Ultimo treno per il '96
24-07-2017, 15:39cinema, Cosa vedere a Cuneo (e provincia) quando sei vivo, drogarsi, nostalgiaPermalinkT2: Trainspotting (Danny Boyle, 2017).
Se stai leggendo questo, è perché circa 20 anni fa hai scelto la vita, dopotutto. Hai scelto un lavoro. Una carriera. La famiglia. Il televisore full hd 42 pollici. Hai scelto la lavatrice, la macchina, lo smartphone e l'apriscatole elettrico. La buona salute, il colesterolo basso e la polizza vita. Hai scelto il mutuo a interessi fissi. La prima casa. Gli amici. Già, gli amici.
Magari quando hai sentito che usciva il seguito di Trainspotting ti è venuto voglia di risentirli, gli amici (a parte quello che sta in galera, certo). (E quello che non ti perdona un pacco da vent'anni). (Poi c'è quello che sta morendo, quello che si è trovato la fidanzata bulgara ed è il destino più pericoloso di tutti - a questo punto forse ti era passata la voglia di andare a vedere il seguito di Trainspotting 2).
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Anch'io d'altronde punterei tutto su Anjela Nedyalkova |
Se stai leggendo questo, forse hai anche tu una cameretta dove non torni dagli anni Novanta. Un disco che non oseresti mettere sul piatto - hai paura che ne moriresti. E un po' di voglia di drogarti, ma hai perso tutti i contatti - i cosiddetti amici. E poi lo sai anche tu, che più che voglia di drogarsi è... nostalgia. Quella che ti prende alle spalle, certe volte, davanti a uno scorcio di città o a due foto ingiallite.
Cosa ha riportato insieme Ewan McGregor, Danny Boyle (che per anni non si sono parlati), con lo sceneggiatore John Hodge e l'autore Irvin Welsh (che non ha scritto niente ma fa un cameo)? A parte i soldi, intendo. Anche se i soldi, in effetti, non sono mai stati irrilevanti. Cioè parliamoci chiaro, Trainspotting non era Amici Miei. Le bravate consistevano nel rompere la testa a una ragazza con un bicchiere senza un motivo, il cameratismo serviva a dividere la siringa e si fermava davanti al primo vero mucchio di soldi da dividere. Quindi cosa c'era da rimpiangere? Trainspotting era un film sull'eroina. I personaggi erano esili, intercambiabili, il film non pretendeva di farteli piacere e infatti non ti erano piaciuti; T2 vent'anni dopo li rianima, ma al posto dell'eroina pretende di ravvivarli con la nostalgia. Ma certo.
Chi non ha nostalgia per il 1996? (Continua su +eventi!) Quel momento in cui qualsiasi cosa venisse dalla Gran Bretagna sembrava oro, e con due trucchi da videoclip Boyle sembrava la punta di diamante del cinema giovane mondiale. Ovviamente adesso siamo tutti più sgamati e non ci incanta più, Danny Boyle. Così come i tuoi amici del paese, ora che hai girato la tua parte di mondo, non sei così sicuro di volerli rivedere. C'è stato un momento in cui erano tutto per te: lo yin, lo yang, i punti cardinali. Ma è stato vent'anni fa, cosa ne sapevi in fondo. T2 è un film realizzato senza troppe pretese di verosimiglianza (Begbie evade e nessuno lo va a cercare a casa sua) da un gruppo di persone che non si stimano e che stanno già immaginando dove scapperanno con l'incasso. È un film di truffatori senza truffe - come nel primo episodio, verso la fine i soldi piovono un po' dal cielo (e prendono direzioni inaspettate, ma logiche). È un film molto cinico, ovviamente: ma anche il cinismo che era merce così preziosa nel '96 ormai te lo regalano al discount.
È un film che in mancanza d'altri argomenti si mette a fare il moralista, come se volesse porgerti il conto per tutta la gioiosa amoralità del primo episodio, il che sottopone i personaggi già non troppo spessi a torsioni incomprensibili: Begbie deve diventare un buon padre, ma è anche un assassino; Spud non farebbe male a una mosca ma continua a fottere tutti, e così via. T2 è un film che si atteggia a vecchio duro; che ti guarda di sbieco e ti dice: non sei meglio di me, anche tu non hai avuto più niente di meglio del 1996. Ma si sbaglia: io ho avuto tante cose in seguito e le rimpiango tutte più volentieri di Trainspotting. Un bel lavoro, una carriera, la famiglia, il televisore, eccetera. Non sono neanche andato a vederlo al cinema, figurati. Ma lo fanno giovedì 27 luglio all'Arena di Alba alle 21:45 (e si noleggia già su Youtube a €3,99). Here comes Johnny Yen again...
Comments (3)
Gesù è giusto dietro la curva
22-07-2017, 00:32Bob Dylan, cristianesimo, Cristo, Il Post, musicaPermalink
Slow Train Coming (1979)
Nessun servo può servire due padroni; o odierà l'uno e amerà l'altro, o avrà riguardo per l'uno e disprezzo per l'altro. Non potete servire Dio e Mammona (Vangelo di Luca, 16:13).
Un giorno Bob Dylan apparve a Gesù Cristo. Fu in un albergo di Tucson, di tutti i posti al mondo. A Gesù Bob parve stanco, sfibrato, un divo del rock che si stava avvicinando alla curva della quarantina senza né casco né cinture, niente. "Oh Padre", si sarà detto, "Prenderlo all'amo sarà persino troppo facile".
"Bob, vieni a me, accetta il mio giogo: è molto leggero".
"Eh? Chi ha parlato? Chi sei?"
"Chi vuoi che io sia? Sono Gesù Cristo: la Via, la Verità, la Vita".
"Ma Gesù, sei sicuro? Io... sono Bob Dylan!"
"Nientemeno".
"Sono ebreo!"
"Perché, io no?"
"In effetti".
"Cosa c'è che ti angustia, Bob? A me puoi dirmelo".
"Non lo so neanch'io... credo di essere stanco, soprattutto".
"Stanco di cosa".
"Non lo so. Di essere me, forse".
"Troppi concerti?"
"I concerti sono ok. Mi piace suonare. Se solo non dovessi suonare tutte le volte quelle cazzo di canzoni di Bob Dylan".
"Insomma non ne puoi più di Dylan".
"Puoi capirmi?"
"Altroché. La celebrità è una vera tortura, sai. Ti costruiscono un personaggio e pretendono che tu ci aderisca perfettamente... poi lo innalzano davanti a tutti e..."
"Ti crocifiggono, Gesù".
"Non dirlo a me".
"Ma quindi tu saresti il Messia?"
"E certo, non hai visto i segni? I ciechi tornano a vedere, i sordi ci sentono, Van Morrison ha fatto un bel disco con me, Patti Smith ha dedicato una canzone a Papa Luciani... Sto tornando..."
"Stai tornando?"
"...di moda".
"E io? Cosa vuoi che io faccia? Vendere tutto e seguirti?"
"Non esageriamo. Niente che non ti suggerisca già il buon senso. Datti una ripulita, bevi meno, basta coca. Puoi perfino continuare a uscire con le coriste..."
"Whew".
"Magari una sola alla volta, ecco".
"Ci proverò. Tutto qui?"
"Beh, naturalmente dovrai suonare per me".
"Un disco?"
"Un disco sono buoni tutti, cioè se tu fossi Neil Young mi accontenterei, ma stiamo parlando di Bob Dylan, il rocker più sputtanato del decennio, qui c'è bisogno di un investimento a medio termine".
"Ma Gesù..."
"Tre dischi in tre anni, prendere o lasciare".
"Tre dischi in tre anni? Gesù, sei peggio di Grossman".
"Ehi, pensavi che la Via la Verità e la Vita venissero via con lo sconto? Stiamo parlando di convertirsi, Bob. Rinascere. Tu non hai idea di cosa si scatenerà là fuori tra un po' - il punk è solo un avvertimento, sai".
"L'Armageddon?"
"L'Armageddon sarà una passeggiata al confronto, stanno per iniziare gli anni Ottanta. Il Rock - questo gigante dai piedi d'argilla - sarà rovesciato dal trono, e in suo luogo regnerà prima l'empio Pop, poi il suo nipote degenere, Hip-Hop! E poi bestie ancora più immonde..."
"Non capisco. Stai annunciandomi che la fine è vicina?"
"Oh, la fine! La implorerete, la fine!, mentre nell'aere risuoneranno campionamenti e scratch. Hai bisogno di un altro rifugio nella tempesta, povero Bob. E io ne ho uno".
"Non lo so... sono appena uscito da una storia difficile, forse non dovrei subito impegnarmi..."
"E pensa a un'altra cosa. Pensa a Blowin' in the Wind..."
"Gesù, ormai la odio quella canzone".
"Appunto. Non dovrai suonarla più".
"Sul serio? Ma il pubblico".
"Non dovrai più piacere a loro. Dovrai piacere soltanto a me. Molto più semplice. Basta vecchie canzoni. Mr Tambourine, Knockin', Rolling Stone: puoi smettere di suonarle. D'ora in poi canterai solo le mie lodi".
"Ma per rifarmi un repertorio ci metterò degli anni!"
"Dici? Ma non puoi fare come negli anni '60? Eri molto prolifico al tempo, mi pare di ricordare".
"Eh ma allora era più facile. Bastava suonare il blues".
"Blues, perfetto, adoro il blues".
"Gesù, sei sicuro?"
"Perché? Non crederai mica anche tu a quella storia della musica del diavolo, eh? Basta con le superstizioni".
"Se lo dici tu".
"Ah, e poi voglio più professionismo in sala d'incisione. Ultimamente registravi un po' da schifo, ecco, non deve più succedere. Lavori per Gesù, adesso".
"Eh? Chi ha parlato? Chi sei?"
"Chi vuoi che io sia? Sono Gesù Cristo: la Via, la Verità, la Vita".
"Ma Gesù, sei sicuro? Io... sono Bob Dylan!"
"Nientemeno".
"Sono ebreo!"
"Perché, io no?"
"In effetti".
"Cosa c'è che ti angustia, Bob? A me puoi dirmelo".
"Non lo so neanch'io... credo di essere stanco, soprattutto".
"Stanco di cosa".
"Non lo so. Di essere me, forse".
"Troppi concerti?"
"I concerti sono ok. Mi piace suonare. Se solo non dovessi suonare tutte le volte quelle cazzo di canzoni di Bob Dylan".
"Insomma non ne puoi più di Dylan".
"Puoi capirmi?"
"Altroché. La celebrità è una vera tortura, sai. Ti costruiscono un personaggio e pretendono che tu ci aderisca perfettamente... poi lo innalzano davanti a tutti e..."
"Ti crocifiggono, Gesù".
"Non dirlo a me".
"Ma quindi tu saresti il Messia?"
"E certo, non hai visto i segni? I ciechi tornano a vedere, i sordi ci sentono, Van Morrison ha fatto un bel disco con me, Patti Smith ha dedicato una canzone a Papa Luciani... Sto tornando..."
"Stai tornando?"
"...di moda".
"E io? Cosa vuoi che io faccia? Vendere tutto e seguirti?"
"Non esageriamo. Niente che non ti suggerisca già il buon senso. Datti una ripulita, bevi meno, basta coca. Puoi perfino continuare a uscire con le coriste..."
"Whew".
"Magari una sola alla volta, ecco".
"Ci proverò. Tutto qui?"
"Beh, naturalmente dovrai suonare per me".
"Un disco?"
"Un disco sono buoni tutti, cioè se tu fossi Neil Young mi accontenterei, ma stiamo parlando di Bob Dylan, il rocker più sputtanato del decennio, qui c'è bisogno di un investimento a medio termine".
"Ma Gesù..."
"Tre dischi in tre anni, prendere o lasciare".
"Tre dischi in tre anni? Gesù, sei peggio di Grossman".
"Ehi, pensavi che la Via la Verità e la Vita venissero via con lo sconto? Stiamo parlando di convertirsi, Bob. Rinascere. Tu non hai idea di cosa si scatenerà là fuori tra un po' - il punk è solo un avvertimento, sai".
"L'Armageddon?"
"L'Armageddon sarà una passeggiata al confronto, stanno per iniziare gli anni Ottanta. Il Rock - questo gigante dai piedi d'argilla - sarà rovesciato dal trono, e in suo luogo regnerà prima l'empio Pop, poi il suo nipote degenere, Hip-Hop! E poi bestie ancora più immonde..."
"Non capisco. Stai annunciandomi che la fine è vicina?"
"Oh, la fine! La implorerete, la fine!, mentre nell'aere risuoneranno campionamenti e scratch. Hai bisogno di un altro rifugio nella tempesta, povero Bob. E io ne ho uno".
"Non lo so... sono appena uscito da una storia difficile, forse non dovrei subito impegnarmi..."
"E pensa a un'altra cosa. Pensa a Blowin' in the Wind..."
"Gesù, ormai la odio quella canzone".
"Appunto. Non dovrai suonarla più".
"Sul serio? Ma il pubblico".
"Non dovrai più piacere a loro. Dovrai piacere soltanto a me. Molto più semplice. Basta vecchie canzoni. Mr Tambourine, Knockin', Rolling Stone: puoi smettere di suonarle. D'ora in poi canterai solo le mie lodi".
"Ma per rifarmi un repertorio ci metterò degli anni!"
"Dici? Ma non puoi fare come negli anni '60? Eri molto prolifico al tempo, mi pare di ricordare".
"Eh ma allora era più facile. Bastava suonare il blues".
"Blues, perfetto, adoro il blues".
"Gesù, sei sicuro?"
"Perché? Non crederai mica anche tu a quella storia della musica del diavolo, eh? Basta con le superstizioni".
"Se lo dici tu".
"Ah, e poi voglio più professionismo in sala d'incisione. Ultimamente registravi un po' da schifo, ecco, non deve più succedere. Lavori per Gesù, adesso".
