Finisce la legislatura, svelto! vota una legge elettorale a caso

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Come forse sapete, si sta votando alla Camera l’ennesima legge elettorale – la terza in questa sola legislatura. Per evitare che venga impallinata come la penultima, il governo Gentiloni ha deciso di porre la fiducia, come fece il governo Renzi con l’Italicum tre anni fa. Come forse immaginate, la legge elettorale che verrà approvata è brutta – come del resto era brutto l’Italicum, anche se lì la filosofia era diversa. Quest’ultimo era concepito per regalare il Parlamento al leader che fosse riuscito a conquistare il 40% dei voti. Dopo le europee Renzi era convintissimo di riuscirci; pochi mesi dopo, i suoi uomini stavano già bisbigliando che forse la legge andava cambiata. La nuova legge, invece, scaturisce da un’amara constatazione: al 40% non ci arriverà né Renzi né nessun altro. A questo punto è abbastanza normale, se i partiti sono tre, che almeno due si accordino in Parlamento per rendere più complicata la vita al terzo. Specie se il terzo in questione è il M5S, che potrebbe perfino vincere la conta dei voti, ma che tra tutti è il meno disponibile alle alleanze post-elettorali.


Avremo dunque due partiti (il PD e Berlusconi +Salvini) che lotteranno come leoni fino alla mattina delle elezioni, per accordarsi come agnelli la sera dello spoglio dei voti. Questo meccanismo, che nel lessico degli osservatori politici viene chiamato “inciucio”, è universalmente esecrato, ma al momento appare abbastanza inevitabile. Nel caso i numeri lo permettessero, potrebbero esserci delle scissioni. Ad esempio, un pezzo di centrodestra potrebbe staccarsi (ricordate Alfano, tre anni fa?) e andare al governo col centrosinistra, oppure il contrario: è un fenomeno che sul finire dell’Ottocento fu battezzato “trasformismo” e che ha resistito a cinque o sei sistemi elettorali diversi. Al centro del Parlamento, nel loro dorato isolamento, i grillini continueranno a recitare il ruolo dei duri-ma-puri.


Salvo meteoriti o altre catastrofi, dovrebbe finire così... (ho scritto un altro pezzo per TheVision, si chiama: Sorpresa, la nuova legge elettorale farà schifo come le altre).
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Pietà per Dylan

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Oh Mercy (1989)
(Il disco precedente: The Traveling Wilburys Vol. 1
Il disco successivo: Under the Red Sky).

Broken lines, broken strings. Broken threads, broken springs.
Broken idols, broken heads. People sleeping in broken beds.

Ain’t no use jiving, ain’t no use joking:
Everything is broken.

Scusate, sono un po' in ritardo coi dischi di Dylan, però non avete idea di cosa mi è successo questa settimana. Tanto per cominciare c'è puzza - dovrei telefonare l'amministratrice ma a proposito mi si è rotto il telefono - il modem di casa mi sta morendo, niente linea fissa. È da tre mesi che lo voglio cambiare ma Telecom Italia (sì dico proprio a te amica TIM) non riesce a farmi un contratto. Chiamarli al telefono è inutile, dovrei uscire ma si è rotto il ventilatore dell'auto, o va al massimo o non va, e mi è anche venuta un po' di bronchite. L'elettrauto doveva cambiarmi la resistenza, ma non riescono a collegarsi con la casa madre, non gli funziona la rete. Forse volevano passare a TIM anche loro. Anche a scuola c'è puzza, per un cantiere dicono, che però è bloccato perché hanno rotto qualcosa. Non riesco a configurare in rete la fotocopiatrice del plesso. In seconda un nativo digitale si è appeso al cavo di alimentazione di una LIM (le LIM si rompono continuamente). I genitori che fanno le collette per le LIM, anche loro si rompono spesso. Mentre penso a tutto questo mi chiama una signora dall'Albania e mi chiede se per caso non vorrei passare a TIM. Mi lasci perdere signorina, le dico, tra me e TIM ormai c'è una storia troppo complicata, ne stia fuori, le conviene: ma lei insiste, occupando l'unica linea telefonica che mi funziona (così i colleghi che hanno rotto qualcosa non mi possono chiamare). Per comprare un modem nuovo potrei usare il Bonus Docente, ma anche lì si dev'essere rotto qualcosa, non mi riconosce la password. Neanche il codice di emergenza. Rotto anche quello. Il Bonus Docente poi devo stare attento a usarlo, mi serve anche per la Nuova Piattaforma Formativa del Ministero, che è appena nata e si è già, ovviamente, rotta. La signorina insiste che lei risolverà qualsiasi problema tra me e TIM, dall'Albania, lei non è come tutte le altre che ci hanno provato da giugno in poi. Entra un ragazzo e chiede se lo stereo funziona, ne ha bisogno la collega d'inglese. Lo stereo sì, ma il cavo di alimentazione l'altro giorno ha fatto saltare una valvola in mezzo corridoio. Sotto il corridoio c'è una stanza, io lo so che c'è, piena di cose che si sono rotte o sono state dichiarate tali. Bisognerebbe caricarle su un furgone e portarle in discarica, ma suppongo sia rotto anche il furgone. Oppure prendersi un paio di ragazzi e cercare di capire cosa è rotto davvero e cosa potremmo ancora recuperare - sarebbe molto bello ma anche i ragazzi rischiano di rompersi, bisogna far firmare un'autorizzazione ai genitori, con cosa la stampo? La stampante è rotta. Dovrei configurare la fotocopiatrice. Oh, pietà.

Broken cutters, broken saws. Broken buckles, broken laws
Broken bodies, broken bones. Broken voices on broken phones.
Take a deep breath, feel like you’re chokin':
Everything is broken


Si è rotto anche il cuore di Tom Petty, troppo presto a mio parere. Forse non sembrerebbe così assurdo se Dylan non fosse ancora in circolazione - pubblica dischi, ritira premi - la vera notizia non è un rocker sessantenne che muore, ma Dylan che continua a sopravvivere. Lista di rockstar vive nate prima del 1942: Bob Dylan, Charlie Watts, Ringo Starr, David Crosby, altri in mente non mi vengono. Dylan ha iniziato a seppellire colleghi quando aveva vent'anni, e non ha mai smesso. Ha debiti infiniti con gente che non verrà più a riscuoterli, e Chronicles a volte dà l'impressione di essere proprio questo: il libro dei debiti morti e coi vivi. Tom Petty era uno dei due artisti più giovani a comparire in bilancio: a metà anni Ottanta i suoi Heartbreakers lo avevano raccolto con il cucchiaino e rimesso in sesto. "Tom stava dando il meglio di sé e io stavo dando il peggio". Con gli Heartbreakers ritrovò la voglia di suonare dal vivo, ed è curioso che non esista un disco live che documenti l'evoluzione dei loro concerti tra il 1986 e il 1987 - un'ottantina di date. Per dire, coi Grateful Dead ne suonò soltanto sei, e di quel tour abbiamo il disco (purtroppo). Magari è solo un problema di diritti. In realtà anche Petty, quando incrociò Dylan, era un po' appannato e bisognoso di visibilità. E le cose cominciarono a girare per entrambi soltanto quando presero un po' il largo: anche grazie a Dylan, Petty incontrò Jeff Lynne, mentre Dylan un giorno si ritrovò nello studio di Daniel Lanois.

What good am I then to others and me
If I had every chance and yet still fail to see
If my hands are tied must I not wonder within
Who tied them and why and where must I have been



Quando ero giovane mi si rompeva tutto perché mi piacevano le cose usate (è un modo elegante di dire che ero taccagno). Il mio primo giradischi, mi ricordo, era amplificato con due vecchie casse per automobili - io vivevo sopra un'auto-officina e avevamo un cortile pieno di quelle cose un po' rotte un po' no. Queste casse a volte vibrando finivano per cascare sul giradischi segnando orribilmente i vinili. A un certo punto mi ruppi e comprai un impianto stereo, col lettore CD. Era già il 1989 e io non avevo davvero l'intenzione di mettermi a comprare CD (costavano il doppio delle cassette, maledette major, gli mp3 ve li siete cercati) ma intendevo copiare tutti quelli dei miei amici. In questo modo comunque cominciarono a entrare nella mia camera molti CD, e cominciai ad ascoltare la musica in un modo diverso. Prima alzavo il volume e amen, sperando che verso l'alto il canale sinistro e quello destro avrebbero trovato un loro equilibrio, e che i bassi non facessero cascare qualche libro da una mensola. Ma verso la fine degli anni Ottanta, magari fu una coincidenza, cominciai ad ascoltarli a un volume molto basso, mentre studiavo o leggevo o pensavo o facevo finta di. Il cd all'inizio aveva qualcosa di magico: potevi abbassare il volume finché non si sentiva nulla: col vinile la puntina continuava a gracchiare qualcosa, col nastro c'era qualche altro rumore (le testine?), il cd invece scompariva del tutto - solo se accostavi l'orecchio udivi qualcosa di simile a un piccolo sputacchio. A quel punto gli eroi del rock, quelli che mi avevano urlato nelle orecchie per gli ultimi cinque anni, potevano improvvisamente esprimersi sottovoce, come amici venuti a trovarmi. Sarà stata una coincidenza, ma proprio in quell'anno due vecchi fracassoni uscirono con dischi confidenziali: Lou Reed pubblicò New York, Bob Dylan Oh Mercy. Non avevano mai cantato così piano. Ma forse prima non avevo la rotellina del volume. Sul serio, fino al 1989 non osavo toccare troppo certe rotelline, mi si rompeva tutto, oh, per carità.

