Un aviatore irlandese intravede la morte

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E so che il mio destino ho da incontrare
lassù, fra i nembi del cielo profondo:
quelli che attacco, io non li so odiare,
né posso amare quelli che difendo.

Kiltartan Cross, la mia sola bandiera;
la plebe di Kiltartan, la mia gente:
se vinco non la renderò più fiera;
perdendo, non la spoglierò di niente.

Non lotto per la legge o per dovere,
non seguo un duce, né folle plaudenti;
un solitario impulso di piacere 
mi guida in cielo a quei combattimenti.

Tutto ho rivisto, tutto ho soppesato:
mi parve spreco d'aria la mia sorte,
un grande spreco d'aria il mio passato,
davanti a questa vita, a questa morte.

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Il Partito-Bomba di Enrico Letta

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Il PD non è il primo partito nato intorno a un paradosso, e neanche il più interessante: abbiamo avuto partiti rivoluzionari e istituzionali, partiti socialisti e nazionalisti, di lotta e di governo, moderati ma eversivi. Col PD ci è toccato più banalmente un partito a vocazione maggioritaria che governa l'Italia, e continuerà a farlo, soltanto fin quando il maggioritario in Italia non ci sarà. Nel momento in cui si verificherà finalmente la Rivelazione tanto invocata a partire (ahimè) da Romano Prodi, il PD verrà sconfitto per sempre. Alcuni suoi leader in particolare sembrano aver dato per scontato che la loro missione fosse condurre il PD a quel sacrificio finale: Renzi, lo stesso Zingaretti, sono parsi a volte succubi di un vero e proprio cupio dissolvi – è come se nella stanza dei bottoni ci fosse una bomba che ticchetta da anni. Chiunque entra dentro, qualsiasi concezione della politica si porti da casa, a un certo punto sembra soltanto desiderare che arrivi il bang finale, che cessi lo straziante ticchettio. Adesso tocca a Enrico Letta, uno che non si può neanche dire che passasse di lì per caso – no, no, aveva addirittura cambiato Paese, e sono andati a riprenderselo. Perché proprio lui? 

Sono quelle domande che non ha senso porre a un conclave. Magari all'inizio un'idea c'era – ma mancava l'uomo – poi hanno iniziato a far la conta degli uomini e nel frattempo l'idea è sfumata. Nota che in teoria questo dovrebbe essere il grande partito del centrosinistra a vocazione maggioritaria, nota che in teoria dovrebbe essere un apparato leggero, in sostanza il comitato elettorale di un grande leader carismatico, e che proprio per questo motivo lo statuto prevedeva l'acclamazione del segretario mediante primarie. Le facciamo le primarie per acclamare il carisma di Enrico Letta? No, probabilmente siamo ancora esausti dall'entusiasmo con cui abbiamo acclamato il carisma del fratello di Zingaretti, e inoltre un codicillo dello stesso statuto stabilisce che se il Grande Leader Carismatico a un certo punto non se la sente più, la palla passa a un organo nazionale anch'esso in teoria eletto durante le primarie ma ehm, alzi la mano chi si era reso conto che lo stava eleggendo, insomma il paradosso regna: il PD è un partito maggioritario che però appena cade il paravento del leader svela una più sobria e ragionevole carrozzeria proporzionale – Letta lo hanno eletto le correnti, che in teoria non ci sono e in pratica sono l'unica cosa che tiene ancora assieme il PD, come gli odi intestini e le alleanze tra nemici dei nemici sono l'unica cosa che riunisce certe famiglie per le feste comandate. Questo non sarebbe nemmeno un grande problema, senonché è previsto che Letta abbia delle idee, una visione: e questo nonostante nessun elettore del PD abbia previsto negli ultimi cinque anni (ma anche prima...) di affidarsi alle idee e alla visione di Enrico Letta.


Curiosamente queste idee e questa visione Enrico Letta ce le ha, non deve pescarle dal solito repertorio di luoghi comuni. E quindi potrei parlare di queste, e spiegare le affinità e le divergenze fra il compagno Letta e me. Non posso non dimenticare che fu lui il primo e l'unico ad avere il coraggio di promuovere i diritti di cittadinanza dei nuovi italiani non solo a parole, ma nominando una ministra italoafricana, Cécile Kyenge. Da quel momento Letta diventa per l'opinione pubblica italiana l'uomo dello ius soli, un destino dal quale non si è sottratto neanche col suo discorso d'insediamento (questo malgrado negli ultimi anni la stessa Kyenge avesse cambiato formula, parlando di "ius soli temperato" o di "ius culturae"). Si trattava di una riforma necessaria, che il successore di Letta non ebbe il coraggio e il senno di portare a termine. Oggi la vita di molti nostri concittadini sarebbe migliore, e gli stessi sproloqui di un Salvini o di una Meloni sarebbero più guardinghi, perché alla fine i voti dei neoitaliani farebbero gola anche a loro. Oggi la situazione è molto cambiata riparlare di ius soli sa ormai di provocazione: ciò non toglie che il principio sia giusto e dovrebbe bastare a fare di me un convinto enricolettiano. 

Ma poi c'è quella sciocchezza del voto a sedici anni. 

Sulla quale io in realtà non ho nemmeno un'opinione così forte – non mi sembra il caso, tutto qui, non ne vedo la necessità; se evitassimo di rendere i licei un campo di battaglia elettorale ci faremmo tutti quanti un favore perché non so se vi ricordate, ma quando Salvini parlava di mettere le videocamere a scuola, non intendeva garantire che nessuna merendina fosse più estorta, ma voleva vigilare sui discorsi degli insegnanti ai ragazzi. Ma il punto non è tanto questo: il punto è che... perché dobbiamo parlarne? Una cosa che non interessava a nessuno all'improvviso deve tornare a essere dibattuta perché è un pallino di un tizio eletto durante un faticoso conclave di correnti? Praticamente abbiamo preso il peggio dal sistema maggioritario (il leader che impone le sue idee) e il peggio del proporzionale (la farraginosità dei meccanismi con cui persone rimaste ai margini tornano all'improvviso alla ribalta, e ci va grassa che Forlani non fosse più disponibile). 