Un giorno Bob Dylan apparve a Mark Knopfler: un miracolo che fino a qualche anno prima sarebbe stato meno credibile dell'apparizione di Gesù a Tucson. Le rare volte che mi capita di riascoltare Slow Train Coming finisco sempre per pensare a come dev'essersi sentito Knopfler. Hai trent'anni e ascolti Dylan da quando ne avevi undici. Hai imparato a cantare e comporre ascoltando i suoi dischi. Col tempo, mentre ti allenavi nei seminterrati e sbarcavi il lunario nei pub, hai sviluppato una strana schizofrenia artistica: più la tua voce si avvicinava a Dylan, più le tue mani ti portavano nella direzione opposta, verso uno stile chitarristico pulito, preciso, rigoroso. Alla fine sei riuscito a pubblicare un disco, e sta andando bene, e una sera alla fine del concerto si avvicina il tuo Dio e ti fa i complimenti. Vuole che tu suoni per lui. Non è incredibile? Voglio dire, Gesù è apparso a un sacco di gente con un sacco di problemi, non fa neanche notizia ormai; ma Dylan che appare a Knopfler è la fiaba di Cenerentola - e invece è successo davvero. Lo porti giù in Alabama, nella sala d'incisione dove il grandissimo Jerry Wexler ha curato i lavori dei grandi dell'Atlantic e della Stax. Tu e Jerry avete appena finito di lavorare al secondo non indimenticabile disco dei Dire Straits; ma adesso realizzerete il disco che rilancerà Bob Dylan. Ha avuto un periodo difficile, ma adesso sta tirando fuori un sacco di nuove canzoni. Roba buona. Un sacco di blues, beh, se è blues siamo nel posto giusto. C'è solo un problema.
Sono tutte canzoni su Gesù.
Cristo.
Cristo.
Di tutti i momenti in cui ti poteva capitare di incontrare Dylan, proprio quello in cui si è dato anima e corpo al Vangelo. Il principe azzurro si è battezzato, va a catechismo tutti i giorni, vorrebbe convertire persino te. Tu che non hai mai avuto un vero Dio - fin qui ti bastava Dylan. E adesso?
Che tu sia un divo rock, rampante sul palco;
che tu abbia ogni droga, e ogni donna al tuo comando;
che tu sia un uomo d'affari, o un ladro d'alta società;
che ti chiamino dottore o che ti chiamino Maestà...
tu devi servire qualcuno.
Potrà essere il diavolo, o potrà essere il Signore, ma devi servire qualcuno.
che tu abbia ogni droga, e ogni donna al tuo comando;
che tu sia un uomo d'affari, o un ladro d'alta società;
che ti chiamino dottore o che ti chiamino Maestà...
tu devi servire qualcuno.
Potrà essere il diavolo, o potrà essere il Signore, ma devi servire qualcuno.
Non puoi servire Dio e mammona, diceva Gesù. Devi scegliere, ribadisce Bob Dylan in Gotta Serve Somebody, il sermone introduttivo. Eppure Slow Train Coming mi ha sempre dato l'impressione opposta, di un Dylan servitore di due padroni, deciso a tenere il piede in due scarpe tanto diverse: da una parte l'urgenza del convertito, il sacro fuoco dello zelo religioso; dall'altra il professionismo di Wrexler e Knopfler: la precisione quasi asfissiante con cui al Dylan rinato nella fede viene cucito addosso il vestito più elegante che abbia mai indossato. Gotta Serve Somebody è l'incarnazione di questa ambiguità: la canzone che rifiuta ogni compromesso col demonio è anche un singolo pulito e levigato che corre via che è un piacere, e che riporta Dylan nella top40 di Billboard. Ci vinse pure un Grammy per la "miglior performance vocale". L'ho sempre trovato un buffo paradosso, però forse ero vittima dei miei pregiudizi. Perché il professionismo e la fede religiosa dovrebbero essere due opposti, dopotutto?
Forse ragiono da cattolico. Non trovo credibile un predicatore che non vesta di sacco e non predichi la povertà: ma in America non è così. I pastori evangelicali pubblicano best seller, vanno in tv; non trovano senz'altro sconveniente servire Dio in giacca e cravatta. Il Gesù dei born again non grida ai ricchi di lasciare tutto quello che hanno e seguirlo: è un Gesù più pragmatico, un life-coach, ti chiede di darti una ripulita e sta attento che non ti riattacchi alla bottiglia. Non c'è nessuna contraddizione nell'aver trovato in Gesù un nuovo boss e nel dare al suo messaggio la veste più radiofonica possibile: più gente avrebbe raggiunto, più anime avrebbe salvato. Funzionò talmente bene che alcuni riuscirono ad accusarlo di opportunismo: di aver usato Gesù per attirare l'attenzione, di essersi convertito per aumentare il suo bacino di fan. Solo il flop dei due dischi successivi avrebbe convinto i più cinici che BD aveva veramente preferito Cristo a Mammona. Lo stesso Slow Train Coming è scivolato col tempo nel cono d'ombra della trilogia cristiana, la fase della sua carriera che fan e critici preferiscono aggirare e che lui stesso non frequenta volentieri: eppure quando uscì fu accolto bene. Per quanto in certi punti sembrasse un invasato, il furore religioso che lo animava era tutto sommato preferibile ai lamenti enigmatici di Street-Legal. Anche quando sembra un bigotto che borbotta contro i nemici dell'America, borbotta con una grinta che sembrava aver perduto da anni.
Sembra che Gesù abbia funzionato, dopotutto... (continua sul Post)
La sinistra che odia Recalcati
19-07-2017, 01:53dialoghi, RenziPermalink
"Dottore, la prego, mi aiuti..."
"Ma certo, si accomodi. Mi sembra un po' scosso".
"È a causa dell'odio".
"Dell'odio?"
"L'odio della sinistra".
"Mi faccia capire. C'è qualcuno che la sta odiando?"
"Non me, dottore, non me! Sta odiando Matteo Renzi!"
"Matteo Renzi?"
"Quale è il peccato commesso da Matteo Renzi per aver attirato su di sé un odio così intenso?"
"Ma un odio da parte di chi, mi perdoni?"
"Gliel'ho detto, dottore! Da parte della sinistra!"
"La sinistra in che s-".
"La sinistra che odia".
"E perché odia?"
"È nel suo DNA".
"Prego?"
"Fa parte del suo Dna e della sua storia, anche di quella più recente, scatenare l'odio nei confronti di coloro che, dichiarandosi militanti di sinistra, osano introdurre dei cambiamenti che rischiano di minare alla base la sua identità ideologica..."
"Cioè mi sta dicendo che c'è gente che passa il tempo a scatenare l'odio nei confronti di chi mina la sua identità?"
"La sinistra! La sinistra fa sempre così".
"Io non so esattamente cosa lei intende per sinistra, ma ammettiamo per un attimo che sia così: avrebbe un senso evolutivo. Se qualcuno ti mina alla base, tu cerchi di isolarlo e sconfiggerlo, no? Voglio dire, l'alternativa sarebbe farsi minare alla base, e se ti minano alla base poi..."
"Ma Renzi non è così!"
"Non vuole minare alla base?"
"No! Vuole solo mettere la sinistra di fronte al suo cadavere!"
"Matteo Renzi è un cadavere?"
"No! La sinistra è un cadavere!"
"Beh, in tal caso sarebbe comprensibile un minimo di ritrosia da parte del... del cadavere che non sa di essere tale, voglio dire..."
"La vera ragione di tutto questo odio è la difficoltà della vecchia sinistra di fare il lutto della sua fine storica".
"...s'immagini che qualcuno all'improvviso le dica che è morto: lei magari non la prenderebbe bene".
"Se fossi morto non mi si porrebbe più il problema!"
"Ha ragione anche lei".
"E invece la sinistra insiste a odiare Renzi!"
"Si vede che... non è così morta. Ma mi farebbe un esempio?"
"L'accusa di essere un rinnegato o un traditore in questi casi scatta come la salivazione condizionata nel cane di Pavlov".
"Ma veramente il cane di Pavlov non sbavava subito, aveva prima bisogno di una fase di condizionamento in cui... ma sta paragonando la sinistra a un cane?"
"Un cane fanatico!"
"Però non è morto. Perché prima ha detto che era morta, adesso dice che è un cane - un cane stupido, va bene - ma comunque un cane vivo".
"Un cane ringhioso che odia a comando!"
"Ma mi fa un esempio?"
"Un esempio? Vuole un esempio?"
"Ma sì, perché io tutto questo odio per Renzi, francamente..."
"Ma ne ho finché vuole, di esempi".
"Bene, quindi me ne faccia uno".
"La storia ci offre una miriade di esempi, antichi e più recenti".
"Sentiamo".
"La dichiarazione di voto favorevole al Referendum del 4 dicembre è assimilabile, per chi sente di appartenere al mondo della sinistra, a un vero e proprio outing con tutti i fatali effetti di discriminazione che esso comporta".
"Prego? Non si capisce".
"Mi ha sentito? Nel mondo della sinistra, se uno diceva di voler votare favorevole al Referendum..."
"Votare favorevole significa votare Sì, immagino".
"...era come se facesse outing".
"Forse lei intendeva un coming out".
"...con tutti i fatali effetti di discriminazione!"
"E cioè?"
"Cioè cosa?"
"Guardi, lei mi sembra un po' scosso e non si sta spiegando molto bene, ma mi pare di capire che abbia paragonato i disagi di un renziano durante la campagna referendaria a quelli di un gay che fa coming out".
"Esattamente".
"Ora lei magari fa un altro mestiere e le sfuggono quelli che possono essere i disagi di un gay che si dichiari tale di fronte alla sua famiglia, o nell'ambiente di lavoro: a volte si corre il rischio di rompere i contatti coi genitori, o perdere il lavoro, o patire forme di bullismo o di mobbing... c'è persino gente che si suicida".
"Ma infatti".
"Ma lei conosce casi del genere? Qualcuno è stato mobbizzato o bullizzato per aver dichiarato il suo sostegno a Renzi? Ci sono stati tentativi di suicidio?"
"Ma possibile che ogni atto, ogni pensiero, ogni gesto politico di Renzi sia sbagliato?"
"No, aspetti, non cambi argomento. Si rende conto che ha paragonato i renziani ai gay che fanno coming out?"
"È una metafora".
"È molto forte. Ma ha degli argomenti su cui sostenerla? Episodi specifici, non so, discriminazioni sul luogo di lavoro, colluttazioni... qualcosa di reale, insomma".
"Matteo Renzi viene identificato non come la cura, ma come la malattia della sinistra. Una infezione, un batterio, una anomalia genetica".
"Ma da chi?"
"Gliel'ho detto! Dalla sinistra!"
"Ma mi saprebbe citare una sola persona che ha paragonato Matteo Renzi a un batterio?"
"Insomma lei vuole delle citazioni".
"Delle prove, sa com'è. Perché finora l'ho sentita paragonare la sinistra a un morto e a un cane di Pavlov, mentre non ho ancora sentito nessuna persona di sinistra paragonare Renzi a un batterio... ma forse me lo sono perso, sa, ognuno vive nella sua bolla e quindi..."
"Va bene, le farò un esempio".
"Oh, ecco".
"Così si capirà che non mi sto inventando tutto".
"Bene".
"Un intellettuale lucido verso il quale provo solo stima come Tomaso Montanari esigeva eloquentemente che Pisapia facesse autocritica per aver votato Sì al fine di risultare credibile nel suo sforzo di rifondazione di un nuovo campo della sinistra".
"...e quindi?"
"Ma non capisce? Vogliono l'autocritica! Per aver votato Sì!"
"Beh, dal loro punto di vista, mi scusi, se loro erano per il No e Pisapia ha votato Sì... la loro ritrosia a farsi guidare da qualcuno che la pensava in modo diverso da loro mi pare in qualche modo comprensibile..."
"L'odio investe l'altro in quanto eterogeneo e inassimilabile. Renzi per la "sinistra sinistra" è l'incarnazione maligna di una eterogeneità che resiste ad ogni assimilazione".
"Senta, non starà un filo esagerando? Renzi ha proposto una riforma, molte persone a sinistra di Renzi non la gradivano e hanno votato contro. È quel che succede in democraz..."
"È un fenomeno che ricorda il rito tribale di alcune popolazioni dell'Africa nera riportato da Franco Fornari nel suo celebre Psicoanalisi della guerra"
"Addirittura".
"Di fronte alla morte insensata di un bambino, la tribù afflitta anziché incamminarsi verso la via dolorosa dell'elaborazione del lutto preferisce attribuirne la responsabilità alla popolazione confinante e ai malefici del suo sciamano dichiarandole guerra".
"E insomma prima erano morti, poi erano cani, adesso sono tribù primitive, mi sembra che stiamo facendo progressi".
"L'odio che lo investe vorrebbe coprire la fine di una concezione del mondo che ha nutrito l'interpretazione della storia per tutto il Novecento".
"Va bene, va bene, ho capito".
"La lotta di classe, una concezione etica dello Stato, l'identificazione del liberalismo e dei sui principi come Male, la gerarchia immobile del partito, la prevalenza della Causa universale sulle relazioni di cura particolari, una differenziazione paranoide del mondo in forze del Bene e in forze del Male".
"Una differenziazione paranoide, già..."
"L'ho convinta, dottore?"
"Beh, diciamo che mi ha fornito alcuni spunti interessanti... ma non vorrei saltare a delle conclusioni. Credo che lei abbia bisogno di uno specialista".
"Uno... specialista?"
"Quel che mi è sembrato di capire è che lei è reduce da un investimento emotivo molto... molto pesante. Probabilmente ha trasferito su Matteo Renzi un grosso carico di fiducia, e ha vissuto la sua sconfitta al referendum come un trauma. Piuttosto di riconoscere gli oggettivi errori del suo eroe, si è costruito un nemico implacabile a cui addossare tutte le colpe... attingendo dalla retorica anticomunista di qualche anno fa, mi pare: la sinistra-sinistra che fa i processi ai traditori, roba da fine anni Settanta, forse l'imprinting dei primi anni di università..."
"Ma dottore..."
"Credo che un po' di analisi le farebbe bene, e forse so anche chi consigliarle: in città abbiamo uno dei migliori d'Italia, scrive libri bellissimi".
"Dottore, guardi che..."
"Non deve avere paura; l'analisi è solo uno strumento. Lei è venuto qui perché mi voleva parlare: perfetto, le sto soltanto proponendo di parlare con qualcuno molto più bravo di me. Non è una fortuna che esistano specialisti che ci possono aiutare in casi come questi?"
"Ma dottore..."