Most of the time I’m clear focused all around;
Most of the time I can keep both feet on the ground.
I can follow the path, I can read the signs
Stay right with it when the road unwinds
I can handle whatever I stumble upon
I don’t even notice she’s gone
Most of the time

Un altro posto dove tutto sembrerebbe rotto è la biblioteca di Babele, quella di Borges. Dentro ci sono tutti i libri che si possono scrivere - il che significa che per un volume con un briciolo di senso ce ne sono miliardi composti di stringhe di lettere senza significato. Gli abitanti della biblioteca si aggirano per il loro universo ripetendosi, come noi, che è tutto rotto, ogni libro è rotto, e non c'è rimedio. In uno degli scaffali c'è un libro che contiene un racconto molto singolare. Comincia esattamente come il quarto capitolo di Chronicles I: c'è Dylan preoccupato perché si è rotto una mano, non sa se ne recupererà la sensibilità, e questa disgrazia domestica gli è successa proprio nel momento in cui ha solo voglia di suonare. Non vuole più scrivere canzoni - dice che ne ha scritte già abbastanza e nel 1988 sembrava un argomento sensato. Gli si è rotta l'ispirazione. Non vuole nemmeno più incidere, ormai le sale d'incisione sono diventate luoghi dove si trova a disagio e non riesce a combinare niente di buono. Gli si è rotta la concentrazione. Vuole soltanto cantare e suonare dal vivo, ma gli servono le mani e si è rotto anche quelle. Oh merda.

Far away where the soft winds blow, far away from it all
There is a place you go where teardrops fall.



È il momento in cui in una leggenda appare un santo o una madonna; in questo caso entra Bono con una cassa di Guinness. Dylan lo frequenta da qualche tempo: ci ha cantato assieme in Sun City, hanno duettato in Rattle and Hum, c'è stima reciproca - forse perché Bono è l'unico artista al mondo che sostiene di amare Shot of Love. A questo punto della storia Bono è la Voce del Rock, e non solo. Ha combattuto l'apartheid, ha pianto con le madri di Plaza de Mayo e coi minatori inglesi in sciopero. Ma che importanza ha visitare i carcerati e sfamare gli affamati, se Bob Dylan nel frattempo continua a fare dischi di merda? Così, dopo aver ben chiuso le 99 pecorelle nel recinto, Bono parte per Malibu con una missione: salvare Bob Dylan, condurlo da Daniel Lanois. Il produttore che lo salverà. Oh, grazia.

Seen a shooting star tonight and I thought of you
You were trying to break into another world
A world I never knew
I always kind of wondered if you ever made it through
Seen a shooting star tonight and I thought of you


Daniel Lanois è canadese (sua sorella suonava nei Martha and the Muffins), ma da un po' di tempo lavora nelle paludi della Louisiana: il che significa che Dylan, imbeccato da Bono, tornerà a Sud per l'ennesima volta. Dieci anni dopo aver lavorato con Jerry Wexler; venti esatti dopo Nashville Skyline: è come se ogni dieci anni Dylan sentisse il richiamo delle paludi. Ma quello che cerca davvero a sud non sono le atmosfere decadenti o la retorica del sottosviluppo: a Sud di solito Dylan ci va per trovare dei musicisti professionali (ricordiamo anche Leon Russel ai tempi di Watching the River Flow) e dei produttori al passo coi tempi. In effetti il racconto che sto leggendo non è così credibile; nell'88 Lanois non era un nome sconosciuto che Bono ti passa dopo una bevuta: tra gli ultimi dischi a cui aveva lavorato c'era So di Peter Gabriel e The Joshua Tree. Tutt'un'altra idea di anni Ottanta, rispetto per esempio ad Arthur Baker: il ritorno degli strumenti acustici, dei suoni caldi - ma riprodotti con una tecnologia all'avanguardia e quindi insolitamente vicini all'orecchio dell'ascoltatore: cos'ha in comune il Peter Gabriel di Don't Give Up e il Bono di With or Without You? Sembra che siano usciti dallo stereo e stiano cantando direttamente in camera tua. Non sono uno spettacolo lontano e artefatto, sono tuoi compagni di stanza e sono disperati, vogliono strapparti il cuore. È come se in mezzo a tutte le strumentazioni escogitate dagli ingegneri del suono negli anni Ottanta, tutti gli artifici e i bip e i clang, Gabriel e Lanois avessero finalmente trovato il tasto EMOZIONE, e avessero deciso di spingere solo quello (Lanois aveva anche un debole per il tasto TREMOLIO). Oh, pietà.

Ring them bells, ye heathen from the city that dreams
Ring them bells from the sanctuaries
’Cross the valleys and streams
For they’re deep and they’re wide
And the world’s on its side
And time is running backwards
And so is the bride

Lanois aveva reso la voce di Bono l'assoluta protagonista di Joshua Tree. Era abbastanza inevitabile che lui e Dylan si incontrassero, presto o tardi. Forse successe troppo presto, ma per Dylan aveva tutta l'aria dell'ultimo tentativo. Arrivò in Lousiana con qualche testo scritto, nemmeno una musica. Per quel che ne sappiamo, Dylan aveva scritto testi senza musica solo ai tempi di John Wesley Harding. Ora però, forse a causa della mano convalescente, si ritrovava nella situazione di chi ha parole e non ha note. Il risultato è una maggiore attenzione al ritmo e al suono delle sillabe; certi testi di Oh Mercy sembrano nati come filastrocche, scioglilingua. Non è la prima volta che Dylan si affida agli aspetti più formali del linguaggio: gli era già capitato ad esempio con All I Want to Do (e già allora l'espediente serviva a smarcarsi: tutti volevano che lui scrivesse inni generazionali, lui si metteva a scrivere filastrocche). Il suo gioco preferito, l'anafora, ritorna prepotente in Everything is Broken, ma a ben vedere è la trama di tutto il disco. I titoli di Oh Mercy sono le arie su cui Dylan costruisce variazioni nelle sue strofe, giocando con le rime e sapendo che alla fine deve tornare a scandire "Man in the long black coat", "Disease of conceit", "What good am I?" o "Most of the Time". Certe parole le ripete così tanto che finiscono per perdere il significato. È il caso di "disease of conceit", che Dylan ha deciso di ripetere al termine di ogni verso della canzone omonima.

There’s a whole lot of people suffering tonight
from the disease of conceit.
Whole lot of people struggling tonight
from the disease of conceit...

All'inizio sei propenso a considerarla un "disagio dell'orgoglio", di cui siamo sicuramente tutti afflitti, una delle malattie della contemporaneità bla bla. Ma lui ci insiste così tanto, e così meccanicamente, che ti viene il sospetto che stia raccontando una storia su una specie di pandemia misteriosa.

There’s a whole lot of hearts breaking tonight
From the disease of conceit
Whole lot of hearts shaking tonight
From the disease of conceit
Steps into your room, eats your soul
over your senses, you have no control.
Ain’t nothing too discreet - about the disease of conceit. 

Pare che si tratti di una cosa per cui non c'è cura - i dottori hanno fatto un sacco di ricerche, ma per ora niente da fare. Dice proprio così. Ci sta prendendo in giro? È difficile capire, la musica è molto austera, senza sbavature. Lou Reed era entusiasta, e si capisce: ha lo stesso minimalismo cocciuto di certe canzoni di Songs for Drella. Anche la "politica" di Political World sembra non essere proprio "politica" in senso stretto - a meno di non considerare Dylan nel 1989 quel tipo di vecchietto che si mette a borbottare sulla panchina "la politica è una cosa sporca", e in effetti un po' già ci assomiglia. In ogni caso si tratta di testi che hanno perso tutta la magniloquenza con cui Dylan era entrato negli anni '80: sono secchi, umili, apparentemente intimi, eppure Dylan non riesce a specchiarcisi. "Io non c'ero",  dice di Political World. Non l'ha scritta per esprimersi. Neanche perché gli premesse dire qualcosa. L'ha scritta - di getto - perché, finalmente, una sera ne è stato capace: oh, grazia. Sono incastri di parole, puzzle nemmeno troppo difficili. Sono tutto quello che portava in valigia a Daniel Lanois un convalescente sulla soglia della cinquantina, esaurito e disilluso. Daniel Lanois invece voleva lavorare col grande Bob Dylan. Non l'aveva capito che si era rotto tutto, e da un bel pezzo? Non aveva un po' di pietà?



Di tanto in tanto, mentre registravamo Series of Dream, mi diceva: "Abbiamo bisogno di canzoni come Masters of WarGirl from the North Country With God on Our Side". Cominciò a tormentarmi, un giorno sì e uno no, che avevamo bisogno di cose di quel tipo. Io annuivo. Lo sapevo anch'io, ma mi veniva voglia di ringhiare. Non avevo niente di paragonabile a quelle canzoni.