Poi c'è il due per mille.

Voi ve lo siete dimenticati, ma io no. Enrico Letta è stato il capo del governo che ha in sostanza abolito il finanziamento ai partiti, trasformandolo in un un obolo che il contribuente può decidere se offrire o non offrire – indovinate cosa sceglie di fare la maggioranza della popolazione. La stessa maggioranza della popolazione che poi si lamenterà dell'inconsistenza del ceto politico e dell'opacità con cui si sostiene. Se un Matteo Renzi non ci vede neanche più niente di male a finanziarsi adulando sovrani sanguinari, è anche merito di Enrico Letta che condivideva questa idea così affascinante nei primi anni Dieci, del politico abile fundraiser che si muove saltellando tra fondazioni e board e consulenze e aiuti degli amici, sempre in teoria trasparentissimi ("è tutto on line!") Nel frattempo il partito vero continua a perdere dipendenti e strutture e non ha neanche i soldi per stampare i manifesti ma non importa, tanto ormai le campagne si fanno coi tweet, perlomeno quelle disastrose. Enrico Letta è l'ennesimo leader convinto che in questa situazione il Pd possa giocarsi le elezioni contro partiti fondati e/o sostenuti da potenti gruppi finanziari: e ovviamente le elezioni devono essere maggioritarie, magari col mattarellum che a Enrico Letta piaceva molto. Invece alla Corte costituzionale risultava incostituzionale, ma cosa volete che ne sappiano. Nel frattempo il parlamento è cambiato, ha perso tantissimi seggi, il che renderebbe la distorsione maggioritaria ancora più sensibile (e disastrosa per il Pd), ma Letta è l'ennesimo leader che da quell'orecchio non ci sente, vien da pensare che li selezionino con un esame audiometrico. Oppure sta già sentendo la bomba ticchettare, sta già pensando quale cavo tagliare per farla finita prima. 

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Il giornalista italiano è lo scemo sull'aereo che grida: Moriremo tutti

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Due giorni fa ho ricevuto una telefonata della mia medica di base, che con molta serenità e molto tatto mi avvisava di essere uno dei centomila e più vaccinati a cui era stata inoculata una dose di Astrazeneca del lotto sotto indagine in seguito ad alcuni decessi. Mi chiedeva se avessi avuto qualche sintomo: io in effetti avevo patito un mal di testa il mattino dopo, ma bisogna anche dire che era la settimana di Sanremo. 

Preso da qui. La "paura in Europa" che nei principali quotidiani europei non esiste.


Mi spiegava che a dispetto dell'allarmismo suscitato dai media, non c'era molto di cui aver paura, e mi ha fatto piacere, perché un po' di paura ne avevo. Non per una trombosi che a quel punto sicuramente non avevo avuto (mi ero vaccinato una settimana prima), ma che il vaccino fosse difettoso e che quindi dovessi rifarlo; 

e dell'umore di mia madre che già da qualche giorno era in pensiero per me a causa dell'allarmismo sprigionato dalla tv; 

e per le migliaia di italiani (tra cui molti miei colleghi) vittima della stessa preoccupazione, che nel frattempo stavano decidendo di non vaccinarsi. 

Ancora più in generale, ero preoccupato di vivere in una nazione in cui giornali e telegiornali non conoscono più altro modello che non sia quello dei peggiori tabloid, e che in un'emergenza del genere insistono a recitare il ruolo del tizio sull'aereo che urla: moriremo tutti. 

(Particolarmente avvilente il destino del quotidiano che era Repubblica). 

Prima o poi finirà questa epidemia, perché le epidemie prima o poi finiscono – se la gente fosse incoraggiata a vaccinarsi finirebbe prima, e in altri Paesi moderni sarà così. Prima o poi finirà anche da noi: ma i giornalisti, quelli li avremo sempre. In teoria ne avremmo persino bisogno. Forse è ozioso continuare a domandarsi di chi è la colpa: un po' di tutti, forse di Berlusconi più che di altri, ma non sarà il caso di cominciare a porsi il problema: cosa ce ne facciamo di una mediasfera così? Una cosa che ci dà più emozioni che informazioni, e anche le emozioni sono tutte cattive? Esiste una cura, un vaccino da somministrare a persone convinte di essere giornalisti e non pubblicitari alla giornata – oggi paga Johnson & Johnson, domani si vedrà? Con chi le sostituiamo? Eccetera. È un problema enorme, ma se non lo risolveremo staremo più male e moriremo di più.

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L'annosa questione del dentisto

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Io poi lo so che il patriarcato è esistito e tuttora resiste, e negarlo, oltre che ipocrita, sarebbe anche di pessimo gusto; e tuttavia a volte mi sembra un bersaglio troppo facile – ma non è neanche questo il problema, non c'è niente di male a indicare bersagli facili – ma se in alcuni casi fosse il bersaglio sbagliato?

La Repubblica. Che poi spaccare i social mi sembra sempre una cosa ottima.

So anche che molti maschi su questi argomenti non ragionano. Cominciano a veder rosso, a indignarsi a caso, a fabbricarsi competenze linguistiche raccattate sonnecchiando al liceo. I peggiori fanno le battute, e sono sempre le stesse battute da quando ero piccolo. Ero piccolo nel secolo scorso e già "dentisto" non faceva ridere, cogliono, "dentista" è già maschile. Lo so. 

Quante cose che so. 

Lavoro da tanti anni e ho avuto tanti capi. Alcuni uomini, altri erano donne. Con gli uomini è semplicissimo, si chiamano dirigenti. Se volevo sottoporre qualcosa alla loro cortese attenzione, era sempre la cortese attenzione del dirigente. Facile, naturale, svelto. 

Con le donne c'è sempre il piccolo problema. Che per carità, è un'inezia davvero. Ma proprio perché è un'inezia, non si risolve mai, come quel piccolo bottone scucito. 

