Il poeta, lo zingaro e il Padre
06-05-2017, 01:07Bob Dylan, Il Post, musicaPermalinkNew Morning (1970)
Sono andato a vedere lo zingaro, che stava in un grande hotel. Mi ha sorriso quando mi ha visto arrivare, e ha detto: "Bene-bene-bene". La sua stanza era buia e affollata, le luci basse e offuscate, "Come stai?", mi ha chiesto; e io gli ho risposto lo stesso.
Di tutti i brani bizzarri e incongruenti di New Morning, il più strano resta Went to See the Gypsy. Per un attimo i versi tornano a essere lucidi e inconsistenti come nei momenti più enigmatici di John Wesley Harding. La melodia è inafferrabile, al punto che Al Kooper non riusciva a trovare un modo di arrangiarla: non è un giro armonico, non c'è una strofa o un ritornello, tutto gira intorno a un accordo che cambia ogni tanto, in modo prevedibile e tuttavia imprevisto, una specie di trance onirica. Come nei sogni degli adulti, non è che succeda un granché. Dylan sente di essere al cospetto dello Zingaro, e che ogni discorso sarebbe insoddisfacente. Tutto quel che sente è "Bene bene" e "Come stai?": Dylan risponde ripetendo la domanda. A quel punto lo Zingaro potrebbe ripetere "Bene", e il sogno si avviterebbe su sé stesso. Ma all'improvviso Dylan non è più lì: si ricorda che deve fare una telefonata. Se è il 1970, di sicuro deve telefonare a casa per sapere come stanno i bambini. Sembra che non riesca a pensare ad altro: la famiglia, i bambini, la vita è tutta qui. E poi di nuovo all'improvviso spunta dal nulla una ballerina: perché non sei più con lo Zingaro? Questo era il sogno dello Zingaro! Ritorna da lui. "Lui può tirarti fuori dal retro (He can move you from the rear), condurti lontano dalla tua paura, attraverso lo specchio. Lo ha fatto già a Las Vegas, lo può fare anche qui". Quindi almeno sappiamo che non siamo a Las Vegas. Ma siamo sicuramente in un sogno, perché - come capita nei sogni - indietro non si torna. Dylan ci prova: la porta è aperta, ma lo Zingaro se n'è andato. In compenso ha scoperto dov'è: in Minnesota. A quel punto può svegliarsi. Ha visto lo Zingaro. Non è che ci abbia parlato. Ma non c'era niente che ci si potesse dire, in fondo. Avrà funzionato?
Dylan non ha mai voluto incontrare Elvis Presley, da sveglio. Altri approcci con i divi di quell'era forse lo avevano intimorito (Jerry Lee Lewis era stato molto brusco). Non sarebbe stato difficile organizzare un incontro a Las Vegas o Graceland, ma cosa ne avrebbe guadagnato? A inizio anni '70 Presley non era ancora quell'entità più grande della vita e del rock'n'roll che sopravviveva fagocitando sé stessa. Dylan deve averci pensato. A un certo punto delle sessioni di New Morning voleva registrare finalmente Tomorrow is a Long Time, un suo brano dei tempi dei Witmark Demos che Elvis aveva ascoltato nella versione di Odetta e registrato in un disco del 1966, uno dei momenti opachi della sua carriera. Di nessuna cover Dylan si dichiarava più fiero che di quella di Elvis.
Non è curioso che nel 1970 gli capitasse di pensare più spesso al Re. Aveva venerato altri musicisti più o meno famosi, e aveva conosciuto altri cantanti caduti in disgrazia, ma solo a Elvis era riuscito il secondo avvento: lo strepitoso ritorno alla forma avvenuto nel Natale del 1968, dopo gli anni bui passati a girare pessimi film e registrare mediocri colonne sonore. Due anni dopo Elvis trionfava incontrastato nella Mecca che un tempo lo aveva respinto, Las Vegas. La domanda inconfessabile che grava sulla nebbia di Went to See the Gypsy non può che essere: potrò tornare anch'io, dal retrobottega al palcoscenico? Perché ultimamente non so più cosa sto facendo. La gente continua a comprare i miei dischi, ma io non mi riconosco più nelle mie canzoni. All'inizio era un gioco, ma adesso davvero non so più dove sono. Ci sarà un Nuovo Mattino, anche per me? Il primo titolo proposto da Dylan era molto diverso: Down and Out on the Scene, Derelitto sul palco. Una pessima idea, ancorché sincera.
È da un po' che Dylan si agita sul ring come un campione suonato. Dopo aver pestato come un fabbro per otto round, da qualche tempo ha iniziato a fare mosse veramente strane, a incassare colpi assurdi. Sulle prime abbiamo pensato che scherzasse, o che la tirasse in lungo per questioni personali - magari ha promesso all'impresario di far durare l'incontro fino al quindicesimo, va' a sapere. Dai, smettila Bob, lo sappiamo che sai fare meglio di così. New Morning è il momento in cui cala la maschera: qui Dylan non sta cercando di fare il cowboy o il crooner. Non sta fingendo, non sta scherzando coi suoi compari in cantina, non fa il buffone, non vuole allontanare un pubblico molesto o vincere una scommessa. In New Morning Dylan vuole ricominciare a fare sul serio. Vuole ritrovare sé stesso. Salvo che non ci riesce. Sé stesso non c'è più.
Lo vedi andare al tappeto e non sta fingendo: sembra proprio cotto.
New Morning - che è senz'altro un disco migliore di Self Portrait - può essere più deprimente da ascoltare. Se più che Dylan ti interessa la musica, è molto facile che tu ti chieda spesso: tutto qui?Qualche melodia graziosa (If Not For You), ma cantata e arrangiata in modo approssimativo, ai livelli dell'autosabotaggio; qualche esperimento potenzialmente interessante, ma lasciato a metà (If Dogs Run Free, Three Angels). Se invece più che la musica ti interessa Dylan, New Morning è uno snodo fondamentale - il diario dell'anno 1970. Uno dei due album che sceglie di raccontare in Chronicles I: l'altro è Oh, Mercy. Quello che accomuna due lavori registrati a vent'anni di distanza è una certa aria di falsa partenza: dovevano essere due ritorni in grande stile, per vari motivi non lo furono. Nessuna canzone di New Morning è diventata un vero classico, Dylan dal vivo ne ha suonate solo tre. Eppure è il disco che ha voluto raccontarci per esteso. Sappiamo che Dylan sta riscoprendo la sua identità ebraica; al funerale del padre, i famigliari stupiti si accorgono che il figlio famoso conosce le preghiere di rito; sappiamo che tre canzoni furono scritte per un musical di Archibald MacLeish in cui in realtà Dylan non credette mai molto. Sappiamo che Day of the Locusts racconta il disagio provato a Princeton, mentre in una giornata afosa attendeva che gli consegnassero una laurea ad honorem (dal prato saliva la "dolce melodia" di un frinire di cicale che forse gli ricordò l'organo stridente di Al Kooper, di nuovo alla corte di Dylan dopo aver fondato, tra gli altri, i Blood, Sweat and Tears). Sappiamo che non fu affatto contento di sentirsi definire "la coscienza turbata della giovane America", proprio in un momento in cui tra lui e la giovane America avrebbe voluto alzare uno steccato altissimo. Sappiamo un po' di cose e alcune ovviamente non tutte sono vere. Ma non è così difficile distinguerle, ormai.
Al telefono, Johnston mi chiese se stavo pensando di incidere qualcosa. Sicuro. Visto che i miei dischi vendevano ancora, perché non avrei dovuto inciderne di nuovi? Non avevo molte canzoni, ma c'erano quelle che avevo scritto per MacLeish. Potevo aggiungerne qualcun'altra e finire il lavoro in studio se proprio dovevo, e Johnston era impaziente di cominciare. Lavorare con lui era come mettersi al volante da ubriachi. (Chronicles I).
Per esempio: non può essere andata così. È abbastanza improbabile che le sessioni di New Morning siano cominciate perché il produttore Bob Johnston aveva voglia di "incidere qualcosa". Non nella primavera del 1970, quando Johnston ha appena finito di remixare Self Portrait. Non siamo più nei primi anni Sessanta, non ha più nessun senso commerciale per un artista pubblicare due LP a distanza di pochi mesi - ora sarebbe una mossa autolesionista farsi concorrenza da solo. Eppure il grosso delle incisioni di New Morning, Dylan lo produce ai primi di giugno, proprio mentre SP arriva nei negozi e comincia a scalare le classifiche - perché malgrado tutto, la merda vendette bene; e le recensioni perplesse o perfide sarebbero arrivate solo nelle settimane successive.
Nel giro di una settimana ero agli studi Columbia di New York con Johnston al timone, convinto che tutto quel che incido io è fantastico. Come al suo solito. È sicuro che stiamo per fare il colpo grosso e tutto sta in piedi. Al contrario. Mai niente stava in piedi. Neanche dopo che una canzone era finita e registrata stava in piedi.
In seguito Dylan ha più volte smentito di aver cominciato a registrare New Morning così presto per rimediare alla figuraccia rimediata con SP ("Non ho mai detto: Oddio, questo non piace - registriamone un altro"), e in un certo senso non si tratta di una bugia. Non era il giudizio altrui che temeva. Sapeva già di aver mandato fuori un disco sbagliato e no, nel 1970 non aveva ancora tutta questa voglia di trattarlo come un esperimento sociologico e lasciare che decantasse, alienando una frazione più o meno grande del suo pubblico. Col proseguire dell'estate le recensioni cominciavano a uscire, e a quel punto Dylan andò davvero in confusione, esasperando Al Kooper che si era ritrovato l'onere di lavorare agli arrangiamenti: il timoniere Johnston era assente, forse in ferie. Dylan, che era partito con l'idea di inserire arrangiamenti orchestrali come in Self Portrait, aveva scoperto che a critici e pubblico proprio non piacevano. Un giorno si era messo in testa di registrare una nuova versione di Blowin' in the Wind; la provò quindici volte; niente da fare. "Cambiava idea ogni tre secondi", dice Kooper, "alla fine lavorai come per tre album... Quando fu tutto finito, non lo volevo vedere più".
Ero appena arrivato a Woodstock dal Midwest, dal funerale di mio padre. Ad aspettarmi sul tavolo c'era una lettera di Archibald MacLeish, uno dei Poeti laureati d'America.
Per più di dieci anni Dylan non ha sentito la necessità di un padre. Aveva persino rinunciato al suo nome, troppo lungo e spigoloso, retaggio di uno dei pochi passati che non gli interessava evocare - negli anni della rincorsa al successo aveva preferito rivendicare uno zio pellerossa (inesistente) piuttosto che un padre ebreo. "Probabilmente valeva cento volte quel che valevo io, ma non mi capiva". Per molto tempo non avevano avuto niente da dirsi: Dylan scriveva canzoni per una generazione diversa. Canzoni ottime, ma incomprensibili ai padri. Poi un giorno il padre all'improvviso non c'è stato più, e Dylan ha smesso di scriverle. Magari è solo una coincidenza. Ma l'anima inquieta che si dibatte tra i solchi di New Morning - e tra le pagine dell'omonimo capitolo di Chronicles I - è un uomo solo davanti ai suoi problemi, che ha bisogno di un consiglio e non ha nessuno a cui poterlo chiedere. Non al padre, non allo Zingaro, non a Johnston il timoniere, e nemmeno ad Archibald MacLeish, poeta modernista e bibliotecario del Congresso durante l'amministrazione Roosevelt. Il capitolo comincia con l'immagine della sua lettera su un tavolo. Dylan l'ha aperta di ritorno a Woodstock, dopo aver seppellito il padre. Più chiaro di così non potrebbe scrivercelo: Dylan è in cerca di figure paterne, e MacLeish, a differenza di Abram Zimmerman, conosceva le sue canzoni. Era rimasto colpito dall'immagine di Ezra Pound e T.S. Eliot che lottano nella torre del capitano del Titanic, in Desolation Row. Per MacLeish quei due nomi non erano solo lettere dorate sulle coste dei volumi di poesia: li aveva conosciuti di persona. E adesso voleva conoscere Dylan: gli voleva proporre di lavorare con lui a un musical ispirato al racconto Il Diavolo and Daniel Webster, la storia di un americano che fa un patto col demonio. Ma Dylan di demonio non voleva sentir parlare. Non in quel momento della sua vita, almeno.
