Il futuro è sempre alle spalle

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Noi esseri umani non siamo progettati per capire il futuro che ci attende. Può anzi darsi che sia la cosa che ci riesce meno bene. Procediamo nel tempo come se camminassimo all'indietro (per rispolverare una vecchia allegoria): ogni passo è un rischio, ogni novità un ostacolo; quel poco che avevamo capito si allontana da noi man mano che andiamo avanti e però è anche l'unica cosa che ci fornisca indizi su quello che intanto ci si prepara alle spalle. Nessuna meraviglia che borbottiamo tutto il tempo, specie invecchiando, ma siamo onesti: c'è chi comincia prestissimo, c'è chi a sedici anni ha già nostalgia di situazioni precedenti che non ha vissuto e passerà il resto della carriera o dell'esistenza ad aspettare che tornino, o a maledire chi o cosa ne impedisce il ritorno. 

La Storia ci insegna soprattutto questo, un bel paradosso: che gli storici non sono oggettivi. Ora che ci penso fu proprio durante un corso monografico sui cronisti medievali (in un'aula inspiegabilmente affollata di matricole, a mezzogiorno) che mi appuntai la formula: laudatores temporis acti. Non c'era cronista che non cascasse nello stereotipo, spiegava il professore con quel ritmo placido che assecondava la mia propensione alla sonnolenza: anche se quel che hanno da raccontarci in concreto si riduce a un mezzo secolo di avvenimenti in una città, devono tutti partire da Adamo ed Eva, devono tutti adombrare un'età dell'oro universale rispetto a cui il presente, il loro presente che è il nostro medioevo, rappresenta invariabilmente un periodo di scandalosa decadenza dei costumi. Sarà poi vero? Onestamente non sono mai andato a controllare, magari nel frattempo i colleghi del professore hanno scoperto che tanti cronisti medievali non sono affatto laudatores temporis acti; in compenso mi sono messo a studiare altre cose e posso garantire che laudatores ce n'è dovunque, che siamo tutti laudatores. 

(Mi bastava davvero salire al primo piano del dipartimento di Italianistica, per trovarmi davanti un volantino in cui Pasolini salutava la fine di un'età autentica, adesso non mi ricordo più come la chiamasse, e l'inizio di un'altra età inautentica che neanche a farlo apposta coincideva con il mezzo del cammin della vita di Pasolini; e il volantino restava lì perché ce l'aveva messo il potente sindacato studentesco di Comunione e Liberazione, mica qualche libero pensatore antagonista e dissidente). 

Siamo tutti laudatores, non possiamo farne a meno: tutto quello che conosciamo intorno a noi è già passato, tutto quello che è nuovo fatichiamo a farlo rientrare nel quadro, e questa fatica dopo un po' diventa intollerabile e decidiamo che non è colpa nostra, ma del tempo che non si ferma e neanche ha la compiacenza di girare in tondo. Sono anch'io un laudator, cosa credete. Mando la prole al campeggio e non posso fare a meno di notare che quando ci andavo io, al campeggio, era una cosa più seria, quasi epica, i sacchi a pelo erano pesantissimi e arrotolarli una cosa faticosissima eccetera e in questo modo sono diventato un vero uomo. Si può diventare veri uomini in altri modi? Magari sì, ma l'unico di cui sono sicuro è quello in cui lo sono diventato io, prova ne è che sono qui. Torno a casa, mi annoio, apro quella commovente capsula temporale che è la Settimana Enigmistica, inspiegabile come non sia stata ancora dichiarata monumento nazionale e non si sia mobilitata un'autorità a impedirne qualsiasi ulteriore modifica. Cerco un enigma davvero difficile, qualcosa che mi dia angoscia come da ragazzino, non lo trovo; ne deduco che si stanno rammollendo anche i lettori della Settimana, che anche la redazione più refrattaria alle novità abbia deciso di annacquare la formula perché la gente sta diventando scema. E così via. 

Se non cedo del tutto a questo borbottio interiore, è perché proprio studiando Storia ho trovato qualche antidoto: ho scoperto che tutti i miei simili di ogni epoca borbottano e constatano la fine delle religioni, dei costumi, Agamben aggiungerebbe delle ideologie. Il che non significa, attenzione, che ogni tanto le religioni o le ideologie o civiltà non tramontino davvero: succede quasi continuamente, così non è difficile scoprire laudatores che ci hanno azzeccato, ma è quasi sempre una pura coincidenza: voglio dire che è abbastanza raro che il laudator riesca a mettere a fuoco consapevolmente i motivi di una crisi a cui assiste di persona. Di solito dà più l'impressione di capitare lì per caso: si aspettava la fine dei tempi e il Regno dei Cieli, invece crolla l'impero Romano, ci riflette un po' e decide che è quasi la stessa cosa. Gli storici questa cosa ormai l'hanno capita e si regolano di conseguenza: così come la luce delle stelle e dell'universo ci giunge un po' spostata sul rosso, le testimonianze del passato ci arrivano tutte un po' spostate sull'apocalittico, è una specie di costante storiografica cui bisogna fare la tara. Essa permane in tutto quello che diciamo pensiamo e scriviamo, il che non ci impedisce di dire pensare o scrivere cose intelligenti: ma se i posteri le troveranno intelligenti, sarà malgrado questa nostra propensione a vedere in tutto l'Apocalisse. Poi l'Apocalisse può benissimo arrivare, ma mai da dove uno se l'aspetta. Secondo Agamben e tanti suoi nuovi lettori, il Green Pass è l'anticamera di una nuova formula di regime totalitario. Esagera? Probabilmente, ma se la crisi climatica dopodomani conoscesse una brusca accelerazione, i governi nazionali potrebbero dover imporre con la forza ai cittadini razionamenti draconiani, e quel che scrive oggi Agamben non sembrerebbe più esagerato, anzi: qualcuno dirà che aveva visto lungo. A poco varrà far notare che era stato di spalle, il filosofo, per tutto il tempo (continua).

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Filosofi e altri roditori, 1

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Non che sia molto importante, non che possa cambiare più di tanto il senso del discorso, però nel suo ultimo comunicato Giorgio Agamben ha commesso un curioso lapsus: ci ha paragonato ai lemming (lui veramente scrive lemmings). Siccome siamo in tanti a leggere ormai (non siamo mai stati così tanti, e provenienti da milieu culturali tanto diversi) è stato tanto generoso da includere la definizione. "I lemmings (scrive) sono dei piccoli roditori, lunghi circa 15 centimetri, che vivono nelle tundre dell’Europa e dell’Asia settentrionali. Questa specie ha la particolarità di intraprendere improvvisamente senza alcun motivo apparente delle migrazioni collettive che terminano con un suicidio in massa nelle acque del mare". Agamben aggiunge che "l’enigma che questo comportamento ha posto agli zoologi è così singolare che essi, dopo aver tentato di fornire spiegazioni che si sono rivelate insufficienti, hanno preferito rimuoverlo".

Lemming, votati all'autosterminio, forse guidati da una pulsione di morte; zoologi che si pongono un enigma e poi lo rimuovono. Materiale potente per chi ha bisogno di metafore. C'è il piccolo problema, ecco, veramente piccolo, mi vergogno quasi di farlo notare, che è quasi tutto falso: i lemming non intraprendono "improvvisamente senza alcun motivo apparente delle migrazioni collettive che terminano con un suicidio di massa". Si tratta di una leggenda urbana così vecchia e così confutata che quando l'ho letta mi sono sentito in pena. E poi mi sono chiesto: ma come fa Agamben, persona di straordinaria cultura, a credere a una cosa del genere? 

Domanda mal posta; al massimo avrei dovuto chiedermi: come faccio io, persona dalla cultura molto meno straordinaria, a sapere che è una leggenda urbana? Di sicuro non sono in grado di confutarla di persona, di certo non sono andato nelle tundre a controllare: quindi da cosa deriva tutta questa mia sicumera? Bella domanda, in effetti non ne ho idea, non ricordo. So solo che da trent'anni ogni volta che sento parlare di lemming che si suicidano (non spesso), subito sento soggiungere che non è proprio così, che è una vecchia credenza che nasce da un comportamento dei lemming solo apparentemente irrazionale: essendo mammiferi infestanti, in un habitat poco generoso di risorse, ogni tanto si risolvono a migrare all'improvviso, attraversando luoghi che non conoscono, gettandosi in crepacci che non vedono e cercando di attraversare corsi d'acqua di cui fraintendono la larghezza. Non lo fanno per ammazzarsi, ma per sopravvivere: arte in cui magari non eccellono (ma chi siamo noi per giudicare?) Se per un pezzo abbiamo creduto il contrario è soprattutto grazie a un documentario tv della Disney - uno di quelli pioneristici che per ottenere scene apparentemente realistiche si prendeva molte licenze. La puntata dei lemming in questo senso fu proverbiale: gli esemplari di lemming furono letteralmente spinti nei crepacci per fornire ai telespettatori e a noi ancora più di mezzo secolo dopo una metafora tanto seducente quanto artefatta. Potenza dello Zeitgeist, quando in piena Guerra Fredda l'idea che una specie animale corresse volontariamente all'autosterminio doveva risultare irresistibile alle fantasie di chi viveva in attesa di un terzo e definitivo conflitto mondiale. 

E tuttavia i lemming veri non corrono al suicidio, c'è scritto persino in una delle più fondamentali pagine di Wikipedia (List of common misconceptions): e rieccoci alla contrapposizione già descritta con una brutale allegoria nel pezzo precedente: da una parte un miliardo di primati non molto intelligenti ma cocciuti che si costruisce un sapere collettivo che fa acqua da tutte le parti, ma un po' di conoscenza la trattiene (Wikipedia è forse il caso più esemplare); dall'altra il savio filosofo, discendente da tutta una schiatta di savi filosofi che ha una cultura settoriale imbattibile ma poi ci scivola su una delle most common misconceptions. 

A parte questo la cosa non avrebbe molta importanza: Agamben ha preso una cantonata su una curiosità zoologica, ma non è questo il lapsus di cui volevo parlare all'inizio. Non è nemmeno una gran cantonata, in fondo; senz'altro la mancata propensione suicidiaria dei lemming non inficia la riflessione di Agamben: i lemming non gli fornivano una prova e nemmeno un indizio, bensì... già, cosa? Nella retorica antica e medievale si chiamavano exempla, servivano a vivacizzare il discorso (non a puntellarlo su dati reali), e non infrequentemente si basavano sul mondo animale, perché chi ascolta la predica è sempre un bambino dentro: i paroloni dopo un po' lo addormentano, gli animali invece gli danno una sveglia e gli fanno correre la fantasia. Agamben usa i lemming come i predicatori medievali usavano gli unicorni, probabilmente già sospettando che i leggendari equini non fossero così fessi da farsi catturare nel momento in cui posavano il capo sul grembo di una vergine: sono favolette, exempla, non dati naturali, ma luoghi comuni letterari. Del resto lo scrive pure Agamben, che i lemming di cui sta parlando sono quelli descritti da uno scrittore e non uno qualsiasi: Primo Levi, che ai roditori dedicò un breve racconto del 1971, Verso Occidente. 

Il racconto di Levi è un esperimento mentale, tipico esempio di quell'hard science fiction che in Italia purtroppo ebbe pochi esponenti, e nessuno probabilmente del suo livello: immaginiamo che esista una specie vivente che vuole morire. Da cosa potrebbe dipendere una simile pulsione? Chimico di formazione, Levi ipotizza che al sangue dei roditori manchi un composto organico (un alcol), e immagina che la stessa carenza alcolica sia condivisa da un popolo amazzonico in via di estinzione. Questo popolo non solo prevede una forma molto codificata di suicidio tribale, ma si distingue per un'altra fondamentale caratteristica: non ha sviluppato credenze religiose. Da qui forse si capisce meglio cosa abbia solleticato la fantasia di Agamben: la specie suicida e soprattutto il popolo amazzonico sembrano evocare l'idea che tanto gli sta a cuore della "nuda vita":

Gli esseri umani non possono vivere se non si danno per la loro vita delle ragioni e delle giustificazioni, che in ogni tempo hanno preso la forma di religioni, di miti, di fedi politiche, di filosofie e di ideali di ogni specie. Queste giustificazioni sembrano oggi – almeno nella parte dell’umanità più ricca e tecnologizzata – cadute e gli uomini si trovano forse per la prima volta ridotti alla loro pura sopravvivenza biologica, che, a quanto pare, si rivelano incapaci di accettare. Solo questo può spiegare perché, invece di assumere il semplice, amabile fatto di vivere gli uni accanto agli altri, si sia sentito il bisogno di istaurare [sic] un implacabile terrore sanitario, in cui la vita senza più giustificazioni ideali è minacciata e punita a ogni istante da malattie e morte.