Il dirigente o la dirigente? E fin qui, basta chiedere. (E infatti glielo chiedi, ma siccome è un'inezia dopo un po' ti scordi come ti ha risposto. Ma non osi richiedere, e vivi nell'angoscia. Cioè non è vero, magari fossero questi i motivi per angosciarsi al suo cospetto. Ma c'è sempre questo disagio, questo bottone che non è al suo posto e lo sai, e preghi che non ci facciano caso).

(Dirigenta non fa ridere, cogliono).

Ma senti questa: fino a qualche anno fa, d'estate al/alla dirigente subentrava il presidente della commissione d'esame, che spesso era una donna, e quindi: egregio presidente, egregia presidente, o egregia presidentessa? Lo so che è una sciocchezza, ma insomma, quale usare per non dare una cattiva impressione?

A questo punto lo so cosa mi state per rispondere: basta chiedere. Ma certo, ma infatti, che male c'è. Ho forse paura in quanto maschio di chiedere a una superiore donna (superiora?) come vuole essere chiamata? No, in coscienza no, passo la vita a chiedere cose alle donne che stanno sopra, sotto, intorno, non è un problema chiedere. Ma ecco, il problema è che chiedere alla volta diventa pretendere. Abbiamo questo problema del genere dei sostantivi professionali e vogliamo che siano le donne a decidere. Tante volte mi sono sentito pensare: le donne dovrebbero finalmente mettersi d'accordo. Facciano la loro assemblea generale, la costituente, decidano una volta per tutte se il rettore o la rettore o la rettrice o la rettora. Insomma si mettano d'accordo e decida il matriarcato, almeno su questo specifico argomento.

Ma perché dovrebbero mettersi d'accordo? Perché dovrebbero avere sull'argomento opinioni meno contrastanti di quelle dei maschi? Abbiamo mai preteso dai maschi una simile compattezza? Abbiamo mai chiesto a un pilota se preferiva chiamarsi piloto, come se il fatto di essere bravo a guidare un'automobile gli conferisse una qualche autorità linguistica(*)? No, i maschi si sono trovati la lingua già tagliata a loro misura. Invece appena una donna si fa strada nella sua categoria, pretendiamo che s'improvvisi linguista. Ecco, se c'è ancora qualcosa di davvero patriarcale, in tutta questa faccenda, forse è la nostra pretesa di avere una risposta precisa, da un'entità collettiva femminile che dovrebbe cucinarci e servirci una soluzione bella e pronta, qualsiasi soluzione andrebbe bene. E quindi insomma donne, rispondete: il direttore, la direttore o la direttrice? (direttora non fa ridere), (e comunque il femminile di cantore è davvero cantora). 

Le donne però non sempre ne hanno voglia – è un problema? Ti rispondono: faccia lei. 

È una risposta tremenda. 

"Commissario o commissaria?" "Faccia lei".

Ma cosa devo fare, scusi. Perché mi tocca decidere una cosa così. Su che fondamenta linguistiche o storiche o sociali devo decidere lì per lì se sei un commissario o una commissaria, una figura che poi io spero sempre d'incontrare poche volte all'anno, mentre lei è commissaria/o molto più spesso, non può deciderlo lei? Anzi, non potete decidervi una volta per tutte?

No. 

No perché?

Perché non è così che funziona la lingua. Specie in Italia. Non c'è nessun parlamento che legifera, nessuna corte suprema che sentenzia. La lingua è libera, la gente s'immagina da qualche parte un consesso di grammatici occhialuti che borbotta su che misure adottare per respingere petaloso, e invece è tutto il contrario, i grammatici sono naturalisti estrosi in giro per i prati ad acchiappare neologismi effimeri e pittoreschi col retino di farfalle. Ti verrebbe voglia di agguantarne uno per il collo, senta adesso lei mi dice se il mio boss è un dirigente o una dirigente, e se mi denunzia mi devo trovare un avvocato o un'avvocato con l'apostrofo o un'avvocata o un'avvocatessa. Ma niente, quelli alzano le spalle, non spetta a noi, sarà l'uso a prevalere come sempre, e cioè?

Cioè continueremo a litigare su questa cosa per generazioni e generazioni, e a usare questo argomento come pretesto polemico persino quando a Sanremo non c'è un Morgan a dare di matto. E qualcuno continuerà a scrivere "dentisto" 🤣🤣🤣🤣 voglio morire. 

E quindi, ricapitolando: il femminile di direttore non può deciderlo una donna tra tante (con che autorità?), e sarebbe ingiusto pretendere che lo decidesse una comunità femminile (forse che abbiamo aspettato che si riunisse una comunità maschile per i nomi maschili)? Si può chiedere ogni volta a ogni singola professionista come vuole essere chiamata, ma è faticoso per noi e anche per lei, anzi è proprio quella piccola fatica che ti fa sospettare che il mondo del lavoro non sia a misura delle donne, come le forbici non sono a misura dei mancini. C'è una soluzione? Continuare a discuterne finché un'opinione prevarrà sulle altre. Sì, ma quale opinione dobbiamo avere noi? Quale opinione devo difendere io?

Non lo so. 

Mai detto di sapere tutto, eh.


(*) "Un'automobile" a quanto pare si scrive in italiano con l'apostrofo perché Agnelli non sapeva bene come scriverlo e lo chiese a D'Annunzio, il quale lì per lì decise che siccome il pilota è un uomo, l'automobile aveva da esser femmina; ecco, di tutte le persone al mondo alle quali potevamo concedere di legiferare in materia linguistica, proprio Agnelli e D'Annunzio, certe volte io dico "macchina" dalla rabbia.

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Errare è umano, Bettini è diabolico

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È buffo. Se c'è qualcosa che pensavo di aver capito dell'esperienza di governo di Giuseppe Conte, è che un leader non è poi così necessario. È importante, senz'altro, ma a volte basta trovare una persona mediamente capace, dargli fiducia, circondarlo di collaboratori abbastanza validi, e alla fine un leader salta fuori – anche perché i media hanno sempre bisogno di mettere qualcuno sotto i riflettori. Insomma se ce l'ha fatta Giuseppe Conte – se ce l'abbiamo fatta con Giuseppe Conte – non dev'essere così difficile. Magari con un po' di attenzione nella fase di pre-selezione la prossima volta potremmo incrociarne uno ancora migliore. Questo è quello che pensavo di aver capito io. 


