Un alieno a Lucca

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18 marzo: San Frediano (✝ 588), patrono di Lucca. 

San Frediano devia il Serchio (Filippo Lippi)

Parlando del sesto secolo, devo confessare un pregiudizio: secondo me non abbiamo la minima idea di cosa sia successo. In Italia, perlomeno. Altrove era quasi un secolo decente, in Persia addirittura un buon secolo: ma da noi, quando si parla di epoche buie, alla fine stiamo parlando del secolo VI. Ci siamo entrati che eravamo praticamente ancora cittadini Romani – di un impero momentaneamente sospeso, ma da neanche trent'anni – ne siamo usciti che non avevamo la minima idea di chi fossimo e dove ci trovavamo a vivere. Nel secolo precedente erano arrivati Eruli, Goti e tanti altri, ma in un qualche modo un equilibrio si era trovato; Teodorico era stato un re migliore di tanti imperatori fantoccio. Nel quinto secolo il tentativo dei Romani d'Oriente di riconquistare l'Italia porta a una guerra di trent'anni che spiana la strada a un'epidemia che potrebbe avere dimezzato la popolazione. Quando alla fine i figli di conquistati e conquistatori sembrano aver recuperato un modus vivendi, ecco arrivare i Longobardi che probabilmente hanno le idee meno chiare di tutti. Questi avvenimenti poi ci vengono narrati per lo più da uno di loro (Paolo Diacono), però vissuto due secoli dopo e determinato a dimostrare che i Longobardi avevano proprio fatto bene a riportare pace e ordine in una penisola disastrata: ma è forte il sospetto che Diacono, oltre a dover recuperare fatti e detti ormai remoti, stia cercando nella storiografia una compensazione per le sconfitte più recenti che hanno reso i Longobardi sudditi dei Franchi. Lo stesso Diacono alla fine è un funzionario alla corte carolingia, probabilmente bullizzato in quanto Longobardo, e chissà quanta bile spurgava scrivendo storie su quanto nobilmente i suoi antenati avevano governato i loro pezzi d'Italia. Così insomma quel poco che sappiamo sul sesto secolo italiano ci arriva da fonti non così attendibili, e questo spiegherebbe come mai sia il periodo in cui gli agiografi si sfrenano e inventano, per certi Santi, storie meravigliose che nessuno può andare a confutare.

Prendi San Frediano: nella sua storia, per come c'è arrivata, non c'è molto che abbia senso. Tanto per cominciare era irlandese – o almeno avrebbe sostenuto di esserlo: il suo nome all'inizio suonava come "Frigianu" che potrebbe essere irlandese come frigio, ed era figlio di un re dell'Ulster in un periodo in cui nelle Isole Britanniche c'erano più re che avvocati – sul serio, probabilmente se avevi un po' di terra, un'azienda agricola con qualche centinaio di servi, ti proclamavi re del tale scoglio e nessuno aveva argomenti per contestare la tua intronizzazione. Detto questo, che accidenti ci fa il figlio di un re dell'Ulster in Toscana nel secolo più brutto della storia d'Italia? Ma che domande, fa l'eremita su un monte tra Lucca e Pisa. Cioè di montagne non ne poteva trovare di più vicine a casa? Beh, in Irlanda effettivamente no. Ora, non è escluso che l'Italia centrale fosse già un polo di attrazione per i pellegrini di tutta l'Europa Occidentale che almeno una volta nella vita volevano vedere Roma e le tombe degli apostoli: dopodiché alcuni invece di tornare a casa si sceglievano un eremo in Umbria, o Toscana, terre che a mio personale parere non avrebbero avuto bisogno di matti da fuori, ma non è escluso che possa essere successo.
Basilica di San Frediano

