Matteo Renzi, l'uomo del Vaffanbagno
22-10-2016, 17:161500 caratteri, RenziPermalinkIo credo che se cinque anni fa avessimo chiesto ai sostenitori del neonato Movimento Cinque Stelle "che cosa vuoi davvero"? pochissimi avrebbero risposto "Beppe Grillo al governo". Nemmeno Beppe Grillo avrebbe detto una cosa del genere.
Molti avrebbero risposto, invece: "chiudere Equitalia": e Grillo tra loro.
E quindi oggi chi deve festeggiare: Matteo Renzi che governa e si prende la responsabilità di politiche non sempre popolari, o Beppe Grillo che senza sporcarsi le mani ottiene quello che Beppe Grillo per primo ha desiderato e formalizzato in una richiesta? Equitalia è solo un nome; alcuni debiti restano, altri Renzi li condona per motivi elettorali che non scandalizzano nessuno. Ma "chiudiamo Equitalia" era uno slogan, e chi l'ha coniato ha evidentemente conquistato l'egemonia nel dibattito politico.
Perché perder tempo a governare quando puoi ispirare l'azione di governo a distanza, da un blog, e tirare pure un po' di soldi coi banner? Grillo dice: abbasso la casta! e Renzi s'ingegna a ridurre i parlamentari. Grillo tuona contro le auto blu, Renzi le requisisce e le mette all'asta su eBay. Grillo richiama l'attenzione sul fatto che molta gente è costretta a pagare gli interessi sui debiti, e Renzi provvede. Grillo ottiene quello che domandava e Renzi forse vincerà il referendum che gli preme tanto: ma con che faccia viene a proporsi come alternativa all'antipolitica? Perché non dovremmo considerarlo, piuttosto, un grillino dal volto umano? Uno che dal movimento del Vaffanculo ha preso due o tre istanze che funzionavano, le ha moderate aggiungendo qualche spezia progressista o liberale, e con questo polpettone prova a vincere, anche lui, un po' di elezioni?
Certo, "Bye bye Equitalia" suona molto meno truce di "Chiudiamola". In parrocchia, da bambini, non volendo offendere troppo il nostro interlocutore (e non sapendo ancora molto di sodomia), a volte dicevamo "vaffanbagno". Matteo Renzi è un po' così, uno che cerca di combattere il Vaffanculo col Vaffanbagno. Magari funziona.
Molti avrebbero risposto, invece: "chiudere Equitalia": e Grillo tra loro.
Il Post |
Perché perder tempo a governare quando puoi ispirare l'azione di governo a distanza, da un blog, e tirare pure un po' di soldi coi banner? Grillo dice: abbasso la casta! e Renzi s'ingegna a ridurre i parlamentari. Grillo tuona contro le auto blu, Renzi le requisisce e le mette all'asta su eBay. Grillo richiama l'attenzione sul fatto che molta gente è costretta a pagare gli interessi sui debiti, e Renzi provvede. Grillo ottiene quello che domandava e Renzi forse vincerà il referendum che gli preme tanto: ma con che faccia viene a proporsi come alternativa all'antipolitica? Perché non dovremmo considerarlo, piuttosto, un grillino dal volto umano? Uno che dal movimento del Vaffanculo ha preso due o tre istanze che funzionavano, le ha moderate aggiungendo qualche spezia progressista o liberale, e con questo polpettone prova a vincere, anche lui, un po' di elezioni?
Certo, "Bye bye Equitalia" suona molto meno truce di "Chiudiamola". In parrocchia, da bambini, non volendo offendere troppo il nostro interlocutore (e non sapendo ancora molto di sodomia), a volte dicevamo "vaffanbagno". Matteo Renzi è un po' così, uno che cerca di combattere il Vaffanculo col Vaffanbagno. Magari funziona.
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Proprio come un blues del vecchio Dylan bloccato sulle rive del Colorado River mentre lo aspettano a Stoccolma
21-10-2016, 17:30Americana, musicaPermalinkI'm a poet, I know it, hope I don't blow it.
Su Dylan si può dire qualsiasi cosa (lui smentirà comunque). Non canta mai la stessa canzone, non racconta mai la stessa versione dei fatti. Se i giurati del Nobel non riescono a trovarlo al telefono, la prima cosa che viene in mente è che non li ritenga degni di una sua risposta. Ma siccome su di lui si può dire qualsiasi cosa, io preferisco immaginarmelo in una camera d'albergo in penombra mentre si rigira pensoso e si domanda: ma che ci vado a fare a Stoccolma? Perché premiano me? Non lo sanno, non lo hanno ancora capito che non sono più io? Se la sindrome dell'impostore è una delle più diffuse tra i professionisti, perché non potrebbe soffrirne anche l'uomo chiamato Bob Dylan, che mezzo secolo fa incise sei dischi memorabili e poi ha passato il resto della vita a convivere con una fama che lui per primo riteneva eccessiva, innecessaria?
You got a lotta nerve to say you are my friend
Dopo 25 anni che l'ascolto, non sono ancora sicuro se mi piace o no. L'unica certezza, è che nessuno mi ha fatto ascoltare così tanti dischi brutti. Probabilmente nessuno ha fatto più dischi brutti di Bob Dylan: nessun altro poteva permettersi tanti passi falsi, e tanto pesanti. La storia è nota: nel '62 è uno dei tanti ragazzi che cerca di farsi notare cantando testi politici su vecchi giri di chitarra folk, una sottocultura che sarebbe stata probabilmente dimenticata di lì a poco se proprio lui non avesse impresso al genere un'accelerazione improvvisa. Reminiscenze bibliche, intonazioni sardoniche e picaresche, sketch satirici, una zuppa di tante cose che rendono i suoi quattro dischi folk un ascolto godibile ancora a cinquant'anni di distanza. Poi, quando tutti sapevano ormai cosa aspettarsi dal buon vecchio Bob Dylan, la svolta elettrica: il cantautore liquida improvvisamente l'attivismo politico, mette insieme una band come quelle che vanno in Inghilterra, tratta da poveri fanatici i suoi vecchi sostenitori, e realizza altri tre dischi, altri tre capolavori di un genere che non esisteva, che si inventa lui traccia dopo traccia. Dylan appartiene alla storia della musica, alla storia della lirica inglese e, fino al 1966, alla storia del costume: la sua prima apparizione elettrica al festival di Newport sancisce la nascita della rockstar del Novecento, quella che non si lascia etichettare dal genere musicale di appartenenza, ma cambia continuamente le carte in tavola. Se Dylan non avesse abbandonato il folk per il rock, se Dylan non avesse dimostrato che il pubblico seguiva il personaggio e non il genere musicale, i Beatles sarebbero rimasti una boy band? Il successo è immenso e insostenibile. Alla vigilia di un tour con sessanta date fa un incidente in moto e muore a 25 anni prima di poter invecchiare e vincere un Nobel: molto prima che a qualcuno possa venire in mente di consegnarglielo.
The gypsy's door was open wide, but the gypsy was gone.
Oppure sopravvive a sé stesso: prende moglie, mette su casa, tre bambini, e un po' di musica con gli amici nel pomeriggio per tenersi impegnato. Gli anni Sessanta sono appena entrati nella metà più complicata, e lui si è già tirato fuori dai giochi. Non è più lui, non è quello che cercano, persino la voce gli è cambiata. È ancora un musicista - un musicologo addirittura, più che scrivere musica cerca di scoprire quella che c'è già, sepolta in vecchi dischi a volte persino suoi. La gente glieli compra, la gente crede ancora nel grande Bob Dylan che prima o poi tornerà in forma: il country e gli altri esperimenti sono solo una fase, una maschera, si sa che i divi del rock hanno questi momenti. Dylan in effetti tornerà in forma, ma dovrà reimparare a scrivere da capo. Qualcosa si perderà per sempre nel processo. Ci saranno altri dischi godibili e altri dimenticabili - pubblicati con l'impudenza di un artista che sa che qualsiasi cosa gli sarà perdonata. Chi poi si lamenta del fatto che i giurati del Nobel siano rimasti all'estetica di 40 anni fa, sembra non notare che forse Dylan era più in forma negli anni Novanta che per buona parte degli anni Settanta; forse ha scritto cose più interessanti negli ultimi vent'anni che nei venti precedenti.
I'm just average, common too, I'm just like him, the same as you. I'm everybody's brother and son, I ain't different than anyone. It ain't no use a-talking to me: it's just the same as talking to you.
Anche Dylan a metà anni Settanta soffriva di quella peculiare alienazione dei divi dell'epoca, sempre più distanti dal loro pubblico; anche Dylan a un certo punto cominciò a mettersi in maschera sul palco, ma alla fine di It Ain't Me Babe doveva pur suonare l'armonica e quindi se la levava. Tutti gli schermi che ha provato, tutte le conversioni, non hanno veramente funzionato. Qualche travestimento gli è comunque rimasto sottopelle ed è finito per far parte della persona di cui ogni tanto sentiamo parlare. In fondo non è quello che succede a tutti? Salvo che a tutti non capita di fare la storia della musica a vent'anni. Però davvero: da ragazzini campiamo di intuizioni. Crescendo facciamo qualche incidente, mettiamo famiglia, ci arrabattiamo come possiamo, da qualche parte in noi c'è ancora un po' dell'antico genio ma lo ritroviamo sempre meno spesso. Nel frattempo cerchiamo almeno di imparare un mestiere, Dylan ad esempio ha provato a diventare un buon musicista. Con esiti alterni. E poi diciamo bugie, quante ne diciamo.
I was so much older then...
Dal '66 in poi, Dylan e la Storia cominciano a divergere. Anche lui come Bowie cambierà più volte genere e travestimenti, ma mentre Bowie sarà sempre impegnato ad anticipare le mode o a cavalcarle, Dylan sembra periodicamente assorto in un tentativo di segno opposto. Country nel periodo psichedelico, fervente cristiano nei grassi anni Ottanta, di nuovo folk negli anni dell'hip-hop, e ultimamente canta Sinatra e altri successi natalizi. Non è mai dove lo vogliamo, sarebbe strano vederlo a Stoccolma.
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Oltre a un autoritratto di Bob Dylan, è anche un disco di straordinaria, enigmatica bruttezza. |
You got a lotta nerve to say you are my friend
Dopo 25 anni che l'ascolto, non sono ancora sicuro se mi piace o no. L'unica certezza, è che nessuno mi ha fatto ascoltare così tanti dischi brutti. Probabilmente nessuno ha fatto più dischi brutti di Bob Dylan: nessun altro poteva permettersi tanti passi falsi, e tanto pesanti. La storia è nota: nel '62 è uno dei tanti ragazzi che cerca di farsi notare cantando testi politici su vecchi giri di chitarra folk, una sottocultura che sarebbe stata probabilmente dimenticata di lì a poco se proprio lui non avesse impresso al genere un'accelerazione improvvisa. Reminiscenze bibliche, intonazioni sardoniche e picaresche, sketch satirici, una zuppa di tante cose che rendono i suoi quattro dischi folk un ascolto godibile ancora a cinquant'anni di distanza. Poi, quando tutti sapevano ormai cosa aspettarsi dal buon vecchio Bob Dylan, la svolta elettrica: il cantautore liquida improvvisamente l'attivismo politico, mette insieme una band come quelle che vanno in Inghilterra, tratta da poveri fanatici i suoi vecchi sostenitori, e realizza altri tre dischi, altri tre capolavori di un genere che non esisteva, che si inventa lui traccia dopo traccia. Dylan appartiene alla storia della musica, alla storia della lirica inglese e, fino al 1966, alla storia del costume: la sua prima apparizione elettrica al festival di Newport sancisce la nascita della rockstar del Novecento, quella che non si lascia etichettare dal genere musicale di appartenenza, ma cambia continuamente le carte in tavola. Se Dylan non avesse abbandonato il folk per il rock, se Dylan non avesse dimostrato che il pubblico seguiva il personaggio e non il genere musicale, i Beatles sarebbero rimasti una boy band? Il successo è immenso e insostenibile. Alla vigilia di un tour con sessanta date fa un incidente in moto e muore a 25 anni prima di poter invecchiare e vincere un Nobel: molto prima che a qualcuno possa venire in mente di consegnarglielo.
The gypsy's door was open wide, but the gypsy was gone.
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Rock Dreams |
I'm just average, common too, I'm just like him, the same as you. I'm everybody's brother and son, I ain't different than anyone. It ain't no use a-talking to me: it's just the same as talking to you.