Ed è buffo, perché Pd e M5S sembrano aver capito l'esatto contrario, ovvero che Giuseppe Conte è un grande leader, l'uomo del destino che riporterà il Movimento al successo elettorale (secondo Beppe Grillo) e darà una voce e un corpo alla federazione di queste due grandi forze politiche (secondo Goffredo Bettini). Cioè. 

Cioè dopo aver scelto un leader a caso, e averne trovato uno alla fine non totalmente incapace, io sarei portato a pensare che alla fine pescare i leader non sia così difficile: Bettini e Grillo il contrario, in sostanza avremmo vinto alla lotteria dei leader. Del resto il tizio continua a occupare un posto importante nelle classifiche di popolarità, e poi sui social prende un sacco di like eccetera. Segno che l'uomo è quello giusto, non come quello dell'ultima volta o della penultima volta. Ma è anche segno che siete disperati. Oppure che non avete capito la solita banalissima cosa: che la Repubblica Italiana è una democrazia proporzionale. 

Questo dev'essere particolarmente duro da mandar giù soprattutto per Bettini e chi lo ascolta. Se vogliamo è la tragedia del PD, il partito che doveva costruire un'alternativa a Berlusconi e si è trasformato in una specie di caricatura del berlusconismo in negativo. Se Berlusconi per vent'anni ha illuso gli italiani che fosse possibile una svolta uninominale, presidenziale, i più illusi di tutti sono stati proprio i vertici del PD. Da cui la catastrofica strategia (di cui Bettini è in qualche misura responsabile) di farsi il vuoto intorno e soprattutto a sinistra, con l'obiettivo di diventare l'unico punto di riferimento per quella benedetta metà+1 degli italiani. Strategia che si era dimostrata perdente già con Veltroni, nel 2008; ma niente da fare. 

Berlusconi tramontava ma nel frattempo il suo virus presidenziale sopravviveva in quella classe dirigente del PD che ha continuato a fare e disfare leggi elettorali nel tentativo di quadrare il cerchio, ovvero di trovare un sistema per trasformare in presidenziale una repubblica che è parlamentare per costituzione e proporzionale per cultura. Quando Bersani tentò una strada diversa, un'alleanza con la sinistra di Vendola e con un Di Pietro che avrebbe potuto arginare i 5Stelle, i maggioritari appoggiarono Matteo Renzi che invece non voleva allearsi con nessuno (tranne con Berlusconi per il maggioritario), con Matteo Renzi che concepiva ogni elezione come un referendum su sé stesso: non tanto un politico con una mentalità presidenziale, quanto il risultato di quella mentalità. Fu chiarissimo molto presto che un referendum simile Matteo Renzi non poteva che perderlo; che per quanto giovane e simpatico non poteva illudersi di piacere a metà degli italiani: fu chiarissimo molto presto ma gran parte del Pd lo seguì ugualmente nel baratro, perché alla fine il maggioritario è una fede. Tutto questo avrebbe dovuto insegnare qualcosa a qualcuno, ma evidentemente non a Goffredo Bettini che invece è ancora in giro a cercare il leader che salverà la sinistra. 

Nel frattempo a Palazzo Chigi c'è un governo che è il trionfo del manuale Cencelli (metto il link per i più giovani), un trionfo della contrattazione proporzionale, dove tutti i partiti in parlamento sono rappresentati secondo il peso effettivo e anche l'unico all'opposizione alla fine ci sta più per dovere d'ufficio (e sarà ricompensato da tante commissioni di vigilanza). Ed è il settimo consecutivo, giuro, il settimo governo consecutivo a non rappresentare una maggioranza uscita dalle urne – cosa che del resto la Costituzione della Repubblica Italiana non prevede – ma la geometria delle forze in parlamento: com'è del resto naturale in una repubblica parlamentare. Contate con me: governo Monti, governo Letta, governo Renzi, governo Gentiloni, governo Conte 1, Conte2, Draghi. Visto che sono sette? Ma nel Pd c'è chi non si rassegna. Verrà il momento in cui le urne incoroneranno il leader. Verrà il momento in cui conosceremo il nostro premier nella notte delle elezioni, e le veglie di Mentana finalmente avranno un senso. In questa cosa non ci crede più nemmeno Silvio Berlusconi ma non ha importanza, la fiaccola presidenziale ormai è passata al PD (prima ce l'aveva un tale Almirante). 

Se poi almeno questa fede nell'Uninominale e nell'Uomo della provvidenza servisse a maturare degli autentici leader di partito, ma no: di solito dev'essere un tizio scelto a sorpresa dal geniale kingmaker, perché se a D'Alema andò bene con Prodi non può essere una coincidenza, no? E quindi occhio ai sondaggi di popolarità, è lì che si nasconde il nostro prossimo De Gasperi. Eppure abbiamo già visto quanto ci mise Veltroni a stancare tutti; abbiamo già visto quanto è durato Renzi, e quanto la popolarità di Salvini sia mutevole come il vento. Giuseppe Conte invece no: per qualche misterioso motivo Giuseppe Conte dovrebbe continuare a essere amato e apprezzato come statista anche adesso che non lo è più e le videocamere cominceranno a snobbarlo. È buffo, perché io da tutta questa storia avevo capito l'esatto contrario di quello che sembrano averne capito al M5S o al PD. E siccome loro sono quelli che fanno politica, evidentemente non ho capito nulla. Quindi che ci fate ancora qui?

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A little better all the time

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Con la mia consueta intempestività segnalo che tra poco (alle 18:00 andrà in onda su Radio Sverso una puntata di Celsius 232 Circa in cui con Marco Manicardi e Sergio Pilu si discuterà di Getting Better e ne parlerò anch'io, in termini sinceramente positivi (parleranno anche di un romanzo di un tale Steinbeck, ma cercate di non distrarvi). Nell'occasione leggerò un brano, scoprendo peraltro l'ennesimo refuso.