Così come non è impossibile che quando gli chiesero da dove veniva, Frediano rispondesse citando in assoluto l'isola più lontana che conosceva, che tutti conoscevano, perché non aveva la minima intenzione di chiarire le sue origini. Magari era pisano e a Lucca per aver successo doveva fingere di venire dall'altro capo del mondo. Oppure era un alieno, o un uomo venuto dal futuro: ipotesi che darebbero un senso a quel che succede poi, perché i lucchesi del sesto secolo decidono che è la persona giusta per fare il vescovo. Ovvio no? La carica ecclesiastica più importante, in un momento in cui il potere amministrativo è vacante o completamente scomparso; una carica evidentemente elettiva, che molto spesso nelle leggende viene assegnata per acclamazione, sicché immaginiamo quanti notabili in città ambissero a un ruolo di tale prestigio e responsabilità, eh però sul monte c'è un eremita che viene da un posto lontanissimo, quindi è meglio acclamare lui. La scelta inconsulta si rivela, neanche a farlo apposta, la più saggia, perché l'eremita venuto da un'isola lontana e pietrosa capisce che il problema n.1 di Lucca è la palude, e che la soluzione non può che essere deviare il Serchio, fino a quel momento un affluente dell'Arno. Il che è effettivamente un'ottima idea: è solo strano che venisse a un eremita di origine irlandese – a meno che laggiù non avessero già iniziato a canalizzare, ma non ne sappiamo nulla. Nella versione più favolosa (riportata anche da Gregorio Magno), a Frediano basta tracciare il segno con un rastrello o col suo pastorale, e il Serchio lo segue in direzione del mare. Sembra un tentativo di spiegare il nome del fiume (in latino sarculus è il rastrello): la classica etimologia popolare, perché gli antichi lo chiamavano Auserculus, piccolo Auser (parola etrusca che secondo Svetonio indicherebbe la divinità). 

In altre versioni, Frediano a Roma non ha solo visitato i luoghi santi ma ha anche studiato idraulica: e malgrado prima che lo disturbassero i lucchesi preferisse farsi i fatti suoi su un monte, ora che è vescovo non vede l'ora di mettere le sue competenze a frutto. Sembra la classica pezza messa da un agiografo un po' più attento degli altri ai problemi di coerenza narrativa, ma avrebbe più senso se Frigiano/Frediano non fosse un semplice eremita, bensì il capo di una comunità monastica, magari di regola irlandese, come quelle che Colombano di Bangor stava cominciando a fondare nella parte occidentale del continente. Purtroppo le date non tornano, perché Colombano non avrebbe lasciato l'Irlanda prima del 590, e avrebbe fondato l'abbazia di Bobbio (oggi in provincia di Piacenza) solo nel 614. Siccome però stiamo parlando del sesto secolo, le date vanno prese con le pinze. Non sarebbe l'unico caso in cui l'iniziativa di bonificare la palude sarebbe stata presa da una comunità monastica, il cui leader non necessariamente era un esperto di idraulica, ma in seno alla comunità era più facile trovarne uno: i monaci erano all'avanguardia per quel che riguardava la trasmissione dei saperi, e avevano già cominciato a ricopiare i manoscritti antichi. La nomina a vescovo potrebbe essere persino la conseguenza, e non la causa dell'opera di bonifica: un abate che ti risolve il problema delle piene è decisamente degno del titolo.

Anche l'erezione del duomo sarebbe una sua responsabilità: non solo l'avrebbe progettato, ma anche spostato miracolosamente i blocchi di marmo più pesanti. In effetti di fianco all'altare maggiore c'è ancora un monolite di pietra calcarea di metri 5,22x4,05 detto il Sasso di San Frediano. Vi si legge, in latino: O tu che leggi, chiunque tu sia: sei di pietra se questa pietra non ti muove all'ammirazione e alla venerazione di San Frediano. È un'iscrizione cinquecentesca: fino a quel secolo il Sasso aveva fatto da base all'altare. Frediano insomma è un superuomo, il sunto leggendario dei fatti di un secolo in cui tra tanta distruzione qualcuno comunque aveva ricominciato a costruire qualcosa, ma chi? già a poche generazioni di distanza nessuno riusciva a ricordarlo, e ai bambini che chiedevano non restava che raccontare che boh, sarà stato Frediano. Ma da dove veniva? Eh, da lontano.
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Armiamoci, e qualcuno partirà