Qui c'è in nuce tutto il pensiero di Agamben sull'epidemia. Pensiero come si vede basato su un'ipotesi apocalittica: la "parte dell'umanità più ricca e tecnologizzata" avrebbe perso qualcosa che tutto il resto dell'umanità ha sempre avuto. Questo qualcosa non è l'alcol immaginato da Levi, ma è comunque alla base di tutto ciò che ispira "religioni, miti, fedi politiche, filosofie e ideali". Tutto questo non c'è più e quindi non abbiamo più voglia di vivere. 

Una cosa interessante di questo pensiero è come contraddica praticamente tutto quello che possiamo vedere intorno a noi, su internet ma anche solo alla finestra; religioni, miti, fedi politiche, ve n'è ovunque e benché sia vero che sembrano sempre declinare, di solito è per lasciare lo spazio a nuove religioni, miti, fedi politiche: insomma una grande vivacità che si può anche definire come "crisi", ma con cautela perché lo storico lo sa, che se una civiltà in media dura 500 anni, di solito si comincia a parlare di crisi già verso il cinquantesimo. Per Agamben invece tutto sta finendo: ci stiamo riducendo a una pura sopravvivenza biologica che però non accettiamo - e anche qui, basta dare un'occhiata fuori per restare perplessi: lo stesso modo in cui abbiamo affrontato la pandemia ci potrebbe mostrare quanto siamo tutti attaccati alla vita. Chi ha sperato sin dall'inizio in tutte le misure adottate, dal distanziamento ai vaccini, lo ha fatto perché voleva vivere: ma anche chi ha osteggiato sin dall'inizio lockdown, e vaccini, anche chi ha completamente negato l'emergenza, lo ha fatto in nome della sua esigenza di vivere una vita più piena possibile. Perlomeno è questa la sensazione complessiva che nel mio piccolo mi sembra di poter trarre da questi venti mesi in cui tutti intorno a me mi sono sembrati molto attaccati a qualsiasi vita gli capitasse di vivere: alcuni sacrificando la propria libertà e barricandosi in casa, altri viceversa mettendo a repentaglio la sicurezza altrui in nome del proprio benessere. Di fronte a un quadro del genere, se proprio volessi cercare un significato unitario, io vi leggerei un collettiva, commovente ostinazione a vivere malgrado tutto; il filosofo il contrario: non ne abbiamo più voglia, al punto che l'unico sistema è terrorizzarci con malattie che evidentemente sono più politiche che reali. 

Buffo, anche se avessimo davanti un'orda di lemming, vedremmo esattamente l'opposto: lui una colonna di roditori diretta verso lo sterminio, io una massa di animaletti che in una situazione che non conosce cerca di destreggiarsi come può, combina ovvi disastri che scarica sugli individui, ed errore dopo errore traccia la sua strada verso una salvezza non predestinata, ma nemmeno impossibile... (continua)

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Il monastero e la palestra

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Proveremo a immaginarci la filosofia continentale come un dipartimento kafkiano, un monastero dove si fa carriera dopo aver lungamente finto di apprendere una lingua misteriosa che (qualcuno sospetta) non ha nessun significato o ne ha troppi, ogni vocabolario fallisce nel tentativo di spiegare il significato cangiante che assume la stessa parola da Maestro a Maestro e quindi (qualcuno sospetta) forse la carriera la fai pigliandotene uno e servendolo e riverendolo finché non muore e dopo averlo pianto per giorni e giorni spetta a te staccarlo dalla cattedra. 

Secondo altre teorie all'inizio questo monastero era un dipartimento come un altro. Quando però, secoli fa, è subentrata questa moda di fare esperimenti e verificare ipotesi, gli altri monasteri ci si sono tutti buttati con un entusiasmo molto sospetto; e mentre scoprivano aberrazioni come il calcolo infinitesimale, si sono sempre più allontanati dall'unica via che il monastero continentale si è dedicato a difendere, anche se la maggior parte dei monaci non ti saprebbe dire in cosa consista – e se anche lo sapesse non te lo direbbe, il loro avanzamento di carriera dipende direttamente da questo gap tra le cose che loro dovrebbero sapere e tu no, anche l'eventuale capra non ha altra scelta che inventarsi un sapere qualsiasi e un non-linguaggio in cui non riesce ad esprimertelo. Questo per quanto riguarda la filosofia continentale. 

L'internet invece dobbiamo figurarcela come un'enorme palestra di scimmie, ma quando dico enorme dico proprio che ormai siamo in miliardi, e abbiamo una tastiera a disposizione per quasi tutte le ore del giorno, il che significa che le possibilità di scrivere qualcosa di sensato non sono poi così basse e in particolare non sono più da qualche anno così inferiori a quelle del monastero continentale. Le scimmie sono animali sociali, con tutti i loro limiti; dopo anni di intense interazioni on line non potevano che arrivare a codificare una serie di comportamenti abbastanza interessanti, per quanto discutibili. Le dispute si sono ritualizzate al punto che vi sono argomentazioni che vengono rifiutate in quanto "fallacie", una specie di fallo retorico (che come il fallo sportivo è sempre un po' arbitrario, a volte vale la pena di fischiarlo a volte no). Uno degli esempi più noti è la reductio ad Hitlerum: dopo che alle scimmie era stato insegnato che Hitler era il male assoluto, nel giro di pochi anni avevano iniziato a paragonare a Hitler qualsiasi atteggiamento intendessero stigmatizzare. Ma persino le scimmie si rendono conto, evidentemente, che un paragone inflazionato perde il suo valore, e prima di arrivare al punto in cui chi apriva una banana dal punto sbagliato era Hitler, hanno stabilito collettivamente che la reductio ad Hitlerum era un tabù. Il che magari è altrettanto assurdo, ma almeno evitava loro di doversi difendere da accuse di nazismo ogni volta che pelavano una banana. La decisione non fu presa ufficialmente da nessuna intelligenza superiore: fu il punto di arrivo di una serie di atteggiamenti collettivi, presi da numerosissime intelligenze inferiori.  

Va bene, ma in questi giorni cos'è successo? Niente di così nuovo: ogni tanto un monaco continentale sente la necessità di recarsi nella palestra del miliardo di scimmie a dispensare la sua necessaria Verità. Le scimmie lo sbertucciano, non che lui si aspetti qualcosa di diverso. Quel che forse non si aspettava è l'incredibile boato nel momento in cui il monaco sceglie di pronunciare la fatidica parola, "Hitler": le scimmie se l'aspettavano e reagiscono ormai come se fosse un tormentone comico. Non c'entra più il nazismo, ormai: la parola "Hitler" per loro è diventata l'etichetta che segnala la presenza di un argomentatore non all'altezza. Per assurdo anche se fosse una delle rare volte in cui la parola "Hitler" aveva un senso, ormai è troppo tardi: lo aveva in un'altra lingua che le scimmie hanno smesso di capire. Il monaco comunque sapeva che le scimmie avrebbero preferito riferimenti ad articoli scientifici, statistiche e cose così, e ha fatto anche il possibile per procurarseli, ma sono scritti in un'altra lingua ancora, un'altra lingua che il monaco non ha mai appreso e non capisce davvero; le scimmie per contro qualche statistica la sanno leggere, la loro abitudine a discutere di tutto 24 ore al giorno ha selezionato tra loro dei veri campioni in grado di procurarsi qualsiasi numero adatto a qualsiasi ragionamento in pochi minuti, per cui nel momento in cui smette di leggere la sua predica il monaco è già stato debunkato da quattro o cinque scimmie in competizione tra loro.

Tutto qui. Il monaco scuote i calzari e se ne torna orgoglioso al suo monastero, confortato nell'idea di essere l'ultimo depositario di una Verità inaccessibile alle scimmie. Le scimmie ne ridacchiano ancora per un po', poi si mettono a chiacchierar d'altro. La palestra non chiude e senz'altro non chiude il monastero, per il solito motivo per cui da millenni ne teniamo aperti: troppi figli da parcheggiare.

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Due filosofi contro il green pass (vince il green pass).

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Quando ho saputo che Massimo Cacciari e Giorgio Agamben avevano pubblicato un intervento a proposito del decreto del Green Pass, mi sono detto: finalmente si ragiona. Perché devo ammettere che questa cosa di avere aderito incondizionatamente a una misura che limita le libertà di movimento non è che mi va del tutto giù. Vedo gente manifestare e sento me stesso lamentarsi che erano manifestazioni non autorizzate, sarò mica passato al lato oscuro? Il mio buon senso mi dice che il governo ha ottimi motivi per fare quello che fa: motivi che ho vagliato, per quanto le mie esigue competenze me lo consentissero. Ma intanto il mio demone mi punzecchia: che ne sai? Se fosse tutta un'illusione che un regime totalitario ti stesse squadernando davanti, e dietro, e tutt'intorno? Credi davvero di saper distinguere tra informazione e propaganda, tra effetti di un virus ed effetti di un vaccino, tra responsabilità e asservimento? La differenza tra te e il novax è che tu ti fidi di qualcuno, lui di qualcun altro: nessuno dei due se ne intende veramente, state semplicemente facendo una scommessa e la tua ragionevolezza si riduce al fatto che hai scelto il banco, la quota minore, il rischio minimo. Va bene, caro demone, andiamo un po' su facebook a vedere cosa pensano i novax e poi dimmi tu se dovevo giocarmi la salute sulle idee di questi scalmanati. Eh no, dice lui, troppo facile usare i matti di facebook per liquidare una qualsiasi idea – giudicheresti il cristianesimo dal calendario di Frate Indovino? – alle fonti del pensiero, devi andare, all'elaborazione degli intellettuali, loro sì che avranno idee in grado di mettere in crisi le tue false certezze. E quindi viva Cacciari, viva Agamben, questo è ragionare, andiamo subito a vedere cos'hanno scritto di interessante su un tema tanto controverso.

Hanno scritto un temino imbarazzante.

Giuro, una cosa talmente sciatta che non vale nemmeno la pena di rispondere, e sapete perché? Perché ha già risposto Massimo Gramellini. E ha risposto bene, sul pezzo, dimostrandosi meglio informato e più competente, cioè questi due sono riusciti a far salire in cattedra Massimo Gramellini, proprio lui, non è un omonimo chiuso in una spelonca che improvvisamente è saltato fuori a dare lezioni di dialettica ed epistemologia ai due grandi filosofi viventi. Filosofi che tutto sommato non sono stati in grado di produrre un testo distinguibile dai deliri dei famosi scalmanati su facebook. Segue una disamina pedante. 

La discriminazione di una categoria di persone, che diventano automaticamente cittadini di serie B, è di per sé un fatto gravissimo, le cui conseguenze possono essere drammatiche per la vita democratica.

Tautologia. Una cosa [che se fosse vera sarebbe] gravissima è una cosa gravissima, e ci mancherebbe altro che non avesse conseguenze drammatiche. La tautologia regge come un pilastro di cemento tutto il discorso successivo, e nasconde nella sua armatura l'unico dubbio che valeva la pena di affrontare: il green pass discrimina davvero le persone? Che differenza c'è tra il green pass e le altre limitazioni che in teoria non discriminano (patente di guida, porto d'armi)? Non si sa, non è interessante.

Quando poi un esponente politico giunge a rivolgersi a chi non si vaccina usando un gergo fascista come “li purgheremo con il green pass” c’è davvero da temere di essere già oltre ogni garanzia costituzionale. 