"Si chiama Massimo Recalcati, davvero, ci vada, lui può fare veramente molto per lei".
"Dottore, sono io".
"Cosa?"
"Massimo Recalcati sono io".
(I brani in corsivo sono tratti da questo editoriale di Massimo Recalcati).
"Ma certo, si accomodi. Mi sembra un po' scosso".
"È a causa dell'odio".
"Dell'odio?"
"L'odio della sinistra".
"Mi faccia capire. C'è qualcuno che la sta odiando?"
"Non me, dottore, non me! Sta odiando Matteo Renzi!"
"Matteo Renzi?"
"Quale è il peccato commesso da Matteo Renzi per aver attirato su di sé un odio così intenso?"
"Ma un odio da parte di chi, mi perdoni?"
"Gliel'ho detto, dottore! Da parte della sinistra!"
"La sinistra in che s-".
"La sinistra che odia".
"E perché odia?"
"È nel suo DNA".
"Prego?"
"Fa parte del suo Dna e della sua storia, anche di quella più recente, scatenare l'odio nei confronti di coloro che, dichiarandosi militanti di sinistra, osano introdurre dei cambiamenti che rischiano di minare alla base la sua identità ideologica..."
"Cioè mi sta dicendo che c'è gente che passa il tempo a scatenare l'odio nei confronti di chi mina la sua identità?"
"La sinistra! La sinistra fa sempre così".
"Io non so esattamente cosa lei intende per sinistra, ma ammettiamo per un attimo che sia così: avrebbe un senso evolutivo. Se qualcuno ti mina alla base, tu cerchi di isolarlo e sconfiggerlo, no? Voglio dire, l'alternativa sarebbe farsi minare alla base, e se ti minano alla base poi..."
"Ma Renzi non è così!"
"Non vuole minare alla base?"
"No! Vuole solo mettere la sinistra di fronte al suo cadavere!"
"Matteo Renzi è un cadavere?"
"No! La sinistra è un cadavere!"
"Beh, in tal caso sarebbe comprensibile un minimo di ritrosia da parte del... del cadavere che non sa di essere tale, voglio dire..."
"La vera ragione di tutto questo odio è la difficoltà della vecchia sinistra di fare il lutto della sua fine storica".
"...s'immagini che qualcuno all'improvviso le dica che è morto: lei magari non la prenderebbe bene".
"Se fossi morto non mi si porrebbe più il problema!"
"Ha ragione anche lei".
"E invece la sinistra insiste a odiare Renzi!"
"Si vede che... non è così morta. Ma mi farebbe un esempio?"
"L'accusa di essere un rinnegato o un traditore in questi casi scatta come la salivazione condizionata nel cane di Pavlov".
"Ma veramente il cane di Pavlov non sbavava subito, aveva prima bisogno di una fase di condizionamento in cui... ma sta paragonando la sinistra a un cane?"
"Un cane fanatico!"
"Però non è morto. Perché prima ha detto che era morta, adesso dice che è un cane - un cane stupido, va bene - ma comunque un cane vivo".
"Un cane ringhioso che odia a comando!"
"Ma mi fa un esempio?"
"Un esempio? Vuole un esempio?"
"Ma sì, perché io tutto questo odio per Renzi, francamente..."
"Ma ne ho finché vuole, di esempi".
"Bene, quindi me ne faccia uno".
"La storia ci offre una miriade di esempi, antichi e più recenti".
"Sentiamo".
"La dichiarazione di voto favorevole al Referendum del 4 dicembre è assimilabile, per chi sente di appartenere al mondo della sinistra, a un vero e proprio outing con tutti i fatali effetti di discriminazione che esso comporta".
"Prego? Non si capisce".
"Mi ha sentito? Nel mondo della sinistra, se uno diceva di voler votare favorevole al Referendum..."
"Votare favorevole significa votare Sì, immagino".
"...era come se facesse outing".
"Forse lei intendeva un coming out".
"...con tutti i fatali effetti di discriminazione!"
"E cioè?"
"Cioè cosa?"
"Guardi, lei mi sembra un po' scosso e non si sta spiegando molto bene, ma mi pare di capire che abbia paragonato i disagi di un renziano durante la campagna referendaria a quelli di un gay che fa coming out".
"Esattamente".
"Ora lei magari fa un altro mestiere e le sfuggono quelli che possono essere i disagi di un gay che si dichiari tale di fronte alla sua famiglia, o nell'ambiente di lavoro: a volte si corre il rischio di rompere i contatti coi genitori, o perdere il lavoro, o patire forme di bullismo o di mobbing... c'è persino gente che si suicida".
"Ma infatti".
"Ma lei conosce casi del genere? Qualcuno è stato mobbizzato o bullizzato per aver dichiarato il suo sostegno a Renzi? Ci sono stati tentativi di suicidio?"
"Ma possibile che ogni atto, ogni pensiero, ogni gesto politico di Renzi sia sbagliato?"
"No, aspetti, non cambi argomento. Si rende conto che ha paragonato i renziani ai gay che fanno coming out?"
"È una metafora".
"È molto forte. Ma ha degli argomenti su cui sostenerla? Episodi specifici, non so, discriminazioni sul luogo di lavoro, colluttazioni... qualcosa di reale, insomma".
"Matteo Renzi viene identificato non come la cura, ma come la malattia della sinistra. Una infezione, un batterio, una anomalia genetica".
"Ma da chi?"
"Gliel'ho detto! Dalla sinistra!"
"Ma mi saprebbe citare una sola persona che ha paragonato Matteo Renzi a un batterio?"
"Insomma lei vuole delle citazioni".
"Delle prove, sa com'è. Perché finora l'ho sentita paragonare la sinistra a un morto e a un cane di Pavlov, mentre non ho ancora sentito nessuna persona di sinistra paragonare Renzi a un batterio... ma forse me lo sono perso, sa, ognuno vive nella sua bolla e quindi..."
"Va bene, le farò un esempio".
"Oh, ecco".
"Così si capirà che non mi sto inventando tutto".
"Bene".
"Un intellettuale lucido verso il quale provo solo stima come Tomaso Montanari esigeva eloquentemente che Pisapia facesse autocritica per aver votato Sì al fine di risultare credibile nel suo sforzo di rifondazione di un nuovo campo della sinistra".
"...e quindi?"
"Ma non capisce? Vogliono l'autocritica! Per aver votato Sì!"
"Beh, dal loro punto di vista, mi scusi, se loro erano per il No e Pisapia ha votato Sì... la loro ritrosia a farsi guidare da qualcuno che la pensava in modo diverso da loro mi pare in qualche modo comprensibile..."
"L'odio investe l'altro in quanto eterogeneo e inassimilabile. Renzi per la "sinistra sinistra" è l'incarnazione maligna di una eterogeneità che resiste ad ogni assimilazione".
"Senta, non starà un filo esagerando? Renzi ha proposto una riforma, molte persone a sinistra di Renzi non la gradivano e hanno votato contro. È quel che succede in democraz..."
"È un fenomeno che ricorda il rito tribale di alcune popolazioni dell'Africa nera riportato da Franco Fornari nel suo celebre Psicoanalisi della guerra"
"Addirittura".
"Di fronte alla morte insensata di un bambino, la tribù afflitta anziché incamminarsi verso la via dolorosa dell'elaborazione del lutto preferisce attribuirne la responsabilità alla popolazione confinante e ai malefici del suo sciamano dichiarandole guerra".
"E insomma prima erano morti, poi erano cani, adesso sono tribù primitive, mi sembra che stiamo facendo progressi".
"L'odio che lo investe vorrebbe coprire la fine di una concezione del mondo che ha nutrito l'interpretazione della storia per tutto il Novecento".
"Va bene, va bene, ho capito".
"La lotta di classe, una concezione etica dello Stato, l'identificazione del liberalismo e dei sui principi come Male, la gerarchia immobile del partito, la prevalenza della Causa universale sulle relazioni di cura particolari, una differenziazione paranoide del mondo in forze del Bene e in forze del Male".
"Una differenziazione paranoide, già..."
"L'ho convinta, dottore?"
"Beh, diciamo che mi ha fornito alcuni spunti interessanti... ma non vorrei saltare a delle conclusioni. Credo che lei abbia bisogno di uno specialista".
"Uno... specialista?"
"Quel che mi è sembrato di capire è che lei è reduce da un investimento emotivo molto... molto pesante. Probabilmente ha trasferito su Matteo Renzi un grosso carico di fiducia, e ha vissuto la sua sconfitta al referendum come un trauma. Piuttosto di riconoscere gli oggettivi errori del suo eroe, si è costruito un nemico implacabile a cui addossare tutte le colpe... attingendo dalla retorica anticomunista di qualche anno fa, mi pare: la sinistra-sinistra che fa i processi ai traditori, roba da fine anni Settanta, forse l'imprinting dei primi anni di università..."
"Ma dottore..."
"Credo che un po' di analisi le farebbe bene, e forse so anche chi consigliarle: in città abbiamo uno dei migliori d'Italia, scrive libri bellissimi".
"Dottore, guardi che..."
"Non deve avere paura; l'analisi è solo uno strumento. Lei è venuto qui perché mi voleva parlare: perfetto, le sto soltanto proponendo di parlare con qualcuno molto più bravo di me. Non è una fortuna che esistano specialisti che ci possono aiutare in casi come questi?"
"Ma dottore..."
"Si chiama Massimo Recalcati, davvero, ci vada, lui può fare veramente molto per lei".
"Dottore, sono io".
"Cosa?"
"Massimo Recalcati sono io".
(I brani in corsivo sono tratti da questo editoriale di Massimo Recalcati).
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Il destino è già scritto (ma è comunque un casino)
18-07-2017, 12:33cinema, Cosa vedere a Cuneo (e provincia) quando sei vivoPermalink2:22 - Il destino è già scritto (2:22, Paul Currie, 2017).
Quanti aeroplani atterrano e decollano da New York in un giorno? Quanti incidenti avvengono negli incroci di Manhattan? Quanta gente si è sparata alla stazione Grand Central, se non dal vero almeno nei film? Quante stelle esplodono ogni giorno nella galassia? E se dietro tutti questi avvenimenti ci fosse uno schema? Non sarebbe comunque uno schema troppo complicato?
Dylan Boyd (Michiel Huisman) è un controllore di volo al JFK, con la mania dei pattern. Dietro a ogni avvenimento quotidiano ha sempre la sensazione di intravedere un pattern. Non uno schema, non un disegno; la versione doppiata dice proprio così: pattern. Si vede che era intraducibile, boh. Boyd li vede dappertutto. Infatti a un certo punto un suo collega gli ricorda: ehi, lo sai come chiamano quelli che vedono i pattern?
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Grand Central ha già qualcosa di metafisico. |
Al che Boyd sbuffa, cambia argomento, ma l'interrogativo rimane: come si chiamano? Googlando poi a casa ho scoperto che si tratta di Apofenia; che è un'ossessione assai affine alla Pareidolia (questa la conoscevo), e che è tipica di chi è portato a notare le coincidenze ma non a considerarle davvero coincidenze, bensì parte di uno schema, un disegno, insomma un pattern. E dunque, così come ogni buon thriller sin dai tempi di Hitchcock è incentrato su una psicosi; se per dire Babadook era un film sulla depressione post-partum (e in generale sulla sindrome dell'impostore di molte madri), Get Out sull'invidia etnica... 2:22 è un film sull'apofenia. La stessa sindrome che a mezza estate mi fa andare per cinema a cercare qualche film un po' irregolare, qualcosa che mi dia un certo tipo di brivido ma che mi faccia anche pensare, alla Predestination: film che assomiglino a puntate lunghe di Ai confini della realtà: ma ho la sensazione che si stiano facendo sempre più rari. È un peccato, perché io in questo periodo dell'anno ho proprio bisogno di vedere cose del genere. Non so perché, sarà un pattern...
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Lei si chiama Teresa Palmer e spero di rivederla in film più interessanti. |
2:22 è al Cinelandia di Borgo San Dalmazzo (20:30, 22:40), al Fiamma di Cuneo (21:10) e all'Italia di Saluzzo (20:00): sconsigliato a chi ha paura di volare.
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Gramellini e il calo della fertilità
17-07-2017, 00:18giornalisti, sessoPermalink
La brutta notizia di questa settimana è che gli spermatozoi occidentali stanno diminuendo - no, non è più una sensazione: secondo uno studio dell'Università Ebraica di Gerusalemme tra il 1973 e il 2011 si sarebbero dimezzati. La cosa più inquietante non è nemmeno la caduta degli spermini (ce ne sono ancora abbastanza per inguaiarvi a vita, prendete precauzioni), ma il fatto che non sappiamo cosa li stia eliminando. L'inquinamento? Il logorio della vita moderna? Troppo porno? Ma anche i videogiochi, perché no. Negli ultimi vent'anni l'aumento dell'infertilità è stato imputato praticamente a qualsiasi cosa fosse popolare in quel momento: le droghe, ovviamente, e il cellulare; il fumo, Instagram, i pantaloni a vita bassa e poi quelli skinny. A tutt'oggi in realtà gli scienziati non sanno che cos'è che uccide i nostri spermini (e non quelli asiatici e africani). Perché diciamolo, sono un po' ottusi questi scienziati. Tutto il tempo ad analizzare dati, formulare ipotesi e articolare tesi, quando basterebbe domandare a Gramellini.
Gramellini, infatti, sa.
Il calo della fertilità, ci dice, è connesso con un calo del desiderio sessuale. Facciamo meno figli perché abbiamo meno voglia di fare sesso.
Chiaro no? Evidente. Cioè lo sanno anche le capre che il sesso serve a fare i bambini; se nascono meno bambini, significa che si fa meno sesso. Scansati, Sherlock Holmes.
Giuro: sulla prima del Corriere, Gramellini ragiona così. Ha appena letto il lancio di un riassunto di un articolo accademico che dice che gli spermatozoi stanno diminuendo dal 1973. Un essere umano che abbia fatto un minimo di educazione sessuale a scuola - e che non svolgesse l’onerosa professione di editorialista in un quotidiano italiano - ne dedurrebbe che il liquido seminale sta perdendo progressivamente la sua capacità di fecondare l'ovulo. E quindi una coppia standard che desideri un figlio oggi dovrebbe avere per ogni rapporto sessuale una percentuale di successo inferiore alla metà di un’analoga coppia di quarant’anni fa.