Anche Dylan a metà anni Settanta soffriva di quella peculiare alienazione dei divi dell'epoca, sempre più distanti dal loro pubblico; anche Dylan a un certo punto cominciò a mettersi in maschera sul palco, ma alla fine di It Ain't Me Babe doveva pur suonare l'armonica e quindi se la levava. Tutti gli schermi che ha provato, tutte le conversioni, non hanno veramente funzionato. Qualche travestimento gli è comunque rimasto sottopelle ed è finito per far parte della persona di cui ogni tanto sentiamo parlare. In fondo non è quello che succede a tutti? Salvo che a tutti non capita di fare la storia della musica a vent'anni. Però davvero: da ragazzini campiamo di intuizioni. Crescendo facciamo qualche incidente, mettiamo famiglia, ci arrabattiamo come possiamo, da qualche parte in noi c'è ancora un po' dell'antico genio ma lo ritroviamo sempre meno spesso. Nel frattempo cerchiamo almeno di imparare un mestiere, Dylan ad esempio ha provato a diventare un buon musicista. Con esiti alterni. E poi diciamo bugie, quante ne diciamo.
I was so much older then...
Dal '66 in poi, Dylan e la Storia cominciano a divergere. Anche lui come Bowie cambierà più volte genere e travestimenti, ma mentre Bowie sarà sempre impegnato ad anticipare le mode o a cavalcarle, Dylan sembra periodicamente assorto in un tentativo di segno opposto. Country nel periodo psichedelico, fervente cristiano nei grassi anni Ottanta, di nuovo folk negli anni dell'hip-hop, e ultimamente canta Sinatra e altri successi natalizi. Non è mai dove lo vogliamo, sarebbe strano vederlo a Stoccolma.
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Anche nel Nordovest gli uomini odiano le donne
18-10-2016, 01:55cinema, Cosa vedere a Cuneo (e provincia) quando sei vivoPermalinkGo With Me (Blackway), Daniel Alfredson, 2015.
Nelle foreste del Nordovest americano ci si può perdere per sempre. Ci sono boscaioli in fregola per gli alberi, motel in cui qualcuno cuoce metanfetamina e una ragazza resta ammanettata a un letto, nessuno ti saprebbe dire il perché. C'è anche Anthony Hopkins che dà la caccia a Ray Liotta, per motivi non chiarissimi - ok, lui è uno stalker che terrorizza Julia Stiles, un boss dello spaccio e tante altre cose, ma Hopkins va per gli ottanta, dovrebbe stare seduto in un bel salotto con le gambe sotto una coperta trapuntata. Del resto ormai è un trend.
La longevità di molti attori - e l'invecchiamento degli spettatori - ha portato alla nascita di nuovi generi di cui forse non tutti sentivamo l'esigenza: dopo il filone "pensionati che fanno i mercenari o le spie" (da Expendables a Red), quello "ottuagenari vendicatori": Remember di Egoyan, Il mistero del caso irrisolto di Bill Condon, e ancora prima questo Blackway, bislaccamente ribattezzato Go With Me per il mercato italiano che se lo ritrova in sala in un piovoso weekend di ottobre a due anni dall'uscita. Ma si può raccontare la vecchiaia senza farne uno spettacolo? E si può farne uno spettacolo senza averne pudore? Stiamo guardando Hopkins nella parte di un vecchio che non ha più niente da perdere, o stiamo solo vedendo Hopkins invecchiare? Certi suoi sguardi smarriti sono fuori o dentro la parte? (continua su +eventi!)
Sollecitato da una donna in pericolo che nessuno vuole aiutare, secondo un classico canovaccio del genere western, Hopkins forma con un giovane collega balbuziente una banda sgangherata che sembra spesso più irresponsabile e pericolosa del cattivo a cui dà la caccia. Quanto a quest'ultimo: Ray Liotta anche stavolta più che recitare sembra citare una versione più giovane di sé stesso; come di consueto non sta in scena che per qualche minuto, ma per un'ora tutti ne hanno parlato così male che quando compare ti aspetteresti un genio malvagio e invece no, è solo il solito Liotta.
Il film regge la prova del ferro-da-stiro (si può vedere con un occhio solo: trama lineare, dialoghi didascalici) e sembra già progettato per i lunghi pomeriggi e le seconde serate di chi lavora in casa e ama i noir dove chi se la prende con le donne e gli anziani finisce malissimo. Lascerà invece perplessi gli spettatori ormai assuefatti al consumo intensivo di serie televisive: dietro ai personaggi appena sbozzati si intuiscono drammi che potrebbero riempire una mezza dozzina di puntate, e invece tutto resta sospeso e non detto. Dietro la macchina da presa c'è il regista della versione svedese della trilogia Millennium, che per il suo esordio americano sceglie di non spostarsi da ciò che gli è già congeniale: vecchi uomini che odiano le donne, paesaggi quasi vergini da riprendere virati in quel grigio irritante che un giorno dovrà pur passare di moda. All'UCI di Moncalieri alle 20 e alle 22:25.
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Questi due li conosco da tre ore, vogliono aiutarmi con uno stalker, a momenti si facevano ammazzare, hanno un fucile da oche nel baule. A parte questo tutto ok. |
La longevità di molti attori - e l'invecchiamento degli spettatori - ha portato alla nascita di nuovi generi di cui forse non tutti sentivamo l'esigenza: dopo il filone "pensionati che fanno i mercenari o le spie" (da Expendables a Red), quello "ottuagenari vendicatori": Remember di Egoyan, Il mistero del caso irrisolto di Bill Condon, e ancora prima questo Blackway, bislaccamente ribattezzato Go With Me per il mercato italiano che se lo ritrova in sala in un piovoso weekend di ottobre a due anni dall'uscita. Ma si può raccontare la vecchiaia senza farne uno spettacolo? E si può farne uno spettacolo senza averne pudore? Stiamo guardando Hopkins nella parte di un vecchio che non ha più niente da perdere, o stiamo solo vedendo Hopkins invecchiare? Certi suoi sguardi smarriti sono fuori o dentro la parte? (continua su +eventi!)
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Puoi farmela un po' più grigia, per favore? |
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Che poi i boss dello spaccio di solito non si riducono a stalkerare le cameriere, boh. |
Il film regge la prova del ferro-da-stiro (si può vedere con un occhio solo: trama lineare, dialoghi didascalici) e sembra già progettato per i lunghi pomeriggi e le seconde serate di chi lavora in casa e ama i noir dove chi se la prende con le donne e gli anziani finisce malissimo. Lascerà invece perplessi gli spettatori ormai assuefatti al consumo intensivo di serie televisive: dietro ai personaggi appena sbozzati si intuiscono drammi che potrebbero riempire una mezza dozzina di puntate, e invece tutto resta sospeso e non detto. Dietro la macchina da presa c'è il regista della versione svedese della trilogia Millennium, che per il suo esordio americano sceglie di non spostarsi da ciò che gli è già congeniale: vecchi uomini che odiano le donne, paesaggi quasi vergini da riprendere virati in quel grigio irritante che un giorno dovrà pur passare di moda. All'UCI di Moncalieri alle 20 e alle 22:25.
Fo era un grande, Fo era un grillino, Fo era brechtiano (e Dylan no)
15-10-2016, 18:15Beppe Grillo, coccodrilli, italianistica, snobismi, teatroPermalink![]() |
Contrariamente a quanto molti pensano, lo strumento che si vede nella foto non serviva a suonare musica, ma a scrivere parole su un foglio. |
Mettiamola così: io non ci sto a invocare qualche forma di infermità senile per l'anziano Dario Fo. Quando decise di seguire Grillo e i suoi, per me era ancora perfettamente in grado di capire e comprendere: era ancora lo stesso Dario Fo di Mistero Buffo. Non vedo contraddizioni, anzi vedo una profonda coerenza di fondo. Fo era grillino molto prima che arrivasse Grillo; possiamo dire che lo era dal medioevo. Per dimostrarlo prendo un libro a caso.
A fine anni '90, grazie a una pazza idea dei giurati di Stoccolma che potevano leggere le sue commedie tradotte in svedese (altri scrittori italiani che ritenevamo più importanti non erano stati tradotti) Fo diventa all'improvviso un Venerato Maestro.
APERTA PARENTESI
Con tutto il bene che voglio a Bob Dylan, e a tutti i brutti dischi che mi ha fatto ascoltare (nessuno ha mai fatto tanti dischi brutti come Dylan), con tutto il sollievo che provo perché per una volta hanno premiato uno che un po' conosco, devo dire che per me il Nobel alla letteratura più pazzo di tutti, quello che mi ha dato più soddisfazioni, continua a sembrarmi quello a Fo.
Dylan farà brontolare ancora un po' i benpensanti di ogni età, quelli con l'estetica a compartimenti stagni ("letteratura", "musica") che non si capisce neanche esattamente dove se la siano formata: cioè non puoi neanche dare la colpa al liceo gentiliano, o a un Benedetto Croce; nemmeno loro la mettevano giù tanto scema. Più probabilmente hanno in testa i reparti di una libreria, di un multistore: i testi di Dylan non sarebbero "letteratura" perché non stanno in quello scaffale, più che autonomia/eteronomia dell'arte dev'essere una questione merceologica, di inventario.
Con Fo è diverso. Faceva teatro - che è una branca della letteratura più o meno da Eschilo - e non si può neanche dire che non si affidasse alla parola scritta: cioè è vero che improvvisava, ma i testi teatrali suoi e della Rame sono tutt'altro che canovacci: sono dialoghi assolutamente scritti, di buona qualità - e nessuno aveva protestato per George Bernard Shaw o tanti altri. No, il problema con Fo era un po' più sottile. C'è qualcosa in lui che non riusciamo a ridurre a "letteratura", in un senso della parola "letteratura" che non è chiaro nemmeno a noi: e non sono le boccacce o il grammelot. Credo che sia un po' lo stesso problema di Brecht. Fo è un autore a suo modo brechtiano, e quello che fa Brecht non è più, in senso stretto, "letteratura". Forse ancora negli anni Cinquanta, ma in seguito il reparto si è ristretto. Abbiamo deciso, per esempio, che la politica non c'entra, sta in altri scaffali. Ma Brecht la politica la voleva fare. Galileo e Madre Coraggio sono testi che non si limitano a descrivere il mondo: lo vogliono cambiare. Non stanno al loro posto, non si accontentano di gareggiare in un'ipotetica serie A del consumo letterario che peraltro è stata formalizzata qualche decennio dopo da una branca commerciale di qualche casa editrice.
Con Fo succede la stessa cosa. Marino libero, Marino è innocente! è un bel monologo? Non lo so. Quel che mi è ben chiaro, dopo averlo visto, non è la qualità letteraria del testo, ma il fatto che Marino sia, perlappunto, innocente. Si può apprezzare un testo del genere se invece sei sicuro che Marino sia colpevole? Un fascista può apprezzare Brecht? Secondo me no. Al limite ci sarà un equivoco, ma Brecht non è un autore che si lasci così liberamente interpretare. Ha lasciato note di scena ben precise, non puoi interpretare il Galileo come una difesa di Galileo o addirittura della Chiesa cattolica: non funziona.
Con altri scrittori non succede questo - non è previsto che succeda. Non devo condividere l'ideologia di Hemingway - ammesso che ne abbia una - per amare Hemingway. Non devo coindividere le idee politiche di Montale, non devo condividere le convinzioni di Rushdie, e nemmeno quelle di Bob Dylan. Ma non potevo uscire da uno spettacolo di Fo dicendo "mi è piaciuto ma non mi ha convinto". Se non ti ha convinto, non ti è piaciuto. Non è letteratura nel senso che gli abbiamo dato negli ultimi anni: forse è propaganda. In ogni caso la faceva benissimo. Ma a questo punto, di nuovo, si pone il problema: gli possiamo perdonare di essere diventato grillino? Perché non è stato un equivoco, lui nel grillismo ha visto qualcosa che aveva inseguito per tutta la vita. Come stavo perlappunto per mostrare prima di aprire questa parentesi che adesso chiudo.
CHIUSA PARENTESI
A fine anni '90, grazie a una pazza idea dei giurati di Stoccolma che potevano leggere le sue commedie tradotte in svedese (altri scrittori italiani che ritenevamo più importanti non erano stati tradotti) Fo diventa all'improvviso un Venerato Maestro. Potrebbe ritirarsi o ripetere i vecchi numeri approfittando del rilassamento della censura, e invece si butta in altri progetti. Lavora molto. Si interessa soprattutto a uno dei periodi meno conosciuti della nostra Storia, la tarda antichità. Il progetto multimediale La vera storia di Ravenna (1999) prelude ad analoghi spettacoli dedicati al duomo di Modena, ad Ambrogio e ad altre cose che sicuramente mi sono sfuggite; però già nel '99 in quel libro Fo non si limita a raccontare la città che lo ospita: sono due secoli di Storia che riscrive, approfittando del fatto che non li conosce nessuno.