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– La manifestazione europeista di sabato aveva una piattaforma talmente confusa che avrei potuto andarci anch'io – perché per quanto "riarmo" sia una parola indigesta, se si trattasse di sganciarci dagli USA e riconoscere che abbiamo priorità diverse (al di là del matto che cambia idea tutti i giorni, anche prima e dopo di lui gli USA avevano e avranno priorità diverse), se si trattasse di dissolvere la Nato e riprenderci le nostre responsabilità difensive, io non avrei obiezioni. Ma nessuno in piazza ha osato proporlo, e quindi dopo esserci andato mi sarei andato parecchio a disagio. Avrei trovato perlopiù anziani preoccupati non tanto dal rischio di un'escalation militare nell'Europa orientale, ma dal fatto che a est c'è un dittatore cattivo che tortura la gente, cosa che noi europei a quanto pare non facciamo (in effetti queste cose le amiamo delegare). Anziani preoccupati non tanto dalla necessità di ridefinire il nostro rapporto con gli USA, ma perché a ovest c'è un matto cattivo che non rispetta i trattati – come se invece tutte le decisioni che abbiamo preso fin qui fossero sagge e razionali. Dagli anziani ci si aspetterebbe almeno saggezza, e invece sembrano il segmento più eccitato da semplificazioni che fino a qualche anno fa avrebbero trovato offensive.

– La causa di tanta eccitazione e tanta semplificazione sono i quotidiani, di cui i boomer sono ormai gli ultimi lettori. Viene spontaneo ricordare i girotondini di vent'anni fa – la confusione esistenziale di Michele Serra ricorda molto quella di Nanni Moretti. Coi girotondini Repubblica cercava di intestarsi una resistenza antiberlusconiana del ceto medio-riflessivo che dopo le elezioni del 2001 era perlopiù rimasto in casa, terrorizzato prima dal Movimento dei Movimenti bastonato a Genova, e poi dal contraccolpo dell'11 settembre. Ma era un'altra repubblica, e soprattutto un'altra Repubblica. Quella di adesso è, le piaccia o no, l'house organ di Stellantis, che ha bisogno del piano di riarmo molto più di quanto Putin abbia bisogno dell'Ucraina occidentale. Non so quanto Serra se ne renda conto e alla fine temo non abbia molta importanza, se non per una questione mia affettiva che non ha senso approfondire. 

– L'età media era molto elevata, anche se confrontata con quella di un 25 aprile medio. Al 25 aprile la bandiera più sventolata ormai è la palestinese, ieri era proibito portarla: qualche cosa vorrà dire. Dopodiché immagino che gli organizzatori non si siano sospettati neanche per un istante razzisti, mentre parlavano a una piazza tutta bianca (non solo di capelli) dell'eccezionalità della nostra cultura occidentale europea. Nel frattempo a Gaza manca l'acqua potabile perché i nostri alleati israeliani hanno staccato la corrente agli impianti di desalinizzazione. La coincidenza la noteranno più i posteri, forse sarà la cosa che più noteranno della manifestazione di sabato.

– La questione ucraina sembra davvero troppo cruciale e delicata per farla descrivere agli ucraini, che pure in Italia ci sono, ma sui palchi di queste manifestazioni non salgono, non parlano. Forse qualcuno si dimentica di invitarli. Oppure un tipo di retorica è diventata fastidiosa a loro molto prima che a noi.

– Mettiamoci un po' di ottimismo della volontà. È servita una micidiale guerra di posizione con centinaia di migliaia di morti, ma i tedeschi hanno ufficialmente smesso di credere nell'austerità. Ottocento miliardi è una cifra ipotetica, buttata lì per spaventare il nemico, ma una volta accettato che situazioni emergenziali giustificano spese eccezionali, sarà molto più facile individuare le eccezioni, anche perché il futuro di crisi ce ne riserva tante, probabilmente più climatiche che geopolitiche. Ma se possiamo investire in furgoni, purché blindati, si tratterà di convertirli in autoambulanze e camion dei pompieri e siamo abbastanza creativi per farlo. Se poi il M5S torna al governo, non si può escludere che scopriamo la necessità di un bonus facciate per rendere finalmente le nostre dimore sicure anche da un punto di vista strategico: e prima che i tedeschi capiscano che li abbiamo presi in giro anche stavolta, potrebbero passare altre due eurolegislature. Viva l'Europa.

– Credo che Elly Schlein – che da due anni si muove su una lama sottile ondeggiando molto ma non è ancora precipitata – abbia bisogno del sostegno di tutti noi, dove "noi" è un insieme che probabilmente include gente molto più a sinistra di me ed Elly Schlein. Il PD poteva spaccarsi, o appiattirsi sulla linea dell'Armiamoci e Partite che piace molto ai suoi parlamentari, e molto meno ai suoi elettori. È riuscita a elaborare una risposta più complessa, a mantenere la linea e a parare i colpi, presentandosi anche lei in piazza (anzi, è stata tra i primi ad aderire, depotenziando tutta l'iniziativa perché tra la sua idea di Europa e quella molto vaga di Serra c'è una sensibile differenza). Si poteva fare di meglio? Ovviamente. Qualche politico oggi in Italia avrebbe saputo fare di meglio? Guardatevi in giro.