Ma Gramellini scrive sul Corriere! e quindi decide che, se gli spermini sono la metà, è perché la coppia del 2011 ha meno voglia di fare sesso, a causa di un calo del desiderio: “si parla continuamente di sesso, ma lo si pratica sempre di meno”. Vi chiederete quali dati, quali evidenze empiriche consentano allo stimato editorialista di affermare una cosa del genere. Nessun dato, tranne forse uno - tenetevi stretti: negli zoo (quali? dove?) i maschi delle tigri vengono trattati con il Viagra "per supplire a una desolante carenza di iniziativa". Fonte? Beh, ho googlato e pare che non sia una fake news. Qualcuno ha davvero pensato di somministrare viagra a una tigre in uno zoo. Ma gli unici articoli che ne parlano risalgono al... 2001, quando il viagra era la novità dell’anno, faceva notizia tutti i giorni e i pizzaioli lo grattugiavano sulle margherite. E si riferiscono al singolo caso di uno zoo di Pechino.
Insomma Gramellini per corroborare la sua ipotesi (il calo del desiderio dei maschi occidentali), usa come esempio la tigre in uno zoo. Che in fondo è una metafora neanche tanto originale (la civiltà come una gabbia) - resta il fatto che lo zoo non è occidentale, che la tigre non è un uomo, che il suo problema non è la scarsità di spermini nel seme, ma (presumibilmente) la disfunzione erettile: e che a quest’ora probabilmente quella tigre in un modo o nell’altro ha superato il problema, visto che sono passati più di 15 anni. Qualcuno che sta leggendo qui era all’asilo. Pensate a quanto tempo può restare un fattoide qualsiasi nella testa di un editorialista del Corriere.
Per fortuna Gramellini sa tante altre cose, per esempio al liceo doveva andare forte in Storia antica ed evidentemente un editoriale sull’infertilità era l’occasione giusta per farcelo notare. “L’imperatore Augusto fu visto battere la testa contro un muro del Senato quando comprese che Roma era diventata così sterile da non essere in grado di sostituire i quindicimila soldati scomparsi nella battaglia di Teutoburgo contro i trisavoli della Merkel, mentre appena due secoli prima era riuscita a rimpiazzare in un batter di ciglia le quasi centomila perdite subite dai cartaginesi, trisavoli dei migranti”. Ok, può darsi che ci sia anche un lieve razzismo qui, ma sapete una cosa? È il dettaglio meno interessante. C’è un imperatore Augusto che entra nel Senato per battere la testa contro il muro (non risulta da nessuna fonte antica, ma non è divertente?) C’è un dato molto approssimativo: Roma non subì “centomila perdite” a causa dei cartaginesi (soltanto durante la seconda guerra punica le perdite di Romani e confederati furono superiori alle 200.000 unità, una cifra spaventosa se riferita a una popolazione complessiva di pochi milioni abitanti) e senz’altro non le rimpiazzò “in un batter di ciglia” - Gramellini è riuscito a scovare proprio la fase storica in cui la Repubblica Romana fronteggiò uno dei suoi peggiori cali demografici e per rimpolpare i suoi ranghi dovette abbassare drasticamente il reddito necessario per entrare nell’esercito. Per contro ai tempi della battaglia di Teutoburgo l’impero era in crescita, e anche l’esercito romano non smise di aumentare in effettivi - anche se fu necessario, per la prima volta, ammettere nelle fila i liberti, ovvero gli ex schiavi. In entrambi i casi, il risultato nel medio termine fu che i cittadini Romani aumentarono.
A volte Gramellini fraintende per il puro gusto di farlo: “L’associazione inglese «Having Kids» ha considerato l’eventuale nascita di un terzo figlio degli eredi al trono William e Kate «non sostenibile per l’ambiente e l’economia della Gran Bretagna»”. Having Kids è in realtà un ente nonprofit che si occupa di pianificazione famigliare: basta dare un’occhiata al sito per capire che non è che si siano messi a calcolare quante sterline costi un altro piccolo Windsor, o quante querce secolari sia necessario abbattere per scaldarlo: molto più semplicemente, Having Kids vuole sensibilizzare gli inglesi sul controllo delle nascite, e chiede ai Windsor - in quanto famiglia più popolare della Gran Bretagna - di dare l’esempio. Però, certamente, l’idea che ci sia da qualche parte una banda di matti che trova insostenibile un terzo figlio di William e Kate è più divertente.
E allora proporrei di fare così: cominciamo a spargere la notizia che la causa dell’infertilità maschile sono gli editoriali del Corriere. Fonte? Beh, io appena ho letto il titolo dell’ultimo pezzo di Merlo (“Dobbiamo smettere di considerare normale lo «sballo»”) ho perso la voglia di perpetuare l’umanità. E c’è uno zoo nel mondo dove una foca ha inghiottito un editoriale del Corriere e ha smesso di fare sesso per alcuni giorni - dal 1900 a oggi volete che non sia successo? Vi sembrano argomenti pretestuosi? Pensateci bene. L’imperatore Marco Aurelio ebbe da Faustina 14 figli: non leggevano il Corriere. Coincidenza?
Dylan contro Gozzilla
15-07-2017, 00:28Bob Dylan, concerti, Il Post, musicaPermalink
Adagiato sul fondale di un oceano di rimpianto, il Mostro che un Tempo Era Stato Bob Dylan forse avrebbe voluto soltanto riposare per sempre. Dormire, sognare, eh magari. Cosa lo svegliò? Quale attorcigliamento del destino? Un'ondata anomala, una radiazione nociva, un flop al botteghino, un divorzio faticoso, un telegramma con un'offerta che non si poteva proprio rifiutare? Sia come sia, nell'alba del 1978 Bob Dylan si riscosse dal suo torpore e si innalzò sull'orizzonte dell'oceano, in cerca di cibo. Non era più un bardo vagabondo, né la voce della sua generazione. La mutazione era avvenuta: Bob Dylan era diventato un dinosauro. E Tokio lo aspettava.
Tokio va matto per queste cose.

I got the style but not the grace
I got the clothes but not the face
I got the bread but not the butter
I got the winda but not the shutter
But I'm big in Japan (Tom Waits, Big in Japan, 1999).
I got the clothes but not the face
I got the bread but not the butter
I got the winda but not the shutter
But I'm big in Japan (Tom Waits, Big in Japan, 1999).
Dylan è sempre stato grande soprattutto nei Paesi anglofoni. Quando arrivò al Budokan, nel febbraio del '78, non faceva un concerto all'estero da dieci anni. Era l'inizio del World Tour: 114 concerti in Giappone, Australia, Europa, USA. Di giri del mondo Dylan ne aveva già fatto almeno uno, e tanti altri ne farà, ma quello del '78 è il World Tour per eccellenza: quello in cui Dylan convinse più all'estero che in patria (dove comunque fece il maggior numero di date). Per la stampa americana era il terzo tour in cinque anni: e rispetto all'"energia" dei concerti con la Band, e alla spontaneità della Rolling Thunder Revue era più difficile mandar giù questo nuovo Dylan in tutina bianca, coi suoi turnisti e gli ottoni. Uno strano Dylan post-Elvis (ma anche pseudo-Springsteen), un Dylan con una scaletta rigorosamente imbottita di grandi successi imposti dagli organizzatori, rivisti con arrangiamenti professionali, un po' impersonali, de-dylanizzati: niente più momenti acustici. In compenso qualche reggae, uno spruzzo di salsa, un filo di funky, qualche pezzo da crociera. Un Dylan, per farla breve, da esportazione.
Un prodotto da turisti. Un Dylan a corto di liquidità (il divorzio e il film si erano rivelati due pozzi senza fondo), che prova a rivendersi ai mercati esteri ma non è affatto sicuro di cosa gli indigeni si aspettino da lui - e allora prova a nascondersi dietro la sagoma di un divo-tipo del rock americano anni Settanta: vi piacerà il sassofono? La E Street Band usa il sassofono, ce lo metto anch'io. E il reggae? La chitarra in levare di Don't Think Twice può risultare sconcertante, ma va calata nel contesto di quella manciata di anni in cui tutti dovevano avere almeno un pezzo reggae nel repertorio.
Da Bowie agli Smiths, la chitarra in levare sembrava l'unica cosa che mettesse d'accordo dinosauri e punk; l'equivalente dell'autotune di oggi, o dei campionamenti negli anni Novanta, o della rucola sulla pizza degli anni Ottanta: qualcosa che fino al giorno prima era esotico e qualche giorno dopo avrebbe stancato chiunque. Anche Dylan ci avrebbe regalato almeno un reggae memorabile, prima di accantonare il genere. Ma al Budokan aveva più di un buon motivo: doveva cucinare per l'ennesima volta Knockin' on Heaven's Door. Che il brano potesse funzionare anche con un tempo reggae lo aveva dimostrato, anni prima, Eric Clapton: magari Dylan non era sicuro di cosa piacesse ai giapponesi, ma aveva capito che amavano Clapton, che al Budokan aveva appena trionfato. E quindi reggae, perché no? La stessa All I Really Want to Do sembra più simile alla cover di Cher che alla sua. Quanto a All Along the Watchtower, dal vivo è sempre stata più hendrixiana che dylaniana - è come se At Budokan fosse un album di tributo a sé stesso: Dylan che interpreta i più grandi interpreti di Dylan. Oggi un concetto del genere potrebbe persino funzionare - nel pieno della rivoluzione post'77, sembrava un suicidio artistico (stavo per scrivere seppuku ma ho resistito) (no, non è vero, alla fine l'ho scritto).
Quando uscì in Occidente, At Budokan fu vittima di un vero e proprio accerchiamento. Per alcuni critici era sciatto, per altri troppo rifinito. Qualcuno riuscì a dire entrambe le cose. Era il peggior disco live di Dylan (era anche il terzo in cinque anni) - anzi no, era il peggior disco di Dylan. Qualche critico scrisse che era il peggior disco nella storia del rock, perché no? C'è sempre un peggior disco della storia del rock da qualche parte (il solo Dylan potrebbe averne pubblicati cinque o sei). L'immagine di un Dylansauro che infierisce su Tokio con una collezione di vecchi successi aggiornati al gusto dei tempi era troppo ghiotta per gli operatori di un settore dove se non fai il cinico non ti legge nessuno. Di lì a poco Dylan avrebbe avuto la sua crisi religiosa, accreditando ulteriormente l'impressione che il World Tour fosse stato un passo falso - e se i live in generale soffrono il tempo più dei dischi di studio, questo è vero in modo particolare per At Budokan, un live che cercava con affanno di cavalcare tendenze musicali che Punk e New Wave stavano già dichiarando obsolete.
(A proposito di dinosauri occidentali che cercavano un rilancio:
due anni prima Muhammad Ali si era fatto massacrare gli stinchi dal wrestler Antonio Inoki).
Il risultato di tutto questo è che nel giro di pochi anni At Budokan divenne uno dei dischi meno ascoltati del suo catalogo, una curiosità per appassionati (come forse Dylan aveva previsto che fosse). Insomma io non lo avevo mai ascoltato, At Budokan, ok? Per quale motivo al mondo avrei dovuto farlo? Tutti ne parlavano male, nessuno ne aveva in casa una copia da prestare, ed era un disco doppio! Costava una follia, non conteneva un solo inedito e rappresentava una tipica fase calante della sua carriera. E anche quando la discografia intera approdò su Spotify, At Budokan restava un oggetto ben poco invitante. Il primo brano in cui incappai era quello iniziale, forse la più bolsa Mr Tambourine Man mai realizzata, con Steve Douglas al... piffero!
Qui entriamo nel terreno delle idiosincrasie: io odio il piffero. Quando non è il flauto traverso di Jon Anderson; quando non viene usato per assoli prog, ma si limita ad accompagnare la melodia, lo trovo insopportabile. Se va per i fatti suoi è una distrazione; se segue il cantato è inutile: in ogni caso ottiene il risultato di precipitarmi a un concerto dei Modena City Ramblers. Se poi il pezzo è Mr Tambourine Man, la situazione è ancora più ridondante: è come se Dylan cercasse di spiegare ai giapponesi il senso della canzone, un turista americano che gesticola: il tambourine man è il pifferaio di Hammelin, capite? Lo stesso Dylan mi sembrava cantasse con scarsissima convinzione: se da una parte dovrei rallegrarmi perché finalmente ha capito come chiedere al mixer di alzargli il microfono, dall'altra mi fa capire quanto è difficile dover cantare con la voce di Dylan: o strepiti, o non sei convincente; e non puoi strepitare tutto il tempo.
Shelter from the Storm è se possibile ancora più desolante: Dylan decide di appoggiarsi alle coriste, col risultato di annullare non solo il sentimento della canzone, ma la stessa melodia: è uno dei suoi primi tentativi di rileggere una canzone su una nota sola - un omaggio al minimalismo nipponico? (Anche in Like a Rolling Stone, senza un apparente motivo, semplifica la scala ascendente delle strofe riducendola a un solo gradino, un solo intervallo di quarta: Do-Fa, Do-Fa, un Dylan per bambini: se ne sarebbero ricordati gli U2 ai tempi di Angel of Harlem).
Insomma non è che inizi nel migliore dei modi, At Budokan... (continua sul Post)
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Ammazzarsi in Amazzonia (ma di noia)
12-07-2017, 02:44cinema, Cosa vedere a Cuneo (e provincia) quando sei vivoPermalinkCiviltà perduta (The Lost City of Z, James Grey, 2016)
Ma mettetevi per una volta anche nei panni dei Guarani. Ve ne state andando a raccogliere qualcosa da mangiare per la vostra famiglia, quando vi imbattete non in un boa di un quintale, non in un ragno gigante, non in un cane a due nasi, ma in qualcosa di peggio: un esploratore europeo. Allora non è una questione di razzismo, davvero, però non è esagerato dire che il più pulito degli esploratori europei come minimo ci ha la rogna. Anche quello che non intende disboscare il quadrante di foresta e venderti al mercato degli schiavi più vicino, anche quello che più che ai soldi pensa all'avventura, alla gloria, a lasciare un nome minuscolo su una carta geografica che fin lì è rimasta bianca, anche lui, diciamolo: puzza.