Il libro è completamente disponibile on line: è una lettura facile e godibile (era uno spettacolo per le scuole, questo fanno gli scrittori brechtiani: mentre voi vi affannate a leggere Roth o ascoltare Dylan, occupano le scuole e vi rovinano i fanciulli), ed è assolutamente in linea con quello che Fo aveva fatto prima, ma anche con quello che ahinoi appoggerà dopo. C'è l'amore per il popolo, unico vero motore della Storia: c'è tutta la curiosità del lettore operaio di Brecht, che vuole sapere se Giulio Cesare avesse un cuoco. E poi c'è questa cosa folle che vi vado a mostrare: la scoperta di un eroe proletario nell'Italia disastrata del sesto secolo. Nientemeno che Totila, re dei Goti. Approfittando di due o tre accenni a una riforma fondiaria che Totila aveva avvallato per rifondare il suo esercito, Dario Fo descrive una scena che col senno del poi assume una valenza ben più inquietante di quella che aveva a fine anni '90 (ai quei tempi al massimo ci si diceva vabbe', Cristo e morto, Marx è morto, e Fo si mette a cercare un Che Guevara nella Storia dei Goti).
La riforma fondiaria di Totila non ebbe un grosso seguito: vuoi per la peste che colpì di lì a poco la penisola, decimandone gli abitanti (e rendendo una riorganizzazione del territorio in qualche modo necessaria); vuoi perché dopo tante brillanti vittorie che Fo racconta con l'entusiasmo del militante, Totila viene sconfitto e i suoi seguaci crocefissi. Però per Fo l'importante è che ci sia stata: che abbia preso l'esempio da una rivolta avvenuta poco prima in Palestina, e che abbia passato il testimone ad altre rivendicazioni, altre lotte avvenute poco dopo nei territori Bizantini. Totila non è morto, Totila lotta insieme a noi - Fo non lo scrive, ma vuole che uscendo di teatro noi un po' lo pensiamo. In seguito vedrà nel Duomo di Modena l'opera di un popolo che non vuole essere eterodiretto da papi o imperatori, e dipingerà Sant'Ambrogio come l'eroe del popolo di Milano, un non battezzato che diventa vescovo per acclamazione. Si tratta di operazioni propagandistiche molto più spinte di quelle che i Wu Ming stanno facendo nello stesso periodo. Fo riscrive la Storia dal basso - gli storici ovviamente storcono il naso ma non è a loro che evidentemente Fo guarda. Fo sta cercando e proponendo dei modelli, un po' perché quelli del Novecento ormai sono inutilizzabili, un po' perché è quel che ha sempre fatto, dai tempi di Lisistrata e Mistero Buffo.
Un passo oltre: in quel re barbaro che convoca i servi della gleba, gli propone di abolire il feudalesimo della Casta e confessa "abbiamo poca esperienza", non vi sembra di riconoscere qualcuno? Un Fo che era disposto a farsi andar bene personaggi come Totila o lo stesso Ambrogio, perché non avrebbe dovuto salutare con gioia l'avvento di Grillo e dei suoi uomini inespertissimi? Il movimento del Vaffanculo, Fo lo stava aspettando da una vita. Era stata la voce che lo chiamava dal deserto del Novecento. E a questo punto la palla torna a noi. Ci piaceva Fo, ovvero: ci piaceva una persona che il grillismo lo ha immaginato, lo ha cercato qua e là nei secoli più bui della nostra Storia, lo ha finalmente visto in Grillo e nei suoi. Possiamo anche raccontarci che la situazione sia molto più complessa, ma non è così. Possiamo stabilire che che Fo ci piaceva in quanto geniale propagandista di una cosa che in realtà non funziona, ma è un'operazione un po' fredda. Se davvero ci piace Fo, dobbiamo accettare che c'è qualcosa del grillismo che tutto sommato non ci dispiace: e decidere, di conseguenza, se vogliamo rimuoverla o mantenerla dentro di noi. Almeno per me è così
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La vita segreta (non troppo originale) degli animali
12-10-2016, 02:14animali, animazione, cinema, Cosa vedere a Cuneo (e provincia) quando sei vivoPermalinkPets - Vita da animali (The Secret Life of Pets)
Cosa fanno i nostri animali mentre noi non siamo in casa? Cosa volete che facciano: perlopiù dormono, mangiano, litigano, scappano di casa, vanno alle feste, complottano contro il genere umano, guidano missioni suicide contro convogli di accalappiacani, e poi tornano a casa in tempo per scodinzolare quando apriamo il portone.
Pets è il sesto film della Illumination Entertainment - se contiamo anche il primo Cattivissimo me (2010), che era ancora un prodotto della francese Mac Guff, acquisita di lì a poco. L'Illumination ha l'esclusiva per i film di animazione della Universal e grazie ai Minions è diventata una delle più grandi realtà dell'animazione digitale: più grande della branca animazione della Fox, da cui proviene il fondatore (Chris Meledandri lavorò ai primi due Era glaciale), più grande della Dreamworks che forse Meledandri si comprerà. Più in altro c'è solo la Disney/Pixar, ma per ora più che competere sembra che la Illumination si contenti di imitare. Gru e i Minions almeno avevano una loro identità, magari non originalissima, ma tra tanti prodotti in 3d si facevano riconoscere; Pets non prova neanche per un istante a sembrare diverso da quel che promette nei trailer: una rifrittura di concetti e luoghi pixariani e disneyani.
Meledandri è molto bravo a mantenere bassi i budget e stavolta non ha speso molto nemmeno per l'idea (continua su +eventi!): facciamo Toy Story con gli animali, al posto del cowboy e dell'astronauta mettiamo due bastardini che prima litigano e poi diventano amici inseparabili. Mettiamoci anche un cattivo dolce e insospettabile, come in Toy Story 3. Un predatore che cerca di vincere i propri istinti, come lo squalo di Nemo. C'è persino il siparietto lisergico, come in Dumbo e nel Good Dinosaur; il tutto senza foga citazionista: semplicemente si prendono cose che si sa che funzioneranno bene, e si usano ancora una volta, senza pretese di originalità ma nemmeno troppi ammiccamenti. Neanche il successo straordinario dei Minions ha fatto venire a Meledandri la voglia di rischiare un po', e il risultato è un altro boom al botteghino: un film che incasserà più di Zootopia, raccontando situazioni simili (una comunità di animali che convive nella diversità) con molta meno fantasia.
Quanto sia meccanico l'approccio lo si vede bene nel momento in cui il film si ritrova all'improvviso in una situazione 'alla Up': da qualche parte nella grande città c'è una piccola casa col giardino, dentro forse c'è ancora un anziano signore che aspetta uno dei personaggi. Una scena del genere, in un Pixar autentico, sarebbe stato un colpo al cuore: il classico momento dei lacrimoni. Qui niente. Viene persino pronunciata la parola speciale, "morte" - una parola che in un prodotto per bambini deve essere usata con una cautela - ma non ci si ferma a riflettere, men che meno a piangere: è solo uno snodo qualsiasi della trama, lo spunto per un battibecco in attesa dell'ennesimo inseguimento. Verrebbe da dire che per i bambini magari è meglio così, il pathos di certi film della Pixar è inadatto a loro - ma poi c'è una scena d'azione eccessivamente intensa, in cui i personaggi praticamente annegano, roba che gli stessi bambini potrebbero sognarsi di notte. Non è una questione di budget, non è un problema di rendering: è proprio che manca il cuore. Ma c'è un sacco di animaletti buffi, e sta piacendo a tutti. Al Vittoria di Bra (alle 20:00 in 3d, alle 22:20 in 2d); al Fiamma di Cuneo (alle 21:00); al Multilanghe di Dogliani (alle 21:30 in 2d) e ai Portici di Fossano (alle 18:30 in 2d).
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MORTE AL GENERE UMANO! |
Pets è il sesto film della Illumination Entertainment - se contiamo anche il primo Cattivissimo me (2010), che era ancora un prodotto della francese Mac Guff, acquisita di lì a poco. L'Illumination ha l'esclusiva per i film di animazione della Universal e grazie ai Minions è diventata una delle più grandi realtà dell'animazione digitale: più grande della branca animazione della Fox, da cui proviene il fondatore (Chris Meledandri lavorò ai primi due Era glaciale), più grande della Dreamworks che forse Meledandri si comprerà. Più in altro c'è solo la Disney/Pixar, ma per ora più che competere sembra che la Illumination si contenti di imitare. Gru e i Minions almeno avevano una loro identità, magari non originalissima, ma tra tanti prodotti in 3d si facevano riconoscere; Pets non prova neanche per un istante a sembrare diverso da quel che promette nei trailer: una rifrittura di concetti e luoghi pixariani e disneyani.
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Che poi non si capisce come vada a finire: diventa vegetariano? |
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Quanto sia meccanico l'approccio lo si vede bene nel momento in cui il film si ritrova all'improvviso in una situazione 'alla Up': da qualche parte nella grande città c'è una piccola casa col giardino, dentro forse c'è ancora un anziano signore che aspetta uno dei personaggi. Una scena del genere, in un Pixar autentico, sarebbe stato un colpo al cuore: il classico momento dei lacrimoni. Qui niente. Viene persino pronunciata la parola speciale, "morte" - una parola che in un prodotto per bambini deve essere usata con una cautela - ma non ci si ferma a riflettere, men che meno a piangere: è solo uno snodo qualsiasi della trama, lo spunto per un battibecco in attesa dell'ennesimo inseguimento. Verrebbe da dire che per i bambini magari è meglio così, il pathos di certi film della Pixar è inadatto a loro - ma poi c'è una scena d'azione eccessivamente intensa, in cui i personaggi praticamente annegano, roba che gli stessi bambini potrebbero sognarsi di notte. Non è una questione di budget, non è un problema di rendering: è proprio che manca il cuore. Ma c'è un sacco di animaletti buffi, e sta piacendo a tutti. Al Vittoria di Bra (alle 20:00 in 3d, alle 22:20 in 2d); al Fiamma di Cuneo (alle 21:00); al Multilanghe di Dogliani (alle 21:30 in 2d) e ai Portici di Fossano (alle 18:30 in 2d).
Lasciate che i vostri figli facciano quei compiti (da soli)
10-10-2016, 01:38scuolaPermalink
Sono un insegnante che dà compiti a casa. Non ne do tanti. A volte qualche genitore si lamenta perfino: mio figlio non ha mai compiti da fare. Ci tengo a far presente questa cosa, perché ormai bastano due foto su facebook e un articolo di un genitore ansioso per far nascere una specie di movimento anti-compiti: guardate che la maggioranza dei genitori non si comporta così. Fa più rumore un Mattia Feltri sulla Stampa che una foresta di genitori che i compiti a casa li pretende, ne vorrebbe di più, avrebbe anche una certa idea su come correggerli.
Voi invece credete che invece che tutti i genitori non ne possano più. Ma magari. Nei miei sogni più proibiti ormai non c'è più Scarlett Johansson, ma un commando di genitori incazzati che irrompe nella sala insegnanti e mi sbatte al muro: MAI PIU' COMPITI A CASA AI NOSTRI FIGLI. Ma certo. Mai più pomeriggi e serate a correggerli, evvai, bentornata giovinezza. E neanche compiti delle vacanze, mi voglio rovinare. In quel momento di solito mi sveglio - cioè, credete che sia divertente assegnare compiti e poi correggerli? È faticoso. Non quanto la monodisciplinare (voi non sapete cos'è), ma fidatevi, è uno degli aspetti meno eccitanti del mio mestiere. Al dodicesimo compito identico gli occhi cominciano a rovesciarsi, devo tenermi sveglio scrivendo cose qua sopra, ne ho altri sedici e la gente crede che ho smesso di lavorare otto ore fa, perché sai, "quelli fanno solo 18 ore alla settimana".
Sono un insegnante di scuola media - in realtà si chiama secondaria di primo grado, ma vabbe'. Quando leggo un genitore ansioso lamentarsi dei compiti su un quotidiano nazionale, penso ad alcune cose. La prima: sono i primi di ottobre. Siamo sicuri che quelli che state facendo siano davvero i compiti assegnati dalla prof? Non è una domanda stupida. I miei ragazzi di prima ci mettono un mesetto a capire come funziona. Otto materie nuove, una dozzina di libri che si portano soltanto due o tre volte alla settimana. È tutto molto strano e l'orario definitivo magari non è ancora stato pubblicato. Molti reagiscono tenendosi tutti i libri nello zaino: venti libri. E i genitori si lamentano. Ma c'è un equivoco, io per quel che posso lo faccio presente: in quello zaino più di quattro o cinque libri non ci dovrebbero stare. Il bambino deve capire quali mettere, non è facile ma entro ottobre ci deve arrivare. Si chiama educazione all'autonomia, ed è fondamentale che il genitore cominci a fare qualche passo indietro.
Quanto ai compiti: a volte ci mettono un po' a capire quando vanno fatti e perché. Lunedì arriva un prof di tecnologia, mostra un paio di cose, ci ragionano, poi lui assegna una paginata di attività per il lunedì seguente, ma Pierino non capisce, è convinto che lo stesso prof tornerà anche il giorno dopo, e si dispera; oppure dorme per una settimana e si ricorda della paginata soltanto domenica sera; oppure crede che anche stavolta i genitori lo tireranno fuori dai guai, come hanno sempre fatto, e corre da papà col diario in mano, dai papà, sgravati un po' di ancestrale senso di colpa firmandomi una giustifica. Il mattino dopo arriva questo prof, chiede i compiti, e Pierino sventaglia la giustifica: "ieri sera P. era troppo stanco e non ha fatto i compiti..." Ieri sera? Ma io te li ho dati una settimana fa. Sono situazioni ricorrenti, i ragazzi ci mettono un po' a capire, e non è tempo perso: forse è più importante l'autonomia che l'assonometria cavaliera.