Il resoconto di Dylan dei due incontri con MacLeish è appena un po' meno elusivo del sogno con lo Zingaro: MacLeish gli parla di letteratura, lo interroga sulle sue letture (Dylan è abbastanza onesto sulle sue lacune), lo conforta sulle sue doti di poeta. Quanto al musical sul diavolo, Dylan afferma di aver capito subito che non era materiale per lui. "Era un'opera cupa. Dipingeva un mondo paranoico, fatto di colpa e paura, in uno stato di perenne oscuramento, a testa bassa contro l'era atomica, pieno di inganni e slealtà. Non c'era molto da dire né da aggiungere". In fondo si sarebbe potuto dire la stessa cosa del lato B di Bringing It All Back Home - MacLeish non aveva pensato a lui per caso. Invece di ritorno a casa, Dylan comincia a scrivere inni alle gioie della vita rurale: New Morning, Time Passes Slowly, e un brano che più di ogni altro assomiglia a una preghiera ebraica: Father of Night. Il titolo glielo aveva proposto MacLeish, pensando a Satana: ma il Padre della canzone è un Ente benigno "che porta via l'oscurità". Quando nel successivo incontro MacLeish gli chiede la ragione di tanto ottimismo, Dylan non trova le parole (continua sul Post)
(Il disco precedente: Dylan
Il disco successivo: Another Self Portrait).
Di tutti i brani bizzarri e incongruenti di New Morning, il più strano resta Went to See the Gypsy. Per un attimo i versi tornano a essere lucidi e inconsistenti come nei momenti più enigmatici di John Wesley Harding. La melodia è inafferrabile, al punto che Al Kooper non riusciva a trovare un modo di arrangiarla: non è un giro armonico, non c'è una strofa o un ritornello, tutto gira intorno a un accordo che cambia ogni tanto, in modo prevedibile e tuttavia imprevisto, una specie di trance onirica. Come nei sogni degli adulti, non è che succeda un granché. Dylan sente di essere al cospetto dello Zingaro, e che ogni discorso sarebbe insoddisfacente. Tutto quel che sente è "Bene bene" e "Come stai?": Dylan risponde ripetendo la domanda. A quel punto lo Zingaro potrebbe ripetere "Bene", e il sogno si avviterebbe su sé stesso. Ma all'improvviso Dylan non è più lì: si ricorda che deve fare una telefonata. Se è il 1970, di sicuro deve telefonare a casa per sapere come stanno i bambini. Sembra che non riesca a pensare ad altro: la famiglia, i bambini, la vita è tutta qui. E poi di nuovo all'improvviso spunta dal nulla una ballerina: perché non sei più con lo Zingaro? Questo era il sogno dello Zingaro! Ritorna da lui. "Lui può tirarti fuori dal retro (He can move you from the rear), condurti lontano dalla tua paura, attraverso lo specchio. Lo ha fatto già a Las Vegas, lo può fare anche qui". Quindi almeno sappiamo che non siamo a Las Vegas. Ma siamo sicuramente in un sogno, perché - come capita nei sogni - indietro non si torna. Dylan ci prova: la porta è aperta, ma lo Zingaro se n'è andato. In compenso ha scoperto dov'è: in Minnesota. A quel punto può svegliarsi. Ha visto lo Zingaro. Non è che ci abbia parlato. Ma non c'era niente che ci si potesse dire, in fondo. Avrà funzionato?
Dylan non ha mai voluto incontrare Elvis Presley, da sveglio. Altri approcci con i divi di quell'era forse lo avevano intimorito (Jerry Lee Lewis era stato molto brusco). Non sarebbe stato difficile organizzare un incontro a Las Vegas o Graceland, ma cosa ne avrebbe guadagnato? A inizio anni '70 Presley non era ancora quell'entità più grande della vita e del rock'n'roll che sopravviveva fagocitando sé stessa. Dylan deve averci pensato. A un certo punto delle sessioni di New Morning voleva registrare finalmente Tomorrow is a Long Time, un suo brano dei tempi dei Witmark Demos che Elvis aveva ascoltato nella versione di Odetta e registrato in un disco del 1966, uno dei momenti opachi della sua carriera. Di nessuna cover Dylan si dichiarava più fiero che di quella di Elvis.
Non è curioso che nel 1970 gli capitasse di pensare più spesso al Re. Aveva venerato altri musicisti più o meno famosi, e aveva conosciuto altri cantanti caduti in disgrazia, ma solo a Elvis era riuscito il secondo avvento: lo strepitoso ritorno alla forma avvenuto nel Natale del 1968, dopo gli anni bui passati a girare pessimi film e registrare mediocri colonne sonore. Due anni dopo Elvis trionfava incontrastato nella Mecca che un tempo lo aveva respinto, Las Vegas. La domanda inconfessabile che grava sulla nebbia di Went to See the Gypsy non può che essere: potrò tornare anch'io, dal retrobottega al palcoscenico? Perché ultimamente non so più cosa sto facendo. La gente continua a comprare i miei dischi, ma io non mi riconosco più nelle mie canzoni. All'inizio era un gioco, ma adesso davvero non so più dove sono. Ci sarà un Nuovo Mattino, anche per me? Il primo titolo proposto da Dylan era molto diverso: Down and Out on the Scene, Derelitto sul palco. Una pessima idea, ancorché sincera.
È da un po' che Dylan si agita sul ring come un campione suonato. Dopo aver pestato come un fabbro per otto round, da qualche tempo ha iniziato a fare mosse veramente strane, a incassare colpi assurdi. Sulle prime abbiamo pensato che scherzasse, o che la tirasse in lungo per questioni personali - magari ha promesso all'impresario di far durare l'incontro fino al quindicesimo, va' a sapere. Dai, smettila Bob, lo sappiamo che sai fare meglio di così. New Morning è il momento in cui cala la maschera: qui Dylan non sta cercando di fare il cowboy o il crooner. Non sta fingendo, non sta scherzando coi suoi compari in cantina, non fa il buffone, non vuole allontanare un pubblico molesto o vincere una scommessa. In New Morning Dylan vuole ricominciare a fare sul serio. Vuole ritrovare sé stesso. Salvo che non ci riesce. Sé stesso non c'è più.
Lo vedi andare al tappeto e non sta fingendo: sembra proprio cotto.
Al telefono, Johnston mi chiese se stavo pensando di incidere qualcosa. Sicuro. Visto che i miei dischi vendevano ancora, perché non avrei dovuto inciderne di nuovi? Non avevo molte canzoni, ma c'erano quelle che avevo scritto per MacLeish. Potevo aggiungerne qualcun'altra e finire il lavoro in studio se proprio dovevo, e Johnston era impaziente di cominciare. Lavorare con lui era come mettersi al volante da ubriachi. (Chronicles I).
Per esempio: non può essere andata così. È abbastanza improbabile che le sessioni di New Morning siano cominciate perché il produttore Bob Johnston aveva voglia di "incidere qualcosa". Non nella primavera del 1970, quando Johnston ha appena finito di remixare Self Portrait. Non siamo più nei primi anni Sessanta, non ha più nessun senso commerciale per un artista pubblicare due LP a distanza di pochi mesi - ora sarebbe una mossa autolesionista farsi concorrenza da solo. Eppure il grosso delle incisioni di New Morning, Dylan lo produce ai primi di giugno, proprio mentre SP arriva nei negozi e comincia a scalare le classifiche - perché malgrado tutto, la merda vendette bene; e le recensioni perplesse o perfide sarebbero arrivate solo nelle settimane successive.
Nel giro di una settimana ero agli studi Columbia di New York con Johnston al timone, convinto che tutto quel che incido io è fantastico. Come al suo solito. È sicuro che stiamo per fare il colpo grosso e tutto sta in piedi. Al contrario. Mai niente stava in piedi. Neanche dopo che una canzone era finita e registrata stava in piedi.
In seguito Dylan ha più volte smentito di aver cominciato a registrare New Morning così presto per rimediare alla figuraccia rimediata con SP ("Non ho mai detto: Oddio, questo non piace - registriamone un altro"), e in un certo senso non si tratta di una bugia. Non era il giudizio altrui che temeva. Sapeva già di aver mandato fuori un disco sbagliato e no, nel 1970 non aveva ancora tutta questa voglia di trattarlo come un esperimento sociologico e lasciare che decantasse, alienando una frazione più o meno grande del suo pubblico. Col proseguire dell'estate le recensioni cominciavano a uscire, e a quel punto Dylan andò davvero in confusione, esasperando Al Kooper che si era ritrovato l'onere di lavorare agli arrangiamenti: il timoniere Johnston era assente, forse in ferie. Dylan, che era partito con l'idea di inserire arrangiamenti orchestrali come in Self Portrait, aveva scoperto che a critici e pubblico proprio non piacevano. Un giorno si era messo in testa di registrare una nuova versione di Blowin' in the Wind; la provò quindici volte; niente da fare. "Cambiava idea ogni tre secondi", dice Kooper, "alla fine lavorai come per tre album... Quando fu tutto finito, non lo volevo vedere più".
Ero appena arrivato a Woodstock dal Midwest, dal funerale di mio padre. Ad aspettarmi sul tavolo c'era una lettera di Archibald MacLeish, uno dei Poeti laureati d'America.
Il resoconto di Dylan dei due incontri con MacLeish è appena un po' meno elusivo del sogno con lo Zingaro: MacLeish gli parla di letteratura, lo interroga sulle sue letture (Dylan è abbastanza onesto sulle sue lacune), lo conforta sulle sue doti di poeta. Quanto al musical sul diavolo, Dylan afferma di aver capito subito che non era materiale per lui. "Era un'opera cupa. Dipingeva un mondo paranoico, fatto di colpa e paura, in uno stato di perenne oscuramento, a testa bassa contro l'era atomica, pieno di inganni e slealtà. Non c'era molto da dire né da aggiungere". In fondo si sarebbe potuto dire la stessa cosa del lato B di Bringing It All Back Home - MacLeish non aveva pensato a lui per caso. Invece di ritorno a casa, Dylan comincia a scrivere inni alle gioie della vita rurale: New Morning, Time Passes Slowly, e un brano che più di ogni altro assomiglia a una preghiera ebraica: Father of Night. Il titolo glielo aveva proposto MacLeish, pensando a Satana: ma il Padre della canzone è un Ente benigno "che porta via l'oscurità". Quando nel successivo incontro MacLeish gli chiede la ragione di tanto ottimismo, Dylan non trova le parole (continua sul Post)
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Il business degli immigrati, il business Mondadori, l'egemonia a Cologno
04-05-2017, 02:02editoria, internet, migranti, razzismi, RenziPermalinkA questo punto credo che sia stato appurato che c'è almeno un'organizzazione, molto potente, che lucra sul traffico di migranti. Si chiama Mondadori, vende i libri di Mario Giordano e li promuove mediante video virali su youtube - come quello famoso di Luca Donadel che ha suggestionato un po' tutti. Forse anche quel giudice di Catania che qualche settimana fa ha iniziato a parlare di un complotto di Ong per traghettare i migranti in Sicilia: non aveva prove, nemmeno le aveva chieste all'intelligence perché "non le avrebbe sapute usare", ma "gli risultava da internet", "perché in rete ci sono i dati della posizione delle ong".
Ora potrei sbagliare, ma questa famosa "internet" in cui ci sarebbero "i dati della posizione delle ong" credo consista soprattutto in quel video del "ragazzo che smentisce le balle dei media", ovvero Luca Donadel. È lui, nel suo video 'autoprodotto', a mostrare i tracciati delle navi di alcune ONG; è lui a far notare che esse interpretano la loro missione di salvataggio giungendo a volte a poche miglia nautiche dalla costa libica: è lui a intonare, per primo, il tema del sospetto: a chi giova (non far annegare migliaia di profughi nel mediterraneo)? Chi ci campa con quei famosi 35€ al giorno? Eccetera eccetera. Tutto quello che afferma Donadel si può naturalmente discutere - rimando a un pezzo di Leonardo Bianchi di un mese e mezzo fa, segno che il video è virale già da parecchio. Aggiungo soltanto un dettaglio: il "chi giova" si può naturalmente riflettere su Donadel stesso, che candidamente afferma di aver speso 400€ per accedere a un'applicazione che traccia il traffico navale: sono parecchi soldi per uno youtuber che si filma ancora nella sua cameretta. Chi glieli avrà anticipati?