Ne approfitto per segnalare un po' di interventi autopromozionali, che è un po' che non lo faccio. Sul sito di Rai Cultura per esempio c'è una riflessione brevissima sulla morte di John Lennon

Qui invece Donato Zoppo mi intervistava per Rock City Nights su Radio Città Benevento, ma forse il podcast non c'è...

...Invece qui c'è tutta la bella chiacchierata all'Off di Modena in occasione del Lennon Day.

Qui invece la più severa recensione di Maurizio Codogno, che tra l'altro di refusi me ne ha trovati tanti altri che in questo pezzo non ci stanno, ne servirà un altro. A presto (it can't get much worse).

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Di un pezzo sbagliato che ho scritto un anno fa

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È buffo come invecchino i pezzi che uno scrive. Alcuni funzionano ancora dopo vent'anni, altri dopo pochi mesi sembra che li abbia scritti un altro. Presto o tardi tutti scadono, ma quello che ho pubblicato appena un anno fa ci ha messo davvero pochi giorni. È commovente pensare quanto io sia cambiato, in un periodo di tempo che alla mia età si percepisce come brevissimo: oggi non scriverei mai un pezzo del genere, e se lo leggessi in giro magari mi incazzerei con chi lo scrive. Non mi sembra giusto cancellarlo, ma preferirei corredarlo di una specie di spiegazione, come quelle che le piattaforme di streaming allestiscono per i film del passato che rischiano di scandalizzare gli spettatori che non sono abituati (né obbligati) a contestualizzare. 


Dunque, caro pubblico immaginario: è vero, un anno fa consideravo il lockdown una misura inadeguata, che avrebbe causato più danno (economico) che utile (epidemiologico): più che una misura di prevenzione, lo ritenevo il risultato di una particolare circostanza politica, una specie di rivincita di un'autonominatasi élite meritocratica contro il populismo che aveva propulso il M5S al potere. Siffatto fenomeno lo definivo "burionismo" e rileggendomi sembra che mi preoccupasse più del virus. Almeno questa è la sensazione che davo. Una cosa che non traspare affatto dal pezzo è che avevo in realtà fatto già in tempo a spaventarmi: due giorni prima (lunedì 24) mi era già capitato di contattare il mio medico di base e di confessare alcuni sintomi vaghissimamente influenzali – quello che mi preoccupava davvero era che avevo appena scoperto che il genitore di un mio alunno era stato ricoverato. Pochi giorni prima era entrato lui stesso nella mia scuola, per ritirare la pagella; l'indomani, per motivi di lavoro, era transitato nella zona tra Pavia e Lodi in cui era stato localizzato il primo focolaio lombardo. Se la consegna della pagella fosse stata programmata nella settimana successiva, anche la mia scuola sarebbe probabilmente diventata un focolaio. A Carpi fu il paziente zero, ma non il primo a morire, qualche settimana dopo; la tempestività con cui comunicò alle autorità sanitarie i suoi sintomi evitò probabilmente un disastro peggiore. 

Insomma il covid, che in quei giorni era vissuto ancora in gran parte d'Italia come uno spettro lontano (e tale sarebbe rimasto, in molte province fino all'autunno), per me era già una realtà quotidiana: da quel lunedì avevo smesso di andare a scuola, ma non avrei mai immaginato che la scuola non avrebbe più riaperto fino a settembre; che gran parte dei miei ragazzi di terza li avevo già visti dal vivo per l'ultima volta. Il lockdown che immaginavo mentre scrivevo quel pezzo era una banale sospensione didattica di una o due settimane, e dall'alto delle mie improvvisate competenze epidemiologiche lo consideravo un banale palliativo, una specie di scotto da pagare a Burioni e compagnia. Non avrei neanche avuto tutti i torti, se davvero tutto dopo dieci giorni fosse stato riaperto (e di questo ero sicuro). L'eventualità di un lockdown esteso a tutte le regioni d'Italia, e protratto fino all'estate, era per me plausibile tanto quanto quella di una guerra civile: sul serio, per credere che negozianti e ristoratori avrebbero accettato misure così draconiane senza alzare barricate ho dovuto verificarlo coi miei occhi: e tuttora mi chiedo come sia stato possibile. Se potessi prendere una macchina del tempo e avvisare il mio io di un anno fa, sarei il primo a non credermi. Dopo un decennio buono passato a preoccuparsi dei NoVax e di qualsiasi banda di disperati che riuscisse a conquistare una piazza (i forconi!) chi se lo sarebbe aspettato tutto questo? Io non me lo aspettavo. Eravamo veramente all'inizio: si cercava ancora il paziente zero, si parlava di cinesi e pipistrelli. 

Già ai primi di marzo tutto era cambiato. Ripensando a quel che mi è successo dopo, mi sembra di avere scalato una montagna. In febbraio la vedevo da lontano, e pensavo di aver capito che forma avesse. Appena mi sono avvicinato, non ho più visto nient'altro se non il pezzo di sentiero che avevo davanti: non ho avevo abbastanza energia per preoccuparmi d'altro. C'era da inventare una didattica a distanza, riallacciare i contatti coi colleghi e gli studenti, organizzare gli esami, eccetera. Nel frattempo Burioni spariva all'orizzonte, eclissato da altri specialisti più disponibili a confrontarsi sui media. Oggi, quando lo incrocio su un social, mi sembra sempre un po' più ottimista di me. I numeri (soprattutto quelli della vicina Lombardia) ci suggeriscono che siamo ai prodromi della terza ondata, di tutte la più stupida perché sarebbe bastata un po' di prudenza per contenerla; ma bisognava per forza festeggiare il Natale in compagnia e riaprire le scuole superiori, dato che sono "sicure". 

Oggi mi sembra di vedere tutto chiaramente, ma ecco, la montagna non la vedo più: è tutto intorno a me, in gran parte sotto di me, e non posso escludere che il mio io di un anno fa tutto sommato una certa dimensione del problema, da lontano, l'avesse azzeccata: quanta economia possiamo permetterci di sacrificare per la nostra salute? Non che io pretenda di conoscere la risposta, ma appunto: chi avrebbe oggi la super-competenza necessaria per risolvere un dilemma del genere? Non si poteva pretendere che fosse Conte, un tizio che era stato messo al suo posto proprio da un partito di programmatici incompetenti. 