Dopodiché, magari davvero vostro figlio in questi giorni si è ritrovato il diario pieno di compiti. Succede. Appena potete, parlatene con l'insegnante. Un consiglio: siate gentili. Non costa niente e magari funziona. Nessuno reagisce bene davanti a un genitore che brontola, ma se un adulto viene da me con gentilezza e mi fa presente alcuni dubbi sui libri di testo, io lo ringrazio, e probabilmente me ne ricorderò alla prima riunione monodisciplinare (davvero, non avete idea), e quel libro se posso lo farò cambiare. La scuola italiana è un meccanismo imperfetto ma funzionante, che va avanti ad aggiustamenti continui. Chi si lamenta del fatto che i prof non sono valutati, probabilmente non ha mai sperimentato in vita sua la sensazione di essere costantemente giudicato da un centinaio di studenti, le loro centinaia di genitori, una trentina di colleghi, un dirigente. L'insegnante che ha dato troppi compiti a vostro figlio, magari sta soltanto aspettando un riscontro: magari è inesperto, si è calato da poco in un ambiente nuovo, vuole capire quando è troppo e quando è troppo poco e sta andando a tentativi. Voi dite: ma queste cose le dovrebbe sapere già. Avete ragione, ma è un fatto che non le insegni nessuno. Neanche ai corsi di aggiornamento, non fanno che parlare di competenze qua e competenze là, e nessuno che provi a porsi il problema in modo quantitativo: quanti compiti dare? Come calcolare l'unità di tempo? Meglio darne pochi da fare subito o molti da verificare saltuariamente? Ecc. ecc. Tutte queste cose, un insegnante le impara sul campo, lavorando coi vostri figli (queste tenerissime cavie).
Sono un insegnante. Quando vostro figlio si chiude in camera, non sta necessariamente facendo i compiti. Se nella stessa camera c'è un televisore / una playstation / un computer / uno smartphone, sicuramente non sta facendo i compiti. Non venite a dirmi che sta tappato in casa quattro ore al pomeriggio a fare i compiti. È la vostra intelligenza, non me, che state offendendo.
Sono un insegnante. Se vostro figlio arriva coi compiti fatti male, non lo picchio. Non lo tocco nemmeno. Non lo umilio pubblicamente. Al massimo gli darò un brutto voto. È da questo che lo volete proteggere? Non sopportate che si prenda un brutto voto? Guardate che ne ha bisogno. Gli farà bene. (E comunque non se ne esce. Possiamo anche decidere che i "voti" sono brutti, e assegnare "valutazioni", usare le lettere al posto dei numeri o perché no, i colori. Ma se vostro figlio non lavora, in un qualche modo io dovrò farglielo capire. Per il suo bene, e della società tutta, deve riconoscere la differenza tra un lavoro fatto male e uno ben fatto).
Sono un insegnante che a volte dà persino nozioni da imparare a memoria, ma anche qui molto spesso c'è un equivoco. Le nozioni sono utili perché intorno ci puoi fare un ragionamento: 3,14 non è solo un numero da imparare a memoria, è la chiave per capire un sacco di cose sui cerchi, i diametri, persino l'astronomia. È da quando campo che sento discorsi contro l'"arido nozionismo": sono inevitabili come quelli sulle mezze stagioni. Probabilmente ognuno proietta le sue difficoltà giovanili: abbiamo tutti avuto una materia che non ci piaceva, e come facevamo per sopravvivere? Imparavamo a memoria. Il prof. di geografia spiega a lezione che l'asse è inclinato di 66° sul piano dell'eclittica e il modo in cui questa inclinazione crea le stagioni. Qualcuno capisce e si ristudia la cosa. Qualcun altro non segue, non ama la geografia, probabilmente non la studierà in seguito: torna a casa e si lamenta: uffa, devo imparare a memoria che c'è un angolo proprio di 66 gradi.
Sono un insegnante, prima di esserlo ero uno studente. Alle elementari avevo il tempo pieno, quindi quando i coetanei parlano di cartoni animati giapponesi molto spesso io non so cosa dire, cerco di cambiare argomento. In quei cinque anni non feci mai compiti a casa. Ancora oggi, quando mi capita uno di quei pomeriggi osceni in cui riesco a procrastinare qualsiasi incombenza, cerco di perdonarmi così: povero piccolo Leonardo, sai qual è il problema? Che alle elementari non ti davano i compiti a casa per il pomeriggio. Ti è mancato l'imprinting, maledetto tempo pieno. Poi ci sono state le medie, le superiori, l'università - ricordo ancora il panico davanti al programma di Italiano uno, bisognava leggersi la Commedia il Canzoniere il Decamerone l'Orlando Furioso la Gerusalemme Liberata le Tecniche della Critica Letteraria (credo di essere stato l'unica matricola su cinquecento ad essermeli letti tutti davvero - tranne il Canzoniere, non sono sicuro di averlo letto tutto il Canzoniere). Oggi lavoro, scrivo, a volte per tenermi sveglio vado su facebook e trovo gente che si lamenta per la propria tendenza a procrastinare le cose. C'è gente che frequenta dei corsi per imparare a non procrastinare. C'è gente che compra dei libri. E poi c'è gente che si lamenta perché i prof danno i compiti ai loro figli al pomeriggio. Ecco, voglio sperare che i due insiemi non si sovrappongano.
Voi invece credete che invece che tutti i genitori non ne possano più. Ma magari. Nei miei sogni più proibiti ormai non c'è più Scarlett Johansson, ma un commando di genitori incazzati che irrompe nella sala insegnanti e mi sbatte al muro: MAI PIU' COMPITI A CASA AI NOSTRI FIGLI. Ma certo. Mai più pomeriggi e serate a correggerli, evvai, bentornata giovinezza. E neanche compiti delle vacanze, mi voglio rovinare. In quel momento di solito mi sveglio - cioè, credete che sia divertente assegnare compiti e poi correggerli? È faticoso. Non quanto la monodisciplinare (voi non sapete cos'è), ma fidatevi, è uno degli aspetti meno eccitanti del mio mestiere. Al dodicesimo compito identico gli occhi cominciano a rovesciarsi, devo tenermi sveglio scrivendo cose qua sopra, ne ho altri sedici e la gente crede che ho smesso di lavorare otto ore fa, perché sai, "quelli fanno solo 18 ore alla settimana".
Sono un insegnante di scuola media - in realtà si chiama secondaria di primo grado, ma vabbe'. Quando leggo un genitore ansioso lamentarsi dei compiti su un quotidiano nazionale, penso ad alcune cose. La prima: sono i primi di ottobre. Siamo sicuri che quelli che state facendo siano davvero i compiti assegnati dalla prof? Non è una domanda stupida. I miei ragazzi di prima ci mettono un mesetto a capire come funziona. Otto materie nuove, una dozzina di libri che si portano soltanto due o tre volte alla settimana. È tutto molto strano e l'orario definitivo magari non è ancora stato pubblicato. Molti reagiscono tenendosi tutti i libri nello zaino: venti libri. E i genitori si lamentano. Ma c'è un equivoco, io per quel che posso lo faccio presente: in quello zaino più di quattro o cinque libri non ci dovrebbero stare. Il bambino deve capire quali mettere, non è facile ma entro ottobre ci deve arrivare. Si chiama educazione all'autonomia, ed è fondamentale che il genitore cominci a fare qualche passo indietro.
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Dopodiché, magari davvero vostro figlio in questi giorni si è ritrovato il diario pieno di compiti. Succede. Appena potete, parlatene con l'insegnante. Un consiglio: siate gentili. Non costa niente e magari funziona. Nessuno reagisce bene davanti a un genitore che brontola, ma se un adulto viene da me con gentilezza e mi fa presente alcuni dubbi sui libri di testo, io lo ringrazio, e probabilmente me ne ricorderò alla prima riunione monodisciplinare (davvero, non avete idea), e quel libro se posso lo farò cambiare. La scuola italiana è un meccanismo imperfetto ma funzionante, che va avanti ad aggiustamenti continui. Chi si lamenta del fatto che i prof non sono valutati, probabilmente non ha mai sperimentato in vita sua la sensazione di essere costantemente giudicato da un centinaio di studenti, le loro centinaia di genitori, una trentina di colleghi, un dirigente. L'insegnante che ha dato troppi compiti a vostro figlio, magari sta soltanto aspettando un riscontro: magari è inesperto, si è calato da poco in un ambiente nuovo, vuole capire quando è troppo e quando è troppo poco e sta andando a tentativi. Voi dite: ma queste cose le dovrebbe sapere già. Avete ragione, ma è un fatto che non le insegni nessuno. Neanche ai corsi di aggiornamento, non fanno che parlare di competenze qua e competenze là, e nessuno che provi a porsi il problema in modo quantitativo: quanti compiti dare? Come calcolare l'unità di tempo? Meglio darne pochi da fare subito o molti da verificare saltuariamente? Ecc. ecc. Tutte queste cose, un insegnante le impara sul campo, lavorando coi vostri figli (queste tenerissime cavie).
Sono un insegnante. Quando vostro figlio si chiude in camera, non sta necessariamente facendo i compiti. Se nella stessa camera c'è un televisore / una playstation / un computer / uno smartphone, sicuramente non sta facendo i compiti. Non venite a dirmi che sta tappato in casa quattro ore al pomeriggio a fare i compiti. È la vostra intelligenza, non me, che state offendendo.
Sono un insegnante. Se vostro figlio arriva coi compiti fatti male, non lo picchio. Non lo tocco nemmeno. Non lo umilio pubblicamente. Al massimo gli darò un brutto voto. È da questo che lo volete proteggere? Non sopportate che si prenda un brutto voto? Guardate che ne ha bisogno. Gli farà bene. (E comunque non se ne esce. Possiamo anche decidere che i "voti" sono brutti, e assegnare "valutazioni", usare le lettere al posto dei numeri o perché no, i colori. Ma se vostro figlio non lavora, in un qualche modo io dovrò farglielo capire. Per il suo bene, e della società tutta, deve riconoscere la differenza tra un lavoro fatto male e uno ben fatto).
Sono un insegnante che a volte dà persino nozioni da imparare a memoria, ma anche qui molto spesso c'è un equivoco. Le nozioni sono utili perché intorno ci puoi fare un ragionamento: 3,14 non è solo un numero da imparare a memoria, è la chiave per capire un sacco di cose sui cerchi, i diametri, persino l'astronomia. È da quando campo che sento discorsi contro l'"arido nozionismo": sono inevitabili come quelli sulle mezze stagioni. Probabilmente ognuno proietta le sue difficoltà giovanili: abbiamo tutti avuto una materia che non ci piaceva, e come facevamo per sopravvivere? Imparavamo a memoria. Il prof. di geografia spiega a lezione che l'asse è inclinato di 66° sul piano dell'eclittica e il modo in cui questa inclinazione crea le stagioni. Qualcuno capisce e si ristudia la cosa. Qualcun altro non segue, non ama la geografia, probabilmente non la studierà in seguito: torna a casa e si lamenta: uffa, devo imparare a memoria che c'è un angolo proprio di 66 gradi.
Sono un insegnante, prima di esserlo ero uno studente. Alle elementari avevo il tempo pieno, quindi quando i coetanei parlano di cartoni animati giapponesi molto spesso io non so cosa dire, cerco di cambiare argomento. In quei cinque anni non feci mai compiti a casa. Ancora oggi, quando mi capita uno di quei pomeriggi osceni in cui riesco a procrastinare qualsiasi incombenza, cerco di perdonarmi così: povero piccolo Leonardo, sai qual è il problema? Che alle elementari non ti davano i compiti a casa per il pomeriggio. Ti è mancato l'imprinting, maledetto tempo pieno. Poi ci sono state le medie, le superiori, l'università - ricordo ancora il panico davanti al programma di Italiano uno, bisognava leggersi la Commedia il Canzoniere il Decamerone l'Orlando Furioso la Gerusalemme Liberata le Tecniche della Critica Letteraria (credo di essere stato l'unica matricola su cinquecento ad essermeli letti tutti davvero - tranne il Canzoniere, non sono sicuro di averlo letto tutto il Canzoniere). Oggi lavoro, scrivo, a volte per tenermi sveglio vado su facebook e trovo gente che si lamenta per la propria tendenza a procrastinare le cose. C'è gente che frequenta dei corsi per imparare a non procrastinare. C'è gente che compra dei libri. E poi c'è gente che si lamenta perché i prof danno i compiti ai loro figli al pomeriggio. Ecco, voglio sperare che i due insiemi non si sovrappongano.