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L'Occidente e le sue storie

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[Questo pezzo è stato pubblicato sul Manifesto del 12/3/2025; nello stesso giorno mi hanno invitato a parlare delle Indicazioni Nazionali a Fahrenheit, su Radio 3 (nei primi minuti). Considerato che le Indicazioni erano uscite il giorno prima, sono stato abbastanza tempestivo. Ma ce ne sarebbe ancora parecchio da dire, davvero è uno di quei casi in cui non si sa da che parte cominciare, salvo che avevo fretta e ho cominciato comunque].

La pietra dello scandalo arriva piuttosto tardi, addirittura a pagina 69 di un documento (la bozza delle «Nuove Indicazioni 2025» per la scuola) che fino a quel momento non sembrava dirompente come certe dichiarazioni avevano fatto intendere.

Finché non si arriva alla voce «Storia», pagina 69, e a un’affermazione perentoria: «Solo l’Occidente conosce la Storia». Segue una citazione di Marc Bloch, che però una tale perentorietà non se l’è permessa: al limite ha riconosciuto che a differenza del cristianesimo «altri sistemi religiosi hanno potuto fondare le loro credenze e riti su una mitologia quasi estranea al tempo umano» (Apologia della storia).

Che questo abbia impedito alle civiltà non occidentali di sviluppare una storiografia e un senso della storia, è un salto logico che Bloch non si permetteva: tanto più fa strano trovarlo messo per iscritto ottanta anni dopo la sua scomparsa. In mezzo c’è stata la decolonizzazione e ci sono stati i postcolonial studies, insomma i momenti per mettere in dubbio il nostro eurocentrismo non sono mancati. La maggioranza della comunità degli studiosi ne ha approfittato: purtroppo non chi ha redatto le Indicazioni Nazionali, che da pagina 69 cominciano a tradire un’impostazione reazionaria. Che è quello che ci si poteva aspettare dal governo più a destra espresso dal parlamento dal 1945 in poi (e certe affermazioni apodittiche potrebbero davvero essere state scritte in quegli anni: «La storia è divenuta… l’arena per eccellenza dove post factum si affrontano il bene e il male variamente intesi. Dove rimane memoria delle imprese degli individui e dei popoli, e si compie in qualche modo il loro destino finale»).

È comunque indicativo che queste affermazioni non provengano da un burocrate di partito, ma riecheggino le posizioni di un illustre membro della commissione di area liberale, Ernesto Galli della Loggia, espresse nei suoi libri: L’aula vuota (2019); Insegnare l’Italia (con Loredana Perla, 2023). Come studioso e cittadino, mi confesso un po’ perplesso davanti a pagine che tradiscono una concezione della Storia così hegelianamente centrata sui noi stessi; pagine che tra l’altro escono con un pessimo tempismo, proprio in quel marzo 2025 in cui questo Occidente compatto, unico portatore di una Storia «come specchio dei progressi dello spirito umano» sembra essersi fratturato. Già molti fieri araldi dell’Occidente stanno sostituendo la parola con «Europa», nei discorsi e nei cortei. Magari in futuro scopriremo di avere più cose in comune con Asia e Africa che con l’America, chi può dirlo – del resto se la Storia ha uno «strettissimo rapporto con la politica», non è così strano che si modifichi ogni volta che si modifica quest’ultima.

Come insegnante, mi consolo pensando che all’atto pratico non è che le cose cambino molto; l’unica novità è questa idea balzana di stirare la Storia di prima media da Carlo Magno alla rivoluzione industriale (Lutero e Galileo diventeranno mere comparse). Quanto alla Storia africana e asiatica, sui manuali ne abbiamo sempre trovata pochissima. Coi nostri studenti di origine extraeuropea ci scusavamo dicendo che era una lacuna di tutto il nostro sistema: ecco, le Indicazioni ci propongono di non chiedere più scusa. Pazienza se metà delle nostre classi proviene da famiglie che si riconoscono in altre storie. Spiegheremo loro che non sono storie interessanti. Dopodiché cresceranno, e un giorno in cattedra ci saranno loro. Probabilmente per allora questa pagina 69 sarà solo un remoto ricordo, di quando ancora qualche prof bianco si ostinava a voler spiegare soltanto la Storia dei bianchi.


