroi e folletti e vite esagerate. Ai Thin Lizzy nel '73, tra qualche pezzo hard rock e qualche ballata capitò di incidere Little Girl in Bloom, che è più o meno come se a un imbrattatele sconosciuto di Dublino uscisse un'Annunciazione di Guido Reni. Sono cose che a volte capitano: certo, bisogna saperle cogliere al volo. Dire sì a un angelo è meno facile di quanto sembri.
Little Girl in Bloom è un brano senza tempo, il che non è necessariamente un complimento. A me piace che i brani abbiano un tempo riconoscibile, mi piace sorseggiarli e affermare con sicumera "questo è un '76", "questo è decisamente un '93". Little Girl in Bloom non è niente del genere, è un pomeriggio nuvoloso, è una ragazza alla finestra che guarda gli uomini giocare a cricket. Ha un segreto nel grembo, deve spiegarlo a suo padre, sarà complicato. Rilassati, dice Lynott. Aspetta di essere sola con lui. È difficile trovare le parole giuste in certi casi, specie se nel frattempo stai anche suonando il basso, ma per Lynott non è un grosso problema: non fa che suonare due note, per quasi tutta la canzone. Una cosa piuttosto barbara per gli standard del '73, ma sai che c'è? Non importa più.
Little girl in bloom
All the clouds will go drifting by
So sing your lullabying tune
Every word is in your eyes
As you sit and softly croon
Little girl in bloom
Your love it fills the air
With the scent of the sweetest, sweet perfume
You feel so good you just don't care
You're gonna be a mammy soon
Poi, quando l'angelo alla finestra ha detto tutto quel che poteva dire – e magari la partita di cricket è finita, il sole è tramontato, il papà sta salendo le scale – all'improvviso il chitarrista si risveglia ed è come se la canzone cominciasse solo a quel punto. Buon anno. Diventeremo tutti più grandi, da qui a Natale.
(Il disco non andò nemmeno in classifica. Qualche anno dopo i Thin Lizzy riuscirono a sfondare con The Boys Are Back in Town, e divennero il gruppo rock anni '70 che speravano di diventare. I '70 in realtà stavano già finendo, e lo stesso Lynott non sarebbe sopravvissuto di molto. Ma sai che c'è? Ha scritto Little Girl in Bloom).
I babyboomers che odiano Greta (hanno i loro motivi)
22-03-2019, 17:181968, ambiente, giornalisti, Giuliano Ferrara, Ottanta, TheVisionPermalink
La morale della favola è assai nota: si nasce incendiari, si muore pompieri. L'Italia è un Paese molto anziano, il dibattito pubblico è un giardinetto ostaggio di pensionati che borbottano e inveiscono contro i giovinastri rumorosi. I giovinastri stavolta non sono nemmeno particolarmente rumorosi – non spaccano neanche più le vetrine – ma i pensionati se la prendono lo stesso. Non dico che questa spiegazione non sia soddisfacente, ma vorrei proporne ugualmente una meno banale. Ferrara, la Maglie, la Pavone, hanno un altro carattere in comune: se la sono goduta parecchio, da enfants gâtés dell'Occidente. Il 1968 fu un episodio importante, ma se allarghiamo un po' lo sguardo il movimentismo è soltanto un momento della storia di una generazione; cui seguì la tentazione della radicalizzazione, il riflusso e il ritorno al privato, l'edonismo degli anni Ottanta, eccetera. Se volessimo assegnare a una generazione un'ideologia... saremmo dei maledetti semplificatori; ma se davvero volessimo farlo, diremmo che la priorità dei babyboomers è stata la liberazione dell'individuo. Una liberazione che negli anni Sessanta prendeva le forme della protesta sociale (ma senza trovarsi più a suo agio nelle forme tradizionali dei partiti di massa e dei sindacati); negli anni Settanta corteggiava la lotta armata; negli anni Ottanta si esprimeva nel consumismo senza più freni inibitori. Una liberazione che forse oggi smette di avere senso, nel momento in cui una ragazza svedese ci ricorda che non c'è futuro per chi non riesce a riciclare carta e plastica. Sono cose che fanno incazzare i babyboomers, non perché siano anziani – ok, ormai sono anziani – ma perché per buona parte della loro vita sono stati abituati a disobbedire alle regole, dubitare delle autorità, mettere in crisi le convenzioni. È stato un momento importante, in certi casi eroico e in altri tragico, ma è finito. Il consumo sfrenato è finito. Persino il capitalismo, sì, potrebbe avere i giorni contati. Non è colpa di nessuno, ovvero è colpa di tutti: siamo troppi, il pianeta si sta scaldando, eccetera eccetera. Greta è fastidiosa perché ce lo ricorda. È inquietante perché da un volto al senso di colpa collettivo di una e più generazioni, nei confronti di quelle che verranno e assisteranno coi loro occhi alla catastrofe ambientale che gli esperti danno ormai per difficilmente evitabile.