La frase a quanto pare sarebbe sfuggita ad Emanuele Maria Lanfranchi, giornalista, capo ufficio stampa della presidenza della Regione Lazio, portavoce di Nicola Zingaretti, in un post o un tweet poi cancellato. Su Google è possibile trovarla in più interventi di Agamben, che vi ritorna in modo ossessivo perché, evidentemente, altri esempi di "gergo fascista" non ne ha trovati. Insomma quando un portavoce di un presidente di regione si lascia sfuggire un termine squadrista, Agamben e Cacciari davvero temono di essere già "oltre ogni garanzia costituzionale". Uno si domanda come abbiano fatto a non esplodere quando un grillino in parlamento disse "boia chi molla", ma vabbe'. 

Guai se il vaccino si trasforma in una sorta di simbolo politico-religioso.

Cioè esattamente quello che avete fatto fin qui, trasformando un lasciapassare nel Marchio della Bestia.

Ciò non solo rappresenterebbe una deriva anti-democratica intollerabile, ma contrasterebbe con la stessa evidenza scientifica. 

Tautologia.

Nessuno invita a non vaccinarsi! 

Ma veramente sì, un sacco di gente nelle piazze, sull'internet, ecc. Cioè può darsi che il problema dei novax sia un po' sovradimensionato, ma negarlo, ecco –

Una cosa è sostenere l’utilità, comunque, del vaccino, altra, completamente diversa, tacere del fatto che ci troviamo tuttora in una fase di “sperimentazione di massa” e che su molti, fondamentali aspetti del problema il dibattito scientifico è del tutto aperto. 

Il dibattito sarà sempre aperto, la scienza funziona così. "Sperimentazione di massa" tra virgolette significa che qualcun altro lo ha detto, ma chi? O sono i doppi apici di timidezza, quelli che si usano per prendere le distanze da quello che si sta scrivendo? Perché tra persone adulte e responsabili non si dovrebbero usare. I novax insistono molto sul fatto che i vaccini non siano stati approvati con le procedure standard, che avrebbero richiesto tempi molto più lunghi. E ce ne sono di bravi ormai, anche perché a discutere su internet ci si esercita, ci si specializza, insomma sanno citarti la sigla dell'approvazione richiesta presso il tale ente europeo o americano. Alla fine a leggerli si impara pure qualcosa. Invece leggendo "sperimentazione di massa" tra virgolette io non imparo niente.

La Gazzetta Ufficiale del Parlamento europeo del 15 giugno u.s. lo afferma con chiarezza: 

No, aspetta, ho capito bene? Torna un po' indietro.

su molti, fondamentali aspetti del problema il dibattito scientifico è del tutto aperto. La Gazzetta Ufficiale del Parlamento europeo del 15 giugno u.s. lo afferma con chiarezza: 

Queste due frasi sono finite accostate insieme per sbaglio, voglio sperare. Altrimenti io povero lettore rischio di dedurre che la Gazzetta Ufficiale del Parlamento europeo affermi con chiarezza che il dibattito scientifico è del tutto aperto, cioè avremmo un Parlamento europeo che legifera sulle aperture e le chiusure dei dibattiti scientifici. Poi volendo essere pedanti la Gazzetta Ufficiale del Parlamento europeo non esiste, al massimo esiste la Gazzetta Ufficiale dell'Unione Europea, ma vabbe', dettagli.

La Gazzetta Ufficiale del Parlamento europeo del 15 giugno u.s. lo afferma con chiarezza: «È necessario evitare la discriminazione diretta o indiretta di persone che non sono vaccinate, anche di quelle che hanno scelto di non essere vaccinate». 

L'italiano incespicante del testo citato non è responsabilità dell'eurolegislatore, ma di chi ha ritagliato malamente la citazione, senza segnalare il taglio e rabberciandolo con quell'orribile "anche". Ricopio il vero testo; in corsivo la parte tagliata senza segnalazioni da Agamben e Cacciari. "È necessario evitare la discriminazione diretta o indiretta di persone che non sono vaccinate, per esempio per motivi medici, perché non rientrano nel gruppo di destinatari per cui il vaccino anti COVID-19 è attualmente somministrato o consentito, come i bambini, o perché non hanno ancora avuto l'opportunità di essere vaccinate o hanno scelto di non essere vaccinate".

E come potrebbe essere altrimenti? Il vaccinato non solo può contagiare, ma può ancora ammalarsi: in Inghilterra su 117 nuovi decessi 50 avevano ricevuto la doppia dose. 

Da Wikipedia: Il termine inglese cherry picking, adattabile in italiano come bias di selezione o selezione arbitraria, è utilizzato nella lingua italiana per riferirsi ad una fallacia logica, caratterizzata dall'attitudine da parte di un individuo volta ad ignorare tutte le prove che potrebbero confutare una propria tesi ed evidenziando solo quelle a suo favore. L'etimologia dell'espressione deriva dalla lingua inglese. Il significato è metaforico e rappresenta l'idea di prendere, per sé stessi, solo le migliori ciliegie da una ciotola piena, ignorando appositamente, magari, quelle poco mature o peggiori.

Nel frattempo proprio ieri scoprivamo che da febbraio in poi il 99% dei deceduti in Italia non aveva completato la somministrazione del vaccino: la mia ciliegia è più bella della vostra, ho vinto io. 

In Israele si calcola che il vaccino copra il 64% di chi l’ha ricevuto. 

Una cosa che si fa su facebook per vincere una discussione è appunto mettersi affannosamente a cercare dati a supporto della nostra tesi, ed è lì che molti si spezzano le corna, non perché non sappiano ragionare ma perché non reggono il ritmo e prima o poi fraintendono un dato e scrivono una castroneria. In Israele non "si calcola che il vaccino copra il 64% di chi l’ha ricevuto". Quel che è successo è che un vaccino tra tanti, il Pfizer, la cui efficacia in Israele nel prevenire il covid19 era stimata intorno 94%, sembra avere nei confronti delle altre varianti un'efficacia molto più bassa, intorno al 64%. Fammi un attimo contare quante cose hanno voluto capire male qui Cacciari e Agamben:

1. Non hanno capito che non si parla "del vaccino", ma di un vaccino specifico. 

2. Non hanno capito che non si parla di efficacia in generale, ma di efficacia contro le varianti. 

3. Hanno ignorato il resto della notizia, ad esempio dove diceva  "Il calo della protezione riguarda i contagi e non le forme gravi della malattie. Inoltre, pare non influire sui ricoveri né tanto meno sui decessi osservati finora".

4. L'efficacia al 64% è diventata "il vaccino copra il 64% di chi l’ha ricevuto", un'espressione che in italiano sfiora il comico involontario: il vaccino mi copre al 64%, quindi diciamo fino all'ombelico? Sempre ammesso che mi copra dall'alto verso il basso, cosa che non so se augurarmi. 

Le stesse case farmaceutiche hanno ufficialmente dichiarato che non è possibile prevedere i danni a lungo periodo del vaccino, non avendo avuto il tempo di effettuare tutti i test di genotossicità  e di cancerogenicità. 

Sarebbe anche un tema interessante, senonché dispiace che ai due filosofi venga in mente questa preoccupazione e non quella complementare, riguardante i danni da long covid: una sindrome di cui ignoriamo ancora i danni a lungo periodo. E torniamo al punto di partenza, ovvero la scommessa. Nessuno è sicuro in assoluto della bontà della propria scelta. Può darsi che qualche vaccino approvato molto in fretta alla lunga faccia davvero male. È un rischio. Anche la deriva totalitaria innescata dal green pass è un rischio. Il mio buon senso dice che sono rischi accettabili. Agamben e Cacciari dovrebbero farmi venire dei dubbi. Per ora non ci siamo. Tutto quello che dicono, davvero, posso trovarlo formulato con più riferimenti e più convinzione da un anonimo novax su un social network. 

“Nature” ha calcolato che sarà comunque fisiologico che un 15% della popolazione non assuma il vaccino. Dovremo dunque stare col pass fino a quando? 

Azzardo: finché il covid continuerà a uccidere la gente? Poi, ok, capisco che qui si insiste sul rischio di una degenerazione totalitaria, ma cosa c'entra il fisiologico 15% della popolazione? Chi scrive sembra convinto che il fine del green pass sia estendere l'uso del green pass, un po' come il fine della prevaricazione per Orwell era la prevaricazione. E non che senta l'esigenza di perdere tempo ad articolare questa cosa: la dà per scontata, come spesso i paranoici fanno.

Tutti sono minacciati da pratiche discriminatorie. Paradossalmente, quelli “abilitati” dal green pass più ancora dei non vaccinati (che una propaganda di regime vorrebbe far passare per “nemici della scienza” e magari fautori di pratiche magiche), dal momento che tutti i loro movimenti verrebbero controllati e mai si potrebbe venire a sapere come e da chi. 

Propaganda di regime. Quindi c'è un regime che controllerà se andremo al bar e al lavoro. Chi non ci andrà "paradossalmente" non sarà controllato, sarà invisibile, ma sarà anche presumibilmente tappato in casa o espulso dal consorzio sociale. La propaganda di regime vuole far passare per ciarlatani e "nemici della scienza" i non vaccinati, e capisco che è una cosa odiosa, ma non siete stati capaci di citare correttamente un solo dato a favore delle vostre asserzioni. Anche la vostra è propaganda, e se non siete "nemici della scienza" non siete nemmeno molto amici, neanche semplici conoscenti, diciamo che passate molto alla svelta, rubacchiate qualche ciliegia e chi s'è visto s'è visto. 

Il bisogno di discriminare è antico come la società, e certamente era già presente anche nella nostra, ma il renderlo oggi legge è qualcosa che la coscienza  democratica non può accettare e contro cui deve subito reagire.

Stanno scrivendo davvero che c'è un regime, inaccettabile, contro cui si deve subito reagire, ma reagire come? Per esempio, manifestare nelle piazze senza autorizzazione è ok? Perché qualcuno lo farà, qualcuno si sentirà autorizzato anche da questo autorevole intervento. Stanno davvero chiedendo di protestare con ogni mezzo possibile? Non è chiaro, non lo dicono, insomma armiamoci e partite. 
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La spia e il provocatore

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Secondo te è una dittatura, non è da oggi che ci pensi. Sono mesi che ti prepari, mesi che ti lasci permeare da tutte le notizie che confermano quello che pensi tu – e respingi le altre. Quando la gente cominciava a morire, a te risultava che i decessi fossero stabili; quando siamo rimasti a casa, a te risultava che aumentassero i suicidi; quando è cominciata la vaccinazione, a te risultava che uccidesse la gente; quando tutte queste evidenze sono state sbugiardate, a te non risultava. Poi ognuno è libero di leggere quel che vuole e scriverlo pure, ma da un po' di tempo questa libertà ce la gestiscono i dipendenti di Zuckerberg, e i dipendenti di Zuckerberg hanno deciso che le cose che scrivi le devo leggere pure io. 

(Magari non sono i dipendenti, ma un algoritmo; in questo caso però se fossi uno che compra spazio pubblicitario mi incazzerei, perché a occhio sembra un algoritmo molto più sofisticato di quello che ha deciso che mi piacciono i manga romantici e i manuali di meditazione). 

Ma insomma la Zuckerberg Spa ha deciso che io e te dobbiamo litigare e io ci provo anche, ma ho questo problema che dopo un po' mi affeziono, non ho il killer instinct, e nel frattempo tu spieghi che siamo sull'orlo di una guerra, che sta per cominciare anzi è cominciata, e che bisognerà lottare con tutte le proprie forze e servirà tanta abnegazione contro il nemico e intanto io penso: ma il nemico sarei io? E contro uno come me, cosa pensi di fare?

Nel frattempo i dipendenti di Zuckerberg mi fanno l'occhiolino, mi hanno già scritto per avvisarmi di segnalare se vedo gente che si radicalizza, forse è il motivo per cui ci hanno accoppiato, forse vogliono un motivo serio per farti fuori e... glielo devo dare io? E glielo devo dare gratis? Ma non penso proprio, guarda. Manco tu fossi un nazista e si vede che non lo sei. E però ormai da qualche giorno sei convinto che lo sia io. Finisce che la spiata a Zuck la farai tu? Devo farla prima io per prevenirti? Che brutto mondo.   