Comments (11)
Woody torna a Hollywood, Woody torna a NY
02-10-2016, 13:36cinema, Cosa vedere a Cuneo (e provincia) quando sei vivo, Woody AllenPermalink
Café Society (Woody Allen, 2016)
Non importa se nel frattempo ti sei scavato il tuo buco in questo mondo: quante mani stringi, quante persone conosci, quanti ti devono un favore. Lì su un divano c'è il tuo primo amore, per quanto hai scavato è riuscito a snidarti. Vuole controllare che stai bene, vuole mostrarti che sta meglio. Chiacchiera di cose che non ti interessano, cose che non ritenevi dovessero interessarle: cose che comunque non avresti potuto permetterti, tutte queste cose teoricamente inutili che ormai stanno tra te e lei. Spalanca una finestra su quel teatrino che avevi messo insieme con due ricordi, quella farsa che chiamavi il passato trascorso assieme: non è trascorso davvero, non eravate realmente assieme: ogni discorso era un equivoco in attesa di una terza, o una quarta persona. Rimane solo un gran vuoto, ogni tanto qualcuno ti avvertirà che lo stai fissando.
Per molto tempo Woody Allen e Hollywood ci sono sembrati due universi lontani, in qualche modo complementari. Poi lentamente qualcosa è cambiato, qualcosa è collassato, e WA si è scoperto un classico. Un comico che aveva cominciato a confezionare film per aggirare le autocensure dei network televisivi, che li girava sghembi e irregolari, senza vergognarsi di prendere in prestito stilemi e soluzioni dai suoi maestri più o meno dichiarati, anno dopo anno, film dopo film, si è ritrovato padrone di un locale in cui era entrato da fattorino, depositario di un enorme repertorio di cose che nessuno viene più a ritirare. Tanta roba di ottima fattura ma un po' fuori moda: lo swing, i telefoni bianchi, perché no; quelle roboanti voci fuori campo del cinema di una volta, quelle sceneggiature squillanti in cui i personaggi fumano come ciminiere, bevono come spugne, dicono tutto quello che gli passa per la testa, compreso "muoio per amore" al primo tizio che ti presentano a una festa - quelle cose che succedevano in quei vecchi film che forse non abbiamo mai visto, ma ormai ce li immaginiamo simili a quelli in costume di Woody Allen.
Cafè Society questa settimana è il film proiettato in più sale, anche nella provincia di Cuneo - se la gioca con la pesciolina Dory - del resto lo abbiamo visto, ormai il marchio Woody Allen è una specie di Walt Disney per la terza età. La gente non va a vedere molti film, ma i suoi sì. Non è un film particolarmente divertente, non è nemmeno una tragedia: è il tipico film del tardo WA. Un cast notevole, costumi stupendi, fotografia pazzesca - in un certo senso è più un film di Storaro che di Allen, luci e inquadrature sembrano più importanti delle chiacchiere pure interminabili dei personaggi. La trama è più evanescente del solito e questo è forse un vantaggio, rispetto agli ultimi anni di canovacci un po' scontati: come se volendo evitare la solita storia, si fosse ritrovato quasi senza storia da raccontare. Siccome i fratelli Dorfman sono una coppia classica del cinema alleniano - il gagster e il giovane innocente di belle speranze - per buona parte del film ti aspetti una svolta tragica che invece, sorpresa! non avviene. Qualcuno viene effettivamente ucciso e nascosto, ma per futilissimi motivi, quasi non se ne possa fare a meno: c'è una pistola sul set, usiamola.
Forse una relativa novità sta nell'idea di mostrare un triangolo sentimentale dal punto di vista del giovane infelice. Sappiamo che per Allen le ragazze sono naturalmente attratte da uomini col doppio dei loro anni: non necessariamente ricchi o potenti (ma aiuta), senz'altro più saggi e colti (continua su +eventi!). Un tipo preciso di relazione da sempre vista con sospetto nelle commedie sentimentali e quasi del tutto rimossa da quelle di ultima generazione, che per WA è una specie di condizione di natura, indiscutibile, al punto che nel film dell'anno scorso la studentessa Emma Stone non aveva nessuna difficoltà a scambiare effusioni col suo professore Joaquin Phoenix sul prato della facoltà - sono quelle piccole cose che ricordano allo spettatore che siamo nel mondo di Allen, un mondo dove un cinquantenne troverà sempre una ventenne disposta a impazzire per lui.
Poi le cose non vanno sempre a finire nel migliore dei modi, ma forse è la prima volta che Allen sceglie di mostrarci la storia dal punto di vista opposto al suo: il ragazzo giovane che viene scaricato perché l'uomo ricco e potente (Steve Carell), per una volta, ha deciso che lascia davvero la moglie per la segretaria. È una piccola rivoluzione copernicana, ma forse è anche il motivo per cui il film gira un po' a vuoto, malgrado Jesse Eisenberg sia quel tipo di attore che sembra nato per recitare film di Allen. Si capisce che il regista vorrebbe dare al suo personaggio un po' di profondità - gli regala anche un siparietto divertente con una ragazza squillo che ai fini dello sviluppo della trama non ha molto senso - e però fino alla fine questo giovane Dorfman resterà poco più che una silhouette, uno che prende continuamente le distanze dalla superficialità e dal cinismo hollywoodiani salvo andare a infilarsi in un posto altrettanto superficiale e cinico come un nightclub newyorchese. Come se WA, dopo aver deciso di mettere in scena l'educazione sentimentale di un giovane, si fosse distratto - tanto che le battute migliori stanno in bocca ad attori attempati e riguardano, come al solito, la morte ("vivi ogni giorno come se fosse l'ultimo, e un giorno o l'altro ci azzeccherai"). Partito con l'idea di raccontare le illusioni perdute della gioventù, WA sembra davvero ritrovarsi soltanto davanti a quell'ingrigito padre ebreo che senza alzarsi da letto lancia la sua sfida alla morte: me ne andrò, ma non staro zitto. "Protesterò"; e a quella moglie in vestaglia che gli risponde: protesterai con chi, protesterai di cosa?
Infine c'è Kristen Stewart, che con Eisenberg recita spesso e si trova bene - anche se neanche con lui sembra mai davvero a suo agio - coi suoi broncetti imbarazzati che contagiano lo spettatore e lo lasciano sempre interdetto - è brava a sembrare imbarazzante, o è imbarazzante e basta? Quando è sulla spiaggia col fidanzato giovane, e i raggi dell'amore si velano all'improvviso dell'ombra del rimpianto che Kristen sottolinea trattenendo a stento il fiato come a reprimere un rutto: cattiva recitazione o colpo di genio? Perché a volte le ragazze fanno davvero così, io le ho viste. Credo. È passato del tempo. Non sono più la stessa persona. Vivo in un'altra città, faccio un altro lavoro, tutti mi salutano l'unica cosa che mi è rimasta è che vado ancora a vedere i film di Woody Allen - oggi al Citiplex di Alba (17:00, 19:00, 21:15), al Cinelandia di Borgo San Dalmazzo (15:20, 17:40, 20:20, 22:30), al Vittoria di Bra (17:30, 20:00, 22:00), al Fiamma di Cuneo (15:15, 18:15, 21:15), ai Portici di Fossano (16:00, 18:30, 21:15), al Baretti di Mondovì (21:00), al Cinecittà di Savigliano (16:00, 18:10, 20:20, 22:30).
Non importa se nel frattempo ti sei scavato il tuo buco in questo mondo: quante mani stringi, quante persone conosci, quanti ti devono un favore. Lì su un divano c'è il tuo primo amore, per quanto hai scavato è riuscito a snidarti. Vuole controllare che stai bene, vuole mostrarti che sta meglio. Chiacchiera di cose che non ti interessano, cose che non ritenevi dovessero interessarle: cose che comunque non avresti potuto permetterti, tutte queste cose teoricamente inutili che ormai stanno tra te e lei. Spalanca una finestra su quel teatrino che avevi messo insieme con due ricordi, quella farsa che chiamavi il passato trascorso assieme: non è trascorso davvero, non eravate realmente assieme: ogni discorso era un equivoco in attesa di una terza, o una quarta persona. Rimane solo un gran vuoto, ogni tanto qualcuno ti avvertirà che lo stai fissando.
Cafè Society questa settimana è il film proiettato in più sale, anche nella provincia di Cuneo - se la gioca con la pesciolina Dory - del resto lo abbiamo visto, ormai il marchio Woody Allen è una specie di Walt Disney per la terza età. La gente non va a vedere molti film, ma i suoi sì. Non è un film particolarmente divertente, non è nemmeno una tragedia: è il tipico film del tardo WA. Un cast notevole, costumi stupendi, fotografia pazzesca - in un certo senso è più un film di Storaro che di Allen, luci e inquadrature sembrano più importanti delle chiacchiere pure interminabili dei personaggi. La trama è più evanescente del solito e questo è forse un vantaggio, rispetto agli ultimi anni di canovacci un po' scontati: come se volendo evitare la solita storia, si fosse ritrovato quasi senza storia da raccontare. Siccome i fratelli Dorfman sono una coppia classica del cinema alleniano - il gagster e il giovane innocente di belle speranze - per buona parte del film ti aspetti una svolta tragica che invece, sorpresa! non avviene. Qualcuno viene effettivamente ucciso e nascosto, ma per futilissimi motivi, quasi non se ne possa fare a meno: c'è una pistola sul set, usiamola.
Forse una relativa novità sta nell'idea di mostrare un triangolo sentimentale dal punto di vista del giovane infelice. Sappiamo che per Allen le ragazze sono naturalmente attratte da uomini col doppio dei loro anni: non necessariamente ricchi o potenti (ma aiuta), senz'altro più saggi e colti (continua su +eventi!). Un tipo preciso di relazione da sempre vista con sospetto nelle commedie sentimentali e quasi del tutto rimossa da quelle di ultima generazione, che per WA è una specie di condizione di natura, indiscutibile, al punto che nel film dell'anno scorso la studentessa Emma Stone non aveva nessuna difficoltà a scambiare effusioni col suo professore Joaquin Phoenix sul prato della facoltà - sono quelle piccole cose che ricordano allo spettatore che siamo nel mondo di Allen, un mondo dove un cinquantenne troverà sempre una ventenne disposta a impazzire per lui.
Poi le cose non vanno sempre a finire nel migliore dei modi, ma forse è la prima volta che Allen sceglie di mostrarci la storia dal punto di vista opposto al suo: il ragazzo giovane che viene scaricato perché l'uomo ricco e potente (Steve Carell), per una volta, ha deciso che lascia davvero la moglie per la segretaria. È una piccola rivoluzione copernicana, ma forse è anche il motivo per cui il film gira un po' a vuoto, malgrado Jesse Eisenberg sia quel tipo di attore che sembra nato per recitare film di Allen. Si capisce che il regista vorrebbe dare al suo personaggio un po' di profondità - gli regala anche un siparietto divertente con una ragazza squillo che ai fini dello sviluppo della trama non ha molto senso - e però fino alla fine questo giovane Dorfman resterà poco più che una silhouette, uno che prende continuamente le distanze dalla superficialità e dal cinismo hollywoodiani salvo andare a infilarsi in un posto altrettanto superficiale e cinico come un nightclub newyorchese. Come se WA, dopo aver deciso di mettere in scena l'educazione sentimentale di un giovane, si fosse distratto - tanto che le battute migliori stanno in bocca ad attori attempati e riguardano, come al solito, la morte ("vivi ogni giorno come se fosse l'ultimo, e un giorno o l'altro ci azzeccherai"). Partito con l'idea di raccontare le illusioni perdute della gioventù, WA sembra davvero ritrovarsi soltanto davanti a quell'ingrigito padre ebreo che senza alzarsi da letto lancia la sua sfida alla morte: me ne andrò, ma non staro zitto. "Protesterò"; e a quella moglie in vestaglia che gli risponde: protesterai con chi, protesterai di cosa?
Infine c'è Kristen Stewart, che con Eisenberg recita spesso e si trova bene - anche se neanche con lui sembra mai davvero a suo agio - coi suoi broncetti imbarazzati che contagiano lo spettatore e lo lasciano sempre interdetto - è brava a sembrare imbarazzante, o è imbarazzante e basta? Quando è sulla spiaggia col fidanzato giovane, e i raggi dell'amore si velano all'improvviso dell'ombra del rimpianto che Kristen sottolinea trattenendo a stento il fiato come a reprimere un rutto: cattiva recitazione o colpo di genio? Perché a volte le ragazze fanno davvero così, io le ho viste. Credo. È passato del tempo. Non sono più la stessa persona. Vivo in un'altra città, faccio un altro lavoro, tutti mi salutano l'unica cosa che mi è rimasta è che vado ancora a vedere i film di Woody Allen - oggi al Citiplex di Alba (17:00, 19:00, 21:15), al Cinelandia di Borgo San Dalmazzo (15:20, 17:40, 20:20, 22:30), al Vittoria di Bra (17:30, 20:00, 22:00), al Fiamma di Cuneo (15:15, 18:15, 21:15), ai Portici di Fossano (16:00, 18:30, 21:15), al Baretti di Mondovì (21:00), al Cinecittà di Savigliano (16:00, 18:10, 20:20, 22:30).