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Il gesuita che doveva sparire

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12 marzo: Beato Rutilio Grande Garcia (1928-1977), sacerdote salvadoregno.

(Non c'entra nulla, ma stamattina dovrebbe esserci un pezzo mio sul Manifesto, magari interessa).

https://www.jesuits.global/it/2019/02/01/tributo-a-rutilio-grande-sj/

Affacciato sulla strada che collega il borgo di El Paisnal con la cittadina di Aguilares (El Salvador), c'è ancora un monumento con tre croci metalliche che spuntano dal marmo. Ormai nessuno lo tocca più, ma i primi anni furono complicati. Le croci a volte venivano divelte, persino il marmo si sgretolava o spariva. Non si trattava di miracoli, ma dei trattori degli squadroni della morte. Le croci segnavano il punto in cui il 12 marzo del 1977 le loro pallottole avevano raggiunto l'auto dove viaggiavano padre Rutilio Grande, il catechista settantaduenne Manuel Solórzano e Nelson Rutilio Lemus. Quest'ultimo era un ragazzo di sedici anni, che con Rutilio e Manuel andava a celebrare la novena di San Giuseppe nel villaggio natale di padre Rutilio. Altri tre ragazzi nell'autovettura rimasero indenni, e al processo identificarono gli squadristi, che comunque furono assolti. L'obiettivo era evidentemente padre Rutilio (bersagliato da dodici pallottole), che malgrado avesse rinunciato a un ruolo prestigioso nel seminario di San Salvador per occuparsi di una semplice parrocchia, continuava a dare molto fastidio ai proprietari terrieri. Di Rutilio doveva scomparire anche la memoria: il busto in marmo che lo ritraeva fu fatto saltare in aria pochi giorni dopo l'inaugurazione. L'autore, lo scultore spagnolo Pedro Gross, scampò a un attentato e preferì lasciare il Paese.  

Pedro Gross con il busto dedicato a Padre Rutilio 

Chi ancora ricorda la guerra civile che insanguinò El Salvador negli anni Ottanta, sa che scoppiò in seguito all'assassinio del vescovo Oscar Romero, mentre officiava una messa, nel 1980; uno dei martiri più scenografici della storia della Chiesa, perché il cecchino scelse di colpire il vescovo proprio durante l'elevazione, mentre reggeva ostia e calice (ricordo la didascalia del fumetto pubblicato dal Piccolo Missionario: "il sangue del vescovo si mescola a quello di Cristo"). Si tratta probabilmente del momento più adatto per sparare a un sacerdote officiante: ha le braccia alzate, il petto necessariamente proteso. Ma sembra anche un riconoscimento dell'assassino nei confronti della sua vittima, quasi una confessione: devo ucciderti, ma non posso evitare di fare di te un martire, un eroe. La crudezza con cui fu eliminato può suggerire l'impressione che Romero fosse uno di quei cristiani militanti che in quegli anni avevano spostato il baricentro verso la sinistra dei campesinos – col risultato di attivare la reazione di forze nazionaliste che potevano contare sull'appoggio dell'esercito e il benestare del Pentagono. Ma Romero non era un teologo della liberazione, anzi: quando fu nominato vescovo di San Salvador, all'inizio del 1977, passava per un conservatore, o in ogni caso un uomo di Chiesa che non intendeva immischiarsi nella politica. A trasformarlo nel leader dell'opposizione salvadoregna fu la strage di Aguilares. Rutilio era un suo collaboratore, e probabilmente un suo amico; Romero accorse subito a El Paisnal per celebrare una lunga messa che doveva servire anche a placare gli animi. La domenica, tutte le celebrazioni salvadoregne furono sospese: centocinquanta sacerdoti co-celebrarono con Romero un'unica messa nella cattedrale, per ricordare Rutilio, Solórzano e Lemus. E siccome per il governo si trattava di un semplice e increscioso caso di delinquenza comune, il vescovo annunciò che non avrebbe più preso parte a eventi ufficiali finché il governo salvadoregno non avesse identificato e punito i colpevoli. Il governo non li identificò mai, e nei tre anni che gli rimanevano da vivere Oscar Romero non strinse più la mano a un solo politico salvadoregno, diventando la voce più autorevole dell'opposizione al regime. 