E intanto tu vai avanti e un po' di gente ti scrive bravo, ti mette i pollicioni, ti propone di aderire al loro gruppo che va in piazza senza mascherina e vaccino contro la dittatura sanitaria che toccherà istituire seriamente a settembre se continuate così... ma tu imperterrito, ormai hai deciso che è tutta una montatura e non si torna indietro, tu non stamperai il green pass e inviti gli altri a non farsi tracciare da Bill Gates e a segnarsi i nemici perché prima o poi verrà il momento della riscossa libertaria, e io ho questo vizio che empatizzo, che mi affeziono, io se per un attimo spengo la razionalità e distolgo la fantasia da Bill Gates che controlla i tabulati per sapere se andate al bar, lo posso capire come ti senti. Io sono cresciuto a pane e Orwell, ricordo un estate che diedero tutti i film di fantascienza sociologica e avrò avuto dieci undici anni, roba da farsela in mano, la Fuga di Logan, L'uomo che fuggì dal futuro, 2022 i sopravvissuti... io lo capisco l'incubo di vivere in un mondo dove per circolare è necessario il Marchio della Bestia. È assurdo crederci, ma una volta che ci credi deve essere agghiacciante, guardarsi attorno e vedere la maggioranza supina accettare la marchiatura, è un incubo... e però tu questo incubo continui a denunciarlo su Facebook.  

Cioè. 

Tu pensi che Bill Gates ti spii col green pass e intanto Zuckerberg coi tuoi status pubblici cosa ci fa, è un tuo amico?

Pensi di essere in una dittatura sanitaria e conseguentemente vai in giro a scrivere Siamo In Una Dittatura Sanitaria e ti firmi pure, il pensiero di passare in clandestinità non ti sfiora? Cioè se una dittatura del genere esistesse davvero, com'è che si contenta di farvi prendere il caffè al banco, com'è che vi lascia i canali aperti... io fossi in te il dubbio che lo faccia apposta per monitorarvi, e al momento giusto bloccarvi (e falciarvi) me lo farei. 

E starei molto attento a chi mi mette like, a chi mi manda i suoi contenuti da condividere, perché in una dittatura sanitaria come minimo ci sono agenti provocatori dappertutto, c'è anche una crisi dell'impiego, figurati se in mezzo a centinaia di contatti non c'è qualcuno che sta gestendo un dossier.

E siccome ogni tanto provo anche a dirtela questa cosa, ma tu niente, e continui tranquillo a scrivere i tuoi proclami e raccogliere i tuoi like, il dubbio me lo faccio venire io: forse questa è davvero una dittatura sanitaria; forse l'agente provocatore sei tu.

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La fine dell'autocritica

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Questa immagine, ma soprattutto questa didascalia, divide l'internet italiana in due parti, e sospetto che la divisione azzecchi l'età mentale meglio dei documenti anagrafici. Non saprei tracciare un discrimine (nati nel 1980? 1985?) ma da un certo punto in poi è un'immagine imbarazzante: Ritratto di regista boomer che non capisce dove va il cinema. Probabilmente i giovani non fanno nemmeno caso ai capelli bianchi, che erano il punctum della composizione: Moretti era arrivato a Cannes con la chioma nera di ordinanza, il contrasto sempre più insostenibile col grigio cenere della barba. Quando sei un personaggio pubblico a un certo punto devi fare questa cosa di ammettere che ti tingevi i capelli, per quanto al di fuori possa sembrare ridicolo per alcuni è più traumatico di un coming out. In una botta sola devi ammettere che sei vecchio e che cercavi di nasconderlo. Se poi quasi nessuno ci fa caso è peggio ancora, significa che loro ti vedevano già vecchio: sei tu che ti aggrappavi al tuo autoritratto mentale, gli altri le tue rughe le danno per scontate, le vedono anche nei film dove ancora non le avevi. 

Pochi giorni prima

Per quelli nati prima del discrimine, questo è il caro vecchio Moretti che si prende in giro da solo, con quella spietatezza che negli ultimi film si è un po' attenuata (ma solo un po'). È il Moretti-regista-isterico di Sogni d'oro (ma anche di Mia madre), quello che vuole vincere a costo di rendersi ridicolo, e che non vuole morire. Più del Moretti che non si capacita del successo di Henry, pioggia di sangue, è quello che si fa una canna davanti alla tv mentre Berlusconi trionfa. Certo che è patetico, ma lo fa apposta. Al che i più giovani possono ovviamente rispondere: certo che lo fa apposta, ma è patetico, e il discrimine è tutto qui. 

Per i vecchi quel che importa è l'intenzione; per i giovani il risultato. Moretti non ha fatto tantissimi film, così che non capita poi così spesso l'esperienza rivelatoria di riguardarli per caso senza averne l'intenzione: quella situazione in cui ogni volta mi stupisco di quanto era perfido con sé stesso e con il sociotipo che interpretava. Moretti picchiava sua madre, spintonava il padre, stalkerava sue ex, scenate dappertutto. Questa perfidia era un valore in sé, ma se i giovani non la capiscono forse il suo cinema in breve non interesserà più a nessuno. Questo mi dispiace più di altre cose, e sento che sto per rimettermi a parlare di Woody Allen, scusatemi. 


Woody Allen di film ne ha fatti molti di più, diciamo anche troppi di più, diciamo che anche se gli impedissero di farne altri non sarebbe una catastrofe culturale; la vera catastrofe culturale è che non sono più in grado di apprezzare quelli vecchi. Prendono Manhattan per una prova indiziaria, non è che non capiscano che Allen in un film del genere stava denunciando sé stesso e i suoi simili, ma ne approfittano, Allen si autoaccusa e loro si autonominano giudici e lo condannano. Ammettiamo che nei trent'anni dell'abbondanza era diventato a un certo punto un topos prendere in giro la figura del borghese intellettuale sempre sull'orlo della crisi di nervi, ormai una maschera di una postmoderna commedia dell'arte. Poi a un certo punto cambia il paradigma, all'improvviso e con una certa violenza: chi ancora indugiava nel topos autocritico (ad esempio Louis CK) viene stritolato da un meccanismo che si rivela molto più spietato di lui. Si è all'improvviso convocato un nuovo tribunale e ci si rende conto che tutto questo autocriticarsi non funzionerà come attenuante, anzi, tutti questi artisti non hanno fatto che facilitare il lavoro ai nuovi accusatori. Woody Allen, ci spiegano, è ossessionato dal sesso, e dalle giovinette. Certo, rispondiamo, Allen non fa che esprimere in modo grottesco queste ossessioni che sono comuni a tutti, ehm, noi: ma a questo punto gli accusatori alzano un sopracciglio e noi siamo nei guai. Meglio cominciare a scrivere che Allen ha fatto il suo tempo, forse qualche giovinetta tornerà a metterci un like. 

Com'è successa questa cosa, di chi è la colpa. Siete seduti? Perché sto per dare la colpa a internet, ai social network, ebbene sì, sto invecchiando molto più rapidamente di Moretti. Ma mi ricordo che fino a un certo punto anche su questo blog trovavo normalissimo esprimere le mie frustrazioni, la percezione del mio essere ridicolo, i miei guai e le mie colpe, e cosa cercavo? Se non assoluzioni, certo attenuanti da un giudice bonario che al di là di tutto il materiale probante avrebbe valutato le mie intenzioni. Un approccio, starei per dire, molto cattolico: non fosse che né Allen né Moretti mi sembrano particolarmente cattolici. Comunque a un certo punto ho dovuto smetterla: non potevo più mettere in mostra le mie debolezze perché c'era gente cattiva lì fuori che le avrebbe riprese, linkate, taggate, esagerate, additate, e vi giuro questa gente esiste davvero, non me la sogno, magari saranno appena una manciata di persone ma sono fastidiosi come zanzare e per evitarle ho smesso di denudarmi in pubblico. È stato un processo graduale, non saprei neanche dire quando è iniziato, fatto sta che mi sono costruito questa specie di Io pubblico che magari è pessimista ma non si dispera mai, non piange mai, non ti racconta più i suoi traumi infantili e quanto era patetico da adolescente – tutto questo fino a metà '00 si poteva fare, ora ti prenderebbero per pazzo, non c'è più nessuna gloria nel sapersi mettere in berlina. Ora devi imparare a sanguinare per i fatti tuoi, con tutti gli squali in giro. È un mondo diverso. Ipocrita in un modo diverso. Forse preferivo l'ipocrisia di Moretti che cercava la nostra simpatia comportandosi in modo insopportabile. Era paradossale, probabilmente preferisco i paradossi. 

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Il G8 di Genova: descrizione di sette battaglie

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Ho un problema con chi ricorda Genova. Razionalmente, mi dico, non c'è niente di strano a voler commemorare un episodio che fu traumatico anche per molti che non c'erano. E quindi incoccio in decine di resoconti, un genere letterario già sintetizzato nella formula treno-corteo-mazzate-treno, e non ho il diritto di sentirmi infastidito, ma succede. Leggo tante cose e hanno tutte senso, ma forse le ho lette troppe volte. Alcune ormai hanno fatto il nido nell'inventario dei luoghi comuni: sembra ovvio affermare che a Genova sia finito qualcosa: avrebbe anche un bel senso narrativo immaginare una generazione che lotta per un mondo migliore, si prende un bel po' di mazzate, se ne torna a casa a drogarsi o a imborghesirsi e il mondo peggiora. Insomma un canovaccio già scritto negli anni Settanta/Ottanta che già nel 2001 qualcuno pretendeva di farci recitare, c'era del nervosismo perché non sapevamo bene le battute. Invece non è andata così, a Genova non è proprio finito niente (persino gli errori più marchiani purtroppo sono stati ripetuti di lì a pochi mesi), mentre qualcosa è iniziato. Vabbe'. 

Ho un problema con chi ricorda Genova perché ricordare significa armonizzare la propria memoria con il nostro presente, rimuovere tutte le asperità, le cose che il nostro Io del 2021 non accetterebbe più, costruirsi un passato più sensato e accomodante. Per capirlo mi basta confrontare i miei ricordi, tutti belli carini e armonizzati, con quel che ho lasciato qui scritto, per niente carino, anzi grezzo e imbarazzante, quel passato irrisolto che languisce negli scatoloni del solaio e non avete voglia di aprire e guardarlo neanche con la scusa degli anniversari. Ho un problema con chi ricorda Genova, me stesso incluso. Più ne parlo più mi allontano. Mi toccasse spiegare a chi non c'era, farei una gran confusione e farei apposta, perché il G8 fu soprattutto questo: una gran confusione. Ogni memoria parziale tradisce questo aspetto, ognuno era andato con una sua agenda e ha portato a casa la sua esperienza. C'è chi non crede nell'esistenza dei Black Bloc perché non li ha visti, c'è chi pensa che Casarini fosse il leader del movimento intero e non di una frangia che si era conquistata (anche meritoriamente) un particolare risalto mediatico. 

Il G8 non fu una manifestazione, questa è una cosa che bisognerebbe spiegare a chi ha pazienza. Le manifestazioni più o meno tutti sanno cosa sono e come funzionano: c'è un tema importante, molta gente lo condivide e scende in piazza. A volte è autorizzata, a volte no; a volte la polizia mena, a volte no. La maggior parte di chi arrivò a Genova si aspettava in effetti qualcosa del genere. Quel che successe davvero è che a Genova di manifestazioni ce n'erano tante, promosse da enti diversi, con obiettivi a volte opposti e pratiche che non si conciliavano tra loro, per cui per respirare atmosfere completamente diverse bastava a volte voltare un angolo, o addirittura restare nella stessa piazza ma con una maglietta diversa. E non sto parlando solo del tremendo venerdì delle piazze tematiche: a Genova già da giorni arrivava gente con idee diversissime, in particolare l'associazionismo cattolico era in seminario già da una settimana. Poi ci fu la contromanifestazione delle forze dell'ordine, che fu la vera traumatica novità di quel G8; e sabato ci fu la reazione popolare. Quante manifestazioni ci furono, più o meno nello stesso momento e nella stessa città? Ogni volta che le conto arrivo a un numero diverso, vediamo stasera. 