Il fatto che il pezzo sia accompagnato da un link al libro di Mario Giordano (Mondadori) ci può fornire un indizio.
Il fatto che nel video Donadel affermi: "Si dice che gli italiani leggano poco, meno di un libro all'anno. Fidatevi: questo è il tipo di libro che vale la pena leggere", ce ne offre un altro.
(Notate la delicatezza: ci tiene a farci capire che anche se non riusciamo a leggere un libro in un anno, questo riusciamo a leggerlo).
Poco dopo Donadel, che altrove è presentato come "ragazzo" o "studente", afferma di lavorare nella "comunicazione". Quindi qui avremmo un giovane sedicente professionista che reclamizza un libro. Domanda: lo starà reclamizzando gratis? Avrà speso 400€ del suo salario di giovane comunicatore così, per il gusto di dare un po' di visibilità a un libro di un affermato giornalista della Mondadori? Potremmo anche credere che le cose stiano così, in fondo a vent'anni di cose molto sceme ne abbiamo fatte tutti. Chi, avendone le possibilità, non avrebbe speso tempo e denaro per aiutare Mario Giordano a vendere un libro Mondadori in cui punta il dito sulle organizzazioni non governative?
In seguito il video di Donadel è stato ripreso da Striscia la Notizia, una trasmissione della Mediaset; il giovane e brillante comunicatore è stato ospite di Matrix (sempre Mediaset) e ha scritto per Panorama (Mondadori). A me non sembra così scemo in fin dei conti. Non posso non notare che continua a collaborare con lo stesso gruppo editoriale che trasmette, in fascia preserale, un programma xenofobo a cadenza quasi quotidiana su Retequattro. Poi se volete potete pure dare la colpa a internet, questo brutto posto dove nidificano le post-verità. Senza dubbio anche Donadel ha iniziato a pigolare qui, ma mi sembra che ormai abbia spiccato il volo.
Nel frattempo un giudice ha aperto un'inchiesta conoscitiva su una cosa di cui, per sua ammissione, non conosce un granché; il vicepresidente della Camera ha definito le navi delle ONG dei taxi per migranti; il governo Gentiloni ha aperto i Centri Permanenti per il Rimpatrio; inoltre il decreto Minniti-Orlando toglie ai rifugiati il diritto di fare ricorso contro la sentenza di un giudice che li rimanda in Libia. Ma cambiamo argomento - è da un po' che non si parla più di Renzi, come se non fosse l'unica vera cosa interessante al mondo, no? Il ritorno di Renzi, l'odissea di Renzi, la riscossa di Renzi.
L'altro giorno Andrea Romano, forse ancora un po' eccitato per il buon risultato delle primarie, l'ha definito il definitivo consolidamento di "quella che oggi possiamo serenamente definire una egemonia culturale del riformismo sulla sinistra italiana".
Non credo di avere le competenze per discutere col professor Romano della definizione gramsciana di egemonia culturale. Pure, sono abbastanza sicuro che non si trattasse di una medaglietta che spetta a chi si fa le primarie in casa e le vince; anzi, la questione dell'egemonia serviva a spiegare che certe volte avere una maggioranza è inutile, visto che le idee che hai in testa continua a spiegartele una minoranza.
Per esempio: Renzi potrebbe anche tornare a palazzo Chigi, ma se le sue idee sono rottamare il centrosinistra (vecchio cavallo di battaglia berlusconiano) e tagliare i seggi in parlamento e vendere le auto blu su ebay (nuove idee grilline), direi che l'egemonia è ancora lontana. Suggerirei di guardare un po' più su, nella periferia nordorientale di Milano, dove ha ancora sede un gruppo editoriale che, se vuole, può pompare xenofobia tutta le sere alle otto e mezzo, senza che nessuno possa farci niente (legge sul conflitto d'interessi? nella cultura di Renzi non c'è mai stata). Un gruppo editoriale che può inventarsi l'emergenza profughi, scriverci dei libri, promuoverli sulle sue riviste - e su youtube, ovviamente: qualcuno se la prenderà con youtube. Vi diranno che ormai la società è liquida, e la gente è così, si fida delle peggio stronzate su internet, non c'è più niente da fare, pare che l'egemonia l'abbia un ragazzino che nella sua cameretta mostra le rotte delle navi e cambia le idee a un magistrato e a un vicepresidente della camera. Che possono fare i poveri Riformisti, a parte rincorrere gli xenofobi su questi argomenti? riaprire i centri di detenzione, i campi profughi in Libia e così via, e sperare che alle prossime elezioni votino per gli xenofobi riformisti, gli xenofobi dal volto umano?
No, sul serio, cosa potete fare?
BOMBARDARE COLOGNO MONZESE, SCIOCCHERELLI!
Cioè, andava fatto 15 anni fa, ma non esiste un tardi che sia peggio di mai.
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Ma perché "Quelli"? Io nella foto ne vedo uno solo. |
Il fatto che il pezzo sia accompagnato da un link al libro di Mario Giordano (Mondadori) ci può fornire un indizio.
Il fatto che nel video Donadel affermi: "Si dice che gli italiani leggano poco, meno di un libro all'anno. Fidatevi: questo è il tipo di libro che vale la pena leggere", ce ne offre un altro.
(Notate la delicatezza: ci tiene a farci capire che anche se non riusciamo a leggere un libro in un anno, questo riusciamo a leggerlo).
Poco dopo Donadel, che altrove è presentato come "ragazzo" o "studente", afferma di lavorare nella "comunicazione". Quindi qui avremmo un giovane sedicente professionista che reclamizza un libro. Domanda: lo starà reclamizzando gratis? Avrà speso 400€ del suo salario di giovane comunicatore così, per il gusto di dare un po' di visibilità a un libro di un affermato giornalista della Mondadori? Potremmo anche credere che le cose stiano così, in fondo a vent'anni di cose molto sceme ne abbiamo fatte tutti. Chi, avendone le possibilità, non avrebbe speso tempo e denaro per aiutare Mario Giordano a vendere un libro Mondadori in cui punta il dito sulle organizzazioni non governative?
In seguito il video di Donadel è stato ripreso da Striscia la Notizia, una trasmissione della Mediaset; il giovane e brillante comunicatore è stato ospite di Matrix (sempre Mediaset) e ha scritto per Panorama (Mondadori). A me non sembra così scemo in fin dei conti. Non posso non notare che continua a collaborare con lo stesso gruppo editoriale che trasmette, in fascia preserale, un programma xenofobo a cadenza quasi quotidiana su Retequattro. Poi se volete potete pure dare la colpa a internet, questo brutto posto dove nidificano le post-verità. Senza dubbio anche Donadel ha iniziato a pigolare qui, ma mi sembra che ormai abbia spiccato il volo.
Nel frattempo un giudice ha aperto un'inchiesta conoscitiva su una cosa di cui, per sua ammissione, non conosce un granché; il vicepresidente della Camera ha definito le navi delle ONG dei taxi per migranti; il governo Gentiloni ha aperto i Centri Permanenti per il Rimpatrio; inoltre il decreto Minniti-Orlando toglie ai rifugiati il diritto di fare ricorso contro la sentenza di un giudice che li rimanda in Libia. Ma cambiamo argomento - è da un po' che non si parla più di Renzi, come se non fosse l'unica vera cosa interessante al mondo, no? Il ritorno di Renzi, l'odissea di Renzi, la riscossa di Renzi.
L'altro giorno Andrea Romano, forse ancora un po' eccitato per il buon risultato delle primarie, l'ha definito il definitivo consolidamento di "quella che oggi possiamo serenamente definire una egemonia culturale del riformismo sulla sinistra italiana".
Non credo di avere le competenze per discutere col professor Romano della definizione gramsciana di egemonia culturale. Pure, sono abbastanza sicuro che non si trattasse di una medaglietta che spetta a chi si fa le primarie in casa e le vince; anzi, la questione dell'egemonia serviva a spiegare che certe volte avere una maggioranza è inutile, visto che le idee che hai in testa continua a spiegartele una minoranza.
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400€ e ti porti a casa il pacchetto, egemonia inclusa. |
No, sul serio, cosa potete fare?
BOMBARDARE COLOGNO MONZESE, SCIOCCHERELLI!
Cioè, andava fatto 15 anni fa, ma non esiste un tardi che sia peggio di mai.
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La galassia si salva ballando
01-05-2017, 01:17cinema, Cosa vedere a Cuneo (e provincia) quando sei vivoPermalinkI guardiani della galassia vol. 2 (James Gunn, 2).
Da qualche parte in una galassia meno lontana del solito, i Guardiani aspettano un mostro litigando su chi deve combattere e chi mettere su i dischi. Alla fine ci pensa il piccolo Groot. E siccome di combattimenti con i mostri galattici al cinema se ne vedono tutte le settimane, ormai, James Gunn decide di stringere l'obiettivo su Groot. È una scena che dura i quattro minuti di Mr Blue Sky, ma è più che sufficiente. Se non vi è piaciuta, potevate già alzarvi dalle poltroncine, perché i Guardiani Due è tutto qui. And if you don't love me now you will never love me again...
È un film su un bambino e sui suoi tanti padri. Il bambino si mette nei spesso nei guai e i padri non sono sempre attenti e presenti come dovrebbero essere. Se vi aspettate colossali scene d'azione resterete interdetti, se credevate che tra un combattimento e l'altro i Guardiani facessero dialoghi brillanti ci resterete male: si ride, sì, ma di battute abbastanza innocue e reiterate a uso degli spettatori più giovani. I Guardiani 2 è, come i migliori film Marvel, un film particolarmente fluido, senza vere soluzioni di continuità tra azione e commedia. Non ci sono personaggi seri e personaggi buffi; non ci sono scene madri, recitativi e siparietti buffi.
Come nei fumetti della casa madre, i personaggi scherzano mentre lottano, spiegano mentre uccidono, si confessano a degli sconosciuti perché non c'è una sola vignetta, una sola scena che non debba mandare avanti la storia, far ridere e stordirti con forme e colori. È quel groviglio di tensioni e di affetti, di forme ed effetti e di nuvolette fitte che raramente al cinema funziona, ma alla Marvel più spesso che agli altri. I Guardiani 2 è uno dei cinecomic più divertenti di sempre non per gli sfondi o gli effetti (computergrafica abbastanza standard, con qualche ricercatezza cromatica); non per le scene d'azione, e nemmeno per i dialoghi: ma perché riesce ad amalgamarli a puntino e alla fine non sapresti davvero cosa togliere e cosa aggiungere, un film così o ti piace tutto o dovevi andartene subito.
Anche l'ossessione per gli anni Ottanta è un mezzo più che un fine. I nonni che portano i nipotini al cinema almeno avranno qualche bella canzone da ascoltare; i padri si ricorderanno di qualche pomeriggio in sala giochi; i figli e i nipoti si immedesimeranno in Rocket e Drax, che non hanno ancora capito come funzionano le strizzate d'occhio, ma ci stanno lavorando. Fan di Guerre Stellari e Avengers non lo ammetteranno mai, ma i Guardiani stanno dando punti a entrambi... (continua su +eventi!) Sono arrivati dopo, con meno pretese - e questo forse è un vantaggio; si muovono in una delle province meno conosciute dell'immaginario Marvel (lo spazio profondo), cannibalizzando personaggi storici senza la minima preoccupazione filologica. Nessuno si aspettava un granché da Starlord e dai suoi amici alberi e procioni, e guarda cosa ti combinano ogni volta. Non ci provano nemmeno a sembrare profondi, ed è forse il motivo per cui qualche volta ci riescono. Nei Guardiani Due a un certo punto c'è quel tipo di scena commovente che Il risveglio della forza cercava affannosamente di allestire - salvo che qui ci si commuove davvero, senza avere a disposizione nessun vecchio eroe da sacrificare. Ogni personaggio ha un problema, una battuta e un momento di gloria: ogni guardiano a turno è mostro, eroe e clown. Tre anni dopo I guardiani sono di nuovo esattamente il film che volevamo vedere da ragazzini quando riuscivamo a conquistare il telecomando e a tenerlo fermo sul Ritorno dello Jedi o Flash Gordon o Star Games. Più che una parodia degli anni Ottanta, è la riscossa di un decennio che sapeva di averci lasciati delusi. È tornato a salvarci, sa che ci meritavamo di meglio, non ha troppe giustificazioni, ma una tuta spaziale tascabile. E anche stavolta siamo tutti Groot.