Monumento a Romero e Grande, El Paisnal

Neanche Rutilio dava l'impressione di essere un rivoluzionario. A leggere un po' di testimonianze sembra di riconoscere quel tipo di prete timido che da adolescente può sentire il richiamo della vita sacerdotale perché sembra venire incontro alle necessità di un temperamento introverso: la promessa di un'esistenza pacifica, l'inserimento in una comunità dove ci si aspetta di svolgere un ruolo utile ma non troppo appariscente. Dopodiché Rutilio ha la trovata di entrare nei gesuiti sudamericani proprio nei terribili anni Settanta, il che lo porterà a diventare il leader di intere comunità di proletari angariati da una classe proprietaria avida e assassina; ruolo che Rutilio accetterà con cristiana rassegnazione e (sembra) non troppo entusiasmo. Mentre era già in macchina, quella sera, e forse aveva capito di essere seguito, i ragazzi gli sentirono dire: "Bisogna fare quel che Dio vuole". 

Alla fine degli anni Settanta, El Salvador era un esperimento sociale fuori controllo. Tra i Paesi continentali dell'America Centrale è sempre stato il più piccolo e il più popolato; la presenza di più manodopera a basso costo aveva attirato a partire dagli anni Sessanta gli investimenti delle multinazionali della frutta, che avevano favorito il Salvador rispetto al Paese confinante e complementare, l'Honduras: quest'ultimo meno popolato, più povero, ma più vasto e dotato di uno sbocco strategico sull'Atlantico che al Salvador manca. Lo squilibrio era potenzialmente esplosivo, ed esplose nell'estate del 1969 in quel conflitto eternato dal reporter Ryszard Kapuściński col nome di "Guerra del calcio", perché scoppiò dopo un match tra le due nazionali. Purtroppo il nome lascia intendere un trionfo dell'irrazionalità tra due nazioni di tifosi regrediti a uno stadio barbarico a causa della passione sportiva. Ma la guerra scoppiò dopo la partita probabilmente per evitare che quest'ultima fosse annullata (era uno spareggio per qualificarsi ai mondiali del Messico): e a provocarla furono i vincitori sul campo di gioco, ovvero i salvadoregni. La posta in gioco era molto più cruciale: l'Honduras, dopo aver accolto trecentomila immigrati dal Salvador in piena esplosione demografica, li aveva rimandati alla frontiera disattendendo gli accordi presi con lo Stato confinante. Il Salvador attaccò per i solito motivi razionali per cui una nazione attacca un'altra, ovvero aveva un esercito più numeroso e organizzato, e per qualche giorno sembrò vincere proprio per questo motivo; dopodiché cominciò a ritirarsi proprio come succede agli eserciti più numerosi e organizzati una volta esaurito lo slancio iniziale. L'armistizio certificò che i confini restavano gli stessi; il che significava che il Salvador aveva pagato un prezzo rilevante in vite umane per ritrovarsi con lo stesso problema iniziale, perché quasi tutti i trecentomila profughi che in teoria avrebbero potuto tornare in Honduras, non osarono farlo. Si ritrovarono disoccupati in uno Stato grande quanto una regione italiana, dove la ricchezza era divisa equamente tra quattordici famiglie e anche le piantagioni delle multinazionali non assumevano più. Alcuni aderirono alle forze rivoluzionarie di matrice comunista che nel 1980 sarebbero confluite nel Fronte Farabundo Martí; altri si rivolgevano alle parrocchie, e trovavano sempre più spesso sacerdoti disposti ad ascoltare le loro rivendicazioni: i seguaci di quella "teologia della liberazione" che ai proprietari sembrava più indigesta del comunismo. 