1. La prima manifestazione, quella che doveva attirare i riflettori del mondo, era quella degli "Otto Grandi": i rappresentanti dei governi di USA Canada, Francia, Germania, Giappone, Italia, Regno Unito, e Russia. Fa veramente strano rileggere l'elenco oggi e pensare che Cina e India non fossero ancora ritenute degne. Questo tipo di vertici si convocava una volta all'anno (si convocano tuttora) e al di là dell'agenda lanciavano un messaggio al mondo intero: siamo noi, le nazioni economicamente più evolute, il vero supergoverno informale del mondo. Ce ne rendiamo conto e ce ne prendiamo la responsabilità. Non c'è bisogno di sottolineare quanto questo approccio sapesse di un imperialismo fuori tempo massimo: persino il G8 a un certo punto ha sentito la necessità di cambiare. Gli impegni presi da quel G8 in materia di ambiente o di lotta alla povertà erano poca cosa e non se li ricorda nessuno. È il caso di ricordare che il vertice di Genova fu il primo evento di questo tipo a cui partecipò George W. Bush, che si era insediato pochi mesi prima alla Casa Bianca malgrado avesse raccolto meno voti del suo rivale democratico, Al Gore. Nella sua campagna elettorale del 2000, Al Gore parlava già di riscaldamento globale, un problema che del resto era già in cima alla priorità della comunità scientifica e aveva già ispirato i protocolli di Kyoto. Per gran parte della base repubblicana che votò Bush, il riscaldamento globale era una bufala.  


2. Contro la manifestazione di potenza dei grandi del mondo, già dal 1999 (Seattle) aveva preso forma un movimento di protesta internazionale. Si trattava per lo più di studenti provenienti dalle nazioni del G8 o comunque da Nordamerica ed Europa Occidentale. Avevano impostazioni ideologiche diverse ma comunque identificabili nella sinistra antagonista (anarchici, comunisti, ambientalisti) e per lo più provenivano da famiglie del ceto medio – potevano permettersi di viaggiare per il mondo. Dopo Seattle, le polizie europee li guardavano con sospetto, convinte probabilmente di assistere all'incubazione di una nuova internazionale terroristica. Sospetti ridicoli, col senno del poi: però gli studenti erano i più facili da fermare alla frontiera. Tra di loro era prevedibile che ci fosse qualche futuro membro della classe dirigente, ad esempio Pablo Iglesias (Alex Tsipras fu bloccato al porto di Ancona). E c'erano anche (non maggioritari) i casseur, che a quel tempo per lo più si ritenevano di matrice anarcoide: i famosi black bloc. Che alcuni fossero infiltrati, della polizia o dell'estrema destra, o semplici turisti del vandalismo, è un sospetto che cominciò a serpeggiare soltanto a Genova. Ovvero: la mattina del 20 era già molto più che un sospetto, ma 24 ore prima nessuno se lo immaginava, nessuno con cui io avessi parlato o di cui avessi letto qualcosa.  


3. Se i vertici del G8 (punto 1) avevano scatenato le manifestazioni internazionali anti-vertice (punto 2), queste manifestazioni a loro volta avevano 'forato il video', calamitando l'attenzione di un pubblico italiano molto più variegato, sia socialmente che ideologicamente. Per dire, a Genova arrivarono gli scout cattolici; le Onlus del Terzo Settore che in quel periodo si avvalevano ancora del servizio civile degli obiettori di coscienza ed erano quindi molto più dinamiche che in seguito; i movimenti di cooperazione; le associazioni ambientaliste; qualche sindacato (mica tanti); c'era Bertinotti che cercava una nuova anima movimentista per il suo partito e bisogna dargli atto che restò lì anche nel momento in cui tutta la stampa aveva deciso che a Genova c'erano gli Unni; tutta questa gente aveva scoperto in tv e sui giornali che si protestava contro il G8 e aveva pensato: giustissimo, andiamo anche noi. Portiamo le nostre idee, prendiamoci qualche piazza tematica, montiamo un banchetto. Se non sbaglio c'era pure Slow Food coi chioschi dei panini, perché alla fine era diventata anche una questione di visibilità, insomma fino a giovedì piazzale Kennedy sembrava una fiera, con gli anarchici internazionali in giro un po' perplessi che si sentisse più odore di salsiccia che di fumogeno. Quando si dice che Genova fu traumatica, bisogna capire che per molti la vigilia fu questo: non erano tutti con Casarini e Caruso a progettare l'assalto alla zona rossa, un sacco di gente pensava che alla fine sarebbe stato un corto normale, con qualche carica e qualche vandalo, ma niente di più. E non si trattava soltanto di persone ingenue: c'era anche l'idea di non lasciare le proteste in mano agli esaltati, di mostrare il fianco più moderato, nella speranza che facesse da schermo. E invece la polizia ci andò giù pari, con tutto l'associazionismo che si era appena federato e si era dato il nome più rassicurante possibile, Rete di Lilliput. Ebbene sì, a Genova i poliziotti menarono anche i lillipuziani. Fu un battesimo del sangue, perché Lilliput non smise affatto di esistere e mettere in rete persone di estrazioni e ideologie diversissime – io sono convinto che Lilliput sia stato uno degli incubatori del grillismo, ma non posso dimostrarlo e non voglio neanche litigare. 

4. Il movimento anti-verticista di cui al punto 2 non aveva ispirato soltanto l'associazionismo, ma aveva trovato un'incarnazione più fedele al modello nel mondo della sinistra antagonista e dei centri sociali. Questo mondo a sua volta era variegatissimo, ma non così settario: anzi, stava cercando di sfruttare la nuova vague di manifestazioni anti-vertice per uscire dai ghetti urbani che si era scavato durante tutti gli anni '90. I centri sociali numericamente non erano così rilevanti: non portarono a Genova fiumi di persone, ma erano gli unici che davano la sensazione di essere, per così dire, preparati al peggio: e invece quel che successe sconvolse anche loro. Alcuni loro rappresentanti avevano partecipato a Seattle e agli eventi successivi; conoscevano la differenza tra Black Bloc e Pink Bloc (sì, c'erano già anche i Pink Bloc); si erano già mobilitati per alcuni vertici che in teoria erano l'antipasto del G8: l'OCSE a Bologna e il Forum Mondiale a Napoli (dove nacque l'orribile nome "No Global"). In queste occasioni avevano chiarito le loro priorità: a nord si puntava il dito sulla contraddizione di una globalizzazione delle merci che negava la globalizzazione dei popoli: si parlava già di "Fortezza Europa" come di qualcosa da espugnare da dentro e da fuori. A sud si sentiva la maggiore presenza dei disoccupati e si puntava sul reddito minimo garantito. Ma obiettivi a parte erano i metodi di protesta il campo in cui gli antagonisti avevano dato prova di una certa creatività, nel tentativo di uscire dalla routine dei tafferugli anni '90, sviluppando pratiche che, cito a memoria, dovevano superare la falsa dialettica violenza non-violenza, ovvero trovare una sintesi tra chi voleva menare le mani e chi professava un pacifismo totale. A nord questa sintesi aveva dato vita alle Tute Bianche, un gruppo che accettava solo un tipo di violenza, ovvero quello passivo: la Tuta Bianca si costruiva in casa un'armatura di gommapiuma e plexiglass con la quale si sarebbe schiantata contro i celerini, nella speranza che lo scontro fosse ripreso abbastanza vicino da una videocamera (il colore bianco serviva a far risaltare il sangue).

  


Le Tute Bianche ci tenevano a non essere confuse coi Black Bloc, e a ragione: i Black Bloc mordevano e fuggivano massimizzando i danni e minimizzando i rischi, in pratica facevano guerriglia. Le Tute Bianche viceversa cercavano la battaglia campale, a richiederla era la loro stessa forma mentis, il modo in cui dividevano il mondo in moltitudini e fortezze e zone temporaneamente liberate. Furono loro a insistere sul concetto di Zona Rossa che andava assolutamente violata – obiettivo che già allora mi sembrava discutibile, e infatti andai in un'altra piazza, giusto per scoprire che la polizia caricava uguale. Dopodiché le manifestazioni hanno sempre un aspetto teatrale, da che esistono i media e anche prima, per cui oltre un certo limite è inutile accusare i manifestanti più esagitati di giocare alla guerra; le manifestazioni sono precisamente questo, per mostrare un conflitto lo metti in scena e speri che i media lo trovino abbastanza interessante. Se non lo trovano abbastanza interessante rischi un po' di più. Casarini rischiava un po' di più, ma non è che Gandhi si comportasse in modo sostanzialmente diverso. Soprattutto Casarini aveva il suo daffare a tenere assieme gente che se non avesse avuto l'obiettivo della Zona Rossa e lo scudo di plexiglass si sarebbe disperso e sarebbe stato tentato da pratiche assai più distruttive (malgrado i giornali lo ritenessero un pericoloso masaniello, Casarini era in sostanza il negoziatore, quello che doveva tenere aperti tutti i canali). Il punto debole non era tanto il plexiglass, quanto la disciplina: per funzionare, la pratica delle Tute avrebbe dovuto essere condivisa universalmente, e invece tutt'intorno c'erano casseur e infiltrati che vandalizzavano automobili e vetrine, o interpretavano la guerra di posizione in senso meno retorico e più letterale. Già venerdì sera le tv non mostravano le ferite riportate dalle Tute, ma la "devastazione"; qualcuno aveva giocato il loro gioco meglio di loro e fu l'ultima volta che fu concesso stupirci della cosa: da lì in poi doveva essere chiaro che a tutti che i media preferiscono le vetrine rotte alle tue ossa altrettanto rotte.

5. Può darsi che le proteste organizzate della sinistra antagonista di cui al punto 4 avessero innervosito i vertici delle forze dell'ordine. Può anche darsi che questi vertici ci tenessero a dimostrare al governo insediato di fresco (il Berlusconi II) che la musica poteva cambiare, se c'era la volontà politica: e una rapida visita del vicepresidente del consiglio, Gianfranco Fini, sembrava voler dire che questa volontà c'era. Fatto sta che la manifestazione più importante del G8, quella che davvero è passata alla storia, fu quella repressiva di polizia e carabinieri (ma anche finanzieri e forestali, sul serio, li ho visti anch'io). Anche questa manifestazione cominciò con una fiera: qualcuno spero si ricorda il tizio vestito da truppa d'assalto che si faceva fotografare da un terrazzo su un piazzale nello splendore del suo abbigliamento antisommossa; e mentre in piazzale Kennedy suonava Manu Chao, dall'altra parte del muro di container i rappresentanti dell'ordine ballavano la tecno. Le mazzate che cominciarono a tirare il giorno dopo non erano in nessun modo proporzionali alle offese eventualmente ricevute; per quanto i giornali continuino a raccontare questa cosa, non è che la polizia intervenisse duramente per reprimere i vandali; i vandali agivano indisturbati mentre altrove la polizia menava cortei abbastanza a casaccio.

Non bisogna stancarsi di sottolineare, finché chiunque continui a sostenere il contrario non soffochi nella sua merdosa ipocrisia, che la violenza delle forze di polizia a Genova è un unicum; non è che poliziotti e carabinieri in generale ci andassero piano con i manifestanti dei centri sociali, ma qualsiasi manifestante di quel mondo che è passato da Genova vi confermerà che quello che si vide lì era sensibilmente diverso. Una violenza cieca, rabbiosa, mal congegnata che trionfò alle Diaz e proseguì alla caserma di Bolzaneto, e che tutto sommato fallì il suo scopo, per un motivo non molto diverso da quello per cui fallì la strategia campale dei centri sociali. Proprio come i centri sociali avevano pensato di ritrovarsi soli contro la polizia, anche la polizia aveva messo in pratica la strategia più adatta a fiaccare i centri sociali, senza sapere che a Genova si sarebbe trovata davanti a un movimento molto più eterogeneo, che tornò a casa terrorizzato e riuscì, con una certa pazienza, a convincere parte dell'opinione pubblica che in quei giorni era successo qualcosa di grave. Se fu un esperimento di repressione autoritaria, fece molto male e uccise, ma fallì. 