Nel lungo percorso che stiamo percorrendo, Oh Mercy è senz'altro una pietra miliare. Pochi dischi segnano la strada di Dylan in modo così netto, dividendola in un prima e in un dopo. Prima di Oh Mercy c'era una traiettoria discendente il cui esito sembrava chiaro e vicino. Era un'impressione condivisa da ascoltatori, critici e dallo stesso Bob Dylan. Dopo Oh Mercy, e una lunga fase di incubazione che prende quasi tutto il decennio successivo, c'è quel miracolo che riscatta tutta la storia - ovvero a un certo punto Dylan, invece di lasciarsi spegnere, come stava succedendo negli anni Ottanta e come in fondo era naturale che succedesse, si è bloccato. Ha smesso di consumarsi. Come se avesse trovato una nuova fonte di energia. E l'ha trovata davvero. Si è rimesso a suonare dal vivo, e non ha mai suonato così tanto. Si è rimesso a fare dischi e ha scoperto, a sessant'anni, che è persino capace di produrli - lui che in studio ormai nemmeno riusciva a entrare. Si è rimesso a scrivere canzoni e ne ha scritte di ottime. Ha scelto la vita, per la seconda volta. La prima volta, nel 1966 aveva rifiutato di sfracellarsi su una moto (com'era naturale che succedesse). Tra Ottanta e Novanta dev'essere successo qualche altro strano non-incidente, ma è difficile capire esattamente dove, quando, cosa. Lui stesso non ne è sicuro, anche se il quarto capitolo di Chronicles sembra scritto da una persona che vorrebbe capire, vorrebbe ricordarsi. È vero, ci sono stati episodi che sembrano miracoli - quella passeggiata notturna a San Rafael, quel concerto in Svizzera, ma quel che è accaduto in seguito non sembra per nulla miracoloso. Dylan va in Lousiana, decide che Lanois gli va a genio e comincia a lavorare con lui, con poche idee e un'insolita arrendevolezza. A questo punto la versione ufficiale è che Lanois riesca a riparare il grande Bob Dylan e a cavargli di gola un capolavoro - per molti dylaniti Oh Mercy lo è. Oh, finalmente! (continua sul Post)
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Nel giardino delle attrici castratrici

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L'inganno (The Beguiled, Sofia Coppola, 2017)


Al di là del bosco c'è la guerra. È lontana e in ogni dove, brontola tutti i giorni come un temporale che non riesce a sfogarsi. Un giorno ci troverà e sarà finita - in fondo siamo soltanto un collegio di signorine, o quel che resta di. Un giorno la guerra busserà ai nostri cancelli. O forse arretrerà sgomenta?

Niente All Star stavolta
A me dispiace che Sofia Coppola non abbia fatto la Sirenetta, alla fine. Se c'è un regista in circolazione che mi fa pensare ad Andersen, è lei. Quante principesse sul pisello ha già messo in scena, quanti sarti di abiti invisibili, regine di ghiaccio, brutti anatroccoli? Da come la racconta, pare che abbia rinunciato perché non riusciva a girare sott'acqua. Troppo complicato, troppo rischioso, eppure "la fotografia subacquea è così bella". La Universal le offriva un film ad alto budget, lei pensava più a un servizio fotografico. A me dispiace perché in fondo tutti i suoi film sono acquari, più o meno fragili: tutti i suoi personaggi nuotano verso il bordo, fissano perplessi una catastrofe che preme da fuori. Tutti sembrano ricordarli per la colonna sonora - che in effetti spesso è frastornante - eppure c'è sempre tanto silenzio, che riempie ogni spazio lasciato vuoto. È davvero come se la musica arrivasse da fuori, sempre attutita e poi riverberata dall'acqua. E poi c'è quel brusio, che in Marie Antoniette era la Storia che urlava alle finestre di Versailles, e qui è rumore di artiglieria che sembra non dover mai finire.

Dopo aver rinunciato e esprimersi in una grande produzione, la Coppola ha ripiegato sul remake di uno sfortunato film di Don Siegel in cui Clint Eastwood durante la Guerra di Secessione si nascondeva in un convitto di signorine - in Italia provarono a smerciarlo come un prodotto sexy, La notte brava del soldato Jonathan, ma era un film molto inquietante per l'epoca, in cui Eastwood metteva in discussione il suo machismo: un film che metteva in scena incesti e castrazioni, e che al botteghino andò male (pochi mesi dopo Siegel e Eastwood si inventarono l'ispettore Callaghan, riconquistando machismo e botteghino). Al posto di Clint c'è Colin Farrell; nel cast femminile la Coppola ha convocato Nicole Kidman, Kirsten Dunst, Elle Fanning e altre ragazze più giovani e assai promettenti. Tutte bianche, il che difficilmente le sarebbe stato perdonato nel 2017, ma lei lo ha fatto lo stesso (non se ne è resa conto o se ne infischia proprio? Continua su +eventi!)

Nel film di Siegel uno dei personaggi più importanti era una schiava, ma la Coppola una schiava afroamericana non sapeva come gestirla, così ne ha fatto a meno. Mentre critici e femministe la facevano a pezzi, riscoprendo stereotipi razziali in Lost In Translationlei difendeva la sua scelta spiegando che aveva eliminato la schiava proprio perché aderiva a uno stereotipo razziale; in effetti era la classica schiava subdola e impicciona e - al contrario delle collegiali bianche - non parlava un buon inglese. D'altro canto perché una schiava non avrebbe dovuto essere subdola e impicciona, e perché mai avrebbe dovuto parlare un buon inglese? Così per evitare di essere accusata di razzismo, la Coppola ha diretto il primo film ambientato nel Sud secessionista in cui non viene mai, assolutamente mai, inquadrato un personaggio afroamericano. Come t'insegnano al collegio: delle cose scabrose non si parla, non esistono. Le donne di Siegel avevano scheletri negli armadi, quelle della Coppola ci tengono gli abiti da sera (e sono tutti perfetti). Le donne di Siegel tramavano per conquistarsi l'unico uomo, manipolandosi a vicenda; quelle della Coppola al massimo si rubano gli orecchini. Il punto è sempre lo stesso: non è che la Coppola rifiuti l'approfondimento psicologico, è proprio che non le interessa. Le piace mettere in scena signore di tante età e farle splendere a turno. Hanno tutte qualcosa di magico che solo un grande fotografo sa catturare, anche se di solito lavora per Vogue più che a Hollywood. C'è un momento per la Kidman, un momento per la Dunst, e se in un attimo di debolezza finisci per preferire la Fanning, è scontato che un po' ti meriti le disgrazie che ne deriveranno. Ma se cerchi il dramma ti sei proprio sbagliato, e dopo tanti anni è imperdonabile: dovresti saperlo che lei gira così. E vince pure dei premi, quindi insomma hai solo sbagliato sala. Di fianco fanno Valerian, fanno It, Blade Runner, ce n'è per tutti i gusti. La Coppola può essere irritante, ma ha un suo stile, un suo prodotto e un suo pubblico. Eppure.


Eppure a me dispiace che non riesca a uscire dalla sua comfort zone festivaliera, perché una regista con una visione così personale, una cura per il dettaglio inconfondibile e un'arroganza da autrice, mi sembra un po' sprecata per i servizi di moda. Se un giorno qualcuno riuscisse a convincerla, per esempio, a fare un horror, secondo me ne salterebbe fuori un capolavoro. I suoi film sono una specie di bolla sempre sul punto di scoppiare, immersi in una sensazione di sciagura imminente che non ti accorgi nemmeno di sentire, che dai scontata come quel costante rumore di fondo. A differenza di Bling Ring Marie Antoniette, stavolta la Catastrofe non entra in scena. Forse non entrerà proprio nessuno. Forse la guerra è finita da secoli e quei rumori sono basi registrate. Forse quel bosco è in una bolla di vetro in fondo al mare. L'inganno è ancora per una settimana al Fiamma di Cuneo alle 21:15.
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Quanti marinai cingalesi servono per portare 8 ragazzi bianchi a salvare l'Europa?

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Dopo vent'anni di lutto, finalmente la regina ha acconsentito a risposarsi. Ma proprio durante il banchetto di fidanzamento scoppia una rissa incresciosa: un mendicante trucida tutti gli invitati affermando di essere il vecchio re, tornato da un lunghissimo viaggio. Dice che ha conquistato una grande città (ma non porta con sé nessun bottino); che nel viaggio di ritorno ha sconfitto mostri, litigato con dèi, visitato il mondo dei morti, insomma era assente giustificato. Questo è più o meno quel che resta dell’Odissea se togli lo storytelling e lasci lo squallore.


Ho ripensato a Ulisse, e a quanto gli piaceva raccontarsela, quando l’altro giorno su Libero ho ritrovato Lorenzo Fiato e i suoi amici di Defend Europe. Era da un po’ che non ne sentivo parlare. Il loro profilo twitter è inattivo da un mese, c’era di che preoccuparsi. Fiato è un vero Ulisse del mediterraneo contemporaneo. Non ci credete? Sentite cosa scrive su Libero un tizio che non è Omero, ma si sta attrezzando:

“Hanno fermato gli scafisti, l'immigrazione clandestina e le Ong, e sono appena 8 ragazzi. Per questo li hanno definiti "pirati" o "fascisti" ma oggi l'equipaggio di Defend Europe può dirsi vincitore. A bordo della loro C -Star hanno svelato i lati oscuri e, forse, gli affari delle Organizzazioni non governative attive nel salvataggio dei migranti…”

Otto ragazzi, pensate. Otto giovani a bordo di una nave hanno “svelato i lati oscuri” delle ONG, e hanno vinto! (su TheVision c'è un pezzo mio, sottilmente intitolato LA NAVE ANTI-ONG DEFEND EUROPE È AFFONDATA IN UN MARE DI SFIGA).
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La discriminazione religiosa che piace al Corriere

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Come Ernesto Galli Della Loggia ha sconfitto l'Isis

A questo punto lo Ius Soli è andato. Finito. Un cadavere nel deserto. Persino iene e avvoltoi si stanno allontanando dalla carcassa, non c’è più niente da beccare. Soltanto un editorialista continua a tornare a intervalli regolari, sembra non darsi pace: Ernesto Galli della Loggia.