Da qualche parte in una galassia meno lontana del solito, i Guardiani aspettano un mostro litigando su chi deve combattere e chi mettere su i dischi. Alla fine ci pensa il piccolo Groot. E siccome di combattimenti con i mostri galattici al cinema se ne vedono tutte le settimane, ormai, James Gunn decide di stringere l'obiettivo su Groot. È una scena che dura i quattro minuti di Mr Blue Sky, ma è più che sufficiente. Se non vi è piaciuta, potevate già alzarvi dalle poltroncine, perché i Guardiani Due è tutto qui. And if you don't love me now you will never love me again...
È un film su un bambino e sui suoi tanti padri. Il bambino si mette nei spesso nei guai e i padri non sono sempre attenti e presenti come dovrebbero essere. Se vi aspettate colossali scene d'azione resterete interdetti, se credevate che tra un combattimento e l'altro i Guardiani facessero dialoghi brillanti ci resterete male: si ride, sì, ma di battute abbastanza innocue e reiterate a uso degli spettatori più giovani. I Guardiani 2 è, come i migliori film Marvel, un film particolarmente fluido, senza vere soluzioni di continuità tra azione e commedia. Non ci sono personaggi seri e personaggi buffi; non ci sono scene madri, recitativi e siparietti buffi.
Come nei fumetti della casa madre, i personaggi scherzano mentre lottano, spiegano mentre uccidono, si confessano a degli sconosciuti perché non c'è una sola vignetta, una sola scena che non debba mandare avanti la storia, far ridere e stordirti con forme e colori. È quel groviglio di tensioni e di affetti, di forme ed effetti e di nuvolette fitte che raramente al cinema funziona, ma alla Marvel più spesso che agli altri. I Guardiani 2 è uno dei cinecomic più divertenti di sempre non per gli sfondi o gli effetti (computergrafica abbastanza standard, con qualche ricercatezza cromatica); non per le scene d'azione, e nemmeno per i dialoghi: ma perché riesce ad amalgamarli a puntino e alla fine non sapresti davvero cosa togliere e cosa aggiungere, un film così o ti piace tutto o dovevi andartene subito.
Anche l'ossessione per gli anni Ottanta è un mezzo più che un fine. I nonni che portano i nipotini al cinema almeno avranno qualche bella canzone da ascoltare; i padri si ricorderanno di qualche pomeriggio in sala giochi; i figli e i nipoti si immedesimeranno in Rocket e Drax, che non hanno ancora capito come funzionano le strizzate d'occhio, ma ci stanno lavorando. Fan di Guerre Stellari e Avengers non lo ammetteranno mai, ma i Guardiani stanno dando punti a entrambi... (continua su +eventi!) Sono arrivati dopo, con meno pretese - e questo forse è un vantaggio; si muovono in una delle province meno conosciute dell'immaginario Marvel (lo spazio profondo), cannibalizzando personaggi storici senza la minima preoccupazione filologica. Nessuno si aspettava un granché da Starlord e dai suoi amici alberi e procioni, e guarda cosa ti combinano ogni volta. Non ci provano nemmeno a sembrare profondi, ed è forse il motivo per cui qualche volta ci riescono. Nei Guardiani Due a un certo punto c'è quel tipo di scena commovente che Il risveglio della forza cercava affannosamente di allestire - salvo che qui ci si commuove davvero, senza avere a disposizione nessun vecchio eroe da sacrificare. Ogni personaggio ha un problema, una battuta e un momento di gloria: ogni guardiano a turno è mostro, eroe e clown. Tre anni dopo I guardiani sono di nuovo esattamente il film che volevamo vedere da ragazzini quando riuscivamo a conquistare il telecomando e a tenerlo fermo sul Ritorno dello Jedi o Flash Gordon o Star Games. Più che una parodia degli anni Ottanta, è la riscossa di un decennio che sapeva di averci lasciati delusi. È tornato a salvarci, sa che ci meritavamo di meglio, non ha troppe giustificazioni, ma una tuta spaziale tascabile. E anche stavolta siamo tutti Groot.
I Guardiani della Galassia vol. 2 è disponibile in versione 3d al Cityplex di Alba alle 22:00; al Cinelandia di Borgo San Dalmazzo alle 16:30; all'Impero di Bra alle 16:45 e alle 20:00. In 2D si proietta al Cityplex di Alba alle 16:00 e alle 19:00; al Cinelandia di Borgo San Dalmazzo alle 14:20, 17:10, 20:00, 22:45, 15:20, 18:10, 21:00; all'Impero di Bra alle 18:30, 20:20, 22:30; al Fiamma di Cuneo alle 15:00, 18:00, 21:00; al Multilanghe di Dogliani alle 17:20 e alle 20:30; ai Portici di Fossano alle 16:00, 18:30, 21:15; all'Italia di Saluzzo alle 16:00, 18:45, 21:30; al Cinecittà di Savigliano alle 16:00, 18:45, 21:30.
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Il disco che Dylan non voleva che ascoltassi
28-04-2017, 18:40Bob Dylan, Il Post, musicaPermalink
(Il disco precedente: Self Portrait
il disco successivo: New Morning).
Qual è la cosa più brutta che qualcuno che conosci potrebbe farti? per punirti, per ricattarti, per farti stare male, per farti capire che non puoi lasciarlo solo?
Nel 1973 la Columbia, appena abbandonata da Bob Dylan per l'Asylum, pubblicò un disco. Di materiale inedito. Cose che Dylan aveva registrato, che si era pentito di aver registrato, che non aveva pensato di distruggere. Cose talmente brutte che Bob Dylan cedette. Ritornò. Come clausola, chiese che il disco non fosse ristampato mai più. Ovviamente, presto o tardi la Columbia tradì il patto: di Dylan non si butta via niente. Ma per tantissimi anni quel disco, laconicamente intitolato Dylan, divenne una specie di feticcio.
Sembrava che non lo avesse ascoltato nessuno, anche se ne parlavano tutti i libri. I libri poi si limitavano ad accennare alla questione del ricatto, e ad informarci che i brani erano scarti di lavorazione di Self Portrait, un disco già così incredibilmente brutto che per qualche tempo Dylan volle farci credere di averlo inciso per scherzo. Self Portrait compare spesso (ingiustamente) nelle classifiche dei dischi più brutti di tutti i tempi: quanto avrebbe potuto essere orrendo un disco fatto di canzoni scartate da Self Portrait? Quanto doveva essere imbarazzante un disco che Dylan riuscì a non far uscire in formato cd? E Dylan di cd imbarazzanti ne ha pubblicati: ma il disco del 1974 no, quello non saltò fuori (almeno in Nordamerica) finché la Columbia nel 2013 non pubblicò un box di 35 album di studio: e a quel punto ormai di Dylan si era sentito ben di peggio. Questa rimozione lo ha reso un oggetto in un qualche modo leggendario. Self Portrait era già a suo modo un enigma affascinante; Dylan era un vero mistero. Cosa c'era di così orribile, di così inascoltabile, di così inemendabile?
Niente.
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Ira Hayes è il primo a sinistra. |
Dylan è il gemello buono di Self Portrait. Quest'ultimo era un disco consapevolmente, deliberatamente brutto, inciso e pubblicato con l'intenzione di infastidire l'ascoltatore. Dylan è il disco che Dylan non voleva assolutamente farti ascoltare. Magari ad ascoltarlo un po' ti incazzi, ma non con lui. Anzi finisci per rivalutarlo. Non solo perché Big Yellow Taxi è meno terribile di quel che ricordavi, ma soprattutto perché dopo averla provata, Dylan ha avuto la saggia idea di nasconderla in un cassetto e non pensarci più. Stavolta non è stata colpa sua. Maledetta Columbia.
"Come sei arrivato qui?"
"Su un treno merci".
"Vuoi dire un treno passeggeri?"
"No, un treno merci".
"Vuoi dire su un vagone di quelli coperti?"
"Sì, un vagone così. Un treno merci".
"Va bene, un treno merci".
(Chronicles I)
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Il marine che andò alla guerra. |
Basterebbe provarla un po' di più - in sottofondo per ora c'è una specie di brainstorming, organo e chitarra stanno tutti cercando qualcosa, ma è proprio quel tappeto indistinto di suoni che serve da sfondo per la storia del marine pellerossa che si mise in posa per la foto di Iwo Jima e poi tornò nella riserva dei padri a ubriacarsi fino a morirne. LaFarge l'aveva incisa in diverse versioni, ma anche nella più intima non riusciva a non suonare un po' beffardo; Cash a suo modo è perfetto, il suo vocione straniante è come la maschera di un duro da rodeo che ha una storia commovente da raccontare ma non farà vedere una sola lacrima: è una lezione di come il country possa diventare uno strumento affilato, se tieni salda la mano. Dylan - che fino a pochi mesi fa spergiurava di voler fare country, di aver sempre voluto fare country - va nella direzione opposta: non senti nella sua voce un grammo di indignazione per le promesse inesaudite alle comunità dei nativi americani, ma l'ubriachezza e la disperazione quelle le senti. Viene il sospetto che più che al reduce dal Giappone, Dylan stia pensando a LaFarge, che in Corea si era rotto il naso in un combattimento clandestino, che aveva dieci anni più di lui e li aveva passati a bere, che ai tempi del Village aveva scritto una canzone con Dylan (ma non l'aveva mai incisa), che come lui aveva vantato inesistenti origini native americane e che era morto da solo nel suo appartamento proprio mentre il suo giovane amico sfondava con Like a Rolling Stone. LaFarge era un folksinger, Cash è un divo del country che raccoglieva fondi per i pellerossa (lui non si è finto un indiano, lui è stato nominato indiano onorario), Dylan sta inventando qualcosa di diverso. È il suono nato nella cantina di Woodstock - una specie di via bianca al soul, il suono che la Band sta maturando in autonomia. Invece Dylan lo sta per abbandonare - quando incrocerà di nuovo la Band, suoneranno tutt'altro. Forse non si è neanche reso conto di averlo messo in moto.
Chiamalo Ira l’ubriacone, tanto non risponde più.Né l’indiano sbronzo di whisky, né il marine che andò alla guerra...
Una cosa interessante di Dylan è che alcune cover sono successi del 1970 - in pratica Dylan suonava in sala di registrazione le canzoni che andavano in radio (continua sul Post).
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Un paese normale (dove sfondano le scuole con gli autobus)
27-04-2017, 01:22delitti e cronaca, Emilia paranoica, forze dell'ordine, giornalisti, Modena, Mondo Carpi, ragazziniPermalinkQuesto forse ve lo siete perso, perché è successo nella mia piccola città, dove di solito non succede molto. Invece in questo mese, nei venti giorni tra la visita di un papa e quella di un presidente della repubblica, e nell'era in cui i camion sono diventati l'arma preferita dei terroristi, è avvenuto che:
- tre minorenni di origine africana si siano introdotti nottetempo in un deposito degli autobus,
- abbiano trovato le chiavi, ne abbiano dirottati cinque,
- ci abbiano giocato ad autoscontro in un parcheggio, e poi
- ne abbiano usato uno per sfondare l'ingresso della scuola che due di loro frequentavano:
- il tutto, ovviamente, filmandosi (esiste persino la soggettiva dello sfondamento scolastico).
Proprio i video hanno consentito ai carabinieri di acciuffarli nel giro di 48 ore (sabato pomeriggio, al McDonald, con i cellulari nelle tasche e i video nei cellulari), ma non è solo di questo che voglio ringraziarli. Soprattutto di come hanno gestito mediaticamente la vicenda: di come non abbiano perso né tempo né occasione per ribadire che si trattava di ragazzi "del posto", provenienti da famiglie "di lavoratori, ben integrate, che risiedono a Carpi da decine di anni", il che forse non è preciso, ma è prezioso; il fatto che il comandante abbia speso anche solo cinque secondi della conferenza stampa a comunicare che le famiglie dei ragazzi sono disperate. "Che non si venga a dare un taglio xenofobo a ciò che è successo".