Oggi è un problema che non mi pongo più – non perché non mi riguardi, ma perché ci sono troppo dentro, appunto: riguarda la salute mia e dei miei cari, alcuni dei quali non ho più abbracciato da allora, alcuni dei quali non abbraccerò più. Sono troppo interessato alla questione per poter formulare un parere equanime, e soprattutto non riesco a non supporre un interesse simile in chi formula un parere diverso dal mio. Su un piano razionale posso capire che abbia senso tenere aperte le scuole – la gente non può restare a casa coi figli – e allo stesso tempo non posso non constatare quanti disastri stia facendo quel falso senso di sicurezza che abbiamo inoculato nelle famiglie, aprendo tutte le mattine degli edifici scolastici dove l'unica barriera tra i bambini e il virus è la mascherina che si portano da casa (quelle della Fiat sono troppo scomode). Un anno fa diffidavo dei Burioni, temevo che capissero più dei virus che delle persone; oggi ho paura dei Bonaccini e dei Salvini che per una manciata di voti in più sono ben disposti a riaprire impianti sciistici o ristoranti quanto prima. Il virus prima o poi lo prenderò, oppure riuscirò a vaccinarmi (la segretaria del mio medico ha detto di citofonare giovedì). Prima o poi insomma il covid passerà, ma i Salvini e i Bonaccini resteranno lì, con la stessa indifferenza per la mia salute. Non so a che punto sono della montagna: la vetta da qui non la vedo, in compenso il paesaggio a valle mi risulta più chiaro. Confesso una certa pietà per quel ragazzo che un anno fa si trovava alle pendici. Tra un anno chissà cosa penserò, e in generale cosa sarà di noi. 

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Simpatia per Giuseppe

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Nessuno sa, e io meno di tutti, cosa riserva il destino a Giuseppe Conte. Il suo ufficio stampa si affanna a divulgare un dato pittoresco – il suo messaggio d'addio ha avuto una quantità di condivisioni straordinaria e questo magari ci convincerebbe di qualcosa, se non avessimo già visto negli ultimi anni personaggi assai più popolari di lui cadere nella polvere: Beppe Grillo, Matteo Renzi, Matteo Salvini hanno tutti illuso per almeno sei mesi di essere i nuovi catalizzatori delle attese e degli odi degli italiani, in breve i successori di Berlusconi; tutti e tre presto o tardi sono tornati coi piedi sulla terra e ora si arrabattano come possono, come tutti. Conte rispetto a loro partiva svantaggiato; era meno divisivo, il che fino a quel momento era sembrato un handicap. Per due anni ci è sembrato poco più che un prestanome. Poi è arrivato il lockdown ed è successo qualcosa di cui dobbiamo ancora prendere le misure. 


Dire che ha dimostrato il suo valore nel momento più difficile sembra retorico: non ha perso la testa nel momento in cui nessun altro avrebbe voluto averla al suo posto, questo sì. Può darsi che semplicemente molti italiani si siano identificati in lui, nel bene, nel male e soprattutto in quel che sta in mezzo. È vero, non era l'uomo giusto al posto giusto, ebbene: nessuno di noi lo è stato. Conte non poteva prometterci rivoluzioni o rottamazioni, non aveva un passato da cui liberarci, né facili nemici da additarci; tutto quello che poteva fare era restare calmo e cercar di far funzionare qualcosa, e in questo ha probabilmente intercettato l'ansia e la simpatia di milioni di smarriti padri e madri di famiglia, milioni di professionisti mal qualificati con qualche scheletro nel curriculum. Tutti noi che un mattino mentre ci vestivamo per andare al lavoro abbiamo sentito come una specie di boato nell'aria, un lampo improvviso e ci siamo chiesti: cos'era? E presto lo abbiamo imparato: avevamo appena varcato la soglia di Dunning-Kruger, avevamo rotto il muro della nostra competenza. Da allora ci troviamo in ruoli di responsabilità che richiederebbero persone più capaci, più sveglie, più adatte, e non è che non le stiamo cercando, ma nel frattempo la campana suona per noi, che improvvisiamo e malediciamo quella volta in cui ci hanno proposto una specie di promozione e abbiamo sussurrato una specie di sì. Era facile immaginarlo mentre sopprimeva quelle urla interiori come un qualsiasi padre di famiglia costretto a sorridere ai figli e a trovare parole rassicuranti mentre la barchetta cola a picco. Era impossibile crederci davvero, in Giuseppe Conte, e allo stesso tempo era impossibile non tifare un po' per lui, festeggiare ogni suo (relativo) successo, auspicare un lieto fine in cui il tizio imbarcato dalla ciurma per fare da zavorra si rivela il comandante ideale. E poi?

E poi è successo che – forse anche grazie a lui, ma soprattutto a causa della peggiore pandemia da un secolo a questa parte – questa zattera malgalleggiante che da anni navigava alla deriva, snobbata da tutti i cosiddetti poteri forti, è tornata a essere un asset strategico, qualcosa in cui l'Europa ha deciso di investire i suoi soldi, e per qualche mese Conte probabilmente si è illuso che questi investimenti avrebbe potuto gestirli lui. E invece no: nell'esatto momento in cui siamo tornati a essere interessanti, il destino politico di Giuseppe Conte era probabilmente segnato. E ora? Può anche darsi che la sua popolarità sopravviva al suo governo, ma non bastano senz'altro i like e gli share. Probabilmente non basta neanche il Fatto Quotidiano. (Se Cairo si interessasse al prodotto, chissà). Ormai di questi fenomeni conosciamo i tempi di dimezzamento e forse qualcuno può già calcolare quanto ci metterà l'ex presidente del Consiglio dei Ministri a diventare un ospite di talk show, magari col suo partitino di rappresentanza. Se poi il nuovo governo penta-partisan dovesse fare peggio del suo... ma è improbabile. Qualcuno gli vorrà comunque sempre bene: una generazione di studenti lo ricorderà sempre come l'uomo che ha chiuso le scuole per sei-otto mesi, sono cose che lasciano il segno. 