Il ponte sullo Stretto esiste già
28-09-2016, 01:52catastrofi, ferrovie, RenziPermalink
Ciao, siccome Renzi l'altro giorno per festeggiare l'Impregilo è tornato sull'argomento (in modo molto vago, peraltro), nei prossimi giorni si parlerà del ponte sullo Stretto di Messina, dell'opportunità che rappresenta, dei rischi che comporta, ecc. ecc. Siccome non è la prima volta, e non sarà l'ultima, tanto vale equipaggiarsi. Ad esempio: lo sapete quanto è stretto lo Stretto? Più o meno 3 km.: una semplice nozione geografica che molti sostenitori del progetto, curiosamente, non condividono.
Peccato, perché è facile. Ripetete con me: Stretto di Messina, 3 km. Adesso lo sapete.
Inoltre in certi punti è molto profondo, quanto profondo? Abbastanza da rendere tecnicamente impossibile piantare dei piloni sul fondale, come si immaginava ancora negli anni Ottanta - si vedevano modellini di ponti a tre campate, a cinque campate, Craxi diceva che ormai era tutto pronto, si sarebbe fatto il ponte (io leggevo Topolino). Non andò esattamente così, e già allora c'era chi accusava l'indecisionismo italiano, il disfattismo italiano, ecc.. Però da lì in poi nessuno ha più proposto di piantare piloni nello Stretto. Pare che per adesso proprio non si possa (e sarebbe anche un problema farci passare le navi). Dagli anni Novanta in poi, il progetto proposto e approvato prevede una campata unica: una torre da 300 metri in Calabria, l'altra in Sicilia, e in mezzo... tre km senza sostegno. Sono tanti? Sono pochi?
Di solito a questo punto qualcuno tira fuori i giapponesi, che non sono disfattisti, non sono indecisionisti, e che con tutto il rischio sismico che si ritrovano riescono comunque a stendere ponti pazzeschi. Vero. In fatto di ponti i giapponesi sanno proprio il fatto loro. Negli anni Novanta la campata più lunga del mondo, ovviamente, era in Giappone. E quanto è lunga?
Salutate l'Akashi Bridge, inaugurato nel 1998, lungo la bellezza di tre chilometri e novecento metri.
Visto? Quindi, se si può fare in Giappone, perché no tra Reggio e Messina? Perché sempre questo disfattismo?
Aspetta. Il ponte giapponese arriva a 3900 metri, ma la campata centrale è lunga soltanto 1991. Ripeto: al momento è la campata più lunga del mondo. Neanche due chilometri. Vi ricordate quanto è largo lo Stretto di Messina? Dai che ve lo ricordate. Tre chilometri.
Tutto qui.
Quando Berlusconi annunciava al mondo che avremmo presto costruito il Ponte sullo Stretto, stava dicendo nientemeno che avevamo intenzione di migliorare il record del mondo di campata unica del 42%. Al tempo lo spernacchiavamo - anche Renzi diceva che c'erano altri problemi, le case antisismiche, la banda larga, ecc.. Adesso Renzi promette la stessa cosa - no, a dire il vero dice solo che il Ponte creerà migliaia di posti di lavoro. Addirittura decine di migliaia di posti di lavoro. Magari ha ragione.
Se la vediamo da questo punto di vista, il Ponte funziona, già da vent'anni. Tanti appalti sono già stati appaltati, tanta gente ci ha mangiato. Solo di penali il governo Monti ha dovuto sborsare 300 milioni di euro. Briciole. Nel 2007 il governo Prodi rischiava di dover pagare 500 milioni di penale, proprio all'Impregilo. Un sacco di soldi, un sacco di posti di lavoro - cioè, lavoro, aspetta, non è che sia proprio necessario di lavorare. Anzi nel caso del Ponte non ce n'è proprio bisogno. Basta vincere un appalto e aspettare che cambi il governo: di solito il centrodestra lo vuole e il centrosinistra lo blocca. A volte il centrosinistra non vince le elezioni e allora il centrodestra se lo blocca da solo, nel 2011 successe appunto questo.
Nel frattempo il mondo gira, e in tante altre nazioni meno disfattiste della nostra si costruiscono grattacieli, dighe, ponti; per esempio adesso il recordo mondiale di ponte a campata unica è... è sempre lo stesso di vent'anni fa.
Neanche i giapponesi l'hanno migliorato: né del 42%, né del 5%, né di niente. Forse hanno finito gli Stretti. O forse nemmeno loro, sono in grado, per adesso, di costruire una campata unica più lunga di due km. Magari tra un po', con una tecnologia diversa. Ma per adesso non lo fanno.
Peraltro, si tratta di un ponte non ferroviario: farci passare i treni sarebbe stato problematico anche per i giapponesi? Una buona notizia è che il ponte ha già retto, durante la sua fabbricazione, un sisma di magnitudo 6,8 avvenuto proprio nella faglia di Akashi: il terremoto di Kobe del '95, terribile anche per gli standard nipponici: quindicimila morti. I piloni del ponte di Akashi si sono allontanati appena di 120 centimetri, e dopo qualche mese i lavori sono ripresi. Magari se il ponte fosse stato già terminato, si sarebbe deformato un po'. Comunque anche il rischio sismico non sembra insormontabile, se ci sono riusciti i giapponesi. Magnitudo 6,8. A Messina c'è mai stato un sisma più forte?
Certo che c'è stato. Nel 1908 i sismografi hanno registrato una scossa di 7,1 magnitudo - ricordiamo che è una scala logaritmica: si tratta di un terremoto sensibilmente più disastroso di quello di Kobe. E ovviamente, se è già successo, non possiamo escludere che un giorno non ce ne sia un altro di intensità anche superiore. E qui potremmo anche inserire un lungo discorso sulla storica tendenza degli italiani a sottostimare il rischio sismico - Messina e Reggio sono due città che già rischiano troppo, un filo di cemento sospeso a trecento metri sul mare non aggraverà la situazione, ma nemmeno l'allevia. Aggiungete qualche considerazione sulla surrealtà di essere italiani, di vivere in un Paese dove solo un mese fa sembrava necessario rifare tutte le scuole, tutte le città secondo criteri antisismici, e adesso, e adesso niente, ci siamo rimessi a discutere del solito ponte.
Di solito a questo punto qualcuno invoca l'autorità: ma insomma, c'è un progetto, c'era un comitato scientifico che lo ha approvato, evidentemente il ponte si può fare, no? Già. Però nessuno lo fa, un ponte lungo così: né a Messina né altrove. Nel frattempo il coordinatore del comitato scientifico che approvò il progetto preliminare ha scritto un libro in cui sostiene che la campata unica è troppo lunga; ha accusato la società dello Stretto di Messina di aver nascosto una faglia sismica, è stato condannato per diffamazione. Insomma tutto questo consenso scientifico forse non c'è. Le sue obiezioni sono condivise da altri architetti, ingegneri e accademici: cito Massimo Majowiecki (IUAV di Venezia):"Allo stato attuale, pertanto, è più che legittimo domandarsi quali siano gli schemi d’impalcato da impiegare per la realizzazione di grandissime luci, che eccedano la misura di 2000m. È doveroso, invece, recepire e studiare i dati forniti dalla ricerca Giapponese, che, nella misura di 2000m, individua il limite applicativo delle soluzioni alari, aerodinamicamente efficienti" (la fonte è purtroppo il blog di Beppe, ma l'intervista è interessante). Lo stesso Majowiecki ha cofirmato una proposta alternativa (una specie di funivia) che tiene conto del problema del vento - sì, il vento crea più problemi dei terremoti. Una bella ricostruzione della storia del Ponte l'aveva scritta qualche anno fa Luca Silenzi.
In rete c'è anche la storia "Zio Paperone e lo Stretto di Messina", costruita su una trovata geniale: un ponte di corallo, una barriera che si autoriparerebbe da sola. In fondo il Ponte è un po' questo: una struttura immaginaria che facciamo a pezzi periodicamente, e periodicamente torna a protendersi tra il promontorio del Dire e l'irraggiungibile costa del Fare. Ho detto "immaginaria", ma in realtà esiste. Il ponte fa discutere, fa votare, fa vincere appalti, fa commissionare studi di fattibilità, il ponte fa un sacco di cose. L'unica cosa che non fa, e che non farà ancora per parecchi anni, sarà portare i siciliani in Calabria e viceversa. Ma quello in fondo è un dettaglio.
Peccato, perché è facile. Ripetete con me: Stretto di Messina, 3 km. Adesso lo sapete.
Inoltre in certi punti è molto profondo, quanto profondo? Abbastanza da rendere tecnicamente impossibile piantare dei piloni sul fondale, come si immaginava ancora negli anni Ottanta - si vedevano modellini di ponti a tre campate, a cinque campate, Craxi diceva che ormai era tutto pronto, si sarebbe fatto il ponte (io leggevo Topolino). Non andò esattamente così, e già allora c'era chi accusava l'indecisionismo italiano, il disfattismo italiano, ecc.. Però da lì in poi nessuno ha più proposto di piantare piloni nello Stretto. Pare che per adesso proprio non si possa (e sarebbe anche un problema farci passare le navi). Dagli anni Novanta in poi, il progetto proposto e approvato prevede una campata unica: una torre da 300 metri in Calabria, l'altra in Sicilia, e in mezzo... tre km senza sostegno. Sono tanti? Sono pochi?
Di solito a questo punto qualcuno tira fuori i giapponesi, che non sono disfattisti, non sono indecisionisti, e che con tutto il rischio sismico che si ritrovano riescono comunque a stendere ponti pazzeschi. Vero. In fatto di ponti i giapponesi sanno proprio il fatto loro. Negli anni Novanta la campata più lunga del mondo, ovviamente, era in Giappone. E quanto è lunga?
Salutate l'Akashi Bridge, inaugurato nel 1998, lungo la bellezza di tre chilometri e novecento metri.
Visto? Quindi, se si può fare in Giappone, perché no tra Reggio e Messina? Perché sempre questo disfattismo?
Aspetta. Il ponte giapponese arriva a 3900 metri, ma la campata centrale è lunga soltanto 1991. Ripeto: al momento è la campata più lunga del mondo. Neanche due chilometri. Vi ricordate quanto è largo lo Stretto di Messina? Dai che ve lo ricordate. Tre chilometri.
Tutto qui.
Quando Berlusconi annunciava al mondo che avremmo presto costruito il Ponte sullo Stretto, stava dicendo nientemeno che avevamo intenzione di migliorare il record del mondo di campata unica del 42%. Al tempo lo spernacchiavamo - anche Renzi diceva che c'erano altri problemi, le case antisismiche, la banda larga, ecc.. Adesso Renzi promette la stessa cosa - no, a dire il vero dice solo che il Ponte creerà migliaia di posti di lavoro. Addirittura decine di migliaia di posti di lavoro. Magari ha ragione.
Se la vediamo da questo punto di vista, il Ponte funziona, già da vent'anni. Tanti appalti sono già stati appaltati, tanta gente ci ha mangiato. Solo di penali il governo Monti ha dovuto sborsare 300 milioni di euro. Briciole. Nel 2007 il governo Prodi rischiava di dover pagare 500 milioni di penale, proprio all'Impregilo. Un sacco di soldi, un sacco di posti di lavoro - cioè, lavoro, aspetta, non è che sia proprio necessario di lavorare. Anzi nel caso del Ponte non ce n'è proprio bisogno. Basta vincere un appalto e aspettare che cambi il governo: di solito il centrodestra lo vuole e il centrosinistra lo blocca. A volte il centrosinistra non vince le elezioni e allora il centrodestra se lo blocca da solo, nel 2011 successe appunto questo.
Nel frattempo il mondo gira, e in tante altre nazioni meno disfattiste della nostra si costruiscono grattacieli, dighe, ponti; per esempio adesso il recordo mondiale di ponte a campata unica è... è sempre lo stesso di vent'anni fa.
Ciao Akashi, quanto tempo ti è passato sotto. |
Neanche i giapponesi l'hanno migliorato: né del 42%, né del 5%, né di niente. Forse hanno finito gli Stretti. O forse nemmeno loro, sono in grado, per adesso, di costruire una campata unica più lunga di due km. Magari tra un po', con una tecnologia diversa. Ma per adesso non lo fanno.