Non credo mi sia successo spesso di ringraziare le forze dell'ordine: ma se di questa storia non avevate sentito parlare fin qui; se nessun'emittente nazionale ha fatto in tempo a mandare una delegazione di cronisti allucinati a montare a neve un allarme terrorismo, credo sia stato soprattutto grazie a loro. E magari qualcosa comincia a crescere anche nelle redazioni locali, che hanno mostrato nell'occasione un'umanità di cui non le credevo più capaci.
Questo non rende la storia meno tragica (per quanto buffa): non significa che noi educatori non dobbiamo porci un problema (e chi custodisce le chiavi degli autobus non debba trovare un ripostiglio meno in vista). Però quella che ho visto in questi giorni mi è sembrata una città più normale di altre: un posto dove tre ragazzi fanno una cazzata e vengono giudicati per la cazzata, e non per il colore o per il cognome. Se vi sembra una cosa da poco, una cosa normale, beati voi.
- tre minorenni di origine africana si siano introdotti nottetempo in un deposito degli autobus,
- abbiano trovato le chiavi, ne abbiano dirottati cinque,
- ci abbiano giocato ad autoscontro in un parcheggio, e poi
- ne abbiano usato uno per sfondare l'ingresso della scuola che due di loro frequentavano:
- il tutto, ovviamente, filmandosi (esiste persino la soggettiva dello sfondamento scolastico).
Proprio i video hanno consentito ai carabinieri di acciuffarli nel giro di 48 ore (sabato pomeriggio, al McDonald, con i cellulari nelle tasche e i video nei cellulari), ma non è solo di questo che voglio ringraziarli. Soprattutto di come hanno gestito mediaticamente la vicenda: di come non abbiano perso né tempo né occasione per ribadire che si trattava di ragazzi "del posto", provenienti da famiglie "di lavoratori, ben integrate, che risiedono a Carpi da decine di anni", il che forse non è preciso, ma è prezioso; il fatto che il comandante abbia speso anche solo cinque secondi della conferenza stampa a comunicare che le famiglie dei ragazzi sono disperate. "Che non si venga a dare un taglio xenofobo a ciò che è successo".
Non credo mi sia successo spesso di ringraziare le forze dell'ordine: ma se di questa storia non avevate sentito parlare fin qui; se nessun'emittente nazionale ha fatto in tempo a mandare una delegazione di cronisti allucinati a montare a neve un allarme terrorismo, credo sia stato soprattutto grazie a loro. E magari qualcosa comincia a crescere anche nelle redazioni locali, che hanno mostrato nell'occasione un'umanità di cui non le credevo più capaci.
Questo non rende la storia meno tragica (per quanto buffa): non significa che noi educatori non dobbiamo porci un problema (e chi custodisce le chiavi degli autobus non debba trovare un ripostiglio meno in vista). Però quella che ho visto in questi giorni mi è sembrata una città più normale di altre: un posto dove tre ragazzi fanno una cazzata e vengono giudicati per la cazzata, e non per il colore o per il cognome. Se vi sembra una cosa da poco, una cosa normale, beati voi.
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Storia di un panino deludente
25-04-2017, 09:48cinema, Cosa vedere a Cuneo (e provincia) quando sei vivoPermalinkThe Founder (John Lee Hancock, 2016)
Non c'è niente al mondo che valga come la perseveranza. Non il talento: nulla è più comune di un fallito di talento. Neanche il genio: il genio misconosciuto ormai è un luogo comune. Né l'istruzione: il mondo è pieno di straccioni istruiti. Solo la perseveranza e la determinazione sono onnipotenti. (Da The Power of the Positive, un libro che non esiste).
Ray Kroc non ha inventato il fast food: quello lo hanno messo a punto i geniali gemelli Dick e Mac MacDonald, nel loro ristorante di San Bernardino (CA), sfidando tutte le convenzioni degli anni Cinquanta (niente tavoli, niente cameriere, niente juke box) per concentrarsi su un solo obiettivo: servire istantaneamente hamburger e patatine. Kroc non ha inventato il franchising più efficace del mondo, anzi finché lo gestì lui direttamente non riusciva a rientrare nei costi di gestione. Kroc non ha nemmeno trovato un modo per risparmiare sulle celle frigorifere: l'idea arrivò dalla sua futura seconda moglie. Nell'impresa più epica della ristorazione moderna, Ray Kroc non ha messo il nome, non ha messo la faccia, non ha messo le idee: e allora perché è lui, e non un altro, il Fondatore? Perseveranza.
The Founder, il film di John Lee Hancock dedicato a Ray Kroc, assomiglia un po' a quei primi esperimenti che i fratelli MacDonald avevano tentato prima di imboccare la strada giusta (e incontrare Kroc). Sulla carta, l'idea è perfetta. Un biopic su un personaggio controverso e visionario, commesso viaggiatore per vocazione più che per necessità. L'America che ha in mente è un luogo usa e getta, smontabile e ricomponibile, una pista autostradale solcata da viaggiatori frettolosi e rapaci come lui; prima di incrociare i fratelli MacDonald, Kroc aveva provato coi bicchieri di carta e i tavolini pieghevoli. I suoi primi veri discepoli sono disperati che vagano di strada in strada, di corridoio in corridoio, cercando di vendere qualsiasi cosa (fulminante l'episodio del venditore ebreo di bibbie protestanti). Come l'Aviatore di Scorsese, il Petroliere di Anderson, lo Zuckerberg di Sorkin e Fincher, Kroc è innovatore e prototipo: se si porta dentro una psicosi, non sarà contento finché non la condividiamo. The Social Network in particolare sembrava un ottimo precedente: anche stavolta l'eroe mefistofelico ruba l'idea a due bravi ragazzi non altrettanto determinati. I Big Mac non saranno interessanti e attuali come i social network, ma il loro pubblico al cinema in teoria ce l'hanno, specie se ne parli male (volete sentirvi vecchi? Super Size Me compie tredici anni). The Founder poi poteva contare sulla regia di John Lee Hancock, il regista di uno dei biopic più interessanti e stratificati degli ultimi anni, Saving Mr Banks: e del momento di grazia di Michael Keaton, dopo Birdman e Spotlight (due Oscar al miglior film in due anni). The Founder non poteva proprio andare male. E invece...
A quattro mesi dall'uscita nelle sale, il film non ha ancora coperto le spese di produzione (continua su +eventi!) Ai critici è piaciuto; i giurati dell'Academy hanno fatto finta di non vederlo; il pubblico non si è fatto vedere. Cosa non ha funzionato? Difficile dirlo. Da fuori il prodotto si presenta bene. Il primo morso è davvero stuzzicante - l'odissea di Kroc attraverso l'America, alla ricerca del solo messaggio di speranza in un futuro usa-e-getta: il piccolo ristorante di San Bernardino che non ha (incredibile!) nemmeno i tavolini, i piatti e le posate. È più tardi che ti rendi conto che The Founder non ha neanche lontanamente lo stesso sapore di The Social Network; quando nella seconda metà ti rendi conto che l'intreccio ruota sull'opportunità di inserire in menu un frappé liofilizzato. Manca molto più di un cetriolino; il formaggio è insapore; il bacon cartone abbrustolito, le patatine più gommose che croccanti. The Founder sembra il prodotto che ti servono in certi Mac, non sa di niente ma tanto tu lo manderai giù lo stesso perché il sapore del Mac ce l'hai già in testa, certe patatine sono solo un placebo. In cucina Keaton si dà da fare come al solito, ma tutto sembra dipendere da lui; le scene clou sono risolte in brevi dialoghi al telefono, le storie d'amore finiscono e iniziano nel tempo di alzarsi e sedersi dai tavoli. The Founder avrebbe potuto essere un grande film su una delle più straordinarie storie del capitalismo, ma a un certo punto è saltato il controllo qualità. È un vero peccato. All'Aurora di Savigliano, mercoledì 26 e giovedì 27 alle 21.
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L'arca dell'alleanza. |
Ray Kroc non ha inventato il fast food: quello lo hanno messo a punto i geniali gemelli Dick e Mac MacDonald, nel loro ristorante di San Bernardino (CA), sfidando tutte le convenzioni degli anni Cinquanta (niente tavoli, niente cameriere, niente juke box) per concentrarsi su un solo obiettivo: servire istantaneamente hamburger e patatine. Kroc non ha inventato il franchising più efficace del mondo, anzi finché lo gestì lui direttamente non riusciva a rientrare nei costi di gestione. Kroc non ha nemmeno trovato un modo per risparmiare sulle celle frigorifere: l'idea arrivò dalla sua futura seconda moglie. Nell'impresa più epica della ristorazione moderna, Ray Kroc non ha messo il nome, non ha messo la faccia, non ha messo le idee: e allora perché è lui, e non un altro, il Fondatore? Perseveranza.
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La terra promessa |
A quattro mesi dall'uscita nelle sale, il film non ha ancora coperto le spese di produzione (continua su +eventi!) Ai critici è piaciuto; i giurati dell'Academy hanno fatto finta di non vederlo; il pubblico non si è fatto vedere. Cosa non ha funzionato? Difficile dirlo. Da fuori il prodotto si presenta bene. Il primo morso è davvero stuzzicante - l'odissea di Kroc attraverso l'America, alla ricerca del solo messaggio di speranza in un futuro usa-e-getta: il piccolo ristorante di San Bernardino che non ha (incredibile!) nemmeno i tavolini, i piatti e le posate. È più tardi che ti rendi conto che The Founder non ha neanche lontanamente lo stesso sapore di The Social Network; quando nella seconda metà ti rendi conto che l'intreccio ruota sull'opportunità di inserire in menu un frappé liofilizzato. Manca molto più di un cetriolino; il formaggio è insapore; il bacon cartone abbrustolito, le patatine più gommose che croccanti. The Founder sembra il prodotto che ti servono in certi Mac, non sa di niente ma tanto tu lo manderai giù lo stesso perché il sapore del Mac ce l'hai già in testa, certe patatine sono solo un placebo. In cucina Keaton si dà da fare come al solito, ma tutto sembra dipendere da lui; le scene clou sono risolte in brevi dialoghi al telefono, le storie d'amore finiscono e iniziano nel tempo di alzarsi e sedersi dai tavoli. The Founder avrebbe potuto essere un grande film su una delle più straordinarie storie del capitalismo, ma a un certo punto è saltato il controllo qualità. È un vero peccato. All'Aurora di Savigliano, mercoledì 26 e giovedì 27 alle 21.
Questa non è la Francia, Matteo Renzi
24-04-2017, 03:00Francia, RenziPermalink
Matteo Renzi ha ottimi motivi per essere entusiasta del successo di Emmanuel Macron in Francia: è stato uno dei primi a scommettere su di lui, quando era una scelta non solo azzardata, ma politicamente scorretta. Era ancora il segretario del PD, Renzi, quando all'indomani della sconfitta referendaria adottò l'hashtag #InCammino, evidentemente ricalcato sul nome del neonato movimento di Macron, En marche.
Un sostegno così smaccato a un candidato che non solo non rappresentava la componente francese del Partito Socialista Europeo (di cui il PD è orgoglioso membro), ma che si proponeva di cannibalizzarla, avrebbe dovuto forse destare qualche perplessità in più - acqua passata, Renzi non è più il segretario, è un battitore libero. InCammino è diventato un sito 100% renziano, con un claim vagamente minaccioso ("il futuro, prima o poi, torna") e senza un solo riferimento uno al suo partito; c'è anche l'app e un servizio che mi invita alle riunioni via sms.
(Colgo l'occasione per un appello - visto che a quei sms non si può rispondere - potreste togliermi dalla lista? Non so chi vi ha dato il numero - cioè lo so benissimo, ma non solo state usando la lista di chi ha votato alle primarie PD per promuovere un tizio che non mette neanche più la scritta PD nel suo sito... ma è anche uno spreco per voi, cioè, è chiaro che io non sono il vostro target, dai).
Non è la prima volta e non sarà l'ultima che un politico un po' appannato in patria cerca di aggrapparsi ai fenomeni che vincono all'estero: vedi l'euforia veltroniana per Obama. Macron poi ha davvero qualche tratto in comune con Renzi - forse più col Renzi invitto di qualche anno fa: è addirittura più giovane di lui, ha fatto un'OPA sul partito di centrosinistra e ha vinto. Nel dicembre del 2012, durante la campagna delle primarie, Renzi arrivò a minacciare di uscire dal partito: disse che c'erano sondaggi che lo davano al 25%. Quella che in bocca di Renzi era solo una smargiassata (in quel novembre prese 300 000 voti meno di Bersani, in dicembre 600 000), Macron l'ha realizzata. È rimasto fuori dal PSF, ne ha quasi svuotato il bacino liberal-moderato, ha attirato qualche voto dagli altri poli - ma anche così non supererebbe quel 25% che è la soglia del PD italiano.