6. Che la manifestazione repressiva sarebbe fallita lo si capì sabato 21 luglio, quando ci svegliammo ancora intontiti e dolenti per la morte di Giuliani e scoprimmo che un sacco di gente era appena arrivata per manifestare assieme a noi. Contro i pareri dei principali partiti e sindacati, la gente era lì: alcuni più vicini alle istanze del punto 3, altri del punto 4 o del 5, ma sabato a mezzogiorno tutto questo non aveva più molta importanza, e non l'avrebbe più avuta per un anno o due. Quel mattino era nato il Forum Sociale, con tutti i suoi limiti che in questo pezzo non ci stanno. Tra i temi promossi dal Forum c'erano tutti quelli che ci stanno affliggendo oggi: la sostenibilità ambientale, la speculazione finanziaria, i regimi di schiavitù cui inevitabilmente portava una globalizzazione delle merci e non delle persone. C'era già tutto e c'era, certo, anche una vena già complottarda e anti-tutto che avrebbe portato qualcuno verso posizioni identitarie – c'era anche Bagnai, per dire, non a Genova ma di lì a poco nelle iniziative di Sbilanciamoci. Mancava una vera classe dirigente; c'era una diffusa insofferenza verso chiunque si ritrovasse anche solo per necessità nel ruolo di portavoce; Casarini Caruso o Agnoletto non furono mai leader carismatici, neanche ci provavano. 

7. A Genova un sacco di gente c'era semplicemente per vedere cosa sarebbe successo. Non si erano mai viste tante videocamere nello stesso posto, certo, oggi le abbiamo tutti in tasca e non fanno più tanto effetto. Si sapeva che le cose potevano andare male, e questo attirava interesse e curiosità. A Genova c'ero anch'io perché volevo vedere coi miei occhi e scrivere quello che vedevo; non avrei tollerato di perdermi un'occasione del genere e questo in seguito mi ha dato un po' da fare – mi sono sentito un turista anch'io, l'intruso in una battaglia che non capivo, che tuttora sto cercando di spiegarmi. A Genova, dopo dieci minuti in piazzale Kennedy avevo già la maglietta del servizio d'ordine (il che lasciava perplesso pure me su quanto fosse facile infiltrarsi); passai il concerto a tenere sgombro il passaggio per le ambulanze e a supplicare in tre lingue i ragazzi di non andare a infrattarsi sugli scogli. Sabato mattina avevo in mano le chiavi della scuola Pascoli ed ero dall'altra parte della strada, nel plesso Diaz, mezz'ora prima che la polizia irrompesse. Ho molti ricordi ma non mi fido molto, so che sono parziali e viziati dalla necessità di andare d'accordo con tutti i sé stessi passati. È difficile spiegare cosa mi ha lasciato Genova, ma non sopporto di leggere che Genova ci ha fermati o bloccati o sconfitti. Io non mi sono fermato, non mi sono bloccato, non sono sconfitto. Quello che cercavo di fare a Genova, lo faccio ancora e spero molto meglio, perché a Genova diciamolo, facevo abbastanza schifo. 

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Perché perdiamo tempo con l'Invalsi, nel 2021?

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Che anno è, che giorno è? È il momento di discutere dei risultati Invalsi, come se fossero una cosa seria. Malgrado l'interruzione dell'anno scorso, la liturgia ormai si è consolidata: a metà luglio, quando ormai la scuola è un ricordo lontano, l'Invalsi si fa vivo e pubblica quelli che chiama "i risultati", e che in realtà poi non dicono un granché. Il momento è cruciale: se c'è un torneo internazionale di calcio, è appena finito; un'eventuale Olimpiade non sarà ancora cominciata. Sui giornali insomma potrebbe esserci un po' di spazio da riempire: peccato che i "risultati" Invalsi siano mortalmente noiosi: le primarie tengono, nelle secondarie inglese è stabile e matematica e italiano sono un po' in calo... non c'è sugo, non c'è spezia, per cui si fa intervenire il titolista apocalittico, quello che di mestiere, quando il meteo dice che piove, titola SENTENZA FINALE, SPAVENTOSA BOMBA D'ACQUA.

Tu dici: vabbe', esagera. La tale Testata Prestigiosa ci informa che "Crollano le competenze degli studenti" – il che in sostanza significherebbe che non solo non hanno imparato niente, ma non sanno nemmeno più fare quel che sapevano fare un paio d'anni fa. (L'Invalsi però è un banale test a scelta perlopiù multipla: che sia uno strumento efficace per certificare le cosiddette competenze è discusso e discutibile). Il collega di un'Altra Testata Prestigiosa ci terrorizza: "Alla Maturità competenze da Terza Media". Per fortuna questa spaventosa lacuna per cui cinque anni di istruzione superiore sarebbero spariti nel nulla non risulta dai dati Invalsi: è solo un titolo acchiappaclic, ma è anche l'unica cosa che la maggior parte dei lettori leggerà. Dai titoli partiranno poi per tutta una serie di osservazioni sulla scuola, sulle sue criticità, ecc. – anche in buona fede, vedo commentatori già pronti a spiegare perché secondo loro la scuola sta funzionando male, cosa bisogna fare per intervenire. Sono discorsi in parte condivisibili, ma io vorrei fermarmi un po' più a monte.

Non voglio discutere dell'Invalsi come insegnante, stavolta. Non voglio discutere dell'Invalsi come l'esperto di didattica che tra l'altro non sono. Rivendico un punto di vista molto più limitato, ma a fuoco: voglio parlare delle prove Invalsi da tecnico di laboratorio, visto che è quello che faccio nella mia scuola media da quando le prove sono diventate computer based. E da tecnico di laboratorio dico: non è il momento di discutere dei risultati Invalsi come di una cosa seria.


Non discuto la bontà dei test, la didattica che sottendono, eccetera. Non discuto la professionalità degli esperti che li hanno messi a punto, o la serietà dei miei colleghi che li hanno somministrati. Per far funzionare una somministrazione non bastano gli esperti, i pedagoghi e gli insegnanti. La somministrazione funziona se gli studenti decidono di farla seriamente, e non credo che sia successo.

Parto dalla mia esperienza (ovviamente limitata, ma diversamente da tutti i commentatori io i test li ho visti fare): le prove Invalsi richiedono massimo 90 minuti. I miei studenti consegnavano mediamente dopo 60, molto prima del solito. O erano tutti geni, o le prove erano troppo facili, o non avevano nessun interesse a farla bene. Vi è mai capitato di fare un questionario al computer? Magari quando iniziate siete curiosi, poi vedete che è un po' più difficile di quel che sembrava, pensate che tutto sommato avete di meglio da fare, e scrollate avanti. La mia supposizione è che molti studenti abbiano fatto la stessa cosa. Non credo che le prove Invalsi di quest'anno vadano prese sul serio, perché i ragazzi che dovevano farle non le hanno prese sul serio.

E perché mai avrebbero dovuto farlo? Tornavano tutti da un lockdown, chi di un mese (elementari e medie) chi di tre mesi o più (superiori). Avevano appena ricominciato a interagire dal vivo coi compagni e con gli insegnanti – certo, in aule distanziate, senza scaffali per tenere i banchi a dieci cm di distanza in più; senza laboratori; senza intervallo in aree comuni: però ce l'avevano fatta, erano tornati a scuola. A questo punto arriva il tecnico e spiega che bisogna recarsi tutti nell'aula computer per quel famoso test a crocette che comunque, nessuno si preoccupi, non influisce in nessun modo sulla loro valutazione finale. I ragazzi sbuffano e vanno. Magari alla spicciolata, perché anche lo spazio in laboratorio è contingentato. Un laboratorio che contiene 30 computer probabilmente può farne lavorare soltanto 15, per garantire il distanziamento. Quindi bisogna fare i turni. Quindi dopo mesi di didattica a distanza una volta tornati a scuola bisogna interrompere il lavoro di classe per andare un po' alla volta in un laboratorio a fare un noioso test a crocette che dal loro punto di vista non ha la minima importanza.

Sì, proprio in quel laboratorio in cui abbiamo smesso di portare i ragazzi dall'anno scorso perché bisognava in tutti i modi mantenere il distanziamento, mantenere la bolla, evitare che i droplet della terza A fossero inalati dai ragazzi della terza C. È il motivo per cui i ragazzi non fanno più l'intervallo tutti assieme nei corridoi, e ciononostante (e malgrado il ministero spergiurasse che le scuole erano sicure) abbiamo dovuto comunque chiudere in marzo e a Pasqua abbiamo portato i ragazzi delle terze medie e delle quinte superiori in laboratorio per fare un noioso test a crocette. Ora: è così strano che l'abbiano fatto in fretta, rispondendo sbrigativamente alle domande che sembravano più facili e scrollando quelle che non capivano al volo? In tutta sincerità: al loro posto avreste fatto diversamente? Vi ricordo che la prova Invalsi non fa più media, i ragazzi sanno perfettamente che non saranno valutati per le risposte che danno. A volte sentono dire che saranno i loro insegnanti a essere valutati, e la scuola nel suo insieme: ecco, provate un attimo a figurarvi la cosa. Voi al loro posto vi sareste attardati su un computer forse non del tutto disinfettato, a compilare coscienziosamente un test per far fare bella figura ai vostri insegnanti? Chi ha immaginato una situazione di questo tipo sarà anche esperto di didattica, ma non di preadolescenti e adolescenti. O più facilmente la sua priorità non era ottenere buoni risultati. L'unico motivo per somministrare le prove Invalsi in un anno disastrato come questo era ottenere cattivi risultati. La cosa incredibile è che tutto sommato i risultati non sono nemmeno così cattivi. Prevedibili, ma non così pessimi.

La scuola ha dei problemi? Altroché se ne ha. L'Invalsi ce li mostra? L'Invalsi è un dito che mostra la luna. Ma la mostra davvero? Sta puntando davvero verso la luna o semplicemente la luna è l'unica cosa interessante che si trovi vagamente sulla traiettoria? E inoltre: quanto costa quel dito? Siccome non fa che indicare quello che indicano tutti, siccome non ha mai cambiato posizione in tanti anni, vale ancora la pena di mantenerlo? Mi pongo questo tipo di problemi perché io quel dito l'ho sorretto sin dall'inizio, non con le mie idee ma col mio lavoro. Da quando c'è l'Invalsi, io a scuola ho somministrato l'Invalsi. Quando qualche mese fa i miei dirigenti mi confermarono che le prove si sarebbero fatte, ero piuttosto incredulo. La scuola dell'obbligo era appena entrata nel suo secondo lockdown, che sarebbe durato più o meno un mese. In quel momento non sapevamo nemmeno se avremmo finito l'anno in presenza, e ciononostante il Ministero ci chiedeva di predisporre i laboratori informatici per la somministrazione della prova. Bisognava assolutamente capire se i ragazzi ne sapessero più o meno di quelli degli anni scorsi.

Ma bisognava davvero? Cioè, dopo un quadrimestre di DAD completamente improvvisata; dopo un altro quadrimestre in presenza in classi distanziate, con continui stop and go imposti ogni volta che in una classe scoppiava un focolaio, c'era davvero tutta questa esigenza di scoprire se i ragazzi avessero imparato più o meno? Non era una domanda retorica? Voglio dire, potevate chiederlo a me. Ve l'avrei detto io. Gratis? No, gratis no, ma sarei costato senz'altro un po' meno. Oppure potevate chiedere a chiunque. Lo sappiamo tutti che la scuola non ha funzionato al meglio nel 2020-21 – come qualsiasi altra cosa del resto.