Un'altra ipotesi, meno probabile ma più epica, è che Giuseppe Conte se ne torni alla sua università, come Cincinnato ai suoi campi, in attesa di una chiamata che forse non verrà mai. Dopodiché chissà cosa ci riserva il futuro – magari tra vent'anni da qualche parte in un mondo completamente diverso, qualcuno se lo troverà dall'altra parte di una scrivania e gli chiederà: che hai fatto nella vita che possa esserci utile? E lui: ho governato una popolosa nazione nel bel mezzo di una crisi pandemica. Che cosa? Vi giuro, è andata proprio così, nessuno voleva provarci e allora ho fatto io, finché – nonno, insomma, alla tua età stai ancora a truccarti il curriculum?

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Eccone un altro che ci vuole a scuola in luglio

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Può darsi che Mario Draghi riesca davvero, come ha anticipato, ad allungare l'anno scolastico a tutto giugno. Un provvedimento del genere, come tutti quelli che si prendono in un'emergenza, ha i suoi pro e i suoi contro. Se pensiamo al virus, ormai abbiamo capito che il contagio avviene per lo più per via aerea in luoghi frequentati (meglio se chiusi); d'estate ci dà tregua perché la gente vive all'aperto. Affollare le classi un altro mese significa prolungare la terza ondata ancora un po' – e se l'anticiclone non ci grazia, non sarà nemmeno il problema principale d'ordine igienico-sanitario: le scuole italiane non sono progettate per essere frequentate in un giugno caldo. Quanto agli insegnanti, non è che di solito in giugno non lavorino: non fanno lezioni, ma per esempio fanno esami, corsi di recupero, preparano le classi dell'anno successivo, eccetera. Tutte cose che andrebbero spostate in luglio. Tecnicamente insomma non è che non si possa fare; e allora perché ho il sospetto che non si farà?


Probabilmente è il ricordo del Mario precedente. Ve lo ricordate Mario Monti? Lo salutammo tutti come un necessario ritorno alla serietà, dopo le mattane del tardo Berlusconi. Con lui finalmente arrivarono a palazzo Chigi ministri competenti, selezionatissimi, ad esempio il ministro della pubblica istruzione veniva dal CNR e... appena insediato si mise a spararne di grossissime. Cominciò suggerendo che l'orario delle lezioni frontali di tutti gli insegnanti si poteva aumentare di un terzo, da 18 ore settimanali a 24, ma senza contrattazione, per carità: gli insegnanti semplicemente avrebbero dovuto entrare in qualche classe in più e lavorare un po' di più. Questa cosa avrebbe portato all'assunzione di più giovani, in un qualche modo non chiaro che forse prevedeva la consunzione fisica degli insegnanti sul luogo di lavoro; altrimenti davvero non si capiva in che modo spostare un terzo del lavoro sugli insegnanti già in organico avrebbe portato a un aumento dell'organico. La logica, il buon senso, ci dicevano il contrario, ma questo era un tecnico, qualche settimana dopo buttò anche lì che sarebbe stato bello abolire l'ora di religione, insomma venir meno al concordato tra Stato e Chiesa: mica male per un ministro tecnico appena arrivato. 

Il risultato pratico di tutte queste boutades fu zero. Come avrete notato il concordato è ancora in piedi e il contratto nazionale prevede ancora 18 ore di lezione che, non stanchiamoci mai di ricordarlo, significano diverse ore in più di gestione del lavoro (riunioni coi colleghi, correzione compiti, dialogo coi genitori: tutte cose che sarebbero aumentate in proporzione con un passaggio da 18 ore a 24). Come mai non se ne fece niente? Furono forse i temibili sindacati? No, perché due su tre nemmeno aderirono a uno sciopero. Comunque in effetti un piccolo risultato pratico ci fu. Mario I smise di essere un tecnico e diventò un politico, ovvero una persona che va in tv a raccontare bugie per farsi eleggere. Piagnucolò da Fazio che era un vero peccato che gli insegnanti non volessero lavorare due ore in più alla settimana. Disse proprio due ore in più, me lo segnai, bisogna essere precisi quando si afferma che la tal persona mente. 

Magari invece Mario II è sincero. Però capite che uno parte prevenuto. Il vento è un po' cambiato, la retorica sovranista non si porta più bene, anche i populisti segnano il passo, e di conseguenza torna a farsi sentire la retorica liberale. Quella italiana è particolarmente insopportabile, dal momento che in Italia un vero movimento liberale non c'è veramente stato: se escludi i padroni, i cani da guardia, le pulci dei cani e chi brama di sostituirle, non ti rimane fuori un solo cantore della libera impresa. I cosiddetti liberali italiani vivono i lockdown scolastico come una vera sofferenza, per loro in fondo la formazione consiste in un'enorme gara mondiale con l'Ocse Pisa che tiene il punteggio, e questa cosa che gli studenti italiani siano rimasti fermi al box un mese più di altri è insopportabile, rischiamo probabilmente di essere doppiati dalla monoposto di Singapore. Non resta che fare straordinari, sì, ovviamente senza pagarli agli insegnanti che poi si sa sono mangiapane a tradimento. Mario II non è senz'altro un imbecille, ma deve parlare a questa gente qui, alla loro pancia: alla fine basta che passi anche solo un'immagine, l'idea di uno statale a posto fisso che si scioglie nel sudore mentre intrattiene il pubblico sulla perifrastica passiva, ecco, questo per i liberaloidi italiani è meglio del porno. Che poi all'atto pratico tutto questo sia o meno fattibile, è un dettaglio, anche perché con calma si può sempre tornare in tv e raccontare che sono stati gli insegnanti a impuntarsi, coi loro perfidi sindacati eccetera. Insomma, ci siamo già passati. Dove Mario I ha fallito, Mario II potrebbe farcela.  