Invece - e qui si capisce l'invidia di Renzi - a Macron un 23% basta e avanza per aggiudicarsi l'Eliseo al secondo turno: grazie al semipresidenzialismo della Quinta Repubblica, al doppio turno e alla conventio ad excludendum, la clausola anti-LePen che sin dai tempi del padre fa sì che la maggior parte dei francesi concentri il voto sul suo avversario, chiunque sia. Non è difficile capire che il sogno che ha animato l'avventura politica di Renzi sembra modellato più sul sistema francese che su quello italiano: la cosiddetta "vocazione maggioritaria" di Renzi non prevede un sfondamento del suo partito a destra o a sinistra (anzi il partito R. lo vorrebbe leggero, senza opposizioni), ma un bel doppio turno in cui mettere spalla al muro ogni italiano con una coscienza: o me o qualche personaggio impresentabile, un Grillo, un Salvini, un portavoce di Berlusconi o la sua mummia. Era il sogno dell'italicum: gli è andato male e non ha ancora capito perché. O almeno non mi pare che si sia reso conto che l'italicum non è stato bocciato dagli italiani cattivi, ma dalla Corte Costituzionale che non poteva che ribadire l'ovvio: i ballottaggi nazionali per eleggere un premier si fanno nelle repubbliche presidenziali (come la Francia); la nostra non lo è, e non lo può diventare con una legge elettorale. Non mi pare che si sia dato per vinto, perlomeno la retorica che lo anima è sempre la stessa: O me O la barbarie. E la risposta è sempre la stessa: in questo modo ci condanni alla barbarie, Matteo Renzi.
Perché in Italia non solo non c'è il semipresidenzialismo, non solo non c'è il doppio turno: soprattutto non c'è (né può essere introdotta per legge) la cosa più importante: la clausola anti-LePen, che da noi sarebbe... fino a qualche anno fa la chiamavamo clausola antifascista, ma adesso? Antigrillo, antisalvini, antigeloni? Non che abbia molta importanza. Non solo l'Italia ha, rispetto alla Francia, un passato fascista importante; ma anche nel passato più recente abbiamo avuto una coalizione berlusconiana che vinse placidamente le elezioni associandosi persino a Forza Nuova. È successo una decina d'anni fa, perché non potrebbe succedere domani?
Renzi sembra vivere la sua avventura politica come un romanzo di formazione: anche i suoi discorsi della sconfitta sembrano pervasi dalla fiducia che nell'ultima pagina del romanzo l'eroe trionferà; è una fede inossidabile che senz'altro lo ha aiutato ad arrivare dov'è, ma che purtroppo non posso condividere. Nel romanzo che ho studiato io, che non smetto di ripassare, i fascisti ogni tanto vincono. Il doppio turno, che in Francia li ha bloccati fin qui così efficacemente che Houellebecq addirittura se ne preoccupava (quanto è democratico un sistema che concede appena due o tre seggi a un partito che ha quasi un quinto dei suffragi?) in Italia potrebbe avere l'effetto opposto, e tenere per lungo tempo fuori dai giochi la parte politica che mi rappresenta. In futuro, se riuscirà a mettermi davvero con le spalle al muro, forse non avrò altra scelta che lui, ma finché posso evitarlo non vedo davvero perché dividere anche solo un tratto di strada con Matteo Renzi. Non è solo una questione di interessi diversi, è che secondo me va a sbattere. In Francia la pista è diversa, sì. In Francia avevano Gainsbourg, a noi è toccato Boncompagni, siamo diversi. È il bello dell'Europa (e la sua croce).
Un sostegno così smaccato a un candidato che non solo non rappresentava la componente francese del Partito Socialista Europeo (di cui il PD è orgoglioso membro), ma che si proponeva di cannibalizzarla, avrebbe dovuto forse destare qualche perplessità in più - acqua passata, Renzi non è più il segretario, è un battitore libero. InCammino è diventato un sito 100% renziano, con un claim vagamente minaccioso ("il futuro, prima o poi, torna") e senza un solo riferimento uno al suo partito; c'è anche l'app e un servizio che mi invita alle riunioni via sms.
(Colgo l'occasione per un appello - visto che a quei sms non si può rispondere - potreste togliermi dalla lista? Non so chi vi ha dato il numero - cioè lo so benissimo, ma non solo state usando la lista di chi ha votato alle primarie PD per promuovere un tizio che non mette neanche più la scritta PD nel suo sito... ma è anche uno spreco per voi, cioè, è chiaro che io non sono il vostro target, dai).
Non è la prima volta e non sarà l'ultima che un politico un po' appannato in patria cerca di aggrapparsi ai fenomeni che vincono all'estero: vedi l'euforia veltroniana per Obama. Macron poi ha davvero qualche tratto in comune con Renzi - forse più col Renzi invitto di qualche anno fa: è addirittura più giovane di lui, ha fatto un'OPA sul partito di centrosinistra e ha vinto. Nel dicembre del 2012, durante la campagna delle primarie, Renzi arrivò a minacciare di uscire dal partito: disse che c'erano sondaggi che lo davano al 25%. Quella che in bocca di Renzi era solo una smargiassata (in quel novembre prese 300 000 voti meno di Bersani, in dicembre 600 000), Macron l'ha realizzata. È rimasto fuori dal PSF, ne ha quasi svuotato il bacino liberal-moderato, ha attirato qualche voto dagli altri poli - ma anche così non supererebbe quel 25% che è la soglia del PD italiano.
Invece - e qui si capisce l'invidia di Renzi - a Macron un 23% basta e avanza per aggiudicarsi l'Eliseo al secondo turno: grazie al semipresidenzialismo della Quinta Repubblica, al doppio turno e alla conventio ad excludendum, la clausola anti-LePen che sin dai tempi del padre fa sì che la maggior parte dei francesi concentri il voto sul suo avversario, chiunque sia. Non è difficile capire che il sogno che ha animato l'avventura politica di Renzi sembra modellato più sul sistema francese che su quello italiano: la cosiddetta "vocazione maggioritaria" di Renzi non prevede un sfondamento del suo partito a destra o a sinistra (anzi il partito R. lo vorrebbe leggero, senza opposizioni), ma un bel doppio turno in cui mettere spalla al muro ogni italiano con una coscienza: o me o qualche personaggio impresentabile, un Grillo, un Salvini, un portavoce di Berlusconi o la sua mummia. Era il sogno dell'italicum: gli è andato male e non ha ancora capito perché. O almeno non mi pare che si sia reso conto che l'italicum non è stato bocciato dagli italiani cattivi, ma dalla Corte Costituzionale che non poteva che ribadire l'ovvio: i ballottaggi nazionali per eleggere un premier si fanno nelle repubbliche presidenziali (come la Francia); la nostra non lo è, e non lo può diventare con una legge elettorale. Non mi pare che si sia dato per vinto, perlomeno la retorica che lo anima è sempre la stessa: O me O la barbarie. E la risposta è sempre la stessa: in questo modo ci condanni alla barbarie, Matteo Renzi.
Perché in Italia non solo non c'è il semipresidenzialismo, non solo non c'è il doppio turno: soprattutto non c'è (né può essere introdotta per legge) la cosa più importante: la clausola anti-LePen, che da noi sarebbe... fino a qualche anno fa la chiamavamo clausola antifascista, ma adesso? Antigrillo, antisalvini, antigeloni? Non che abbia molta importanza. Non solo l'Italia ha, rispetto alla Francia, un passato fascista importante; ma anche nel passato più recente abbiamo avuto una coalizione berlusconiana che vinse placidamente le elezioni associandosi persino a Forza Nuova. È successo una decina d'anni fa, perché non potrebbe succedere domani?
Renzi sembra vivere la sua avventura politica come un romanzo di formazione: anche i suoi discorsi della sconfitta sembrano pervasi dalla fiducia che nell'ultima pagina del romanzo l'eroe trionferà; è una fede inossidabile che senz'altro lo ha aiutato ad arrivare dov'è, ma che purtroppo non posso condividere. Nel romanzo che ho studiato io, che non smetto di ripassare, i fascisti ogni tanto vincono. Il doppio turno, che in Francia li ha bloccati fin qui così efficacemente che Houellebecq addirittura se ne preoccupava (quanto è democratico un sistema che concede appena due o tre seggi a un partito che ha quasi un quinto dei suffragi?) in Italia potrebbe avere l'effetto opposto, e tenere per lungo tempo fuori dai giochi la parte politica che mi rappresenta. In futuro, se riuscirà a mettermi davvero con le spalle al muro, forse non avrò altra scelta che lui, ma finché posso evitarlo non vedo davvero perché dividere anche solo un tratto di strada con Matteo Renzi. Non è solo una questione di interessi diversi, è che secondo me va a sbattere. In Francia la pista è diversa, sì. In Francia avevano Gainsbourg, a noi è toccato Boncompagni, siamo diversi. È il bello dell'Europa (e la sua croce).
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La merda d'artista di Bob Dylan
21-04-2017, 17:24Bob Dylan, concerti, Il Post, musicaPermalinkSelf Portrait (1970)
"Cos'è questa merda?"
Riassunto delle puntate precedenti
A Dylan venne in mente. Forse. È questione lungamente dibattuta tra dylanologi. Lo stesso Dylan in un primo momento lo escluse, poi lo ammise, poi in sostanza ritrattò. Su una cosa sono tutti concordi: Self Portrait, uscito nel 1970, è una merda. Rimane da stabilire se si tratti di una merda consapevole o di escremento uscito un po' per caso, al termine di una complicata serie di circostanze che portarono nel 1970 una merda tra tante in tutti i negozi di dischi e dritta in top ten. Che differenza fa?
Tutta la differenza del mondo. È la definizione stessa dell'avanguardia artistica: la merda in barattolo è Arte soltanto se l'Artista ne era consapevole durante l'Atto. Sennò una merda varrebbe l'altra, no?
Nel 1970 Greil Marcus aveva bisogno di un buon inizio per la sua lunga recensione del nuovo disco di Bob Dylan. L'inizio è sempre la cosa più difficile. Bisogna attirare l'attenzione, far sentire odore di controversia, appiccicarsi al lettore - funzionò. Credo sia uno dei rarissimi casi in cui una recensione è più famosa del disco che l'ha ispirata - perlomeno, la recensione la leggono tutti, l'album fanno una certa fatica ad ascoltarlo anche i fan più incalliti. Per un dylanita "What is this shit" è una frase celebre quanto "Judas!" (così come di Napoleone e degli antichi Romani si ricordano più le battaglie che hanno perso, di Dylan sono più celebri le contestazioni, le stroncature). Non era la prima volta che qualcuno osava criticare Dylan, ma nessuno aveva mai osato definire un suo disco una "m.": e a ben vedere nemmeno Marcus intendeva farlo. Era solo un'espressione di genuina sorpresa (già ai tempi "shit" poteva alludere a una più generica varietà di "roba"), di fronte al primo brano del disco, All the Tired Horses. Ma questa è la magia della prima riga: se ci scrivi "merda", anche se ti stai riferendo soltanto alla prima canzone e non stai parlando di vera merda, si sentirà puzza per tutto il restante articolo.
Il bello è che All the Tired Horses, secondo Marcus, era uno dei brani migliori (figurarsi tutto il resto). Si tratta di tre bizzarri minuti in cui Dylan non canta. C'è invece solo un ritornello, scandito per la prima volta da un coro femminile (non sarà l'ultima, ahinoi), che dice: "tutti i cavalli stanchi sono al sole, come potrò farmi una cavalcata?" Tutto qui? Tutto qui. Ma che roba è? Ecco.
È l'inizio di Self Portrait, l'autoritratto che Dylan mise assieme nel 1970; il primo disco di cui dipinse la copertina, che fa a chi la vede per la prima volta più o meno lo stesso effetto: che roba è? Smarrimento, incredulità - ci sta prendendo in giro? - e poi, se hai voglia di guardare bene, ti accorgi che quello sgorbio di tempera un po' a Dylan ci somiglia davvero, e che l'ipotesi più banale potrebbe essere per una volta la più logica: Dylan voleva davvero auto-ritrarsi. No, non ci stava prendendo in giro. No, non era un esperimento. Se ti sembra un quadro di merda, forse è davvero un quadro di merda.