Invece abbiamo sentito l'esigenza di formulare questa domanda retorica a due milioni di studenti. Non sarebbe bastata, per una volta, un'indagine a campione? In tante scuole d'Italia, questo era complicato anche prima del Covid e delle procedure di distanziamento. Tre prove da 90 minuti sono 270 minuti per studente – se lo studente dovesse farli tutti assieme, ma ovviamente non è così: ogni 90 bisogna dargli il cambio, e questo significa altri minuti preziosi per aerare e igienizzare la postazione (per quanto si possa sanificare una tastiera, l'oggetto forse meno igienizzabile inventato dall'uomo). Comunque fingiamo che tutto si possa fare in 10 minuti, diciamo che ogni Invalsi ruba allo studente 300 preziosi minuti di presenza (senza restituirgli niente: le prove Invalsi servono un po' al ministero, un po' ai giornalisti, ma a lui a che servono? era meglio stare in classe a studiare l'assonometria cavaliera). Se una scuola media ha otto terze, e a ogni terza servono 300 minuti, abbiamo 40 ore da gestire: 40 ore in cui è previsto che l'insegnante sia coadiuvato da un assistente, qualcuno che in teoria la scuola paga: le prove Invalsi costano. Sempre che esista quel famoso laboratorio con 25-28 postazioni cablate e funzionanti. Magari nel 2019 esisteva, ma ora c'è il distanziamento, ricordate? Non è che si possa espandere la cubatura del laboratorio. Si potrebbe fare un altro laboratorio (altri soldi), o più facilmente raddoppiare i turni, per cui le 40 ore diventano 80. Questo è successo alle medie e alle superiori: alle primarie, dove la prova è ancora cartacea, i risultati sono stati migliori. Questo ovviamente può significare che le primarie funzionano meglio. Perlomeno sulla brochure dell'Invalsi c'è scritto così. Oppure che i bambini delle primarie davanti a un fascicolo cartaceo hanno più motivazioni a fare bene che i preadolescenti davanti a un computer – preadolescenti plasmati da anni di videogioco domestico, per cui se sbagli puoi sempre ricominciare e fare meglio.

(A volte davvero alla fine della prova ti chiedono se potrebbero ripeterla ed è un piccolo choc per loro scoprire che no, per la prima volta della vita non si può imparare dai propri errori. Che tra l'altro sarebbe l'unica cosa didatticamente interessante, per loro).

Che anno è, che giorno è? Nessuno in particolare. Le prove Invalsi non ci dicono niente che non sapessimo già. Come al solito sono in linea con le rilevazioni Ocse-Pisa. Le scuole delle regioni più ricche funzionano meglio delle scuole delle regioni più povere, chi l'avrebbe detto. Per farci dire quel che sappiamo benissimo, abbiamo disturbato due milioni di studenti che erano appena tornati in classe. Li abbiamo portati in un laboratorio benché fino al giorno prima sostenessimo che il laboratorio fosse un luogo a rischio. Non abbiamo fornito loro nessuna motivazione particolare: dovevano soltanto finire quei maledetti test. Li hanno finiti al volo, sono tornati in classe, e ora i giornali possono dire che le scuole italiane fanno schifo e la DaD non funziona.

Perché prima non potevano?

Beh, in luglio è più difficile, le scuole sono chiuse, manca un gancio con l'attualità. Insomma non ci dirà mai niente di interessante o nuovo, ma almeno questo gancio ai giornalisti l'Invalsi ogni anno lo offre. E probabilmente è tutto: anche perché io in tanti anni tutti questi interventi mirati per risolvere le criticità individuate dall'Invalsi sinceramente non li ho visti. Ecco perché abbiamo organizzato 80 ore di laboratorio in aprile, sottraendoli alla didattica, e io mi sono pure preso un virus (per fortuna non era il Covid): per sentirmi dire anche in luglio che faccio schifo, che è tutto da rifare. Grazie, e arrivederci al prossimo anno.

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Cinque leggende per sette fratelli

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18 luglio – Santa Sinforosa e i suoi sette figli martiri (II secolo), leggenda

Sette figlioli sette, di pane e miele, a chi li do? Il 18 luglio si celebra il martirio di Sinforosa e dei suoi sette figli, ma io non ci credo molto: sette figli? Tutti martiri? Ma andiamo. Racconta un anonimo agiografo che l'imperatore Adriano voleva inaugurare una bella villa a Tivoli, ma l'oracolo gli disse: ma cosa pensi di inaugurare, non lo sai che la vedova Sinforosa e i suoi sette figli ogni giorno ci tormentano invocando il loro Dio? Convincila a sacrificare, allora sì che faremo tutto quello che vuoi. 

Felicita e i suoi sette figli (non li sta sgozzando in una volta sola: li esibisce con orgoglio
accanto alla spada, che è il simbolo del martirio). Dalle Cronache di Norimberga.  

Adriano non perse tempo ad arrestare i figli con la madre, che però di sacrificare ai falsi dei non voleva saperne. La torturarono, e niente: allora la buttarono nell'Aniene con una pietra al collo, magari presso la pittoresca cascata. E i fratelli? Adriano fece innalzare sette pali intorno al tempio di Ercole Vincitore, e siccome non capita tutti i giorni di avere sette vittime consanguinee, ne volle approfittare per uccidere tutti in un modo diverso: a Crescente fece tagliare la gola, a Giuliano pugnalare il petto, a Nemesio il cuore, a Primitivo l'ombelico, a Giustino la schiena, a Stratteo il fianco, mentre Eugenio fu segato in due. I corpi furono gettati in una fossa che divenne nota come la fossa dei sette biothanatos, parola greca che veniva usata sia per i suicidi che per i cristiani che sceglievano il martirio. Qualcuno però andò a recuperare i corpi e li seppellì sulla Tiburtina, a otto miglia da Roma. Il corpo della madre invece sarebbe stato sepolto fuori dalle mura di Tivoli. Così dice la leggenda, e io non credo a una parola: sette figli? 

Il Martirologio geronimiano (che malgrado il nome non fu scritto da Girolamo) conferma che erano sette, ma li chiama con nomi diversi. Invece ricorda sette fratelli che di nome fanno proprio Crescente, Giuliano, Nemesio, Primitivo, Giustino, Stratteo ed Eugenio, ma il 27 giugno. Può darsi che qualcuno a un certo punto si sia confuso. Può darsi che i sette non siano i figli di Sinforosa, che Sinforosa non abbia mai avuto sette figli (ognuno dei quali potrebbe rappresentare una patologia riguardante una parte del corpo, come secoli più tardi i quattordici ausiliatori). Può darsi che non sia nemmeno mai esistita, tanto è simile la sua storia a quella più diffusa di Santa Felicita. 

Santa Felicita (da non confondere con la serva di Perpetua) era una ricca vedova romana che fu accusata di cristianesimo ai tempi di Antonino Pio (il successore di Adriano). Siccome il prefetto non riusciva a farla confessare, decise di arrestare i figli Gennaro, Felice, Filippo, Silano, Alessandro, Vitale e Marziale, e di ucciderli ognuno con un supplizio diverso, finché non avrebbe ceduto. Non cedette e fu uccisa anche lei. Fu sepolta coi figli in una basilica sulla Salaria, e in suo onore furono dedicate chiese e monasteri ai Sette Fratelli o ai Sette Frati... ma probabilmente è un falso anche questo. Sette fratelli, sul serio? Condannati a morte da un imperatore famoso per la sua tolleranza (come del resto Adriano)? È una favola, e come tutte le favole assomiglia a un'altra. Per una volta sappiamo anche quale, e forse abbiamo addirittura il nome dell'autore. Giasone di Cirene. 

Antonio Ciseri, Il martirio
dei Maccabei (1863).
A parte il nome non è che sappiamo molto di lui. Visse nel secondo secolo avanti Cristo; malgrado il nome greco era un ebreo e molto fiero di esserlo, in un periodo in cui l'ebraismo era minacciato dalla diffusione della cultura ellenistica diffusasi anche in Giudea dopo le conquiste di Alessandro Magno; assistette non sappiamo quanto direttamente alla lunga resistenza armata degli ebrei contro i sovrani ellenisti della dinastia Seleucide, e la documentò in quattro libri... che però sono andati persi. Un altro autore però ne scrisse un compendio, che ha avuto la fortuna di essere stato compreso tra i libri della Bibbia cristiana (non ebraica) col nome di Secondo Libro dei Maccabei (dal nome dall'eroica famiglia giudaica che capeggiò la resistenza). È un libro paradossale, per come tratteggia un vero e proprio scontro di civiltà tra ellenisti e giudei, prendendo la parte dei secondi, ma utilizzando in modo sapiente e forbito la lingua e lo stile dei primi. Comunque nel settimo capitolo il compendiatore racconta la storia di sette eroici fratelli che non vollero mangiare carne di maiale, malgrado il tiranno Antioco IV li minacciasse di morte. Come seviziatore di innocenti, Antioco è più credibile di Adriano e Antonino: il suo soprannome ufficiale era Epifane (colui che si manifesta), ma ad Antiochia lo chiamavano anche Epimane (il matto). Era un grande stratega ma faceva scherzi incomprensibili, sognava di fare di Gerusalemme l'ennesima polis ellenistica, ma insomma il compendiatore racconta che avrebbe fatto mutilare e arrostire in padella i sette fratelli, davanti agli occhi della madre. La cosa toccante è che ognuno di loro, prima di farsi tagliare la lingua, la usa per rivendicare la fede nell'unico Dio e la certezza della vita eterna. È in sostanza una leggenda di martiri fatta e finita, scritta due secoli prima dell'avvento del cristianesimo. I fratelli sono tanto eroici che Antioco comincia a vacillare, e invita la madre a dissuadere dal martirio almeno il settimo: la madre finge di acconsentire, ma quando finalmente può parlare all'ultimogenito gli dice:

«Figlio, abbi pietà di me che ti ho portato in seno nove mesi, che ti ho allattato per tre anni, ti ho allevato, ti ho condotto a questa età e ti ho dato il nutrimento. Ti scongiuro, figlio, contempla il cielo e la terra, osserva quanto vi è in essi e sappi che Dio li ha fatti non da cose preesistenti; tale è anche l'origine del genere umano. Non temere questo carnefice ma, mostrandoti degno dei tuoi fratelli, accetta la morte, perché io ti possa riavere insieme con i tuoi fratelli nel giorno della misericordia».

I sette fratelli Govoni

Il figlio non se lo fa ripetere due volte e ottiene un martirio persino più doloroso dei fratelli maggiori; dopodiché Antioco, folle di rabbia, uccide anche la madre. Un episodio del genere, scritto evidentemente per spronare gli ebrei a resistere contro i prevaricatori, non poteva che esaltare i lettori cristiani dei secoli delle persecuzioni. A un certo punto la Chiesa di Roma rivendica di custodire le spoglie dei "Sette Santi Maccabei", in San Pietro in Vincoli. Probabilmente la gemmazione di nuove leggende sui sette fratelli nasce da qui, e dal fatto che molto spesso i racconti non si diffondevano in forma scritta e nemmeno orale, ma attraverso le immagini; sicché talvolta un predicatore poteva trovarsi sulle pareti o sulle vetrate la storia di sette fratelli morti ammazzati, e se non conosceva la storia dei Maccabei gli toccava improvvisare, magari ambientando la storia in una cornice più locale e interessante per gli ascoltatori, come nel caso di Tivoli. Alla fine gli elementi sono gli stessi: un imperatore stronzo, sette fratelli uccisi male, una madre che assiste e muore pure lei... e non è che dobbiamo crederci per forza. Se l'agiografo di Santa Sinforosa ha copiato quello di Santa Felicita che ha copiato il compendiatore di Giasone di Cirene, anche Giasone potrebbe avere ripreso la leggenda da qualche parte. Ormai lo abbiamo capito, no? Dove c'è un tiranno malvagio e sette fratelli uccisi, meglio diffidare. 