Peraltro, si tratta di un ponte non ferroviario: farci passare i treni sarebbe stato problematico anche per i giapponesi? Una buona notizia è che il ponte ha già retto, durante la sua fabbricazione, un sisma di magnitudo 6,8 avvenuto proprio nella faglia di Akashi: il terremoto di Kobe del '95, terribile anche per gli standard nipponici: quindicimila morti. I piloni del ponte di Akashi si sono allontanati appena di 120 centimetri, e dopo qualche mese i lavori sono ripresi. Magari se il ponte fosse stato già terminato, si sarebbe deformato un po'. Comunque anche il rischio sismico non sembra insormontabile, se ci sono riusciti i giapponesi. Magnitudo 6,8. A Messina c'è mai stato un sisma più forte?
Certo che c'è stato. Nel 1908 i sismografi hanno registrato una scossa di 7,1 magnitudo - ricordiamo che è una scala logaritmica: si tratta di un terremoto sensibilmente più disastroso di quello di Kobe. E ovviamente, se è già successo, non possiamo escludere che un giorno non ce ne sia un altro di intensità anche superiore. E qui potremmo anche inserire un lungo discorso sulla storica tendenza degli italiani a sottostimare il rischio sismico - Messina e Reggio sono due città che già rischiano troppo, un filo di cemento sospeso a trecento metri sul mare non aggraverà la situazione, ma nemmeno l'allevia. Aggiungete qualche considerazione sulla surrealtà di essere italiani, di vivere in un Paese dove solo un mese fa sembrava necessario rifare tutte le scuole, tutte le città secondo criteri antisismici, e adesso, e adesso niente, ci siamo rimessi a discutere del solito ponte.
Di solito a questo punto qualcuno invoca l'autorità: ma insomma, c'è un progetto, c'era un comitato scientifico che lo ha approvato, evidentemente il ponte si può fare, no? Già. Però nessuno lo fa, un ponte lungo così: né a Messina né altrove. Nel frattempo il coordinatore del comitato scientifico che approvò il progetto preliminare ha scritto un libro in cui sostiene che la campata unica è troppo lunga; ha accusato la società dello Stretto di Messina di aver nascosto una faglia sismica, è stato condannato per diffamazione. Insomma tutto questo consenso scientifico forse non c'è. Le sue obiezioni sono condivise da altri architetti, ingegneri e accademici: cito Massimo Majowiecki (IUAV di Venezia):"Allo stato attuale, pertanto, è più che legittimo domandarsi quali siano gli schemi d’impalcato da impiegare per la realizzazione di grandissime luci, che eccedano la misura di 2000m. È doveroso, invece, recepire e studiare i dati forniti dalla ricerca Giapponese, che, nella misura di 2000m, individua il limite applicativo delle soluzioni alari, aerodinamicamente efficienti" (la fonte è purtroppo il blog di Beppe, ma l'intervista è interessante). Lo stesso Majowiecki ha cofirmato una proposta alternativa (una specie di funivia) che tiene conto del problema del vento - sì, il vento crea più problemi dei terremoti. Una bella ricostruzione della storia del Ponte l'aveva scritta qualche anno fa Luca Silenzi.
In rete c'è anche la storia "Zio Paperone e lo Stretto di Messina", costruita su una trovata geniale: un ponte di corallo, una barriera che si autoriparerebbe da sola. In fondo il Ponte è un po' questo: una struttura immaginaria che facciamo a pezzi periodicamente, e periodicamente torna a protendersi tra il promontorio del Dire e l'irraggiungibile costa del Fare. Ho detto "immaginaria", ma in realtà esiste. Il ponte fa discutere, fa votare, fa vincere appalti, fa commissionare studi di fattibilità, il ponte fa un sacco di cose. L'unica cosa che non fa, e che non farà ancora per parecchi anni, sarà portare i siciliani in Calabria e viceversa. Ma quello in fondo è un dettaglio.
Comments (10)
I cagnolini della guerra
27-09-2016, 01:36Americana, cinema, Cosa vedere a Cuneo (e provincia) quando sei vivo, guerra, traffico d'armiPermalink
Trafficanti (War Dogs, Todd Phillips, 2016)
Voi cosa combinavate a 22 anni? Nel 2006, Efraim Diveroli gestiva dal tinello del suo appartamento una ditta scalcinata che gli aveva passato il padre per levarselo di mezzo. Cercava di vincere appalti per forniture all'esercito. Appena l'esercito metteva il bando su un sito, Diveroli si metteva a cercare le forniture più a basso costo che trovava. Le forniture erano armi, fucili e munizioni, raccattate il più delle volte a prezzi di saldo dai magazzini dei Paesi del vecchio blocco sovietico. Qualche volta vinceva un appalto, qualche volta lo perdeva, e nel giugno del 2006 ne vinse uno per trecento milioni di dollari. Questo faceva Efraim Diveroli a 22 anni - e a 24 era in galera. Ma non c'è rimasto poi tanto, e in seguito non ha nemmeno cambiato mestiere - solo il nome alla ditta. In fondo cos'aveva fatto di male? aveva soltanto smerciato munizioni albanesi agli afgani filo-USA, senza sapere che erano di fabbricazione cinese. Pare che per il Pentagono non sia un problema se armi i tuoi alleati con Ak-47 degli anni Sessanta e con proiettili recuperati in qualche bunker in Albania, magari da un tizio che è sulla blacklist e usa come prestanove un ventiduenne sovrappeso di Miami. Però se scopre che è roba fatta in Cina, è un guaio, ehi, con la Cina c'è un embargo. La guerra è così. L'America è così. E Trump non ha ancora vinto, pensa
Un film come War Dogs si scrive da solo, ma se l'avesse scritto Scorsese saremmo tutti più felici (continua su +eventi!)
Un film come War Dogs si scrive da solo, ma se l'avesse scritto Scorsese saremmo tutti più felici. Un bel vortice di avidità e dissipazione, l'ascesa e la caduta dell'ennesimo personaggio posseduto dallo spirito animale del capitalismo eccetera. Invece è toccato a Todd Phillips, reuccio della stoner comedy, avete presente, quei film coi ragazzi americani che si fanno le canne (il che pare sia divertente in sé, almeno questa è la spiegazione che mi do: i giovani americani vanno al cinema a vedere giovani americani farsi le canne, perché ciò li diverte). Molto spesso c'è Jonah Hill, che in Wolf of Wall Street faceva proprio da anello di congiunzione tra la stoner comedy e l'universo adulto (ma ancora più stonato) di Scorsese. E benché Jonah e la sua spalla perfettina Miles Teller, mentre inseguono i loro sogni avidi, citino più volte Scarface di De Palma, è a Scorsese che Phillips torna in continuazione. E va benissimo: siamo tutti in crisi di astinenza da Scorsese, in quella fase in cui non si va tanto per il sottile e mandi giù di tutto, anche Bradley Cooper che fa il ricercato internazionale (del resto produce lui). War Dogs avrebbe potuto riuscire meglio: l'epopea di due ragazzini americani ignoranti che si ficcano in guai più grandi di loro meritava forse una narrazione più distesa; ma la formula originale per miscelare il moralismo con la fascinazione per il crimine la conosce solo Scorsese, e se la tiene ben stretta. O forse si sarebbe potuto insistere di più su come l'esercito americano si sia voltato dall'altra parte per non vedere da dove i fornitori gli procuravano le armi - imbroglioni di mezza tacca, ragazzini che fotoscioppavano i bilanci, a un certo punto andava bene di tutto, e se non ci si fossero messi in mezzo i giornalisti forse Diveroli starebbe ancora trafficando kalashnikov della guerra fredda. Magari lo sta ancora facendo. Hill e Teller sono in parte, ma non sembrano giovani come effettivamente erano Diveroli e il suo socio Packouz: del resto a 22 anni qui da noi sei ancora un ragazzino. I due protagonisti sembrano già sulla trentina, quel momento nella vita in cui certe porte si chiudono, magari una compagna resta incinta e sì, se un tuo vecchio amico ti avesse proposto di trafficare munizioni in medio oriente, tu saresti stato abbastanza disperato da accettare. Trafficanti è al Cinelandia di Borgo San Dalmazzo alle 20:20 e alle 22:45; al Cinecittà di Savigliano alle 20:20 e alle 22:30.
Voi cosa combinavate a 22 anni? Nel 2006, Efraim Diveroli gestiva dal tinello del suo appartamento una ditta scalcinata che gli aveva passato il padre per levarselo di mezzo. Cercava di vincere appalti per forniture all'esercito. Appena l'esercito metteva il bando su un sito, Diveroli si metteva a cercare le forniture più a basso costo che trovava. Le forniture erano armi, fucili e munizioni, raccattate il più delle volte a prezzi di saldo dai magazzini dei Paesi del vecchio blocco sovietico. Qualche volta vinceva un appalto, qualche volta lo perdeva, e nel giugno del 2006 ne vinse uno per trecento milioni di dollari. Questo faceva Efraim Diveroli a 22 anni - e a 24 era in galera. Ma non c'è rimasto poi tanto, e in seguito non ha nemmeno cambiato mestiere - solo il nome alla ditta. In fondo cos'aveva fatto di male? aveva soltanto smerciato munizioni albanesi agli afgani filo-USA, senza sapere che erano di fabbricazione cinese. Pare che per il Pentagono non sia un problema se armi i tuoi alleati con Ak-47 degli anni Sessanta e con proiettili recuperati in qualche bunker in Albania, magari da un tizio che è sulla blacklist e usa come prestanove un ventiduenne sovrappeso di Miami. Però se scopre che è roba fatta in Cina, è un guaio, ehi, con la Cina c'è un embargo. La guerra è così. L'America è così. E Trump non ha ancora vinto, pensa
Un film come War Dogs si scrive da solo, ma se l'avesse scritto Scorsese saremmo tutti più felici (continua su +eventi!)
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Fa ridere perché sono al Ministero della Difesa ma si sono appena fatti una canna e quindi sono in para dura AH AH AH (no sul serio forse sono troppo vecchio, boh), |
Un film come War Dogs si scrive da solo, ma se l'avesse scritto Scorsese saremmo tutti più felici. Un bel vortice di avidità e dissipazione, l'ascesa e la caduta dell'ennesimo personaggio posseduto dallo spirito animale del capitalismo eccetera. Invece è toccato a Todd Phillips, reuccio della stoner comedy, avete presente, quei film coi ragazzi americani che si fanno le canne (il che pare sia divertente in sé, almeno questa è la spiegazione che mi do: i giovani americani vanno al cinema a vedere giovani americani farsi le canne, perché ciò li diverte). Molto spesso c'è Jonah Hill, che in Wolf of Wall Street faceva proprio da anello di congiunzione tra la stoner comedy e l'universo adulto (ma ancora più stonato) di Scorsese. E benché Jonah e la sua spalla perfettina Miles Teller, mentre inseguono i loro sogni avidi, citino più volte Scarface di De Palma, è a Scorsese che Phillips torna in continuazione. E va benissimo: siamo tutti in crisi di astinenza da Scorsese, in quella fase in cui non si va tanto per il sottile e mandi giù di tutto, anche Bradley Cooper che fa il ricercato internazionale (del resto produce lui). War Dogs avrebbe potuto riuscire meglio: l'epopea di due ragazzini americani ignoranti che si ficcano in guai più grandi di loro meritava forse una narrazione più distesa; ma la formula originale per miscelare il moralismo con la fascinazione per il crimine la conosce solo Scorsese, e se la tiene ben stretta. O forse si sarebbe potuto insistere di più su come l'esercito americano si sia voltato dall'altra parte per non vedere da dove i fornitori gli procuravano le armi - imbroglioni di mezza tacca, ragazzini che fotoscioppavano i bilanci, a un certo punto andava bene di tutto, e se non ci si fossero messi in mezzo i giornalisti forse Diveroli starebbe ancora trafficando kalashnikov della guerra fredda. Magari lo sta ancora facendo. Hill e Teller sono in parte, ma non sembrano giovani come effettivamente erano Diveroli e il suo socio Packouz: del resto a 22 anni qui da noi sei ancora un ragazzino. I due protagonisti sembrano già sulla trentina, quel momento nella vita in cui certe porte si chiudono, magari una compagna resta incinta e sì, se un tuo vecchio amico ti avesse proposto di trafficare munizioni in medio oriente, tu saresti stato abbastanza disperato da accettare. Trafficanti è al Cinelandia di Borgo San Dalmazzo alle 20:20 e alle 22:45; al Cinecittà di Savigliano alle 20:20 e alle 22:30.
Alla ricerca del sequel perfetto
23-09-2016, 01:35animazione, cinema, Cosa vedere a Cuneo (e provincia) quando sei vivoPermalinkAlla ricerca di Dory (Finding Dory, Andrew Stanton, 2016).
Cara Pixar,
c'è qualcosa che volevo chiederti, ma non ricordo cosa.
A proposito, complimenti per il successo del tuo nuovo film - il seguito di Nemo, tredici anni dopo - sembra che stia mettendo tutti d'accordo, e con i sequel non è facile, sai? Ma certo che lo sai. Ormai siete i più esperti: tra la saga di Toy Story, Cars 2 e... e... quell'altro film coi mostri che ho pur visto e adesso... c'è un altro tuo film al cinema, lo sapevi? Beh, sì, immagino di sì.