È che non ci siamo più abituati. Se vediamo una merda in un museo, per prima cosa ci mettiamo a cercare un contesto - una didascalia, un dépliant illustrativo, un materiale interattivo, qualcosa che spieghi che senso ha esporre una merda proprio lì. Se non troviamo nulla, ci domandiamo se il senso non sia proprio questa mancanza di senso; se il contesto non siamo noi stessi (e il nostro aggirarci smarrito), se per caso non siamo protagonisti di un'installazione, una candid camera d'autore, ad es. 6700 VISITATORI DEL MOMA REAGISCONO A UNA MERDA. Due minuti dopo ci incrociamo con una visitatrice molto imbarazzata con cagnetto al guinzaglio e una paletta in mano ed è un'immensa delusione, per un attimo avevamo creduto di far parte di un'opera d'arte (per quanto di merda). Siamo talmente intrisi di ironia che rimaniamo smarriti quando scopriamo che un sacco di gente ne fa a meno.
Per un certo periodo credemmo anche che Dylan non potesse farne a meno; che Self Portrait non fosse un escremento d'occasione, ma una fece consapevole, una merda d'artista. Un fumoso stronzo deliberatamente depositato nel bel mezzo della sua discografia, per tenere lontano gli indesiderati. Lui stesso decise di assecondarci, a metà anni '80, avallando nelle interviste l'ipotesi che Self Portrait fosse una reazione diretta al Festival di Woodstock; quel momento in cui gli hippie avevano rivelato la loro natura fanatica e molesta e avevano iniziato a stalkerare lui e la sua famiglia. Lo seguivano dovunque, lo aspettavano al cancello; c'era una coppietta che si intrufolò nella camera da letto, BD si comprò un fucile. Di lì a poco un tizio comincerà a frugargli nell'immondizia - quella qualche anno fa divenne il format di un reality di successo, la spazzatura dei vip, ma è tutto cominciato nei cassonetti presso casa Dylan. Cosa voleva tutta questa gente? Perché insistevano contro ogni evidenza a considerarlo un portavoce, perché lo accusavano di aver tradito una causa a loro chiarissima e che a Dylan sfuggiva? Self Portrait sarebbe stato il modo per allontanarli. Mi rovistate nella spazzatura? Io vi cago nella collezione dei dischi. "Farò un disco che non possono apprezzare, in cui non si possano riconoscere", si sarebbe detto ("Rolling Stone", 1984). "Lo guarderanno, lo ascolteranno, e si diranno: passiamo al prossimo, lui non ci ha dato quel che voleva". Più che un autoritratto, un autosabotaggio.
("Questo accadeva più o meno ai tempi di quel festival di Woodstock, che fu la somma di queste stronzate", "Rolling Stone", 1984).
Col tempo - e con la riapertura dei vecchi cassetti - abbiamo scoperto che anche stavolta Dylan non stava dicendo la verità. Magari in buona fede; capita tutti di confondere le date e sovrapporre stagioni diverse. Che abbia cercato di disgustare gli hippie è appurato, ma era un proposito già completamente messo in pratica in Nashville Skyline, un disco simil-country buono per il pubblico del Johnny Cash Show, mentre la gioventù americana bruciava le cartoline per il Vietnam e BD si rifiutava di dire una sola parola in riguardo. Più lontano dalla controcultura, più vicino alle buone cose di pessimo gusto del Midwest sembrava non potesse andare. Invece Self Portrait va oltre, e come sabotaggio funziona fin troppo: la prima vittima è proprio il Bob Dylan versione country, qui infiocchettato da cori e violini oltre i limiti della parodia.
Nel 1975 Lou Reed era incazzato con la sua etichetta. Si chiuse nello studio con un tecnico del suono, incise un'ora e tre minuti di distorsioni e feedback, e pubblicò il doppio album Metal Machine Music, un disco deliberatamente inascoltabile. Self Portrait non ci si avvicina minimamente. C'è qualche canzone che sembra messa lì proprio per infastidirti, ma il più delle volte l'impressione è di goffaggine più che di impudenza.
Più probabilmente si tratta di un errore di percorso, inevitabile se tutti continuano ad applaudirti qualsiasi cosa tu faccia: a un certo punto ti convinci di poter fare qualsiasi cosa, e si dà il caso che Dylan abbia davvero voglia di fare qualsiasi cosa. Oggi abbiamo ormai accettato questa sua stranezza, e lui si è d'altra parte sforzato di renderla in qualche modo più accettabile, ma scoprire nel 1970 che Dylan aveva gusti molto più eclettici di quanto ci avesse mai raccontato; che amava le canzoni francesi e lo swing, che sognava di cantare Bécaud e Blue Moon! (a un certo punto il disco si doveva intitolare Blue Moon)... fu uno choc. Self Portrait è la prima precoce manifestazione di una delle facce che Dylan ha del tutto svelato solo negli ultimissimi anni: l'aspirazione a diventare un enciclopedico cantante da pianobar. Dylan è convinto di poter cantare qualsiasi cosa, e soprattutto è convinto che la cosa potrebbe interessarci. L'idea di un album monumentale, un songbook di autori diversi, Dylan la cullava già trent'anni prima di Triplicate. Ne aveva già accennato a Traum durante l'intervista del 1968. Ci stava lavorando anche durante le session di Nashville Skyline, e forse ci avrebbe lavorato ancora per parecchi anni prima di far uscire qualcosa di buono. Ma poi dev'esserci stato un imprevisto - forse l'isola di Wight.
L'insofferenza per i fricchettoni non era il solo motivo per cui non si era fatto vedere al festival di Woodstock. Gli organizzatori dell'altro grande festival del 1969, quello all'isola di Wight, avevano offerto di più (e lui di quei soldi aveva bisogno, spiegò ridacchiando a un cronista). A parte qualche comparsata a eventi straordinari, Dylan non avrebbe fatto altri concerti fino al 1974. Era l'artista più pagato del festival, era l'evento più importante, era abbastanza ovvio che la Columbia si aspettasse di incidere il live. Ma anche stavolta alla fine il disco dal vivo non arrivò. La registrazione era scadente, e anche la prestazione di Dylan e della Band... lasciava perplessi. Col tempo (e con le rimasterizzazioni) il concerto all'isola di Wight ha trovato i suoi estimatori, ma nel 1970 risultava impubblicabile. A questo punto però l'etichetta voleva lo stesso un disco doppio, e Dylan glielo diede. È un'ipotesi: non l'ho trovata scritta da nessuna parte e quindi la scrivo io: forse Self Portrait è quel guazzabuglio senza senso che è perché Dylan lo mise insieme in fretta e furia come alternativa a un live che suonava ancora peggiore.
Questo spiegherebbe anche la questione della lunghezza. Self Portrait non è soltanto un disco pieno di roba senza senso; è due dischi di roba senza senso. Come affermò Dylan 15 anni dopo, un mucchio di merda ("crap", disse lui) ha senso solo se è grosso. Per quanto centrifugo sia l'insieme, non sarebbe stato impossibile estrarne un disco da mezz'ora come i due precedenti. Una delle due Alberta, una delle due Sadie, Days of '49, Copper Kettle, Gotta Travel On, quel brano canticchiato senza un testo che poi Wes Anderson mise in un film... - non sarebbe stato un capolavoro; una cosetta senza infamia e senza lode che sarebbe passata indenne al vaglio dei critici, magari addobbata di qualche specchietto alle allodole, qualche vago richiamo alle atmosfere western che avevano già reso più digeribile quello strano oggetto che era John Wesley Harding. Dylan avrebbe potuto tirare fuori un disco dignitoso dalle session di Self Portrait, ma è abbastanza evidente che la dignità stavolta non gli interessava. Era viceversa il momento di sbracarsi un po' (continua sul Post)
(Il disco precedente è Nashville Skyline.
Il disco successivo è... ancora peggio!)
"Cos'è questa merda?"
Riassunto delle puntate precedenti
- A 25 anni, Bob Dylan macinava due dischi l'anno di roba sperimentale, provata e riprovata allo sfinimento tra New York e Nashville; faceva tournée in tre continenti viaggiando su un vecchio boeing scassato, si teneva sveglio di notte per paura di lasciarsi sfuggire l'ispirazione per una canzone. Si faceva un culo quadro, intascava così e così, la gente ai concerti lo fischiava.
- A 26 anni lo stesso Bob Dylan aveva smesso di fare concerti pubblici, si era ritirato in campagna, incideva un disco in tre giorni senza fare promozione e... vendeva di più. Piaceva pure ai critici.
- A 27 anni non incideva un bel niente, e allora i fan ripescavano nastri abusivi, roba suonata in cantina un po' per ridere, li stampavano, e i critici applaudivano al capolavoro sconosciuto.
- A 28 incideva mezz'oretta di simpatici pezzi country, li presentava in tv e vendeva ancora più di prima, Ancora di più. E i critici continuavano ad apprezzare.
- A 29... che fare? Voi al suo posto che avreste fatto?
Non vi sarebbe venuto in mente di pubblicare un disco di merda, giusto per vedere se pubblico e critica si facevano andare bene pure quello?
A Dylan venne in mente. Forse. È questione lungamente dibattuta tra dylanologi. Lo stesso Dylan in un primo momento lo escluse, poi lo ammise, poi in sostanza ritrattò. Su una cosa sono tutti concordi: Self Portrait, uscito nel 1970, è una merda. Rimane da stabilire se si tratti di una merda consapevole o di escremento uscito un po' per caso, al termine di una complicata serie di circostanze che portarono nel 1970 una merda tra tante in tutti i negozi di dischi e dritta in top ten. Che differenza fa?
Tutta la differenza del mondo. È la definizione stessa dell'avanguardia artistica: la merda in barattolo è Arte soltanto se l'Artista ne era consapevole durante l'Atto. Sennò una merda varrebbe l'altra, no?
Nel 1970 Greil Marcus aveva bisogno di un buon inizio per la sua lunga recensione del nuovo disco di Bob Dylan. L'inizio è sempre la cosa più difficile. Bisogna attirare l'attenzione, far sentire odore di controversia, appiccicarsi al lettore - funzionò. Credo sia uno dei rarissimi casi in cui una recensione è più famosa del disco che l'ha ispirata - perlomeno, la recensione la leggono tutti, l'album fanno una certa fatica ad ascoltarlo anche i fan più incalliti. Per un dylanita "What is this shit" è una frase celebre quanto "Judas!" (così come di Napoleone e degli antichi Romani si ricordano più le battaglie che hanno perso, di Dylan sono più celebri le contestazioni, le stroncature). Non era la prima volta che qualcuno osava criticare Dylan, ma nessuno aveva mai osato definire un suo disco una "m.": e a ben vedere nemmeno Marcus intendeva farlo. Era solo un'espressione di genuina sorpresa (già ai tempi "shit" poteva alludere a una più generica varietà di "roba"), di fronte al primo brano del disco, All the Tired Horses. Ma questa è la magia della prima riga: se ci scrivi "merda", anche se ti stai riferendo soltanto alla prima canzone e non stai parlando di vera merda, si sentirà puzza per tutto il restante articolo.
Il bello è che All the Tired Horses, secondo Marcus, era uno dei brani migliori (figurarsi tutto il resto). Si tratta di tre bizzarri minuti in cui Dylan non canta. C'è invece solo un ritornello, scandito per la prima volta da un coro femminile (non sarà l'ultima, ahinoi), che dice: "tutti i cavalli stanchi sono al sole, come potrò farmi una cavalcata?" Tutto qui? Tutto qui. Ma che roba è? Ecco.
È l'inizio di Self Portrait, l'autoritratto che Dylan mise assieme nel 1970; il primo disco di cui dipinse la copertina, che fa a chi la vede per la prima volta più o meno lo stesso effetto: che roba è? Smarrimento, incredulità - ci sta prendendo in giro? - e poi, se hai voglia di guardare bene, ti accorgi che quello sgorbio di tempera un po' a Dylan ci somiglia davvero, e che l'ipotesi più banale potrebbe essere per una volta la più logica: Dylan voleva davvero auto-ritrarsi. No, non ci stava prendendo in giro. No, non era un esperimento. Se ti sembra un quadro di merda, forse è davvero un quadro di merda.