La famiglia Cervi

Mettiamo che tra qualche secolo ci sia ancora qualche storico curioso del nostro. Su che libri potrà mettere le mani? Probabilmente uno di quelli stampati in più copie, che ne so, il Sangue dei vinti di Giampaolo Pansa. Da bravo studioso non prenderà tutto per oro colato; ad esempio quando Pansa parla dei sette fratelli Govoni trucidati dagli uomini della Garibaldi ad Argelato, penserà: ma questo è un calco, figurati. Sette fratelli pestati a morte in una volta sola? Non la bevo, è chiaro che l'autore si è ispirato a una leggenda pre-esistente. Magari a quella dei Cervi, i sette fratelli di Campi Rossi di Gattatico, fucilati a Reggio Emilia. Oppure ai sette figli di Santa Sinforosa, o di Santa Felicita, o ai sette santi Maccabei (che non erano nemmeno Maccabei, ammesso che siano esistiti, e probabilmente no). Se c'è una cosa che ogni storico coscienzioso dovrebbe sapere, è che la mitologia può ispirarsi alla realtà, non il contrario: e quindi se mai sette fratelli furono uccisi, questo deve essere successo tantissimo tempo fa, di sicuro non al tempo dei nostri nonni. Sette fratelli? Impossibile. 

(In un documento della sezione fascista di Reggio Emilia c'è scritto proprio così: sotto la lista dei Cervi, un appunto: Sette fratelli? col punto interrogativo e sottolineato in rosso. Come a dire: ma davvero lo abbiamo fatto? Siamo noi la leggenda, siamo noi Adriano, Antonino, Antioco Epifane? Forse chi lo scrisse per un momento sentì che la realtà gli cedeva intorno, che la fantasia prendeva il sopravvento coi suoi demoni invisibili, inguardabili; e ne ebbe vertigine). 

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Il mondo brucia e abbiamo ancora Grillo tra i piedi

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Comunque va bene, sì, il Covid, e Beppe Grillo che fa la pace con Conte, e tra qualche giorno l'anniversario del G8 di Genova, però intanto in Europa continentale diluvia e in Canada hanno picchi di 50°Celsius: di che altro dobbiamo parlare? Tra un po' comincerà la vera emergenza climatica, a meno che non sia già cominciata, ma in ogni caso: se il Covid è stato un'impegnativa cima appenninica, adesso abbiamo davanti l'Himalaya. Fare previsioni ora sarebbe ancora più sciocco che all'inizio del 2020; durante la spedizione succederanno molte cose che nemmeno immaginiamo: cambieremo molte opinioni e le divideremo con persone insospettabili – insomma quello che è successo l'anno scorso, moltiplicato per cento. 

https://it.wikipedia.org/wiki/Riscaldamento_globale#/media/File:Urban-Rural_Population_and_Land_Area_Estimates,_v2,_2010_Northeast_Italy_(13873744025).jpg
(Comunque quella è Ferrara, non Bologna).

Sappiamo che se avevamo una vaga, vaghissima possibilità che questa crisi fosse gestita in Italia da un governo progressista, ce la siamo giocata con l'arrivo di Mario Draghi, che ha imposto un sensibile cambio di passo. Se abbiamo fretta non è difficile trovare nomi di colpevoli, peraltro recidivi: Renzi e Grillo. A distanza di qualche anno, la coerenza con la quale hanno sabotato ogni progetto progressista almeno dal 2008 in poi è impressionante; tanto più che entrambi non hanno mai smesso di professarsi progressisti, a modo loro, e a mettersi di traverso a qualsiasi iniziativa progressista che non li vedesse protagonisti assoluti. Molte volte ho rimproverato alla sinistra la mancanza di leadership, stavolta mi toccherebbe concedere che sono stati due leader a rovinare tutto. Ovviamente ho già la risposta pronta, ovvero: per forza hanno rovinato tutto, che altro aspettarsi da due buffoni? Se avessimo lavorato di più sulla classe dirigente avremmo evitato che il vuoto di leadership causasse l'ascesa di un comico e di un sindaco di Firenze. Renzi e Grillo saranno colpevoli, ma sono anche vittime di un enorme vuoto culturale che si è creato negli ultimi vent'anni, da Genova e anche prima. È facile ora trattarli da capri espiatori e non mi impedirò di farlo – chi si innalza sugli altari si merita tutta la polvere che solleva quando cade – ma il problema è un po' più grande di loro, è un po' grande di tutti noi. È peraltro un problema che non faremo il tempo a risolvere; spetterà all'Emergenza, che quasi sicuramente non scioglierà i nodi nel modo in cui avremmo voluto. È molto più facile che qualcuno in quei nodi resti stritolato, metaforicamente o meno. Poteva andare diversamente? 

Guardiamo al resto dell'Europa, dove le sinistre non dovrebbero essere disastrate come la nostra: ce n'è qualcuna che è riuscita ad approfittare dell'emergenza per imporre la sua visione del mondo, le sue priorità? Che io sappia no. Può darsi che non abbia cercato bene, anzi lo spero – mi danneggia forse la prospettiva storica, il pregiudizio per cui il progressismo è un fenomeno tipico delle crisi di crescita, mentre questa ha più l'aria di essere una catastrofe sistemica, qualcosa che in generale premia chi ha sviluppato corazze e barriere. Può darsi che un pregiudizio simile abbia portato leader di sinistra come Mélenchon o Corbyn a lambire il sovranismo. Anche in Italia è successo qualcosa di simile, non solo presso realtà ormai folkloristiche come i comunisti di Rizzo; non ce ne siamo accorti perché eravamo distratti dall'esplosione colorata del vaffanculismo Cinque Stelle. 

Sui Cinque Stelle non ho cambiato opinione (il che è sospetto, considerato quanto sono cambiati loro). Li definivo "un magma in cui si trovano ormai fuse assieme istanze che una volta erano di pura sinistra (l'ecologismo, la questione morale) e veleni di estrema destra". Con questo magma dobbiamo costruirci un riparo: non è il materiale ideale, ma altro disponibile non ce n'è, se ci fosse a quest'ora l'avremmo trovato. Otto milioni di persone votarono nel 2013 per un Movimento che a parte Grillo e il suo discutibile webdesigner, contava soltanto perfetti sconosciuti e tanta voglia di cambiamento; non dico che Grillo fosse davvero progressista (anche se è convinto di esserlo) o di sinistra; dico che tra quegli 8 milioni di voti c'erano quelli che la sinistra avrebbe dovuto intercettare per non diventare una forza residuale. Dico che nel 2008, all'ombra della fusione tra democratici e cattolici di sinistra si era consumata una scissione sotterranea; mentre il neonato PD di Veltroni ripartiva all'eterna conquista del centro moderato immaginario, nelle viscere dell'opinione pubblica si staccava un enorme scudo di persone deluse dal moderatismo, dalla ragionevolezza, scontente del berlusconismo e di chi il berlusconismo non era riuscito a respingerlo; fu quello il nucleo del grillismo e fu quella scissione che occorrerebbe rimarginare per rifare della sinistra una forza importante, ma non c'è più tempo nemmeno per recriminare. Possiamo aggiungere alla lista dei colpevoli qualche altro spauracchio: Veltroni senz'altro, e perché no, D'Alema che in un certo senso lo anticipò – e Prodi? Mettiamoci anche Prodi, troppo ragionevole per capire dove stava andando l'Italia. Insomma ne abbiamo di nomi contro cui sfogarci. Se solo servisse a qualcosa.

Negli anni successivi alla scissione è stato comodo, per tanti commentatori e anche per me, liquidare il Movimento associando a esso gli aspetti più discutibili e appariscenti: il complottismo, il mito della democrazia partecipativa e i ridicoli strumenti con cui veniva simulata, la natura reazionaria di tante rivendicazioni, l'ambiguità sull'Euro. Il M5S è effettivamente stato anche questo: una serie di risposte sbagliate offerte a un pubblico che però faceva domande importanti. Senza dubbio contiene frange complottiste e sovraniste e possiamo bollarle di destra, se ci fa stare meglio: ciò non toglie che le stesse frange esistano anche a sinistra – in un certo senso sono sempre esistite. A Genova, bisognerebbe ricordare, a contestare il G8 c'era già un universo inconciliabile e variopinto che comprendeva gli anarchici come i novax; c'era chi voleva abolire tutti i confini e chi voleva ri-istituire le dogane nazionali per fregare i McDonald's; chi voleva spegnere la luce per non surriscaldare il mondo e chi voleva tenere aperte le fabbriche per non perdere i posti. A unirli era soprattutto uno slogan: Un altro mondo è possibile. E può anche darsi che in quel momento la possibilità di un altro mondo ci fosse, ma avremmo dovuto metterci d'accordo quasi subito e sarebbe stato molto difficile. Anche qui: possiamo dare la colpa ai manganelli. Ma è una ricostruzione consolatoria: i manganelli hanno fatto molto male ma non ci hanno impedito di pensare. Anzi nei mesi successivi proprio la repressione di Genova sembrava aver creato per reazione un Movimento dove prima c'erano soltanto gruppi diversi con priorità diverse. La vera occasione l'abbiamo persa dopo il Social Forum di Firenze, e sinceramente non ho mai capito il perché. Senz'altro l'11 settembre ci ha preso in controtempo, senz'altro la Guerra Infinita di Bush figlio e Rumsfeld è diventata l'obiettivo primario e ci ha distratto, ci ha impedito di concentrarci su una serie di priorità sistemiche che a me perlomeno sembravano abbastanza chiare già nel 2001: l'emergenza climatica, i rischi connessi alla globalizzazione dei mercati e alla privatizzazione dissennata dei servizi, la speculazione finanziaria. A distanza di vent'anni non si è fatto praticamente niente: gli unici fronti in cui globalmente qualcosa è cambiato mi sembrano quelli dei diritti civili per le persone LGBT e della depenalizzazione delle sostanze. Questo mi lascia un po' perplesso: forse perché sono etero e non fumo. O forse perché si tratta di evoluzioni sacrosante ma tutto sommato compatibili con una visione del mondo liberale e individualista. In ogni caso c'è una specie di buco nella mia memoria, diciamo tra il 2004 e il 2008 non ho capito bene cosa sia successo, forse ci siamo un po' distratti a tifare per Obama (ma io neanche tanto, a rileggermi), o ad assistere alla lunga fine di Berlusconi. Credo sia un buco per molte coscienze provvidenziale, perché impedisce di collegare il movimento post-Genova al vaffanculismo dei grillini. Si capisce che in mezzo ci dev'essere stato un crollo culturale, una fuga dei cervelli, perché nel 2001 si parlava di Tobin Tax e nel 2008 di biowashball. Però temo che se avevamo una possibilità ce la siamo giocata in quel momento. 

Adesso è tardi. Da qui in poi la polarizzazione sarà tra chi accetta l'Emergenza e chi non ci vorrà credere: e come è successo col Covid, molte persone di sinistra si troveranno nel secondo insieme; io nel primo. Ovviamente discuteremo a lungo su chi ha tradito chi: aggiungete anche me alla lista, se vi fa stare bene. Per me continua a essere una questione di stile di vita: sono più di vent'anni che sento dire che sarà necessario modificarlo per sopravvivere; pensavo e penso che Bush figlio rappresentasse il nemico perché diceva chiaro e tondo che la guerra infinita si combatteva per difendere lo stile di vita occidentale. Tra tante istanze discusse e disputate questa almeno a sinistra la davo per scontata, ma poi è arrivato il Covid e ho scoperto che no, rinunciare al proprio stile di vita era per molti intollerabile tanto quanto per Salvini. E lo posso capire: il primo lockdown fu terribile, per molti più che per me; non m'interessa il discorso moralista, non c'è tempo neanche per quello. Ma molti che chiedevano un mondo diverso, dal 2020 in poi li ho visti domandare a gran voce che gli restituissero il mondo che c'era prima; se è così che un'emergenza riduce le persone, non ho che da fare le proporzioni. Nei prossimi anni arriveranno botte peggiori: può anche darsi che reagiremo meglio, magari il 2020 ci ha insegnato qualcosa. Oppure no: può darsi che ci abbia soprattutto irrigidito e incattivito. Anche questo è abbastanza naturale (se vivi abbastanza a lungo, tutto diventa abbastanza naturale. Anche le catastrofi).

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