Hanno quest'abitudine ad andare sempre in giro coperti di tessuti, sudarci dentro e lamentarsi; e con la scusa dei barracuda, non si lavano mai. Nel posto più umido al mondo. Mio cugino una volta ha dato la mano a un esploratore inglese e nel giro di tre anni tutta la loro civiltà si era estinta, oh, sono cose successe davvero. Dunque quando vi ritrovate davanti un esploratore - non importa quanto piccolo, e simpatico, lo so, certi son proprio carini, verrebbe voglia di portarteli a casa e rosicchiarseli con calma - la cosa più sensata da fare sarebbe farli secchi, una freccia al collo e via: è anche una cosa pietosa, più rapida della malaria o del veleno dello scorpione. E però certe volte come fai? Te ne arrivano di talmente buffi, con quei baffi biondi e quei gingilli lucenti. È come prendere a calci un cucciolo.
Allora di solito cosa fa un buon indio che non vuole grane? Saluta e tira dritto. Se l'esploratore insiste (insistono sempre) scusi buon uomo, mi saprebbe dire dove si trova l'Antica Civiltà Eccetera, tu gli indichi l'est, in realtà andrebbe bene qualsiasi punto cardinale ma l'est funziona meglio. Se quello comincia a chiederti: c'è una città laggiù? strade? fortificazioni? vasellame? tu fai sì sì con la testa, certo, certo, non so cosa sia il vasellame ma tu vai a est che non ti sbagli. Così lui se ne va e puoi stare sicuro che non torna più.
A un certo punto del film, il leggendario e sfortunato esploratore Percy Fawcett si ritrova coi suoi fidi compagni su una zattera alla deriva del fiume. È proprio alla deriva. Non sta remando nessuno. Eppure fin qui era stato ripetuto fino alla noia che l'obiettivo di Fawcett era trovare la sorgente di un fiume. Ora io non vorrei millantare tutta queste esperienza di cose amazzoniche, ma per quel che ne so, anche laggiù i fiumi scorrono dalla sorgente alla foce, e quindi insomma, come fa Percy Fawcett a trovare la sorgente - alla fine della stessa scena - senza mai remare controcorrente? Dici vabbe', è solo un blooper, la troupe ha passato mesi in Amazzonia ma forse questa cosa delle correnti non l'ha abbastanza interiorizzata. E però è indicativo di quel che Grey ha capito della foresta. Con le riprese en plein air cercava il realismo, ha ottenuto l'esatto contrario (continua su +eventi!)
Similmente a Iñárritu, che con Revenant voleva darci il ritratto epico di un uomo immerso nella natura, e dopo mesi di riprese ad alta quota con la sola luce naturale ci ha soltanto mostrato di non aver capito né cosa ci sia di davvero disumano nella natura, né quali siano i veri limiti dell'uomo (il suo Di Caprio sembra un supereroe perduto nel salvaschermo di un pc aziendale). Grey commette lo stesso errore: disbosca un pezzo di foresta per farci passare la troupe, poi inquadra i suoi attori e li costringe a dare due colpi di machete ai bordi di un sentiero un cui passerebbe un fuoristrada - probabilmente c'è appena passato. Poi appena può fa un omaggio a Herzog - magari gli stessi errori li faceva anche Herzog (non ho voglia di controllare). Ma erano tempi diversi, il cinema di avventura era un genere ancora abbastanza codificato, un certo tasso di ingenuità necessario. Nessuno si lamenta se in un western le pistole a tamburo sono anacronistiche. Nessuno si lamenta se in un buon vecchio filmone di esploratori in technicolor i fiumi vanno a rovescio. Se queste cose tornano di moda - l'anno scorso Tarzan è andato abbastanza bene - perché non profittarne?
E invece Grey si è ritrovato in mano questo romanzo crepuscolare sull'ultima ricerca dell'Eldorado, e ha pensato bene di tirarci fuori un biopic: al pubblico estivo che in sala cerca il brivido di un'avventura esotica, ha pensato di propinare il dramma di un buon soldato oppresso dalle convenzioni sociali e contagiato da un'ossessione. L'approccio realistico toglie un bel po' di fascino alla storia, senza nemmeno risparmiarci un sacco di inesattezze storiche (Fawcett non era più quel bel giovanotto interpretato da Charlie Hunnam; quando cominciò a esplorare l'Amazzonia aveva 40 anni). Non solo, ma come ogni biopic noioso che si rispetti deve cercare di mettere al centro della storia i Sentimenti! la famiglia! Anche se è la storia di un tizio che pur di girare alla larga da moglie e figli s'inventava una civiltà in Amazzonia. Bisogna dare spazio alla moglie! Sienna Miller se lo meriterebbe pure, ma noi da un film che si chiama Civiltà perdute ed è ambientato in Amazzonia forse ci aspetteremmo altro: ragni giganti, boa di un quintale, cani a due nasi, tutte cose che Fawcett nella foresta incontrò davvero... ma no, bisogna assistere alla scenata di un ragazzino che si lamenta perché suo padre invece di giocare con lui deve andare alla Prima Guerra Mondiale! Che egoismo. Sembra il Lincoln di Spielberg, che doveva salvare l'America dallo schiavismo ma anche litigare con la moglie, elaborare un lutto famigliare, farsi rimbrottare dal figlio, sempre questi figli che non si sentono abbastanza amati dai protagonisti dei biopic.
Alla fine The Lost City of Z non è né un rigoroso resoconto dell'ultimo esploratore romantico, né quel filmone avventuroso che meritava di essere. Quel che è peggio è che Grey sembra esserne accorto già a metà script: il film dura due ore e la seconda sembra non finire mai. Riesce ad addormentarti con una battaglia di trincea; riesce a essere prevedibile mentre descrive i luoghi più sconosciuti della terra. Hunnam ce la mette tutta ma per lui è il secondo flop in un anno (dopo King Arthur): che peccato, che spreco. Civiltà perduta è al Vittoria di Bra (21:00), al Fiamma di Cuneo (21:10) e all'Italia di Saluzzo (21:30).
Ma mettetevi per una volta anche nei panni dei Guarani. Ve ne state andando a raccogliere qualcosa da mangiare per la vostra famiglia, quando vi imbattete non in un boa di un quintale, non in un ragno gigante, non in un cane a due nasi, ma in qualcosa di peggio: un esploratore europeo. Allora non è una questione di razzismo, davvero, però non è esagerato dire che il più pulito degli esploratori europei come minimo ci ha la rogna. Anche quello che non intende disboscare il quadrante di foresta e venderti al mercato degli schiavi più vicino, anche quello che più che ai soldi pensa all'avventura, alla gloria, a lasciare un nome minuscolo su una carta geografica che fin lì è rimasta bianca, anche lui, diciamolo: puzza.
Hanno quest'abitudine ad andare sempre in giro coperti di tessuti, sudarci dentro e lamentarsi; e con la scusa dei barracuda, non si lavano mai. Nel posto più umido al mondo. Mio cugino una volta ha dato la mano a un esploratore inglese e nel giro di tre anni tutta la loro civiltà si era estinta, oh, sono cose successe davvero. Dunque quando vi ritrovate davanti un esploratore - non importa quanto piccolo, e simpatico, lo so, certi son proprio carini, verrebbe voglia di portarteli a casa e rosicchiarseli con calma - la cosa più sensata da fare sarebbe farli secchi, una freccia al collo e via: è anche una cosa pietosa, più rapida della malaria o del veleno dello scorpione. E però certe volte come fai? Te ne arrivano di talmente buffi, con quei baffi biondi e quei gingilli lucenti. È come prendere a calci un cucciolo.
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A un certo punto si sente anche una nota di flauto. |
A un certo punto del film, il leggendario e sfortunato esploratore Percy Fawcett si ritrova coi suoi fidi compagni su una zattera alla deriva del fiume. È proprio alla deriva. Non sta remando nessuno. Eppure fin qui era stato ripetuto fino alla noia che l'obiettivo di Fawcett era trovare la sorgente di un fiume. Ora io non vorrei millantare tutta queste esperienza di cose amazzoniche, ma per quel che ne so, anche laggiù i fiumi scorrono dalla sorgente alla foce, e quindi insomma, come fa Percy Fawcett a trovare la sorgente - alla fine della stessa scena - senza mai remare controcorrente? Dici vabbe', è solo un blooper, la troupe ha passato mesi in Amazzonia ma forse questa cosa delle correnti non l'ha abbastanza interiorizzata. E però è indicativo di quel che Grey ha capito della foresta. Con le riprese en plein air cercava il realismo, ha ottenuto l'esatto contrario (continua su +eventi!)
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Fawcett ha ispirato film più ispirati, diciamo. |
Similmente a Iñárritu, che con Revenant voleva darci il ritratto epico di un uomo immerso nella natura, e dopo mesi di riprese ad alta quota con la sola luce naturale ci ha soltanto mostrato di non aver capito né cosa ci sia di davvero disumano nella natura, né quali siano i veri limiti dell'uomo (il suo Di Caprio sembra un supereroe perduto nel salvaschermo di un pc aziendale). Grey commette lo stesso errore: disbosca un pezzo di foresta per farci passare la troupe, poi inquadra i suoi attori e li costringe a dare due colpi di machete ai bordi di un sentiero un cui passerebbe un fuoristrada - probabilmente c'è appena passato. Poi appena può fa un omaggio a Herzog - magari gli stessi errori li faceva anche Herzog (non ho voglia di controllare). Ma erano tempi diversi, il cinema di avventura era un genere ancora abbastanza codificato, un certo tasso di ingenuità necessario. Nessuno si lamenta se in un western le pistole a tamburo sono anacronistiche. Nessuno si lamenta se in un buon vecchio filmone di esploratori in technicolor i fiumi vanno a rovescio. Se queste cose tornano di moda - l'anno scorso Tarzan è andato abbastanza bene - perché non profittarne?
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Eh però loro il fiume lo stavano discendendo. |
Alla fine The Lost City of Z non è né un rigoroso resoconto dell'ultimo esploratore romantico, né quel filmone avventuroso che meritava di essere. Quel che è peggio è che Grey sembra esserne accorto già a metà script: il film dura due ore e la seconda sembra non finire mai. Riesce ad addormentarti con una battaglia di trincea; riesce a essere prevedibile mentre descrive i luoghi più sconosciuti della terra. Hunnam ce la mette tutta ma per lui è il secondo flop in un anno (dopo King Arthur): che peccato, che spreco. Civiltà perduta è al Vittoria di Bra (21:00), al Fiamma di Cuneo (21:10) e all'Italia di Saluzzo (21:30).
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Bob è un boss adesso
08-07-2017, 04:04Bob Dylan, Il Post, musicaPermalink
Street-Legal (1978)
(Il disco precedente: Hard Rain
Il disco successivo: At Budokan)
Sedici anni,
sedici stendardi allineati sul campo
ove il buon pastore si strugge...
sedici stendardi allineati sul campo
ove il buon pastore si strugge...
Nel 1978 Dylan festeggiava appena i 16 anni di carriera (un ragazzino, direbbe oggi Vasco Rossi) e 18 album di studio. Tanti. Troppi. Gli unici due anni in cui la premiata ditta Dylan non aveva fatto uscire niente erano, curiosamente, il 1968 e il 1977: ovvero i due anni più importanti in tutto l'Occidente per la storia della musica e del costume. È solo un caso - in fondo ciò che chiamiamo "anno" non è che un insieme arbitrario di mesi: nel 1968 John Wesley Harding era uscito appena da una settimana.
E però che coincidenza irresistibile: fino al 1966 Dylan era all'avanguardia; con JWH comincia a remare ostinato in direzione contraria. Di solito si sottolinea l'abbandono della politica, ma si trattò anche e soprattutto di un isolamento creativo. Gran parte degli anni Settanta trascorrono in una bolla dove Dylan non è che se ne resti fermo, anzi: ogni disco ha un suono diverso, ma con ben pochi agganci a quanto stava succedendo nel resto del mondo (se non sapessimo quando furono registrati non riusciremmo a datare dischi come New Morning, o Blood on the Tracks). E per quanto i critici più benevoli abbiano cercato di leggere la furia auto-iconoclasta di Hard Rain come un'anticipazione del punk, il 1977 sembra davvero il taglio finale: da qui in poi la musica andrà per una strada e Dylan per la sua. A prova di questo, di solito si esibisce Street-Legal - non è che esistano molti altri motivi di esibirlo: un disco barocco nell'Anno Due del Punk, un disco per big band ai tempi dei Clash, un disco col sassofono! e le coriste! insomma un disco da dinosauro. Caso chiuso?
"Signori", disse, "non ho bisogno della vostra organizzazione.
Ho lustrato le vostre scarpe, ho smosso le vostre montagne e segnato le vostre carte.
Ma il paradiso è in fiamme: o vi preparate ad essere eliminati
o i vostri cuori dovranno reggere il cambio della guardia".
"Signori", disse, "non ho bisogno della vostra organizzazione.
Ho lustrato le vostre scarpe, ho smosso le vostre montagne e segnato le vostre carte.
Ma il paradiso è in fiamme: o vi preparate ad essere eliminati
o i vostri cuori dovranno reggere il cambio della guardia".
No. Lo chiudiamo se accettiamo pigramente l'idea che il 1977 sia soltanto l'anno del Grande Incendio di Londra, di Never Mind the Bollocks e Damned Damned Damned. Ma è anche l'anno di Exodus, un piccolo passo per Bob Marley che si è trasferito nel Regno Unito, un passo enorme per l'Europa in cui la penetrazione del reggae sta per determinare una vera rivoluzione copernicana nei ritmi e negli arrangiamenti. È l'anno in cui le classifiche americane non lo sanno e si lasciano placidamente dominare dai Fleetwood Mac di Rumours, un disco di ballate e sentimenti - quello che Dylan intendeva realizzare con Street-Legal. È inoltre l'anno di Saturday Night Fever: la disco è dappertutto e i coretti vanno alla grande: è così strano che Dylan li introduca così massicciamente in Street-Legal?