È che non ci siamo più abituati. Se vediamo una merda in un museo, per prima cosa ci mettiamo a cercare un contesto - una didascalia, un dépliant illustrativo, un materiale interattivo, qualcosa che spieghi che senso ha esporre una merda proprio lì. Se non troviamo nulla, ci domandiamo se il senso non sia proprio questa mancanza di senso; se il contesto non siamo noi stessi (e il nostro aggirarci smarrito), se per caso non siamo protagonisti di un'installazione, una candid camera d'autore, ad es. 6700 VISITATORI DEL MOMA REAGISCONO A UNA MERDA. Due minuti dopo ci incrociamo con una visitatrice molto imbarazzata con cagnetto al guinzaglio e una paletta in mano ed è un'immensa delusione, per un attimo avevamo creduto di far parte di un'opera d'arte (per quanto di merda). Siamo talmente intrisi di ironia che rimaniamo smarriti quando scopriamo che un sacco di gente ne fa a meno.
Per un certo periodo credemmo anche che Dylan non potesse farne a meno; che Self Portrait non fosse un escremento d'occasione, ma una fece consapevole, una merda d'artista. Un fumoso stronzo deliberatamente depositato nel bel mezzo della sua discografia, per tenere lontano gli indesiderati. Lui stesso decise di assecondarci, a metà anni '80, avallando nelle interviste l'ipotesi che Self Portrait fosse una reazione diretta al Festival di Woodstock; quel momento in cui gli hippie avevano rivelato la loro natura fanatica e molesta e avevano iniziato a stalkerare lui e la sua famiglia. Lo seguivano dovunque, lo aspettavano al cancello; c'era una coppietta che si intrufolò nella camera da letto, BD si comprò un fucile. Di lì a poco un tizio comincerà a frugargli nell'immondizia - quella qualche anno fa divenne il format di un reality di successo, la spazzatura dei vip, ma è tutto cominciato nei cassonetti presso casa Dylan. Cosa voleva tutta questa gente? Perché insistevano contro ogni evidenza a considerarlo un portavoce, perché lo accusavano di aver tradito una causa a loro chiarissima e che a Dylan sfuggiva? Self Portrait sarebbe stato il modo per allontanarli. Mi rovistate nella spazzatura? Io vi cago nella collezione dei dischi. "Farò un disco che non possono apprezzare, in cui non si possano riconoscere", si sarebbe detto ("Rolling Stone", 1984). "Lo guarderanno, lo ascolteranno, e si diranno: passiamo al prossimo, lui non ci ha dato quel che voleva". Più che un autoritratto, un autosabotaggio.
("Questo accadeva più o meno ai tempi di quel festival di Woodstock, che fu la somma di queste stronzate", "Rolling Stone", 1984).

Nel 1975 Lou Reed era incazzato con la sua etichetta. Si chiuse nello studio con un tecnico del suono, incise un'ora e tre minuti di distorsioni e feedback, e pubblicò il doppio album Metal Machine Music, un disco deliberatamente inascoltabile. Self Portrait non ci si avvicina minimamente. C'è qualche canzone che sembra messa lì proprio per infastidirti, ma il più delle volte l'impressione è di goffaggine più che di impudenza.
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L'originale era Je t'appartiens di Bécaud! |
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Ray Charles coi riccioli, ma perché. |
Questo spiegherebbe anche la questione della lunghezza. Self Portrait non è soltanto un disco pieno di roba senza senso; è due dischi di roba senza senso. Come affermò Dylan 15 anni dopo, un mucchio di merda ("crap", disse lui) ha senso solo se è grosso. Per quanto centrifugo sia l'insieme, non sarebbe stato impossibile estrarne un disco da mezz'ora come i due precedenti. Una delle due Alberta, una delle due Sadie, Days of '49, Copper Kettle, Gotta Travel On, quel brano canticchiato senza un testo che poi Wes Anderson mise in un film... - non sarebbe stato un capolavoro; una cosetta senza infamia e senza lode che sarebbe passata indenne al vaglio dei critici, magari addobbata di qualche specchietto alle allodole, qualche vago richiamo alle atmosfere western che avevano già reso più digeribile quello strano oggetto che era John Wesley Harding. Dylan avrebbe potuto tirare fuori un disco dignitoso dalle session di Self Portrait, ma è abbastanza evidente che la dignità stavolta non gli interessava. Era viceversa il momento di sbracarsi un po' (continua sul Post)
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Però l'ANPI nazista, insomma, no.
20-04-2017, 20:4125 aprili, ebraismo, Israele-PalestinaPermalinkQuesta è la bandiera della Brigata Ebraica, che partecipò alla Resistenza. |
Io potrei anche concordare con Fabrizio Rondolino - che del PD renziano è ormai, a quanto pare, autorevole portavoce - quando afferma che l'ANPI non ha l'esclusiva del 25 aprile. Del resto non avrebbe i mezzi per difenderla. In termini pratici: i soci dell'ANPI non possono impedire che qualche attivista arrivi alla loro manifestazione e srotoli una bandiera palestinese. Mi sembra che il presidente dell'ANPI oggi l'abbia spiegato abbastanza bene: tutto quello che può fare la sua associazione è "dare l'indicazione di non portare bandiere che non siano quelle della Resistenza"; cosa che ha fatto, più volte. Assoldare buttafuori che allontanino tutte le persone che hanno una bandiera non resistenziale, l'ANPI non può farlo e non lo fa. Non dispone di un servizio d'ordine abbastanza massiccio e capillare, e sarebbe paradossale che se ne munisse: è un'associazione che difende la memoria della Resistenza, non un corpo paramilitare che organizza una parata.
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È anche vero che tra le bandiere della Brigata, ogni tanto, faceva capolino qualche bandiera israeliana, che come quella palestinese non appartiene alla Resistenza. Un servizio d'ordine ANPI avrebbe dovuto buttar fuori anche quelle bandiere? |
Ricapitolando: la Comunità ebraica non chiede semplicemente (com'è suo sacrosanto diritto) di poter sfilare con la bandiera della Brigata Ebraica che partecipò alla Resistenza. La Comunità ebraica non vuole vedere bandiere palestinesi perché per la Comunità ebraica quella bandiera - che rappresenta una nazione con un seggio all'ONU, ricordiamo - è nazista, e chi la sventola è nazista. Quando l'ANPI fa presente, per l'ennesima volta, che non può veramente impedire a un filopalestinese di sventolare la bandiera di una nazione che aspira alla fine di un'occupazione militare, l'ANPI diventa una organizzazione negazionista che fa sfilare gli eredi degli alleati di Hitler.
Questo succede, mi pare, nell'indifferenza generale, perché poche cause come quella palestinese ormai risultano perse: oltre che a un nocciolo di affezionati, della Palestina frega ormai niente a nessuno, e il fatto che all'Unità qualcuno possa definirli filonazisti non desta davvero nessuna sorpresa. Cerco di mantenermi sorpreso io, giusto per un dovere di testimonianza: a questo punto non solo è nazista chiunque chiede che ai palestinesi sia riconosciuto il diritto all'autodeterminazione, ma siccome chi lo fa a volte partecipa alle manifestazione dell'ANPI, è nazista pure l'ANPI. Senz'altro sono nazista pure io che lo scrivo, e tu che leggi, tu: comincia a farti qualche domanda.
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Quanti simboli nazisti vedi? |
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La Boldrini, la legge di Poe, i finti ignoranti (peggiori dei veri)
18-04-2017, 17:58internetPermalinkIn questi giorni la presidente della Camera Boldrini ha deciso di segnalare l'ennesima bufala che circola nei suoi confronti, e che mette maldestramente in mezzo la sorella (deceduta). La bufala in questione era nata in realtà come una parodia di altre bufale, ma alla fine era stata condivisa anche da qualche anti-boldriniano in buona fede, ed è questo il motivo per cui mi metto a parlarne, per ribadire un punto che mi sta più a cuore di altri: il modo in cui ci frega la legge di Poe.
La legge di Poe stabilisce che non è possibile creare una parodia del fondamentalismo in modo tale che qualcuno non la confonda con il vero fondamentalismo - senza almeno un segnale condiviso che indichi che si tratta di parodia. Il tizio che la formulò aveva in mente le discussioni sui forum e pensava che sarebbe bastata una "winkey smile", un faccia con l'occhiolino. Oggi che tutto il web è una sola conversazione, temo non ci sia faccino o convenzione che tenga. Funziona col fondamentalismo e funziona con qualsiasi altro argomento. Le parodie sono scherzi che condividiamo con una comunità: servono a distinguere tra chi ci casca e chi capisce al volo. Chiunque le dissemina, è consapevole che qualcuno ci cascherà. E quindi chiunque ha disseminato la parodia anti-boldriniana era consapevole che prima o poi sarebbe successo questo. Il divertimento - se c'è - sta appunto in questo: nel senso di appartenenza a un élite di sgamati.
Scrive Mantellini che l'immagine in questione era "un’imitazione di una campagna online raffinata e intelligente le cui immagini sono state molto diffuse e molto condivise qualche tempo fa. Un’iniziativa messa in piedi da alcuni esperti di social media per sottolineare l’ampiezza della credulità alle bufale online". Già ai tempi mi permisi di eccepire sulla raffinatezza di una campagna che mirava a combattere la proliferazione delle bufale on line mediante la proliferazione di altre bufale on line, e all'accortezza di questi "esperti di social media", tanto esperti da ignorare la legge di Poe: fossero vissuti ai tempi del fascismo, probabilmente lo avrebbero combattuto stampando a loro spese parodie di manifesti fascisti indistinguibili dagli originali.
Tocca ribadire: su internet la parodia del razzismo diventa in breve indistinguibile dal razzismo. La parodia del gentismo fa la stessa fine. Vuoi continuare a farla? Evidentemente non ti interessa il problema. Cosa voglio davvero ottenere disseminando contenuti del genere? Chi deve abboccare? Se penso che si tratti di cretini senza speranza, far loro il verso è come ridere di un disabile. Se invece credo che la speranza ci sia, che i tizi in questione possano cambiare idea, ottimo: ma di sicuro non gliela cambierò ridendogli in faccia o facendogli il verso.
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IDIOTI. |
Scrive Mantellini che l'immagine in questione era "un’imitazione di una campagna online raffinata e intelligente le cui immagini sono state molto diffuse e molto condivise qualche tempo fa. Un’iniziativa messa in piedi da alcuni esperti di social media per sottolineare l’ampiezza della credulità alle bufale online". Già ai tempi mi permisi di eccepire sulla raffinatezza di una campagna che mirava a combattere la proliferazione delle bufale on line mediante la proliferazione di altre bufale on line, e all'accortezza di questi "esperti di social media", tanto esperti da ignorare la legge di Poe: fossero vissuti ai tempi del fascismo, probabilmente lo avrebbero combattuto stampando a loro spese parodie di manifesti fascisti indistinguibili dagli originali.
Tocca ribadire: su internet la parodia del razzismo diventa in breve indistinguibile dal razzismo. La parodia del gentismo fa la stessa fine. Vuoi continuare a farla? Evidentemente non ti interessa il problema. Cosa voglio davvero ottenere disseminando contenuti del genere? Chi deve abboccare? Se penso che si tratti di cretini senza speranza, far loro il verso è come ridere di un disabile. Se invece credo che la speranza ci sia, che i tizi in questione possano cambiare idea, ottimo: ma di sicuro non gliela cambierò ridendogli in faccia o facendogli il verso.
Io poi non chiedo di meglio che di essere in errore, e quindi se conoscete una persona, una sola persona che dopo aver condiviso una finta bufala si sia resa conto del suo errore e abbia cambiato il suo punto di vista sulla Boldrini, o sui vaccini, o su Trump, o su qualsiasi cosa... me la presentate? Fino ad allora continuo a pensare che le parodie non aprano gli occhi a nessuno, ma servano soltanto a farsi l'occhiolino tra iniziati. E quelli che ammiccano, su internet, sono più fastidiosi di quelli che ci cascano: i quali, con tutti i loro limiti culturali, probabilmente sanno che un problema non si risolve prendendolo in giro.
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