Sullo Ius Soli negli ultimi mesi ha scritto tantissimo, e più o meno le stesse cose: la cittadinanza è un bel diritto, ma ai bambini nati in famiglie musulmane non la possiamo dare perché... i musulmani ce l'hanno con noi. Questa cosa, che su Libero o sul Giornale si può sintetizzare in titoli semplici ed efficaci (ad es. “Bastardi islamici”), sul Corriere bisogna ancora articolarla in tortuosi ragionamenti che dovrebbero dare a GdL e al suo lettore la sensazione di essere un po’ più moderati mentre pensano, in sostanza, che questi islamici sono proprio dei gran bastardi. Ci vuole del realismo, spiega GdL. Come possiamo fingere di non vedere che “l’immigrazione islamica non proviene da uno Stato ma da una civiltà, da una cultura mondiale rappresentata da oltre una ventina di Stati, e con la quale la cultura occidentale ha avuto un aspro contenzioso millenario che ha lasciato da ambo le parti tracce profondissime”?

Eh?

No, sul serio, di cosa starà parlando? “Aspro contenzioso millenario”... avrà in mente le crociate? Forse è ancora quella roba che andava di moda ai tempi di Samuel Huntington: insomma per GdL c’è una “civiltà occidentale” e c’è una “civiltà islamica” e si fanno la guerra dalle sponde del Mediterraneo da più di mille anni. Il fatto che per la maggior parte di questi mille anni abbiano commerciato e intrattenuto rapporti diplomatici sarà irrilevante (anche il colonialismo, non rileva). A secoli di distanza, ancora oggi alcuni di questi Stati alimentano “sotterraneamente radicalismo e terrorismo… svolgendo un’insidiosa opera di penetrazione di natura finanziaria nell’ambito economico, e di natura politico-religiosa (apertura di moschee e di «centri culturali»)”.

Link?

Perché, scusate, qui abbiamo un autorevole editorialista che ci sta informando di un fatto gravissimo: ci sono nazioni con cui abbiamo un contenzioso millenario che mirano a sovvertire il nostro paese alimentando il radicalismo e il terrorismo, aprendo moschee e “centri culturali”, con le virgolette. È una cosa molto preoccupante!

Ci farebbe un esempio?

GdL scrive su un giornale importante. Avrà ben letto da qualche parte che una nazione nemica dell’Italia sta infiltrandosi aprendo moschee e “centri culturali” - io, confesso, ho cercato un po’ ma non ho trovato niente a parte le solite cose, ovvero i finanziamenti dei sauditi e del Qatar. Peccato che dall’Arabia Saudita e dal Qatar non stiano arrivando in Italia molti immigrati; peccato (si fa per dire) che in Italia di tutti questi finanziamenti, effettivamente molto rilevanti in altri Paesi come UK e in Belgio, non arrivi tutto sommato che qualche briciola. Ma fingiamo per un attimo che i sauditi stiano finanziando centri culturali islamici in tutta la penisola, luoghi dove entri normale ed esci wahhabita. Come pensa di arginare GdL questo inquietante fenomeno?

Rendendo più difficile il conseguimento della cittadinanza italiana.

Geniale, no? Cos’ha consentito ai jihadisti francesi e belgi di commettere delle stragi nei loro Paesi? La carta d’identità. Niente carta d’identità, niente esplosivi, niente furgoni. Cospiri contro il Paese che ti ospita da quando sei nato? GdL ha un rimedio per te. Ti toglie la doppia cittadinanza.

Sul serio?

Sul serio. Sul Corriere GdL propone che gli immigrati da paesi islamici (non necessariamente islamici) possano ottenere la cittadinanza italiana solo se rinunciano a quella del Paese d’origine. A chi gli ha pur fatto presente la vaga componente discriminatoria della sua proposta (perché un italo-statunitense può avere due passaporti e un italo-senegalese no?), GdL ha ribadito che gli USA sono gli USA e il Senegal è il Senegal, il che è davvero inoppugnabile - e col Senegal evidentemente c’è quel contenzioso millenario, il Senegal notoriamente vuole infiltrarci costruendo moschee e centri culturali, se uno è realista queste cose le sa. GdL è un realista e quindi ha la soluzione: la detenzione? No. L'espulsione? No. Ma se vuoi diventare italiano ti stracciamo il passaporto senegalese. A quel punto, con un passaporto solo, l'infiltrazione diventerà più difficile. Uhm.

Inoltre GdL ritiene necessario che i genitori passino un test d’italiano. Questo a dire il vero c’era già nella legge impallinata al senato, ma a GdL non basta un genitore. Sono buoni tutti ad avere un genitore che parla italiano, eh no. GdL ne vuole due, e attenzione, ne vuole due soltanto per i musulmani ("La conoscenza dell’italiano anche nella madre costituirebbe un indizio assai significativo di superamento della condizione d’inferiorità della donna tipica di molte culture diverse dalla nostra”).  E gli orfani di padre o di madre? Probabilmente costituiscono una più grave minaccia alla nostra identità. GdL poi vuole che i servizi sociali controllino queste famiglie e facciano un rapporto alla prefettura. Tutte cose un po' costose ma apparentemente non troppo incivili, che dovrebbero sancire la differenza tra i lettori di GdL e quelli che si eccitano quando Salvini urla “ruspa”.

Non fosse per quel piccolo dettaglio, ovvero...

Quello che GdL sta proponendo (una legge che preveda iter diversi a seconda se il soggetto è musulmano o no) si chiama discriminazione su base religiosa: è esplicitamente proibita dalla Costituzione e dalla Dichiarazione dei diritti dell’uomo.

Questo sarebbe sufficiente, in tempo di pace, per suggerire al professor GdL una pausa di riflessione: ci dispiace, ma i legislatori non possono riconoscere ad alcuni bambini un diritto e ad altri no a seconda del Dio che pregano i loro genitori. Cioè, professore, lo capisce che non può funzionare? Se sei cristiano facciamo un esame solo a papà e se sei musulmano anche alla mamma? Non si può - s’informi, studi, vedrà che proprio legalmente non si può.

D’altro canto, siamo in guerra, no? Ci sono venti nazioni che cospirano contro di noi aprendo ovunque centri culturali wahhabiti, no? (nazioni con cui intratteniamo a volte ottimi rapporti diplomatici, e a cui vendiamo tante cose, tra cui molte armi, ma sorvoliamo). In tempi di guerra servono misure eccezionali, va bene. Cosa può giustificare una misura eccezionale come la discriminazione su base religiosa? Il risultato. Quella che propone GdL è una riforma iniqua e probabilmente incostituzionale, ma se ottiene il risultato di sconfiggere il jihadismo, beh, allora...

No, scusate. Com’è che GdL vorrebbe sconfiggere il jihadismo? Con quale misura straordinaria?

Le ruspe? no, quelle sono di Salvini. E magari un milione di ruspe potrebbero anche funzionare, chi lo sa. I maiali al pascolo intorno alle moschee? Mi pare fosse Calderoli. Invece GdL propone di… rendere più difficile il conseguimento della cittadinanza da parte dei bambini di famiglia musulmana nati in Italia. Fermi tutti.

Mi sa che abbiamo sconfitto l'Isis.

No, sul serio: forse in Iraq, contro gli sforzi congiunti di truppe di terra americane, contingenti curdi e siriani e aviazione russa l'Isis può ancora opporre qualche resistenza, ma… in Italia, che speranze può avere contro il genio strategico e sociologico di Galli della Loggia? Sul tempo medio-lungo l’Isis è fottuta perché in Italia per gli immigrati di seconda generazione ci metteranno un po’ più di tempo a ottenere il passaporto.

Ecco il fondamentale tampone con cui GdL pensa di arginare l’integralismo islamico: le beghe burocratiche. Ma certo! E bisognava veramente essere dei poveri politicallycorrect per non capirlo! Un jihadista senegalese vorrebbe un passaporto: tu lo costringi a stracciare il suo documento senegalese; quello italiano però ci mette un po’ ad arrivare e così lui diventa apolide: a quel punto puoi star tranquillo, il jihadismo in lui è sconfitto.

Quando i padri di famiglia musulmani che lavorano in Italia e pagano le tasse in Italia si accorgeranno che i loro figli ci mettono più tempo a ottenere gli stessi diritti degli altri immigrati, sicuramente accantoneranno qualsiasi velleità jihadista! E i loro figli, i famosi migranti di seconda generazione? Quelli che più spesso in Francia e in Belgio hanno sentito il richiamo della jihad? Sarebbe proprio politicallycorrect pensare di dar loro la cittadinanza dopo un ciclo di studi, come ai loro coetanei figli di migranti non musulmani. Ma quando si accorgeranno che hanno meno diritti dei coetanei, e ne hanno meno proprio perché sono musulmani, ecco: sarà senz’altro quello il momento in cui gli passerà del tutto la voglia di fare la jihad - i ragazzini ragionano così, no? Quando si accorgono che sono vittima di un’ingiustizia, si calmano, ci ragionano, capiscono che è per il loro bene e non si fanno esplodere più nelle metropolitane. È così che ha sempre funzionato, no? Chi ha bisogno di una seria politica di prevenzione del jihadismo, quando sul Corriere c’è Galli della Loggia che ci risolve i problemi?
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La tavernetta degli specchi

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The Traveling Wilburys, Vol. 1 (1988)
(Il disco precedente: Dylan and the Dead.
Il prossimo è Oh Mercy, oh, finalmente).