Quando il presidente dell’Istituto superiore di Sanità ci informa del rischio che “i nostri nipoti non possano più stare all’aria aperta per gran parte dell’anno a causa dell’aumento delle temperature”, non sta parlando dei protagonisti di un romanzo distopico: i “nipoti” sono Greta e i suoi coetanei. È normale che si preoccupino molto più dei padri e dei nonni. Il benessere che i genitori hanno dato per scontato è fatto di tanti privilegi a cui devono prepararsi a rinunciare. (continua su TheVision).
Oltre a dare un ultimatum ai governi che non sono in grado di recepirli, o a diffondere buone pratiche ambientaliste che da sole non risolveranno mai il problema, le manifestazioni della prossima generazione servono anche ad abituare gli stessi manifestanti ad accettare l’idea. Certo, molti continueranno a rifiutarla, come dimostra il fatto che la lotta ambientalista non è nata ieri eppure in questi decenni i progressi sono stati pochi e lenti. Eppure la lotta di Greta è lungi dall’essere inutile. Non sarà la soluzione, ma il ruolo di un’adolescente svedese per la sua stessa generazione è fondamentale.
Qualsiasi previsione più o meno scientifica sull’aumento della temperatura degli oceani e dell’atmosfera nei prossimi anni non ha ancora tenuto conto del dato più imponderabile: a un certo punto cominceranno a scaldarsi anche gli esseri umani, forse in modo incontrollabile. I tafferugli dei giléts jaunes francesi non sono che una timida avvisaglia di quello succederà in Occidente quando la crisi ambientale busserà davvero alla porta e i governi cominceranno a varare politiche di repressione dei consumi. Il che difficilmente succederà grazie a qualche manifestazione giovanile al venerdì fin quando ben più della metà della popolazione occidentale rifiuta ancora l’evidenza, e vota per chi fa del rifiuto un manifesto politico. Ma prima o poi succederà. E così come il terrorismo islamico non era sentito come un problema fino all’undici settembre, per avere il riscaldamento globale al primo punto dell’ordine del giorno bisognerà aspettare un disastro più eclatante del solito che metta davvero in discussione la vita e la sicurezza dell’Occidente (perché in fondo uragani e alluvioni ci sono già: e l’inquinamento fa già centinaia di migliaia di morti).
Ma quando i primi disastri costringeranno i governi occidentali a varare misure di emergenza, i cittadini accetteranno la progressiva soppressione delle libertà individuali? Giuliano Ferrara sicuramente no, basti ricordare il casino che fece quando un ministro gli vietò di fumare nei locali pubblici. Pazienza per Ferrara e per Maglie, ma quanti sono come loro? Non siamo un po’ tutti come loro? Quanto siamo disposti a modificare la nostra dieta, le nostre abitudini, il nostro stile di vita, i nostri desideri? Il giorno che una coetanea di Greta ci dirà che non possiamo più mangiare carne o prendere un aeroplano, forse capiremo cosa intendeva confusamente Maglie quando confessava di volerle passare sopra con la sua macchina.