Soltanto, per favore, non dite che tutto questo è la fine del populismo o del sovranismo. È l'esatto contrario, populismo e sovranismo hanno vinto. Chi sostiene che le difficoltà del lockdown si possano risolvere tenendo due o tre settimane in più gli studenti e gli insegnanti in un luogo caldo e affollato vi sta facendo un discorso populista: sa che ce l'avete con i prof e il loro posto fisso e propone di punirveli; sa che siete in pensiero per la sorte della gioventù italiana che l'anno scorso è andata a scuola un mese in meno di quella tedesca, e propone di rimediare con una spedizione punitiva. È una mentalità sovranista. Certo, suona tutto un po' più raffinato di quanto era prima. Ma è un po' l'effetto che fanno le macchine nuove. Poi si vedrà. Probabilmente Mario II è davvero un po' più bravo del precedente. Ma noi purtroppo siamo gli stessi scemi di ieri: prova ne è che abbocchiamo agli stessi ami. 

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Meglio un giorno da pecorella

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Lo so che ci sono tante cose più importanti e interessanti, ma ieri sera, provato dagli scrutini, sono restato su una poltrona e ho visto un po' del Cantante mascherato; quanto basta per scoprire Alessandra Mussolini sotto la maschera della pecorella. Ecco, per me questa piccola cosa è abbastanza interessante.


Mi ha fatto venire in mente un tweet o qualcos'altro di un americano o di un inglese, non mi ricordo più, che qualche mese fa scoprì tutto scandalizzato che la sopradetta Alessandra Mussolini, nipote di tanto nonno, invece di vivere per sempre marchiata dall'indelebile infamia, partecipava alla versione italiana di Dancing with the Stars (Ballando con le stelle). Anche in quel periodo c'erano tante cose più importanti o interessanti per cui anche se avevo voglia di rispondergli non l'ho fatto. 

Però ripensandoci avrei dovuto, qualcuno avrebbe dovuto rispondergli, ehi Mister, Sir, qual è il problema? Con tutti quelli che abbiamo, una Mussolini che balla è interessante? È vero, a differenza di voi imperialisti abbiamo avuto un dittatore certificato. Non c'è dubbio, è successo, e molti di noi hanno ancora un grosso problema ad accettarlo; resta fermo però il principio che le colpe del padre non ricadono sul figlio (tantomeno sul nipote). Quindi la signora Mussolini non solo ha fatto la ballerina, e l'attrice, ma è stata pure eletta in parlamento: ne aveva il diritto, si è candidata, e qualcuno aveva il diritto di votarla. Però alla fine non ha funzionato, e adesso fa l'ospite televisiva. Il che dovrebbe essere avvilente, ma per chi? Lei si diverte, la gente è moderatamente contenta di riconoscere una faccia nota, il cognome così terribile si associa un po' meno agli orrori del Novecento e un po' più alle copertine dei rotocalchi, e questo in qualche modo dovremmo sentirlo ingiusto. Per me è il contrario, e forse è una delle particolarità italiane che esporterei. La tv come camera di compensazione per i rampolli di famiglie celebri per il motivo sbagliato. 

Remembering China’s last emperor, Puyi, 50 years after his death 

Ho sempre trovato incredibile il modo in cui i comunisti cinesi trattarono l'ultimo imperatore, quel Pu Yi che pure si era macchiato di un tradimento e aveva permesso orrori che fanno impallidire quelli del nostro Mussolini e del nostro Savoia. Come sa anche solo chi ha visto il film di Bertolucci, quando i comunisti riuscirono a farsi consegnare Pu Yi dai sovietici, lo trasformarono in un... giardiniere. Non fu un trattamento indolore: dovette passare per un campo di rieducazione. Ma l'idea era potente: prendere l'ultimo erede di una dinastia, e di una storia millenaria, e trasformarlo in un cittadino qualunque. Una cosa del genere noi non potremmo farla – è ingiusto anche solo sognarla – però qualche buona idea a volte ci viene, ad esempio prendere il nipote di un re esiliato, o la nipote di un dittatore ancora rimpianto da molti italiani e trasformarli in celebrità sospese tra mainstream e trash. Per loro è sempre meglio che lavorare; per chi rimpiange i fasti dei nonni è un'offesa alla memoria, per noi che guardiamo è un modo per confiscare loro un'eredità che non hanno richiesto e che non meritano, nel bene e nel male.  

Quindi, o popoli: avete figli di dittatori da gestire, o eredi a un trono che non c'è più, e vi sembra ingiusto fucilarli? Mandateli in tv a ballare e cantare, in Italia facciamo così e secondo me funziona. Non fate il contrario, come gli americani, non mandate i personaggi televisivi in politica: quello sì che è pericoloso. (Allo stesso Trump, forse sarebbe bastato offrire di nuovo una stagione di The Apprentice e magari avrebbe acconsentito a lasciare la Casa Bianca con meno strascichi). 

(E ora che ci penso, quando ci lamentiamo di Renzi che continua a far politica, dobbiamo ammettere che lui a un certo punto ci aveva anche provato, a passare alla televisione; e non era una idea così sbagliata: dopo che aver vissuto per anni in quel trip egotico che è la politica ad alto livello, circondato e riverito da lacchè, quale altra cosa puoi fare, che ti produca una soddisfazione lontanamente paragonabile? La tv generalista funziona, ha salvato Giulio Ferrara, Claudio Martelli, chissà quanti altri. Avrebbe potuto salvare anche lui, e lui ci ha provato, non dite di no. Ha fatto quel documentario... l'avete guardato? Sì, lo so. È tv generalista, bisogna essere molto stanchi o disperati. Tra un po' bisognerà pagare qualcuno per guardarla).

(Ho chiesto in classe: avete visto il Cantante Mascherato? Nessuno. E li capisco, però comincio ad aver paura). 

(Ma insomma quando qualcuno si mette a dire che Renzi è un sagace politico, ricordate un attimo che si è dovuto rimettere a far politica perché neanche in tv funzionava. Cioè la politica come camera di compensazione della camera di compensazione).

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