Ma Orbison andava al di là di tutti i generi, folk, country, rock and roll o qualunque altra cosa. Mescolava tutti gli stili, compresi quelli che non erano ancora stati inventati. In un verso cantava veramente da cattivo, in quello dopo se ne usciva con un falsetto alla Frankie Valli. Con Roy non si sapeva mai se stavi ascoltando del mariachi o un'opera lirica. Teneva sulle spine. La sua era un'offerta di grasso e di sangue. Sembrava che cantasse dalla cima del monte Olimpo ed era meglio starlo a sentire perché diceva sul serio. [...] Adesso cantava con un'estensione di tre o quattro ottave, roba da farti spingere la macchina giù per la scarpata e non pensarci più. Cantava come un professionista del crimine. 



La storia è nota, ma si racconta lo stesso volentieri. Nella primavera del 1988, George Harrison è improvvisamente tornato alla ribalta. Il suo nuovo disco, Cloud Nine, prodotto da Jeff Lynne (chi?), è andato al numero uno negli USA, soprattutto grazie alla cover di Got My Mind Set On You, un pezzo che cura la nostalgia per i Beatles mediante robuste iniezioni di cose persino precedenti ai Beatles. Nel primo videoclip, Harrison e Lynne suonano tra gli ingranaggi di un videojukebox a manovella: i loro anni Cinquanta ormai sono un'idea depurata di ogni nostalgia, un giocattolo per bambini che non sanno chi è Elvis ma a quel ritmo muoveranno i piedi comunque. Numero 1 negli USA. La Warner è entusiasta e vuole estrarre un altro 12 pollici, ma serve un riempitivo per il lato B. Harrison è in California e sa che anche Lynne è nei paraggi, così lo chiama: dobbiamo incidere un pezzo al volo, tu adesso cosa stai facendo? Lynne ormai è tutto preso dal rock'n'roll, sta producendo il nuovo disco di Roy Orbison, eccentrica leggenda vivente anche se non vende un disco da anni. Roy Orbison! Wow! invita anche lui. Potremmo registrare a Malibu da Bob Dylan, lui ha quello studio in garage che di sicuro non sta usando nessuno. Il problema è che non ho chitarre con me, l'ho lasciata a casa di Tom Petty l'altra sera, beh, ma invito pure lui. Due giorni dopo i Traveling Wilburys sono appena nati e hanno appena registrato il loro più grande successo, Handle With Care, che oggi è una curiosità ma lanciò il 33 giri oltre i tre dischi di platino. Dylan tre dischi di platino non li vedeva dal 1971.

You can sit around and wait for the phone to ring (End of the Line)
Waiting for someone to tell you everything (End of the Line)
Sit around and wonder what tomorrow will bring (End of the Line)
Maybe a diamond ring?

Questo però lo avremmo scoperto in seguito. All'inizio c'era soltanto un video, in cui George Harrison intonava una di quelle canzoni alla George Harrison: semplici, meditate, disarmanti. La stessa vena serena e irresistibile di Here Comes the Sun, While My Guitar, Sweet Lord. Va avanti per otto versi, e se tutta la canzone fosse soltanto la ripetizione di quegli otto versi, avrebbe già un suo senso. Ma subito dopo entra Roy Orbison, che nel 1988 senz'altro non conoscevo. Il video mi forniva degli indizi: un profugo dagli anni Cinquanta, un sosia di Elvis sopravvissuto al suo personaggio? Gli basta aprire la bocca per trasformare una melodia tardobeatlesiana in qualcosa di completamente diverso, ha una voce cromata come una Triumph, si sente nell'aria un vago sentore di giacca di pelle, hamburger e frullato alla fragola. Sono passati trenta secondi ed è già una canzone molto strana, un patchwork come ne incidevano i Beatles verso la fine, giusto vent'anni prima - ma ecco che entrano Dylan e Petty, insieme. Petty segue la sua guida, il suo mentore, e Dylan... cosa vuoi che faccia Dylan? Dylan stecca.



Everybody's
got somebody
to leeeeeeeeeeeean on

Unghie sulla lavagna, la specialità della casa. Sono tra amici, si divertono, che può fare Dylan in queste situazioni se non trovare l'unica nota dissonante? Petty invece no: lo segue eppure non stecca, come fa? Anni di allenamento, probabilmente.

All'inizio pensavo di non farlo, un pezzo sui Traveling Wilburys. In fondo fu un'avventura estemporanea, una festicciola protratta per dieci giorni (ma quanti buoni dischi Dylan li ha registrati anche in meno tempo?) Magari avrei aggiunto da qualche parte un postcriptum: ah, nel 1988 ha anche inciso qualche canzone tra amici e ci ha guadagnato più che in cinque anni di dischi e concerti. Poi mi sono ricordato che c'era un sacco di cose da raccontare. Di certi album non sai veramente cosa dire, ma non è il caso di quelli dei Traveling Wilburys. Sono dischi interessanti. Avanzi di canzoni montati assieme in fretta, per la gioia del musicologo dilettante. Handle With Care è l'esempio migliore: gran parte del divertimento consiste nella facilità in cui puoi scomporre il prodotto in fattori primi. Qui c'è l'eccipiente Beatles, qui c'è la base rockabilly, qui c'è la guarnizione: Dylan che stecca. È come smontare un lego. È facile. Ma ti fa sentire un ingegnere.

Di solito cominciava su un registro basso, appena udibile. Per un po' ci rimaneva, poi cominciava con i suoi stupefacenti istrionismi. La sua voce avrebbe dato la scossa a un cadavere. Si finiva con il mormorare a se stessi: "Non ci posso credere". Le sue erano canzoni dentro canzoni. Passavano dalla tonalità maggiore alla minore senza nessuna logica. Orbison era terribilmente serio, non c'era niente di adolescenziale in quello che faceva. Alla radio non c'era nessuno come lui. Io ascoltavo e aspettavo un'altra canzone, ma a paragone di Roy il resto dei programmi veniva dritto dalle terre della noia, roba flaccida, senza spina dorsale, fatta per chi non aveva un cervello. 



Tra i tributi più sorprendenti che Dylan offre in Chronicles, c'è senz'altro quello a Roy Orbison. Sul serio, chi l'avrebbe detto che il giovane Dylan lo apprezzasse così tanto? Non potrebbe essere uno di quei ricordi che si aggiustano a posteriori? Apparentemente in Orbison c'era tutto quello che Dylan non aveva e non aveva mai dato l'impressione di voler cercare: tanto per cominciare la voce impostata ed estesa su quattro ottave. Un'attitudine melodrammatica che negli anni Cinquanta aveva contagiato i rockers, ma proprio il successo di Beatles (e di Dylan) avrebbe estromesso dalle classifiche. E una vena barocca nella costruzione delle canzoni, piccole sinfonie in cui strofe e ritornelli si intrecciavano in strutture molto più complesse del necessario. Tutto questo aveva reso Orbison un personaggio unico ai suoi tempi, ma anche un ingrediente ideale per il metodo di lavoro dei Wilburys: improvvisare dei riff e montarli assieme. Si potrebbe dire dei brani più collettivi dei Willburys quel che Dylan dice delle canzoni di Orbison: canzoni dentro canzoni, dalla tonalità maggiore alla minore senza nessuna logica - oppure una logica c'è, come in Handle With Care, ma Dylan non la capisce e la smonta senza neanche accorgersene (Dylan, ricordiamo, è il compositore che incise sei dischi prima di scoprire il middle-eight, e che in John Wesley Harding aveva abolito i ritornelli). Malgrado l'ammirazione (reciproca?), Dylan e Orbison non duettano mai. Sembrano veramente inconciliabili, l'acqua e l'olio. Nei brani in cui canta Orbison, Dylan quasi scompare. Nel brano più dylaniano del mazzo, Tweeter and the Monkey Man, Orbison scompare davvero, abbastanza misteriosamente (magari era in bagno mentre registravano, va' a sapere). Sono loro i due veri monumenti da maneggiare con cura: Harrison - che ha venduto più di entrambi messi insieme - è più duttile, la sua voce è iconica, ma non è un fossile vivente. Quella di Orbison lo era, e anche quella di Dylan, nel 1988, sembrava a un passo dal diventarlo.

Ama il tuo corpo sexy, la tua mente sporcacciona.
Ama quando lo stringi e lo afferri dal didietro.
Uuuuuh, baby, che bella cosa sei!
Voglio proprio presentarti a questa gang di amici miei...

Traveling Wilburys Vol. 1 è una serata con gli amici. Ci sono canzoni che hanno un senso soltanto mentre le canti in coro e dev'essere un coro maschile - un pezzo autocommiserante come Congratulations, se Dylan l'avesse inciso in Down in the Groove o Knock Out Loaded, magari con moglie e suocera in sottofondo, non si sarebbe potuto sopportare. Ma qui siamo al banco del bar, Dylan può lagnarsi quanto vuole, i fratelli W ascoltano, cantano il ritornello e versano da bere. Se invece è in vena di scherzare, finalmente ha dei compari che lo capiscono - se è vero che Dirty World nacque da una sua idea di "fare una cosa alla Prince". Ovviamente non saltò fuori una canzone di Prince, ma quelle poche strofe sguaiate sono assolutamente dylaniane: la disinvoltura inspiegabile con cui passa dalla terza alla prima persona singolare, e quella litote ("non c'è assolutamente niente di te che non gli piaccia") che è proprio il modo con cui si esprime con sé stesso - molti anni dopo, a un giornalista che gli chiedeva di Alicia Keys, avrebbe usato praticamente le stesse parole.