È persino l'anno in cui in un piccolo studio di registrazione dell'Oxfordshire, un ex dylanoide della provincia scozzese, tal Gerry Rafferty, alle prese col suo disco d'esordio, decide di sostituire un ritornello che non prende forma con un riff di chitarra: ma il solista è già andato a casa. In compenso il sassofonista dice che può provarci lui col contralto, ne ha uno nel baule della macchina. La canzone era Baker Street e il contralto non era nemmeno ben accordato, ma non ebbe importanza - o sì? Il pezzo andò al numero 1 negli UK e in USA; altrettanto fece l'album, ma questo era solo l'inizio: nel giro di qualche mese i negozi di strumenti musicali esaurirono la scorta di sassofoni. Il 1977 fu anche questo: il riff fuori chiave di Baker Street non è la tromba che annuncia l'Apocalisse, ma qualcosa di forse peggiore: gli anni Ottanta. E l'anno dopo, Dylan decise di usare il sax per Street-Legal. Era un'idea così stramba, dopotutto?
Non si trattava piuttosto di un tentativo, per quanto maldestro, di rimettersi al passo coi tempi - qualsiasi cosa i tempi stessero preparando? Sul margine di un decennio in esilio, Street-Legal è uno dei dischi di Dylan che più risentono di quello che gli stava succedendo intorno, almeno a livello musicale. Contiene persino un singolo, Baby Stop Crying, che è il più smaccato tentativo dylaniano di Canzone Pop dai tempi di Nashville Skyline. Anche True Love Tends to Forget sembra pronta per partire in crociera ed essere inserita nella scaletta dell'orchestra. We Better Talk This Over è un plagio sicuramente inconsapevole di Days dei Kinks, che stavano anche loro riscoprendo il grande pubblico degli stadi. Invece il riff di Changing of the Guards, se il sassofonista fosse stato in vacanza e Dylan avesse deciso di farlo suonare a un chitarrista hard rock, sarebbe praticamente diventato lo stacco centrale di My Sharona, che i Knack avrebbero portato in classifica solo l'anno successivo. Provateci voi: alzate il volume a 11, fingete di avere una folta chioma bionda, e spennate gioiosamente Sol Sol, Re Re, Do Do! Rerere Sol Sol, Re Re, Do Do! Se volete chiedervi da dove Vasco ha preso gli accordi di Siamo Solo Noi e Colpa d'Alfredo... no, non credo li abbia presi da Changing of the Guards. Sono solo tre accordi (è più facile che avesse in mente Sharona, o Baba O' Riley). Ma insomma, anche quei tre accordi semplici, maggiori, positivi, sono il suono degli Ottanta che si avvicinano. E allora perché Street-Legal è invecchiato così male? Peggio di Siamo solo noi?
Pace verrà,
con tranquillità e splendore su ruote di fuoco
ma non porterà ricompense
quando i suoi falsi idoli cadranno
e una morte crudele si arrenderà
con il suo fantasma pallido che batte in ritirata
tra il re e la regina di spade.
Pace verrà,
con tranquillità e splendore su ruote di fuoco
ma non porterà ricompense
quando i suoi falsi idoli cadranno
e una morte crudele si arrenderà
con il suo fantasma pallido che batte in ritirata
tra il re e la regina di spade.
In un pomeriggio d'estate di quello stesso 1977 la nuova fidanzata di Elvis Presley lo trova esanime sul pavimento del bagno. Non risponde, non respira. Nel suo organismo troveranno tracce di quattordici sostanze diverse, quasi tutte generosamente prescritte dal suo medico. La notizia della sua morte sconvolgerà milioni di persone, tra cui un suo vecchio fan del Minnesota, anche lui leggenda del rock, che per una settimana non avrebbe rivolto la parola a nessuno. Di lì a poco Dylan avrebbe messo a contratto il promoter che aveva organizzato il tour più fortunato di Presley, Jerry Wintraub; nella sua band avrebbe rimpiazzato il fido Rob Stoner col bassista di Elvis, Jerry Scheff; avrebbe imposto ai suoi musicisti candidi e attillati costumi di scena, una rottura completa con l'estetica stracciona della Rolling Thunder: ma anche un evidente omaggio alla fase calante della carriera di Elvis. Dylan lo ammirava, tra le altre cose, per la sua capacità di rialzarsi dopo una caduta (se abbiamo capito bene Went to See the Gipsy). La fine ingloriosa del 1977 metteva in crisi anche quest'ultima leggenda. La prima reazione di Dylan è il rifiuto: non è vero, Elvis non può morire. Raccogliendo la sua fiaccola, Dylan fece quello che persino Elvis non era riuscito a fare: la portò fuori dagli USA, persino più in là delle Hawaii, oltre il grande mare, fino in Giappone e poi in Europa; e a Londra, dove non suonava dal terribile 1966 e dove in un locale incrociò Sid Vicious che prima di essere spintonato altrove riuscì a chiedergli: "Ma sei Bob Dildo?"
Dylan era senz'altro più simile a un dinosauro che a un punk. Dylan ora era il boss di una grande band in giro per il mondo. Tutti i musicisti e le cantanti, li aveva provinati, li aveva scritturati, ogni tanto li licenziava e rimpiazzava. Nei programmi dei concerti però alla voce Dylan non c'era "boss", ma "cantante". Dylan si sentiva soprattutto questo, nel 1977/78: un performer. L'ingranaggio centrale di una macchina ben oliata. Tutte le sere lo stesso repertorio, senza mattane. Dopo le follie del Rolling Thunder, ora Dylan cercava rifugio nel professionismo. Avrebbe fatto un disco presentabile, professionale, adulto: un disco street-legal (che significa anche "sedicenne", ovvero in grado di uscire in strada da sola). "Taking Care of the Business", come avrebbe detto Elvis. Eppure Elvis era morto circondato da un entourage che non riusciva a fargli smettere di ingollare medicine e patatine, e anche Dylan era pur sempre Dylan: dopo la prima sessione di Street-Legal licenziò in tronco tutti i musicisti. Li riassunse il giorno dopo. Street-Legal secondo alcuni suonerebbe meglio, se Dylan non avesse di nuovo fatto eliminare tutte le tramezze dello studio (come a Nashville ai tempi di Blonde on Blonde) e registrato le nuove canzoni in fretta, praticamente live, senza darsi troppa pena di aspettare la versione migliore. Il solito autosabotaggio. Qualche anno fa il produttore Don DeVito lo rimasterizzò, ma niente da fare: anche se diventa più limpido, rimane sempre Street-Legal.
Señor, Señor, perché non stacchiamo tutti i cavi
e rovesciamo quei tavoli?
Questo posto per me non ha più senso.
Mi dici cosa stiamo aspettando, Señor?
e rovesciamo quei tavoli?
Questo posto per me non ha più senso.
Mi dici cosa stiamo aspettando, Señor?
Alcuni dischi, lo sappiamo, Dylan li ha fatti brutti apposta: sono esercizi di bruttezza. Altri gli sono usciti così per sbaglio; per mancanza di idee o di direzione, di parole, di musica. Street-Legal non è brutto così. Quando lo compose, Dylan aveva un sacco di parole (più manieriste e lambiccate del solito), aveva melodie in abbondanza. Aveva addirittura delle idee sugli arrangiamenti. E si era fatto una big band esattamente come la voleva lui. Stavolta insomma Dylan un'idea ce l'aveva. E però... era l'idea sbagliata
Non è tanto il sax in sé - che c'è di male in un sax dopotutto? Non sarebbe stata la prima volta che uno strumento particolare diventa l'ingrediente dominante di un suo disco: l'organo di Kooper in Blonde on Blonde, il violino della Rivera in Desire (ma anche il basso di Stoner in Blood on the Tracks). Ma... (continua sul Post)
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La mummia contro Tom Cruise
05-07-2017, 03:54cinema, Cosa vedere a Cuneo (e provincia) quando sei vivo, invecchiare, mitiPermalinkLa mummia (Alex Kurtzman, 2017).
Nessuno resiste al suo sguardo, nessuno sa opporsi alla sua parola. Giace da ere immemori, in una tomba che non è una tomba, ma una prigione. Imbalsamato vivo, per le sue colpe e affinché il suo orrore sia per sempre occultato ai mortali. Eppure non è lontano il giorno in cui ancora una volta il suo non-sonno sarà disturbato. Qualcuno ancora una volta ritroverà la cripta; qualcuno, per scommessa o per necessità, alzerà il sarcofago e farà la sua proposta:
"Salute a te, divino Mapother Quarto".
"Chiamami pure Tom, come butta?"
"Senti, io rappresento l'Universal, sai, quelli che hanno i diritti dei mostri classici".
"Volevate fare un film su di me?"
"...non proprio, no, volevamo fare un film in cui tu affronti un mostro classico".
"Perché, io non sono un mostro classico?"
"N-non ancora".
---
Alex Kurtzman ha detto di aver scelto Sofia Boutella per gli occhi; che non importa quanti effetti e computergrafica ci sarebbe stata intorno: il pubblico l'avrebbe guardata negli occhi. È una cosa molto bella da dire ed è persino un po' vera. La Boutella è una mummia struggente; per quanto crudele, riesce in un qualche modo a farti empatizzare - in pratica, riesce a soggiogarti. Tinta di blu, avvolta in cartapecora, truccata da cadavere, sembra comunque più umana di Thomas Cruise Mapother IV, Tom Cruise per i mortali.
---
"Hai ucciso tuo padre!"
"Sì però lo amavo. Volevo che mi ammirasse".
"Hai ucciso sua moglie... e il bambino!"
"Erano tempi diversi".
(Come fate a riconoscere un vero mostro? A uccidere i bambini sono tutti buoni, ma il vero mostro si giustifica col relativismo culturale).
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No, adesso, sinceramente: secondo voi come andrà a finire con Tom Cruise? Perché un giorno o l'altro dovrà finire. Come la civiltà. Spero un po' prima. Cioè non ho niente contro Tom Cruise, davvero, grande attore e personaggio - però a un certo punto bisognerà porsi il problema: può invecchiare? Ne è in grado? E noi possiamo accettarlo? Internet dice che ha 55 anni (non mi fido. Se c'è qualcuno che potrebbe davvero mandare in giro un esercito di zombie a levargli gli anni su tutti i siti internet del mondo, costui è Tom Cruise). In questo film interpreta un tizio che potrebbe averne al massimo 35. Al massimo. E mi chiedo: è mai successo? che un attore interpretasse un tizio di 20 anni più giovane? Sì, ovviamente. In un altro film di Tom Cruise. Ma a parte lui? C'è Brad Pitt. Anche Brad Pitt, in Allied, sembrava un po' troppo tirato (che era poi il suo modo di sembrare la cosa più umana di Allied). Però ormai Pitt il massimo che fa è sparare ai nazisti - una cosa che è già un po' old-fashioned di suo; Cruise continua a fare lo stuntman di sé stesso e in questo film, per esempio, ha voluto una scena in cui recita in assenza di gravità. Galleggia in un aereo che precipita. Non è una scena incredibile, se non sai che l'hanno girata veramente in quel modo. Ormai col digitale si può fare di tutto e così non è che ti si cada la mascella, mentre Tom e la Bella in Pericolo rotolano dentro la fusoliera. C'era senz'altro un modo meno pericoloso di girarla, ma a Tom piaceva così. È il suo modo di dirci Sono Immortale?
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Forse il fatto che La Mummia abbia floppato negli USA e stia andando forte nei mercati emergenti ha a che vedere con questo aspetto di Tom Cruise. Là dove Tom Cruise viene considerato ancora un essere umano, La Mummia stenta a convincere. Lontano dalla patria, dove forse è una specie di mito senza tempo (Italia compresa), la sospensione della credulità rientra nei limiti di norma. (Poi non è che in luglio escano tutti questi film imperdibili, eh).
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Se la civiltà non finisce (e spero proprio di no, non vedo alternative interessanti) a un certo punto gli storici del cinema si troveranno davanti, ci pensate? trecento, quattrocento anni di immaginario sedimentato(continua su +eventi!). Chissà se degneranno di qualche interesse Guerre Stellari, chissà in quanti riterranno interessante scavare sul fondo per cercare tutti i resti del Marvel Cinematic Universe. La Mummia ha più chance. Lo so che sembra intollerabile e ingiusto, ma parliamo di un concetto che al cinema ha già 80 anni; parliamo di Boris Karloff. Di saghe sulla Mummia la Universal ne ha prodotte già tre o quattro e non c'è motivo per cui non debba continuare finché al pubblico continueranno a interessare i cadaveri male imbalsamati nelle tombe egizie, cioè... per sempre. Anche i cross-over non sono questa novità. La Mummia contro Dr Jeckyll? Al cinema queste cose si son sempre fatte. Gli Zombie della Mummia contro Gli Uomini in Nero del Dr Jeckyll? Perché no. Gli Zombie della Mummia contro Tom Cruise? Interessante, diranno i cinefili del futuro. Quando uscì, la Mummia era una specie di archetipo dell'inconscio collettivo, mentre Tom Cruise era ancora considerato un attore in carne e ossa. Secondo alcuni era davvero in carne e ossa; abbiamo persino i video in cui fa gli stunt più pericolosi; ma c'è da dire che nello stesso periodo cominciava ad andare in voga il ringiovanimento digitale dei divi di Hollywood, e quindi è difficile capire quanto ci fosse ancora del vero Tom Cruise in quello che poi è diventato a tutti gli effetti un franchise a sé (nel 2317 al cinema c'è Tom Cruise contro Gozzilla) (Gozzilla è animato da un algoritmo sofisticato che riproduce i passi dell'automa gigante del mitico film del 2287 il quale a sua volta era animato da un software che imitava le mosse dei vecchi pupazzi in stop-motion) (Tom Cruise invece è davvero lui in carne e ossa, anche se nessuno ci crede: da decenni sono tutti convinti che si tratti di un clone-bot e nessuno fa caso ai casi di vergini morsicate sul collo nei dintorni del set).
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Non dico che valga il biglietto, ma a un certo punto Tom Cruise e Russell Crowe si menano. Per dire quanto ci credeva l'Universal nel progetto.