Stavamo dicendo?
Cara Pixar,
quello che vorrei dirti è che sono proprio contento per i tuoi ultimi successi. Ti credevamo un po' appannata, poi Inside Out ha fatto il botto e soprattutto non era il solito film, era qualcosa di davvero nuovo. L'altro film coi dinosauri non è andato altrettanto bene, ma anche in quel caso non si può dire che abbiate scelto l'approccio più banale al problema. Invece ero un po' in pensiero a causa dei sequel. No, non ho niente contro i sequel, immagino che siano investimenti sicuri. Non si vive di soli Inside Out, certe volte bisogna anche prendere fiato. E poi bisogna ammettere che il vostro approccio ai sequel è tutt'altro che banale. Questa idea, per esempio, di spostare l'attenzione sul comprimario, su un personaggio che nel primo film sembrava monodimensionale - è una mossa interessante, perché sfida davvero le tue aspettative di spettatore. Anche solo l'idea di dire: facciamo un film con Cricchetto protagonista e Saetta McQueen da spalla - è chiaro che la prima reazione dello spettatore è: non funzionerà mai. Cricchetto è ridicolo, è imbarazzante, inaffidabile, non ha la profondità che serve. E invece. Stessa cosa col mostro-monocolo di Monsters University, come si chiama... è solo una spalla comica, non puoi caricare tutto il film sulle sue palpebre, no? E invece...
È un po' come con la vita vera, quando all'improvviso condividi qualcosa con una persona che fino a quel momento era rimasta sempre all'orizzonte delle tue conoscenze, e ti rendi conto che è una persona in carne e ossa proprio come te, e che tu l'hai snobbata fino a quel momento. È un effetto molto particolare, ma non ricordo assolutamente perché ne stavo parlando con te che sei... chi sei? Ah sì, la Pixar.
Per dire, hai presente Nemo? Immagina che un giorno ne facciano un sequel, e invece di raccontare un altra storia di Nemo che si perde, si concentrino, che ne so! sulla tartaruga hippie, o magari su quella pesciolina che aiutava il padre di Nemo e che aveva un problema con la memoria a breve termine, come si chiamava? Ecco, immagina una cosa del genere. La tua prima reazione è: ma cosa puoi raccontare su una pesciolina che perde la memoria ogni cinque minuti? È solo una comparsa, una spalla, non può funzionare. E dopo un'ora di film immagina che stai piangendo per la sorte della pesciolina, e di Nemo non ti frega più niente, è diventato la comparsa nella vita di qualcun altro. Sarebbe incredibile, no?
Ecco, forse sto scrivendo alla Pixar per proporre una storia del genere.
O il romanzo di formazione di Anton Ego.
O le avventure di Charles Muntz sul suo dirigibile.
Cara Pixar,
ultimamente ho qualche problema a mantenere la concentrazione - (continua su +eventi!)
Cara Pixar,
ultimamente ho quaalche problema a mantenere la concentrazione - sarà l'età, o gli impegni, insomma, quel che scrivo può risultare un po' sconnesso. Volevo dirti che ho visto il tuo ultimo film ma... non sono così sicuro di averlo visto. Ma correggimi se sbaglio. C'è un comprimario di un film precedente che nella prima mezz'ora si comporta in modo insopportabile. Finché non ti rendi conto che dietro questa scorza imbarazzante c'è una persona vera (anche se è solo un personaggio di pixel), col suo fardello di traumi e delusioni. Scommetto che si ritroverà sperduto in una situazione più grande di lui, e potrà farcela soltanto grazie al sostegno di amici vecchi e nuovi, perché lo spirito di squadra è il minimo comun determinatore di ogni lungometraggio Pixar. E ci sarà una scena madre attentamente preparata per sessanta minuti, che ci farà piangere come fontane, e poi un po' di azione insensata e divertente prima del finale. Ecco, questo è il film che tra un po' uscirà nelle sale, e non vedo l'ora. Anche se non vado matto per i sequel. Ma non si può sempre aver tutto.
Cara Pixar,
c'è qualcosa che volevo chiederti, ma non ricordo cosa.
A proposito, complimenti per il successo del tuo nuovo film - il seguito di Nemo, tredici anni dopo - sembra che stia mettendo tutti d'accordo, e con i sequel non è facile, sai? Ma certo che lo sai. Ormai siete i più esperti: tra la saga di Toy Story, Cars 2 e... e... quell'altro film coi mostri che ho pur visto e adesso... c'è un altro tuo film al cinema, lo sapevi? Beh, sì, immagino di sì.
Stavamo dicendo?
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Il prossimo fatelo sul polpo per favore |
quello che vorrei dirti è che sono proprio contento per i tuoi ultimi successi. Ti credevamo un po' appannata, poi Inside Out ha fatto il botto e soprattutto non era il solito film, era qualcosa di davvero nuovo. L'altro film coi dinosauri non è andato altrettanto bene, ma anche in quel caso non si può dire che abbiate scelto l'approccio più banale al problema. Invece ero un po' in pensiero a causa dei sequel. No, non ho niente contro i sequel, immagino che siano investimenti sicuri. Non si vive di soli Inside Out, certe volte bisogna anche prendere fiato. E poi bisogna ammettere che il vostro approccio ai sequel è tutt'altro che banale. Questa idea, per esempio, di spostare l'attenzione sul comprimario, su un personaggio che nel primo film sembrava monodimensionale - è una mossa interessante, perché sfida davvero le tue aspettative di spettatore. Anche solo l'idea di dire: facciamo un film con Cricchetto protagonista e Saetta McQueen da spalla - è chiaro che la prima reazione dello spettatore è: non funzionerà mai. Cricchetto è ridicolo, è imbarazzante, inaffidabile, non ha la profondità che serve. E invece. Stessa cosa col mostro-monocolo di Monsters University, come si chiama... è solo una spalla comica, non puoi caricare tutto il film sulle sue palpebre, no? E invece...
È un po' come con la vita vera, quando all'improvviso condividi qualcosa con una persona che fino a quel momento era rimasta sempre all'orizzonte delle tue conoscenze, e ti rendi conto che è una persona in carne e ossa proprio come te, e che tu l'hai snobbata fino a quel momento. È un effetto molto particolare, ma non ricordo assolutamente perché ne stavo parlando con te che sei... chi sei? Ah sì, la Pixar.
Per dire, hai presente Nemo? Immagina che un giorno ne facciano un sequel, e invece di raccontare un altra storia di Nemo che si perde, si concentrino, che ne so! sulla tartaruga hippie, o magari su quella pesciolina che aiutava il padre di Nemo e che aveva un problema con la memoria a breve termine, come si chiamava? Ecco, immagina una cosa del genere. La tua prima reazione è: ma cosa puoi raccontare su una pesciolina che perde la memoria ogni cinque minuti? È solo una comparsa, una spalla, non può funzionare. E dopo un'ora di film immagina che stai piangendo per la sorte della pesciolina, e di Nemo non ti frega più niente, è diventato la comparsa nella vita di qualcun altro. Sarebbe incredibile, no?
Ecco, forse sto scrivendo alla Pixar per proporre una storia del genere.
O il romanzo di formazione di Anton Ego.
O le avventure di Charles Muntz sul suo dirigibile.
Cara Pixar,
ultimamente ho qualche problema a mantenere la concentrazione - (continua su +eventi!)
Cara Pixar,
ultimamente ho quaalche problema a mantenere la concentrazione - sarà l'età, o gli impegni, insomma, quel che scrivo può risultare un po' sconnesso. Volevo dirti che ho visto il tuo ultimo film ma... non sono così sicuro di averlo visto. Ma correggimi se sbaglio. C'è un comprimario di un film precedente che nella prima mezz'ora si comporta in modo insopportabile. Finché non ti rendi conto che dietro questa scorza imbarazzante c'è una persona vera (anche se è solo un personaggio di pixel), col suo fardello di traumi e delusioni. Scommetto che si ritroverà sperduto in una situazione più grande di lui, e potrà farcela soltanto grazie al sostegno di amici vecchi e nuovi, perché lo spirito di squadra è il minimo comun determinatore di ogni lungometraggio Pixar. E ci sarà una scena madre attentamente preparata per sessanta minuti, che ci farà piangere come fontane, e poi un po' di azione insensata e divertente prima del finale. Ecco, questo è il film che tra un po' uscirà nelle sale, e non vedo l'ora. Anche se non vado matto per i sequel. Ma non si può sempre aver tutto.
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Non mi freghi piiaaaaaaaaaaawwwww |
Cara Pixar,
mi è venuto un dubbio. Forse il film dopo tutto l'ho visto, ma ero stanco, oppure in sala c'erano troppi bambini che chiedevano di essere rassicurati: ma poi tornano il papà e la mamma? ma poi lo ritrova Nemo? Ma poi dove va il polpo? Ma poi, ma poi, ma poi. Cara Pixar, adesso che mi ricordo forse volevo scriverti che sono un po' stanco del modo in cui riesci sempre a manipolarmi: a farmi odiare un personaggio (Dory per metà film è insopportabile) e poi a farmi piangere per lei. Che ormai ho capito come funzioni e non c'è neanche più bisogno di ricordarseli, i tuoi film, dopotutto la struttura si ripete. Che questo, in particolare, funziona fino a un certo punto: i vecchi personaggi sono ridotti a macchiette, i nuovi sono interessanti ma non c'è quasi tempo per svilupparli (il polpo in particolare non sta fermo un attimo). Che la sequenza finale è un po' troppo fracassona, come era già successo con Cars 2, uno dei tuoi film più deboli. Che insomma forse a questo punto è ora di lasciarci, perché è più colpa mia che tua. Tu hai i tuoi franchise da mandare avanti per quei milioni di bambini che hanno il diritto di sentirsi raccontare le vecchie storie. Se io comincio ad annoiarmi, a fissarmi sui dettagli o a intravedere i meccanismi, è un problema mio. Devo passare ad altro. Magari facendo finta di non vedere che c'è più cinema in un tuo sequel riuscito a metà che in molti film cosiddetti d'autore. Cara Pixar.
Non mi ricordo più cosa ti stavo dicendo. Ma sai che c'è? Non importa. Non vedo l'ora di vedere il tuo prossimo film, ho sentito che è nelle sale! Anche se è un sequel. Alla ricerca di Dory è al Cityplex di Alba (19:45, 22:00), al Cinelandia di Borgo San Dalmazzo (20:20, 22:35), all'Impero di Bra (alle 20:20 in 3D, alle 22:30 in 2D), al Fiamma di Cuneo (21:00), al Bertola di Mondovì (21:00), all'Italia di Saluzzo (20:00, 22:15), al Cinecittà di Savigliano (20:20, 22:30).
mi è venuto un dubbio. Forse il film dopo tutto l'ho visto, ma ero stanco, oppure in sala c'erano troppi bambini che chiedevano di essere rassicurati: ma poi tornano il papà e la mamma? ma poi lo ritrova Nemo? Ma poi dove va il polpo? Ma poi, ma poi, ma poi. Cara Pixar, adesso che mi ricordo forse volevo scriverti che sono un po' stanco del modo in cui riesci sempre a manipolarmi: a farmi odiare un personaggio (Dory per metà film è insopportabile) e poi a farmi piangere per lei. Che ormai ho capito come funzioni e non c'è neanche più bisogno di ricordarseli, i tuoi film, dopotutto la struttura si ripete. Che questo, in particolare, funziona fino a un certo punto: i vecchi personaggi sono ridotti a macchiette, i nuovi sono interessanti ma non c'è quasi tempo per svilupparli (il polpo in particolare non sta fermo un attimo). Che la sequenza finale è un po' troppo fracassona, come era già successo con Cars 2, uno dei tuoi film più deboli. Che insomma forse a questo punto è ora di lasciarci, perché è più colpa mia che tua. Tu hai i tuoi franchise da mandare avanti per quei milioni di bambini che hanno il diritto di sentirsi raccontare le vecchie storie. Se io comincio ad annoiarmi, a fissarmi sui dettagli o a intravedere i meccanismi, è un problema mio. Devo passare ad altro. Magari facendo finta di non vedere che c'è più cinema in un tuo sequel riuscito a metà che in molti film cosiddetti d'autore. Cara Pixar.
Non mi ricordo più cosa ti stavo dicendo. Ma sai che c'è? Non importa. Non vedo l'ora di vedere il tuo prossimo film, ho sentito che è nelle sale! Anche se è un sequel. Alla ricerca di Dory è al Cityplex di Alba (19:45, 22:00), al Cinelandia di Borgo San Dalmazzo (20:20, 22:35), all'Impero di Bra (alle 20:20 in 3D, alle 22:30 in 2D), al Fiamma di Cuneo (21:00), al Bertola di Mondovì (21:00), all'Italia di Saluzzo (20:00, 22:15), al Cinecittà di Savigliano (20:20, 22:30).
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