Maybe somewhere down the road aways (end of the line)
You'll think of me, wonder where I am these days (end of the line)
Maybe somewhere down the road when somebody plays (end of the line)
Purple haze?

"Wilburys" deriverebbe da un'espressione spesso usata
da Harrison e Lynne durante le sessioni:
We'll bury it in the mix, "questo lo seppelliremo nel missaggio".
La tavernetta dei Wilburys è un labirinto di specchi. Sembrano davvero tutti fratelli, come raccontavano - magari di madri diverse, ma in qualche strano modo si assomigliano più di quanto dovrebbero assomigliarsi i vecchi amici. C'è una lingua comune - un rock and roll ancestrale che era poi l'unica lingua che ormai Dylan riuscisse a parlare in Down in the Groove. Ci sono fazioni consolidate e imprevedibili alleanze trasversali. Da una parte il ramo inglese, il vecchio saggio George e il fratellino Lynne, cresciuto alla sua ombra: le intuizioni del maggiore le ha trasformate in trucchi di laboratorio. Dall'altra il ramo americano: il vecchio e bizzoso Bob, padrone di casa (però gli ospiti sono arrivati in una settimana in cui era di buon umore, scherzava con tutti e lasciava che gli smontassero le canzoni). Il fratellino Tom gli assomiglia, nella voce e nella fisionomia. Ma è cresciuto in anni diversi e forse ci si è ambientato meglio: a questo punto della storia vende più dischi del maggiore e ha una voce più sicura. Però si porta ancora in tour il fratellone, ormai è un portafortuna. Tra inglesi e americani ondeggia Roy, la scheggia impazzita. Non si sa bene da dove viene e soprattutto dov'è stato per tutti gli anni da Oh, Pretty Woman (1964) in poi. Davo per scontato che ci fossero state brutte storie di alcool o peggio - in fondo un tizio che perde la moglie in un incidente in moto, e mentre è in tour all'estero viene informato che la sua casa è bruciata con due figli dentro avrebbe avuto qualche motivo per lasciarsi andare. Ma semplicemente non è successo, Roy Orbison non si è mai ritirato dalle scene. Erano le scene che gli si erano progressivamente ritirate sotto i piedi: dai palazzetti ai teatri di provincia alle sagre di paese. Eppure non aveva mai smesso di cantare e incidere. A un certo punto aveva dovuto registrare da capo i suoi vecchi successi perché l'etichetta che possedeva i master era in bancarotta e minacciava di distruggerli. Ogni tanto qualche superstar riscopriva una sua canzone e il conto in banca ne traeva un subitaneo giovamento - qualche anno prima i Van Halen avevano rifatto Pretty Woman, caccia via. E nel 1980 aveva fatto un tour trionfale in Bulgaria. Ma dal cono d'ombra c'era uscito grazie al cinema: David Lynch aveva abbinato In Dreams, senza il suo permesso, allo psicopatico interpretato da Dennis Hopper in Velluto Blu - come trovare una lametta in un hamburger. Era un modo un po' macabro di tornare alla ribalta, ma bisognava sfruttarlo, magari trovando un produttore che lo svecchiasse un po'. Jeff Lynne? Beh, se aveva funzionato con George Harrison...

Well it's all right, even if you're old and gray
Well it's all right, you still got something to say
Well it's all right, remember to live and let live
Well it's all right, the best you can do is forgive

I Wilburys, ripetiamo, sono Bob Dylan (Lucky Wilbury), George Harrison (Nelson Wilbury), Roy Orbison (Lefty Wilbury), Tom Petty (Charlie T. Wilbury) e Jeff Lynne (Otis). I primi due li conoscono tutti; Orbison è quello di Pretty Woman; di Tom Petty qualche canzone in radio passa ancora, ma Jeff Lynne insomma chi è? Non vale googlare (continua sul Post...)
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Grillo non è Hitler, che gran consolazione

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A questo punto se fossi Grillo e sentissi Gianluigi Paragone chiamare il Movimento Cinque Stelle un “movimento bambino” (“non ha ancora capito le regole del mondo degli adulti… ma le capirà”) mi sentirei un po’ a disagio. Sono ormai dieci anni che si parla del Movimento col VaffaDay. E dieci anni fa non c’era il PD, Forza Italia si chiamava il Popolo delle Libertà, il leader del centrosinistra era Romano Prodi, Silvio Berlusconi era felicemente sposato. Insomma, ne abbiamo avuto di tempo per combinare qualcosa. Perché continuano a trattarci come bambini? Forse perché strilliamo tanto e non è mai chiaro cosa vogliamo? Perché poi tutti (anche i nostri elettori) sono convinti che siamo antivaccinisti, quando invece abbiamo una posizione molto più matura e articolata? Perché tutti ci credono anti-euro, quando invece vogliamo soltanto indire un referendum consultivo?



C’è anche da dire che se fossi in Grillo, e se fossi dotato della stessa franchezza di Grillo, a questo punto avrei qualche difficoltà a passare davanti a uno specchio la mattina... (su Thevision c'è un altro pezzo mio, s'intitola: Il M5S ha fermato l'estrema destra perché l'ha resa superflua).

Ormai sono dieci anni che sostengo la Rivoluzione, che propino il Movimento, e ok, non è che la gente abbia smesso di comprarsi il pacco: ma cosa ho concluso? Dopo dieci anni passati a parlare di democrazia della Rete, democrazia dal basso, indico le primarie e partecipano in trentamila. Il sito è un colabrodo, il “sistema operativo” non è un sistema e non è operativo. In teoria siamo il popolo della Rete, in pratica qualsiasi pischello può bucarci il firewall ed eleggere Valentina Nappi, che poi in effetti non sarebbe neanche l’opzione peggiore. Nel frattempo a Roma le zanzare diffondono la Chikungunya, perché la giunta di sconosciuti signori del M5S trova queste esotiche malattie preferibili a una disinfestazione coi pesticidi. Quanto a me, se fossi in Grillo, sarei esausto di tutto il carrozzone, ma ormai scendere è impossibile, mi verrebbero a prendere a casa con le torce. Per cui ok, retrospettivamente l’idea di far pubblicità ai miei spettacoli creando una parodia di movimento politico è stata un buon affare per me, sebbene un disastro per il mio Paese. D’altro canto…

(D’altro canto che?)

…d’altro canto c’è chi ha fatto di peggio.

(Ma chi?)

Ma non saprei, per esempio… Adolf Hitler!

Funziona sempre. Provateci un domani, quando parcheggerete il vostro SUV sulle strisce dei disabili ricordate ai passanti scandalizzati che alla vostra età, Hitler, i disabili li faceva ammazzare! Non vi fa sentire meglio? No, vero? Quanto dev’essere bassa l’autostima di una persona che per sentirsi meglio di qualcuno deve scomodare Hitler? Ed è un paragone che Grillo fa abitualmente. È il sistema che usa per trarsi d’impaccio, forse anche con la sua coscienza: è vero, ho fatto una cazzata, però… non l’avessi fatta io, sarebbero arrivati i nazisti! Siamo il famoso Argine all’Estrema Destra!





Ma cos’è un argine? Una barriera solida, di terra o cemento, che impedisce a un corso d’acqua di dilagare. Il Movimento Cinque Stelle, col suo NonStatuto e il suo NonSistemaOperativo, può essere in qualche modo paragonato a una barriera solida? Non ha piuttosto una consistenza porosa e malleabile? In altre parole: chi ci assicura che il Movimento Cinque Stelle, ormai un grande partito gestito da una piccola azienda a conduzione familiare, non sia in qualsiasi momento scalabile?

Grillo, sì, non sei Adolf Hitler, se questo ti fa sentire un po’ più in pace con te stesso continua pure a ripetertelo. Ma neanche il Partito Nazionalsocialista era Adolf Hitler: lui è arrivato in un secondo momento, all’inizio probabilmente era un infiltrato. Il punto è che non ci mise poi così tanto a fare di quel partito di reduci una pallina di pongo nelle sue mani: chi ci assicura che il tuo giocattolo, il giorno che te ne sarai stancato – e te ne sei già stancato – non possa finire nelle mani di un personaggio altrettanto psicopatico?

Impossibile, dirai tu: queste sono cose che succedono solo nei film, nella storia del Novecento, e nei film sulla storia del Novecento. Ok, un esempio un po’ più attuale: hai visto cos’è successo ad Alternative für Deutschland? Magari ne hai sentito parlare, visto che a Bruxelles siete partner. Sì: l’unica europarlamentare superstite alla scissione del 2014, Sua Altezza Beatrix Von Storch, fa parte del gruppo EFDD con voi del M5S e quei buontemponi brexiters dell’UKIP.

No, sul serio, la storia del partito di destra il cui successo sta terrorizzando tutti gli osservatori – ma che alla fine prende più o meno gli stessi voti che dovrebbe prendere un Salvini in Italia – è veramente suggestiva. È come Fare per Fermare il Declino. Ve lo ricordate Fare per Fermare il Declino? È come se un partito di economisti superliberali, invece di esplodere in una bolla dell’inconsistenza dei titoli accademici di Oscar Giannino, fosse stato colonizzato da avanzi di Lega e neofascisti o postfascisti, tutti uniti da un sacro furore antislamico e anti-migranti. Che è successo? Niente di nuovo. Non è la prima volta infatti che gli xenofobi tedeschi si agglutinano intorno a un partito che non è dichiaratamente di estrema destra, ma che dà la sensazione di poter superare lo sbarramento a destra dei Cristiano Democratici. Negli anni ‘80/’90, per un po’, andarono forte i Republikaner, adesso tocca a questo AfD che all’inizio era un partito di economisti nemmeno contrari all’Unione Europea, ma desiderosi di sbatter fuori i PIGS dell’Europa meridionale. Un partito che insomma serviva da sponda alla Merkel quando dovette mostrare fermezza coi greci in bancarotta. Mentre ora, dopo due scissioni – l’ultima avvenuta all’indomani delle elezioni – AfD è un partito di islamofobi terrorizzati dalle moschee, che servirà da sponda alla Merkel quando chiederà un giro di vite alle frontiere. Magari anche i fondatori dell’AfD, all’inizio, credevano di arginare qualcosa. Magari anche loro, oggi, contemplando il pasticcio, possono sempre guardarsi allo specchio e dire: però Hitler alla mia età ha fatto aprire Auschwitz.