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La Mummia somiglia un po' alla Lega degli Uomini Straordinari: prendiamo i vecchi mostri gotici dell'Ottocento e li rimontiamo con le logiche della continuity dei fumetti contemporanei. Purtroppo di Alan Moore ce n'è uno solo (e neanche tutto). Moore è un folle, un visionario, ma è anche uno sceneggiatore di buon senso, ad esempio: ok, mettiamoci pure la continuity contemporanea: ma se sono mostri dell'Ottocento devono restare nell'Ottocento. Il loro fascino sta lì. Il fantastico ha bisogno di un Altrove, di un orizzonte diverso dal nostro per svilupparsi, e l'Ottocento è un Altrove perfetto. Ma Kurtzman la sa lunga. Ti piazza un dottor Jeckyll contemporaneo. Ma se togli l'Ottocento al dottor Jeckyll ti rimane un bipolare qualsiasi - non proprio la persona che dovrebbe dirigere l'Agenzia contro il Male Universale. In effetti basta che il primo arrivato gli levi la siringona di mano e patatrac, tutto a carte e quarantotto.
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A proposito di Guerre Stellari: la lavorazione del prequel sul giovane Han Solo ha riaperto il dibattito: ma esiste un giovane erede di Harrison Ford? Uno che potrebbe mangiarsi la scena sia in un'astronave-cargo, sia in un tempio maledetto, un figlio di buona donna col grilletto facile e la battuta pronta? Io! (sussurra la Creatura nella cripta). Io sono l'Erede di Harrison Ford! Datemi un frustino, mortali, e tremate!
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La Mummia somiglia ovviamente ai cinefumetti, che invece ambientano il fantastico in un setting contemporaneo (tranne alcune eccezioni suggestive, come Wonder Woman). Questo spesso causa corti circuiti interessanti: ad esempio è sempre più difficile commettere disastri nei cinefumetti. Prendi un grattacielo: hai presente quanti grattacieli finti cascavano nei vecchi film di mostri? Ordinaria amministrazione. Il pubblico andava in sollucchero, non è che si mettessero a pensare a tutte le vittime - tanto si sa che è un grattacielo di cartone. Ma il grattacielo del cinefumetto contemporaneo sembra un grattacielo vero. Non è solo una questione di effetti speciali; è che i cinefumetti spingono sul realismo, vogliono stupirti portando uomini incredibili nel nostro mondo - ma nel mostro mondo se casca un grattacielo ci sono migliaia di vittime, è una cosa orribile. La Mummia ha rinunciato alla confortevole ambientazione ottocentesca per ottenere gli stessi effetti di un cinecomic, ma il risultato è che abbiamo un primo atto in cui l'Iraq odierno viene descritto come un allegro far west dove se i pistoleri locali esagerano nell'assediarti puoi sempre chiedere un intervento aereo. Poi arriviamo a Londra, dove per fortuna c'è un po' di bruma e, i grattacieli e... non ce ne frega niente. Sul serio. C'è una tempesta di sabbia davvero ben congegnata e assolutamente scenografica, ma non ti viene nemmeno per un attimo il pensiero per i poveri londinesi soffocati. È una Londra completamente finta, minacciata da un Male che non riesci a prendere sul serio nemmeno per un istante. La Mummia somiglia anche a un altro sfortunato blackbuster estivo di qualche anno fa, War World Z: in entrambi i film si registra il tentativo di ripulire un po' gli zombie, di renderli meno spaventosi, più pop, meno vietati ai minori. Forse quelli della Mummia sono un filo più paurosi di quelli di WWZ, ma la vera differenza sta nell'angoscia. Per quanto ripulito dal sangue e dalle cervella, WWZ restava un film apocalittico, eccessivamente cupo per le famiglie in cerca di aria condizionata (il finale fu modificato proprio per questo motivo). Nella Mummia tutta questa angoscia manca completamente. Il dark universe comincia ben poco dark.
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La Mummia somiglia un po' a Suicide Squad, un film che brucia le tappe, che ha fretta di buttare sul fuoco più storie possibile, magari già intrecciate. Per cui ok, qui abbiamo la Mummia, gli zombie, il dottor Jeckyll e... non posso dire che altro. Non era meglio andare per gradi; dedicare alle origini di ogni mostro un film? Eh, ma ci avevano già provato (Dracula Untold) e non è andata bene. E così beccatevi la macedonia, pubblico estivo. Qualcosa di buono c'è, ma anche molti scarti che non ti saresti mangiato mai, toh, se lo fa la Warner perché la Universal non dovrebbe permetterselo?
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La Mummia è al Cinelandia di Borgo San Dalmazzo, alle 20:20 e 22:40.
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"Tom Cruise, la MUMMIA" (ma solo io ci sento l'ironia?) |
"Salute a te, divino Mapother Quarto".
"Chiamami pure Tom, come butta?"
"Senti, io rappresento l'Universal, sai, quelli che hanno i diritti dei mostri classici".
"Volevate fare un film su di me?"
"...non proprio, no, volevamo fare un film in cui tu affronti un mostro classico".
"Perché, io non sono un mostro classico?"
"N-non ancora".
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Alex Kurtzman ha detto di aver scelto Sofia Boutella per gli occhi; che non importa quanti effetti e computergrafica ci sarebbe stata intorno: il pubblico l'avrebbe guardata negli occhi. È una cosa molto bella da dire ed è persino un po' vera. La Boutella è una mummia struggente; per quanto crudele, riesce in un qualche modo a farti empatizzare - in pratica, riesce a soggiogarti. Tinta di blu, avvolta in cartapecora, truccata da cadavere, sembra comunque più umana di Thomas Cruise Mapother IV, Tom Cruise per i mortali.
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"Hai ucciso tuo padre!"
"Sì però lo amavo. Volevo che mi ammirasse".
"Hai ucciso sua moglie... e il bambino!"
"Erano tempi diversi".
(Come fate a riconoscere un vero mostro? A uccidere i bambini sono tutti buoni, ma il vero mostro si giustifica col relativismo culturale).
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No, adesso, sinceramente: secondo voi come andrà a finire con Tom Cruise? Perché un giorno o l'altro dovrà finire. Come la civiltà. Spero un po' prima. Cioè non ho niente contro Tom Cruise, davvero, grande attore e personaggio - però a un certo punto bisognerà porsi il problema: può invecchiare? Ne è in grado? E noi possiamo accettarlo? Internet dice che ha 55 anni (non mi fido. Se c'è qualcuno che potrebbe davvero mandare in giro un esercito di zombie a levargli gli anni su tutti i siti internet del mondo, costui è Tom Cruise). In questo film interpreta un tizio che potrebbe averne al massimo 35. Al massimo. E mi chiedo: è mai successo? che un attore interpretasse un tizio di 20 anni più giovane? Sì, ovviamente. In un altro film di Tom Cruise. Ma a parte lui? C'è Brad Pitt. Anche Brad Pitt, in Allied, sembrava un po' troppo tirato (che era poi il suo modo di sembrare la cosa più umana di Allied). Però ormai Pitt il massimo che fa è sparare ai nazisti - una cosa che è già un po' old-fashioned di suo; Cruise continua a fare lo stuntman di sé stesso e in questo film, per esempio, ha voluto una scena in cui recita in assenza di gravità. Galleggia in un aereo che precipita. Non è una scena incredibile, se non sai che l'hanno girata veramente in quel modo. Ormai col digitale si può fare di tutto e così non è che ti si cada la mascella, mentre Tom e la Bella in Pericolo rotolano dentro la fusoliera. C'era senz'altro un modo meno pericoloso di girarla, ma a Tom piaceva così. È il suo modo di dirci Sono Immortale?
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Se la civiltà non finisce (e spero proprio di no, non vedo alternative interessanti) a un certo punto gli storici del cinema si troveranno davanti, ci pensate? trecento, quattrocento anni di immaginario sedimentato(continua su +eventi!). Chissà se degneranno di qualche interesse Guerre Stellari, chissà in quanti riterranno interessante scavare sul fondo per cercare tutti i resti del Marvel Cinematic Universe. La Mummia ha più chance. Lo so che sembra intollerabile e ingiusto, ma parliamo di un concetto che al cinema ha già 80 anni; parliamo di Boris Karloff. Di saghe sulla Mummia la Universal ne ha prodotte già tre o quattro e non c'è motivo per cui non debba continuare finché al pubblico continueranno a interessare i cadaveri male imbalsamati nelle tombe egizie, cioè... per sempre. Anche i cross-over non sono questa novità. La Mummia contro Dr Jeckyll? Al cinema queste cose si son sempre fatte. Gli Zombie della Mummia contro Gli Uomini in Nero del Dr Jeckyll? Perché no. Gli Zombie della Mummia contro Tom Cruise? Interessante, diranno i cinefili del futuro. Quando uscì, la Mummia era una specie di archetipo dell'inconscio collettivo, mentre Tom Cruise era ancora considerato un attore in carne e ossa. Secondo alcuni era davvero in carne e ossa; abbiamo persino i video in cui fa gli stunt più pericolosi; ma c'è da dire che nello stesso periodo cominciava ad andare in voga il ringiovanimento digitale dei divi di Hollywood, e quindi è difficile capire quanto ci fosse ancora del vero Tom Cruise in quello che poi è diventato a tutti gli effetti un franchise a sé (nel 2317 al cinema c'è Tom Cruise contro Gozzilla) (Gozzilla è animato da un algoritmo sofisticato che riproduce i passi dell'automa gigante del mitico film del 2287 il quale a sua volta era animato da un software che imitava le mosse dei vecchi pupazzi in stop-motion) (Tom Cruise invece è davvero lui in carne e ossa, anche se nessuno ci crede: da decenni sono tutti convinti che si tratti di un clone-bot e nessuno fa caso ai casi di vergini morsicate sul collo nei dintorni del set).
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Non dico che valga il biglietto, ma a un certo punto Tom Cruise e Russell Crowe si menano. Per dire quanto ci credeva l'Universal nel progetto.
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La Mummia somiglia un po' alla Lega degli Uomini Straordinari: prendiamo i vecchi mostri gotici dell'Ottocento e li rimontiamo con le logiche della continuity dei fumetti contemporanei. Purtroppo di Alan Moore ce n'è uno solo (e neanche tutto). Moore è un folle, un visionario, ma è anche uno sceneggiatore di buon senso, ad esempio: ok, mettiamoci pure la continuity contemporanea: ma se sono mostri dell'Ottocento devono restare nell'Ottocento. Il loro fascino sta lì. Il fantastico ha bisogno di un Altrove, di un orizzonte diverso dal nostro per svilupparsi, e l'Ottocento è un Altrove perfetto. Ma Kurtzman la sa lunga. Ti piazza un dottor Jeckyll contemporaneo. Ma se togli l'Ottocento al dottor Jeckyll ti rimane un bipolare qualsiasi - non proprio la persona che dovrebbe dirigere l'Agenzia contro il Male Universale. In effetti basta che il primo arrivato gli levi la siringona di mano e patatrac, tutto a carte e quarantotto.
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A proposito di Guerre Stellari: la lavorazione del prequel sul giovane Han Solo ha riaperto il dibattito: ma esiste un giovane erede di Harrison Ford? Uno che potrebbe mangiarsi la scena sia in un'astronave-cargo, sia in un tempio maledetto, un figlio di buona donna col grilletto facile e la battuta pronta? Io! (sussurra la Creatura nella cripta). Io sono l'Erede di Harrison Ford! Datemi un frustino, mortali, e tremate!
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La Mummia somiglia ovviamente ai cinefumetti, che invece ambientano il fantastico in un setting contemporaneo (tranne alcune eccezioni suggestive, come Wonder Woman). Questo spesso causa corti circuiti interessanti: ad esempio è sempre più difficile commettere disastri nei cinefumetti. Prendi un grattacielo: hai presente quanti grattacieli finti cascavano nei vecchi film di mostri? Ordinaria amministrazione. Il pubblico andava in sollucchero, non è che si mettessero a pensare a tutte le vittime - tanto si sa che è un grattacielo di cartone. Ma il grattacielo del cinefumetto contemporaneo sembra un grattacielo vero. Non è solo una questione di effetti speciali; è che i cinefumetti spingono sul realismo, vogliono stupirti portando uomini incredibili nel nostro mondo - ma nel mostro mondo se casca un grattacielo ci sono migliaia di vittime, è una cosa orribile. La Mummia ha rinunciato alla confortevole ambientazione ottocentesca per ottenere gli stessi effetti di un cinecomic, ma il risultato è che abbiamo un primo atto in cui l'Iraq odierno viene descritto come un allegro far west dove se i pistoleri locali esagerano nell'assediarti puoi sempre chiedere un intervento aereo. Poi arriviamo a Londra, dove per fortuna c'è un po' di bruma e, i grattacieli e... non ce ne frega niente. Sul serio. C'è una tempesta di sabbia davvero ben congegnata e assolutamente scenografica, ma non ti viene nemmeno per un attimo il pensiero per i poveri londinesi soffocati. È una Londra completamente finta, minacciata da un Male che non riesci a prendere sul serio nemmeno per un istante. La Mummia somiglia anche a un altro sfortunato blackbuster estivo di qualche anno fa, War World Z: in entrambi i film si registra il tentativo di ripulire un po' gli zombie, di renderli meno spaventosi, più pop, meno vietati ai minori. Forse quelli della Mummia sono un filo più paurosi di quelli di WWZ, ma la vera differenza sta nell'angoscia. Per quanto ripulito dal sangue e dalle cervella, WWZ restava un film apocalittico, eccessivamente cupo per le famiglie in cerca di aria condizionata (il finale fu modificato proprio per questo motivo). Nella Mummia tutta questa angoscia manca completamente. Il dark universe comincia ben poco dark.
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La Mummia somiglia un po' a Suicide Squad, un film che brucia le tappe, che ha fretta di buttare sul fuoco più storie possibile, magari già intrecciate. Per cui ok, qui abbiamo la Mummia, gli zombie, il dottor Jeckyll e... non posso dire che altro. Non era meglio andare per gradi; dedicare alle origini di ogni mostro un film? Eh, ma ci avevano già provato (Dracula Untold) e non è andata bene. E così beccatevi la macedonia, pubblico estivo. Qualcosa di buono c'è, ma anche molti scarti che non ti saresti mangiato mai, toh, se lo fa la Warner perché la Universal non dovrebbe permetterselo?
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La Mummia è al Cinelandia di Borgo San Dalmazzo, alle 20:20 e 22:40.
Vasco Rossi, Andrea Pazienza, un piccolo mistero
02-07-2017, 22:45cantare, cantautori, concerti, fumetti, musica, Ottanta, PazienzaPermalink
Vergine di servo encomio, e di codardo eccetera, io in questi giorni ho preferito pregare che tutto finisse bene; e senz'altro mi perdonerete se non sono passato di qui a scrivere che come un po' tutti Vasco l'ho odiato e poi amato e poi odiato e da un certo punto in poi era semplicemente parte del paesaggio.
Potrei anche aggiungere che questo concerto - con tutte le sue assurdità logistiche, traslochi di ospedali, caselli bloccati, vigili in trasferta da tutta la regione - è stato per me perfettamente coerente con quello che Vasco è stato sin dall'inizio: un personaggio un po' fuori, non cattivo no, ma vagamente molesto, imposto di prepotenza dai fratelli maggiori. È così oggi, era così trent'anni fa. Io non ho, in realtà, fratelli maggiori, ma i miei amici sì, ed erano quelli che sul pulmino ci imponevano Vasco nei rari momenti in cui avremmo voluto e potuto condividere qualcosa di culturalmente più rilevante, oh, niente di trascendentale, i Simple Minds o i Cure, ma no: bisognava ascoltare Vasco, perché c'erano le parolacce che facevano ridere, il negro e la troia e la nostra cultura doveva essere quella lì. (Il punto è che dieci anni dopo ci erano riusciti, eravamo intorno a un fuoco e cantavamo il negro e la troia e ridevamo, di Vasco e di noi).
Magari nel frattempo avevamo messo su dei gruppi, cominciavamo a fare musica nostra - ma prima o poi ti toccava suonare Vasco. Perché funzionava, era davvero parte del paesaggio, veramente facile da eseguire e di presa sicurissima, insomma, dopo un po' ci si arrendeva a quella pronuncia strascicata che sui treni deliziava coetanee calabresi e pugliesi (siete di Modena? Ma vicino a Zocca?) Il fenomeno più inquietante però era una specie di rinvaschimento, una cosa delle cose più orribili a cui mi sia capitato di assistere: vedere una persona amica, in seguito a un trauma sentimentale o professionale, smettere di ascoltare, chessò, i Depeche Mode e i Joy Division, cambiare guardaroba e tornare a Vasco (il modo poi in cui Vasco è riuscito a passare da emblema del fattone drughè a cantore della medissima borghesia artigiana meriterebbe uno studio a parte: come un certo tipo di immaginario a un certo punto sia slittato dalla bohème alla birreria).
Di tutto questo probabilmente ho già parlato - colgo invece l'occasione per mettervi a parte di un enigma che mi ha tormentato per anni, e della sua banalissima soluzione. Tra le cose molto più culturalmente rilevanti che gli anni Ottanta emiliani hanno contribuito a produrre, c'era Andrea Pazienza. Ovviamente ai tempi di Colpa d'Alfredo non lo sapevamo - avrebbe dovuto morire perché io me ne accorgessi almeno un po'. Poi ci furono anni di immersione integrale - in un materiale che assomigliava stranamente ai miei ricordi pre-puberali: siringhe dappertutto, scoppiati misteriosi, un senso di crudeltà incombente che nei primi anni Novanta non sentivo più. Ne riaffiorai esausto, con la sensazione di aver ritrovato un tempo perduto e un curioso interrogativo: com'è che Pazienza non ha mai parlato di Vasco Rossi? Neanche in una vignetta - e se qualche fanatico qui ha presente la Prolisseide, sa che Pazienza una vignetta l'ha elargita a tutti. A Vasco no.
Da un punto di vista biografico, i due si dovevano essere incrociati per forza: non è poi così grande Bologna. Rossi (che in un primo momento avrebbe voluto iscriversi al Dams, poi optò per Economia e Commercio) la molla nel '75 perché a Modena i subaffitti costano meno, Pazienza era arrivato da un anno. Da un punto di vista antropologico, per quanto entrambi fuoricorso cronici, erano di due tribù diverse: Vasco è un provinciale di collina, radicato nel territorio; non diventerà nessuno finché non riscoprirà la sua gente, irrorandola con la radiolina locale. Pazienza è un fuorisede, sradicato e apparentemente più cosmopolita: e poi soprattutto non aveva fratelli maggiori che gli imponessero Siamo solo noi mentre lui voleva ascoltare The Torture Never Stops. E però, insomma, parliamo più o meno della stessa città, più o meno degli stessi anni, più o meno delle stesse droghe - possibile che non si siano incontrati mai? Neanche quando erano diventati famosi e Pazienza si era messo a disegnare copertine di 33 giri per Vecchioni, per la PFM, per Caputo, per tutti? O c'era qualcosa dietro, una rimozione? Quale orribile sgarbo avrebbe dovuto commettere VR ad AP, perché lui lo condannasse alla damnatio memoriae? E quale morale dovevamo trarre da una storia che aveva fatto sopravivere VR e morire giovane AP, gradito agli Dei ma sostanzialmente sconosciuto dai duecentomila spettatori di ieri sera?
A un certo punto mi ero anche affezionato all'enigma, una specie di versione emiliana di "perché Freud e Schnitzler, vivendo a Vienna, non andavano a bersi birre insieme?" Mi faceva in un certo senso comodo, per come chiudeva due immaginari potenzialmente sovrapponibili in due compartimenti stagni: '77 bolognese e anni Ottanta in provincia, nessuna comunicazione. Alla fine si trattava di due universi paralleli: in quello di Vasco, Pazienza non aveva mai disegnato Pentothal; in quello di Pazienza, Vasco è uno sballato che mastica nel buio in un angolo di vignetta e poi scompare. Le cose non potevano che stare così, finché qualche anno fa non incappo in un video che aveva tirato fuori Red Ronnie.
Avrei dovuto immaginarlo che l'anello mancante era Red Ronnie. A proposito di rimozioni: si vorrebbe sempre farne a meno di RR, mentre è figura centrale come poche: anche lui come Vasco dj radiofonico improvvisato, ma a Bologna; tutti gli anni che noi abbiamo avuto a disposizione per sottovalutarlo, Pazienza non li ha vissuti. Lui quando disegnava a Bologna ascoltava la diretta di Red Ronnie, e quando da Bologna se ne dovette andare, Red Ronnie andò a trovarlo e lo intervistò, nell'84. Secondo RR, Pazienza aveva proprio in quel giorno appreso che la sua ex compagna stava col migliore amico. Non è che dobbiamo crederci per forza. Sicuramente era molto scosso da una vicenda sentimentale. Quando RR se ne accorge, decide di infilare il dito nella piaga, ottenendo un risultato che per anni decise di non divulgare - forse un soprassalto di pudore, o forse troppo forte lo choc della scoperta: il fumettista cinico che aveva appena pubblicato le storie più crudeli di Zanardi, era un tenero ragazzo che si struggeva perché una ragazza lo aveva lasciato. Sosteneva di avere 28 anni, ne dimostrava meno. A un certo punto - e sembra un modo di cambiare argomento, ma non lo è - Red Ronnie gli domanda di Vasco Rossi e Andrea Pazienza (che nei suoi fumetti citava Zappa, i Sex Pistols, i Residents), risponde che gli piace; con un'intuizione folle, Red Ronnie gli chiede di intonare Albachiara di Vasco Rossi: e Andrea Pazienza, disperato, vergognandosi molto, lo fa.
E all'improvviso tutto è chiaro. Un caso, fin banale, di rinvaschimento. Andrea Pazienza non ha mai parlato di Vasco Rossi perché, probabilmente, gli piaceva davvero: e di questo piacere si vergognava. Per quanti motivi avesse, come noi per non sopportarlo, di fronte a un'Albachiara e a un cuore spezzato tutti i motivi del mondo sparivano. Respiri piano per non far rumore, ti addormenti di sera e ti risvegli col sole. Sei chiara come un'alba, sei fresca come l'aria. Diventi rossa se qualcuno ti guarda e sei fantastica a... 28 anni. Ci ho 28 anni. Non ne avrebbe compiuti 33. Forse gli sarebbe piaciuto rinvaschirsi, trasformare il suo materiale ancora tanto infiammabile in qualcosa di più commerciale, più popolare; gli sarebbe piaciuto invecchiare e diventare un monumento come quello che abbiamo ammirato in tv. Forse: ma qualcosa è andato storto; e non me ne faccio una ragione.
Potrei anche aggiungere che questo concerto - con tutte le sue assurdità logistiche, traslochi di ospedali, caselli bloccati, vigili in trasferta da tutta la regione - è stato per me perfettamente coerente con quello che Vasco è stato sin dall'inizio: un personaggio un po' fuori, non cattivo no, ma vagamente molesto, imposto di prepotenza dai fratelli maggiori. È così oggi, era così trent'anni fa. Io non ho, in realtà, fratelli maggiori, ma i miei amici sì, ed erano quelli che sul pulmino ci imponevano Vasco nei rari momenti in cui avremmo voluto e potuto condividere qualcosa di culturalmente più rilevante, oh, niente di trascendentale, i Simple Minds o i Cure, ma no: bisognava ascoltare Vasco, perché c'erano le parolacce che facevano ridere, il negro e la troia e la nostra cultura doveva essere quella lì. (Il punto è che dieci anni dopo ci erano riusciti, eravamo intorno a un fuoco e cantavamo il negro e la troia e ridevamo, di Vasco e di noi).
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La BBC era la radio di Red Ronnie, credo. |
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A tutti. |
Da un punto di vista biografico, i due si dovevano essere incrociati per forza: non è poi così grande Bologna. Rossi (che in un primo momento avrebbe voluto iscriversi al Dams, poi optò per Economia e Commercio) la molla nel '75 perché a Modena i subaffitti costano meno, Pazienza era arrivato da un anno. Da un punto di vista antropologico, per quanto entrambi fuoricorso cronici, erano di due tribù diverse: Vasco è un provinciale di collina, radicato nel territorio; non diventerà nessuno finché non riscoprirà la sua gente, irrorandola con la radiolina locale. Pazienza è un fuorisede, sradicato e apparentemente più cosmopolita: e poi soprattutto non aveva fratelli maggiori che gli imponessero Siamo solo noi mentre lui voleva ascoltare The Torture Never Stops. E però, insomma, parliamo più o meno della stessa città, più o meno degli stessi anni, più o meno delle stesse droghe - possibile che non si siano incontrati mai? Neanche quando erano diventati famosi e Pazienza si era messo a disegnare copertine di 33 giri per Vecchioni, per la PFM, per Caputo, per tutti? O c'era qualcosa dietro, una rimozione? Quale orribile sgarbo avrebbe dovuto commettere VR ad AP, perché lui lo condannasse alla damnatio memoriae? E quale morale dovevamo trarre da una storia che aveva fatto sopravivere VR e morire giovane AP, gradito agli Dei ma sostanzialmente sconosciuto dai duecentomila spettatori di ieri sera?
A un certo punto mi ero anche affezionato all'enigma, una specie di versione emiliana di "perché Freud e Schnitzler, vivendo a Vienna, non andavano a bersi birre insieme?" Mi faceva in un certo senso comodo, per come chiudeva due immaginari potenzialmente sovrapponibili in due compartimenti stagni: '77 bolognese e anni Ottanta in provincia, nessuna comunicazione. Alla fine si trattava di due universi paralleli: in quello di Vasco, Pazienza non aveva mai disegnato Pentothal; in quello di Pazienza, Vasco è uno sballato che mastica nel buio in un angolo di vignetta e poi scompare. Le cose non potevano che stare così, finché qualche anno fa non incappo in un video che aveva tirato fuori Red Ronnie.
Avrei dovuto immaginarlo che l'anello mancante era Red Ronnie. A proposito di rimozioni: si vorrebbe sempre farne a meno di RR, mentre è figura centrale come poche: anche lui come Vasco dj radiofonico improvvisato, ma a Bologna; tutti gli anni che noi abbiamo avuto a disposizione per sottovalutarlo, Pazienza non li ha vissuti. Lui quando disegnava a Bologna ascoltava la diretta di Red Ronnie, e quando da Bologna se ne dovette andare, Red Ronnie andò a trovarlo e lo intervistò, nell'84. Secondo RR, Pazienza aveva proprio in quel giorno appreso che la sua ex compagna stava col migliore amico. Non è che dobbiamo crederci per forza. Sicuramente era molto scosso da una vicenda sentimentale. Quando RR se ne accorge, decide di infilare il dito nella piaga, ottenendo un risultato che per anni decise di non divulgare - forse un soprassalto di pudore, o forse troppo forte lo choc della scoperta: il fumettista cinico che aveva appena pubblicato le storie più crudeli di Zanardi, era un tenero ragazzo che si struggeva perché una ragazza lo aveva lasciato. Sosteneva di avere 28 anni, ne dimostrava meno. A un certo punto - e sembra un modo di cambiare argomento, ma non lo è - Red Ronnie gli domanda di Vasco Rossi e Andrea Pazienza (che nei suoi fumetti citava Zappa, i Sex Pistols, i Residents), risponde che gli piace; con un'intuizione folle, Red Ronnie gli chiede di intonare Albachiara di Vasco Rossi: e Andrea Pazienza, disperato, vergognandosi molto, lo fa.
E all'improvviso tutto è chiaro. Un caso, fin banale, di rinvaschimento. Andrea Pazienza non ha mai parlato di Vasco Rossi perché, probabilmente, gli piaceva davvero: e di questo piacere si vergognava. Per quanti motivi avesse, come noi per non sopportarlo, di fronte a un'Albachiara e a un cuore spezzato tutti i motivi del mondo sparivano. Respiri piano per non far rumore, ti addormenti di sera e ti risvegli col sole. Sei chiara come un'alba, sei fresca come l'aria. Diventi rossa se qualcuno ti guarda e sei fantastica a... 28 anni. Ci ho 28 anni. Non ne avrebbe compiuti 33. Forse gli sarebbe piaciuto rinvaschirsi, trasformare il suo materiale ancora tanto infiammabile in qualcosa di più commerciale, più popolare; gli sarebbe piaciuto invecchiare e diventare un monumento come quello che abbiamo ammirato in tv. Forse: ma qualcosa è andato storto; e non me ne faccio una ragione.
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