Dopodiché siamo d’accordo, Grillo non è Hitler: ma l’avrebbe saputo riconoscere, in una birreria di Monaco, nel 1919? Avrebbe capito quanto erano pericolosi i suoi sproloqui contro il complotto giudaico-massonico dei banchieri? O non lo avrebbe trovato promettente, genuino, irresistibile, con quella rabbia che funziona così bene davanti ai microfoni e su internet? Con quei discorsi un po’ paranoici da ignorante ma perfetti da linkare sulla vecchia colonnina di destra di beppegrillo.it? “Un bambino”, avrebbe detto Paragone: lasciategli dire fregnacce, vedrete che imparerà. Sì. L’ultima volta fu un disastro mondiale, speriamo che sia una di quelle volte che la storia si ripete solo in farsa.
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Tom Cruise spaccia (ma non aspira)

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Barry Seal - una storia americana (American Made, Doug Liman, 2017).

Una volta ero un pilota. In una vita precedente. 
E proprio quando pensavate di aver visto tutti i Tom Cruise possibili, ecco a voi, in anteprima rispetto agli Stati Uniti, il Tom Cruise disonesto!

"L'avevamo già visto in Collateral".

Beh, ma quello era un killer, questo... questo è un simpatico cialtrone!

"Edge of Tomorrow".

No, no, questo è più manigoldo, questo...

"La mummia".

Questo fa sul serio, capite? Questo spaccia la droga!

"La droga? Tom Cruise?"

Non ve l'aspettavate, eh? "Tom Cruise" e "droga" nella stessa frase sono un colpo basso, non dite di no.

"Si drogava già in Minority Report".

Sì, no, ma stavolta non è che si droghi. La spaccia soltanto.

"Cosa vuol dire che la spaccia soltanto?"

Beh è colombiana di Medellin, dai, cosa pretendi, che la sniffi sul grande schermo? È pur sempre Tom Cruise.

È il caso di dire: che botta.

Se anche non andrete a vedere Barry Seal, c'è una scena che vi ricorderete perché compare in tutti i trailer, anche nelle pubblicità. C'è Tom Cruise che fa un atterraggio di fortuna in un sobborgo; c'è Tom Cruise che smonta dall'aeroplano tutto infarinato di cocaina con una valigia ricolma di dollari. È davvero il nocciolo di tutto il film: c'è l'aeroplano, ci sono i soldi, c'è la coca, c'è Tom Cruise che in un qualche modo ci salta fuori sempre (quasi). È anche l'unica scena che suggerisce che qualche granello di cocaina potrebbe essere stato inavvertitamente inspirato dal narcotrafficante interpretato da Tom Cruise. L'unica. E allora, signori, magari di narcotraffico non siamo così esperti, ma ormai di film ne abbiamo visti tanti. Anche prima dell'attuale inflazione di Escobar al cinema, c'era stato Blow, lo Scarface di De Palma, c'era stato Goodfellas con quella scena in cui Liotta se la prende con l'amante perché quando confeziona le dosi lascia polvere dappertutto. È cocaina, è bianca e granulosa, se soffi fa una nuvola, è quasi impossibile viverci in mezzo e non tirarne mai. Neanche un po'. Capita solo nelle fiabe - quelle che probabilmente i vecchi narcos raccontano ai bambini - il nonno era un capocartello, ma era pulito come appena nato - nelle fiabe e nei film con Tom Cruise.

Ci ho messo un po' a capire cosa non mi stesse convincendo in Barry Seal. Negli USA - dove deve ancora uscire - magari farà un po' di rumore perché... (continua su +eventi!) perché sostiene papale papale che la cocaina di Medellin entrasse in America grazie a una ditta basata in Arkansas che conosceva le rotte della DEA e della FBI dal momento che faceva lavoretti sporchi per la CIA e la CIA le aveva passato i tracciati. Che mentre Reagan dichiarava la Guerra alle Droghe, qualcuno forse nello stesso edificio considerasse l'invasione di colombiana purissima il prezzo da pagare per reprimere i sandinisti in Nicaragua. I sandinisti sono rimasti al potere, la cocaina è diventata un consumo di massa, la CIA si è allontanata fischiettando, e in tutto questo Barry Seal cosa rappresenta? Una pedina che si credeva furba ma che alla fine ha lavorato per tutti e non è riuscito a portarsi dietro nulla. Un tipo di personaggio che non è poi così nuovo per Tom Cruise - e allora perché stavolta manca qualcosa alla classica parabola del bravo-ragazzo-che-scopre-il-malaffare? Perché Barry Seal non raggiunge non dico i livelli di Wolf of Wall Street, ma a un certo punto fatica a mantenere il passo non certo da fuoriclasse di War Dogs?



Potrei tagliare corto e dire: Scorsese. Scorsese questi film li sa fare, gli altri no. Ma credo di averlo già scritto quattro o cinque volte, temo sia l'ora di approfondire. C'è che Scorsese è un tossico. Oddio spero non mi denunci. Magari ha smesso da anni, ma dentro di sé c'è un meccanismo che continua a girare. Gira a vuoto, ma gira. Tom Cruise ha altre stravaganze, ma quel meccanismo non ce l'ha. O non vuole mostrarlo, il che per un attore è imperdonabile. Magari gli piaceva il soggetto - un fattorino dei cieli che frega la Cia per conto dei colombiani e poi viceversa - magari voleva il suo Wolf of Wall Street personale. Però non voleva abbassarsi a tirare coca per tutto il film, ed è qui che casca l'asino. Il suo personaggio resta un'amabile faccia da schiaffi che passa la vita a mettersi nei guai senza un perché. Per un biplano ultraveloce? Una cadillac da regalare alla moglie? una villa con piscina a Mena, Arkansas? Non sembra davvero valerne la pena. La canonica scena "aiuto non so più dove mettere i soldi", che in Wolf varcava le soglie del grottesco, qui finisce per sottolineare l'assurdità della situazione: quanti ripostigli deve trovare Barry per le sue mazzette prima di capire che non potrà mai spenderle? La droga serve anche a questo: a bruciare i surplus in una nuvola gaia di euforia, a creare in individui non apparentemente cattivi quell'abisso da cui poi nascono le idee più disperate e geniali. Ma Barry non si droga. L'unico buon motivo per cui insiste a schivare l'artiglieria sandinista e gli elicotteri della DEA è che si diverte un casino. E naturalmente ha moglie e figli da mantenere - eh già, la famiglia, quanti crimini in tuo nome. Ma sul serio non c'è altro, nemmeno una scappatella con una hostess, niente. Cruise voleva fare il narcotrafficante ma anche il buon padre di famiglia.

Alla fine Barry Seal resta una pagina di storia interessante (anche se un po' fabbricata a posteriori: del resto quando c'è di mezzo la CIA l'unica verità è nel tritadocumenti). Non è però il film promesso, quello in cui finalmente Cruise si toglie la maschera da bravo ragazzo e ci mostra le turpitudini di cui è capace. Tutto il contrario: la maschera è più stretta del solito, non passa neanche un granello di polvere. Barry Seal è al Cinelandia di Borgo San Dalmazzo alle 20:00 e 22:40; al Vittoria di Bra alle 21:00; al Fiamma di Cuneo alle 21:10; al Multilanghe di Dogliani alle 21:30; ai Portici di Fossano alle 18:30 e alle 21:15; al Cinema Italia di Saluzzo alle 22:15.

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Dal vivo col Morto

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Dylan and the Dead (1989, ma registrato nel 1987!)
(Il disco precedente: Down in the Groove
Poi c'è una cosa che non è esattamente un disco di Bob Dylan).

Erano anni che il pubblico veniva regolarmente rifornito di mie registrazioni su disco, ma le mie esibizioni dal vivo non riuscivano mai a catturare lo spirito intimo delle canzoni. Non riuscivo a dar loro il giro giusto. Un certo senso di intimità, insieme a molte altre cose, era sparito. Per gli ascoltatori doveva essere stato come arrancare tra i campi abbandonati ed erba morta. [...] Sempre prolifico ma mai preciso, troppe distrazioni avevano trasformato il mio sentiero musicale in una giungla di viticci. Avevo seguito regole ben consolidate, e non avevano funzionato. Le finestre erano rimaste inchiodate per anni, coprendosi di ragnatele, e io ne avevo piena coscienza.  (Chronicles I).
Mentre stavamo lavorando a Dylan and the Dead, avemmo un'esperienza davvero strana. Andammo a casa sua a Malibu... dove lui aveva sette od otto di questi enormi cani, credo fossero mastini o roba del genere. Appena arrivati, i cani circondarono le mostre auto, e lui venne a prenderci e ci portò in questa enorme casa che sembrava un castello - sai, un grande caminetto, pareti in legno, un soffitto altissimo... Su un tavolo c'era uno stereo a cassette portatile, di quelli da trentanove dollari, nel quale ficcò la cassetta del disco, la fece andare e quindi disse: "Non pensate che la voce sia mixata un po' troppo alta in quel brano? Così ce ne restammo lì ad ascoltare quello che sarebbe diventato uno dei nostri dischi che suonava su quell'aggeggio da due soldi, e lui proseguì dicendo che, a suo parere, ci volevano un po' più di bassi". (Jerry Garcia, leader dei Grateful Dead, citato in Jokerman da Clinton Heylin (che non sopporta né lui né i Dead).
Tra tanti forse è il più ricco di citazioni dei musicisti, quelle che alla fine ci interessano davvero.
Tra tanti forse è il più ricco di citazioni dei musicisti, quelle che alla fine ci interessano davvero.
(È da un anno ormai che ascolto Dylan in macchina. Solo i bassi di Dylan and the Dead mi hanno fatto vibrare il cruscotto).
Non si esce vivi dagli anni Ottanta. Dopo aver mangiato la polvere, dopo esser sceso nella buca, c'è un'ultima tappa che Dylan deve percorrere, e noi con lui. Come Ulisse prima di noi, come Dante Alighieri, scenderemo nel mondo sotterraneo, incontreremo... la Morte!
Ah ah ah, capito la battuta? I "Grateful Dead" sono... la Morte!
"Il morto".
"Eh?"
"Dead vuol non vuol dire Morte, al massimo vuol dire il morto".
"Vabbe', dai, quasi".
Cercavo di trovare una soluzione ma sembrava che nessuna formula fosse disponibile. Forse, se avessi capito cosa stava per succedere, avrei aggiustato le cose finché ero in tempo, ma non mi ero accorto di niente. L'epoca in cui ogni mio concerto era occasione di grandi sommovimenti aveva subìto una brusca frenata, e ormai si era quasi fermata. Troppe volte mi ero dato da solo la zappa sui piedi. È bello sapere che sei una leggenda, e la gente è disposta a pagare per vederla, ma per la maggior parte della gente una volta è abbastanza. Bisogna saper onorare gli impegni, non sprecare il proprio tempo e quello degli altri. Non ero sparito dalla scena ma la strada si era ristretta, si era quasi interrotta e invece avrebbe dovuto essere ben larga. Non me ne ero ancora andato, stavo solo gironzolando giù all'ingresso. Dentro di me c'era una persona che io dovevo ritrovare. (Chronicles, I).
No, sul serio, pensavate che non saremmo scesi più in basso di Down in the Groove? Anch'io per un attimo - poi ho dato un'occhiata al calendario e ommioddio, c'è il live coi Grateful Dead. Ma è proprio il caso? Non si può far finta di niente? No eh? beh, almeno stavolta il titolo si scrive da solo.Verrà la Morte e... farà un disco di Dylan! Dylan suona a Morto! Ti va di suonare con Dylan? Manco morto! Forse non tutti sanno che i Grateful Dead scelsero quel loro nome così caratteristico, che attira tutti questi simpatici giochi di parole, aprendo due volte a caso un dizionario: il che dimostra che la scaramanzia non è proprio una caratteristica culturale degli americani (del resto è gente che da duecento anni tiene 13 strisce nella bandiera, respect. Gli europei la bandiera a 13 stelle non la vollero).
I Grateful Dead ai tempi del misfatto.
I Grateful Dead ai tempi del misfatto.
Insomma questi aprirono il dizionario a caso, uscì "morto" e dissero "ok, perché no?" E venticinque anni più tardi incontrarono un Dylan nel momento più difficile della sua carriera, gli propose di fare una mezza di concerti assieme e di nuovo dissero "ok, perché no?" Anche se da lì in poi le versioni non combaciano. Per Garcia - che aveva anche lui i suoi problemi di salute - si trattò di una cosa abbastanza estemporanea: Dylan era in giro dall'anno prima con gli Heartbreakers di Tom Petty; avevano anche fatto qualche data insieme ai Dead, che avevano già da anni pezzi di Dylan in scaletta. Era la cosa più naturale del mondo che ogni tanto Dylan uscisse coi Dead per i bis. L'estate successiva, prima di partire con gli Heartbreakers per le città del vasto mondo (Tel Aviv, Gerusalemme, Modena), Dylan fece una mezza dozzina di date in America con i soli Grateful in luglio, una specie di estensione dei bis del True Confession Tour. I biglietti si vendettero facilmente - i Dead erano una certezza, da questo punto di vista; le recensioni non furono cattive; l'unico problema è che come al solito Dylan non riusciva a fissarsi su una scaletta breve, e così a Garcia e alla sua squadra di onesti operai del rock da stadio impose di provare un centinaio di canzoni. Tanta fatica, per ritrovarsi poi a jammare senza fantasia sulle solite All Along the Watchtower e Knockin' on Heaven's Door ("like so many times before", canta nel ritornello un Dylan ormai esasperato). Fu una storia abbastanza breve e non così insoddisfacente, né per Dylan, né per i Grateful Dead, né per il pubblico. Il disco invece uscì solo nel 1989 ed è terribile.
Non riuscivo a superare gli ostacoli, tutto era a pezzi. Le mie stesse canzoni mi erano divenute estranee. Non avevo la capacità di toccare i loro nervi scoperti, non riuscivo a scendere sotto la loro superficie. Il mio momento era passato. Nel mio intimo, il mio canto mi risuonava vuoto e io non vedevo l'ora di ritirarmi e piegare le tende. 
Esistono dischi inutili (Dylan ne ha fatti) ed esistono dischi dannosi. Dylan and the Dead fu un danno inestimabile per la sua carriera. Pubblicato quando ormai quelle sei date erano un lontano e non irrinunciabile ricordo, non si può certo dire che contribuì a ripristinare la credibilità dell'autore. Ma soprattutto finì per andare comunque in classifica e togliere spazio alla promozione del vero disco che Dylan avrebbe fatto uscire da lì a poco, Oh Mercy: il disco che doveva rappresentare il rilancio e che vendette molto meno di quanto previsto. Il disastro lasciò il segno al punto che dopo Dylan and the Dead la Columbia non avrebbe più commercializzato live di Dylan - fatta eccezione per l'Unplugged della serie MTV e qualche oggetto di repertorio per collezionisti. Quasi si fosse davvero ritirato, come pensava seriamente di fare dopo il tour con gli Heartbreakers. Mentre sappiamo che è successo il contrario: già l'anno successivo, con una band ridotta all'osso, avrebbe fatto ottanta date: e da lì in poi non ha più smesso. Ma se dal 1988 in poi si è trasformato in un vero e proprio artista itinerante, senza più accusare quell'insofferenza cronica che lo aveva accompagnato sin dalle prime fasi della carriera, in un qualche modo lo deve ai Grateful Dead e a quel piccolo tour che fecero nel luglio 1986. Se fu il punto più basso della sua carriera, fu il momento in cui finalmente toccò il fondale e riuscì a trovare la forza per risalire. È più o meno quel che racconta in Chronicles, dopo aver tratteggiato in un paio di pagine di schiettezza disarmante l'autoritratto di un divo alla frutta, in crisi di mezza età. "Molte volte, prima di uno spettacolo, a un passo dal palco, mi sorprendevo a pensare che non stavo tenendo fede alla promessa che avevo fatto a me stesso. Che promessa fosse non lo ricordavo con precisione, ma sapevo che stava da qualche parte nel passato". Credo che valga anche per la gente comune: quel momento a metà dei quaranta in cui ci guardiamo allo specchio e non ci domandiamo più: "sto tenendo fede alla mia promessa?", ma piuttosto: "che promessa era?" (continua sul Post)
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Comunicatori che ci comunicano che lo Ius Soli è comunicato male

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Ogni volta che mi capita di preparare una visita d’istruzione all’estero, so già che ci sarà almeno un mio studente che dovrò lasciare a casa perché non ha i documenti per l’espatrio. Immaginate la situazione: due ragazzi uguali, nati nella stessa città (la mia), che vanno nella stessa scuola, pisciano nello stesso gabinetto (meglio se non contemporaneamente), ma che non hanno lo stesso diritto di andare in Costa Azzurra, perché? Perché uno ha i genitori, per dire, moldavi e l’altro rumeni. Quindi il secondo ha i documenti per andare in gita e il primo no. Al primo cosa posso dire? Mi dispiace, ho visto che ti impegni e mi stai pure simpatico, ma i tuoi genitori sono nati a est del fiume Prut a quanto pare la cosa è molto importante; infatti chi viene da oltre il fiume Prut è una minaccia per la nostra identità, nel senso che può anche lavorare e pagare le nostre tasse, ma suo figlio in gita in Francia, eh no. È una pura assurdità, che almeno un partito (il PD) aveva promesso di eliminare, con una legge (il cosiddetto Ius Soli) che questa settimana con ogni probabilità si impantanerà in Senato e molto difficilmente nella prossima legislatura qualcuno avrà le palle di riproporre. E questo perché?
Forse perché negli ultimi mesi alcune testate si sono messe a pompare al massimo un certo sentimento xenofobo, inventandosi una specie di invasione africana che – dati alla mano – non esiste?

(Ciao. Su TheVision c'è un pezzo mio, si chiama Che c***o sta combinando il Pd con lo Ius Soli ma ce l'ho più col Corriere che col Pd. Non è che uno può sempre prendersela col Pd. Ok, un'altra volta me la prendo col Pd).
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