Il 6 agosto in Salvador è festa nazionale. Il 6/8/1970, in una messa solenne alla presenza del governo, Rutilio aveva definito Gesù Cristo il "Rivoluzionario numero uno della Storia". In pieno entusiasmo postconciliare citava l'enciclica Populorum progressio di Paolo VI: "i contadini prendono coscienza, anch’essi, della loro miseria immeritata”, e proponeva una "trasfigurazione evangelica" della nazione, niente più che la realizzazione del motto riportato sulla bandiera: Dio, unione, libertà. Con queste parole commosse il generale Fidel Sánchez Hernández (il presidente che aveva trascinato il Salvador nella Guerra del Calcio), che gli fece dono di una copia della Costituzione da cui non si sarebbe più separato; si espose alle critiche del clero più tradizionalista e si giocò la candidatura già avanzata a direttore del seminario nazionale. Se la cosa lo scosse, non lo diede a vedere: chiese al vescovo una parrocchia qualsiasi e accettò (malvolentieri) quella che includeva il suo villaggio natìo. Da qui in poi, più che con le parole, avrebbe parlato coi fatti. Il passaggio dal latino allo spagnolo, sancito dal Concilio, forniva l'occasione per alfabetizzare i contadini: avrebbero imparato a leggere il vangelo, ma anche i loro diritti costituzionali. Un altro suo discorso, otto anni più tardi, lo espose di nuovo all'attenzione di osservatori sempre più incattiviti: un suo collega sacerdote (Mario Londono) era stato prima sequestrato da un gruppo paramilitare, poi liberato dall'esercito che però aveva approfittato del fatto che fosse di nazionalità colombiana per deportarlo. Padre Rutilio aveva reagito accusando apertamente le autorità. "So bene che molto presto anche a Bibbia e Vangelo non sarà più concesso di attraversare il confine. Solo le copertine riusciranno ad arrivare da noi, dato che tutte le pagine sono sovversive. Al punto che se Gesù passasse il confine a Chalatenango, non gli consentirebbero di entrare. Lo accuseranno, il figlio di Dio, di essere un agitatore, uno straniero ebreo venuto a confondere il popolo con idee esotiche, straniere, antidemocratiche... Fratelli, senza dubbio lo crocifiggerebbero di nuovo". 

Non solo Gesù non riuscì a passare, ma Rutilio fu ammazzato tra El Paisnal e Aguilares: e anche la sua statua fu fatta esplodere, le croci sulla strada fatte sparire. Tre anni dopo fu ucciso Romero ed El Salvador divenne uno di quei Paesi di cui si parlava sempre verso la fine del telegiornale, ogni giorno centinaia di morti: per cui ce lo immaginavamo grandissimo, altrimenti come potevano morirne tanti tutti i giorni? Gli americani sostennero gli squadroni della morte, dopodiché ci fecero un film, credo con James Belushi. Oggi il presidente è un imprenditore di origine palestinese che ha reso i bitcoin una valuta nazionale. Garcia, Solorzano e Remus sono stati beatificati nel 2022; Romero è stato canonizzato nel 2018 da Papa Francesco.
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L'abate che si chiuse nelle Celle

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10 marzo: Beato Giovanni dalle Celle (Giovanni da Catignano, 1310-1396), intellettuale autorecluso

A questo punto della vostra vita, quanti libri avete letto, di quelli che bisognerebbe prima di morire? Probabilmente state accettando il fatto che non ci riuscirete mai, nemmeno se... passaste il resto della vita recluso in una cella. Giovanni da Catignano ci è riuscito – no, non a leggere tutti i libri importanti, che comunque nel Trecento costituivano senz'altro una lista più breve di adesso – ma ad autorecludersi. E dire che aveva avuto un ruolo di responsabilità: abate del monastero della Santa Trinità a Firenze. Il pretesto fu piuttosto imbarazzante: non conosciamo i dettagli, sappiamo solo che c'entrava almeno una donna, e che Giovanni andava già per la quarantina. Girolamo da Raggiolo, agiografo fiorentino del Quattrocento, sostiene che Giovanni, dilettandosi di negromanzia, era riuscito a far apparire nella sua cella "figure seducenti di donne". Questa ipotesi, che candiderebbe Giovanni al patronato degli utenti di Pornhub, sembra oggettivamente improbabile: magari era una voce messa in giro per spiegare il fatto che qualche "figura seducente di donna" in abbazia si fosse intravista davvero. 

Il reato, confessato all'abate del monastero di Vallombrosa che era il suo diretto superiore, doveva essere grave, ma non gravissimo, visto che dopo un anno di isolamento in una cella della torre di Pitiana (a pane e acqua!) avrebbe potuto recuperare la sua dignità di abate. Invece si sentiva ancora colpevole – o forse aveva concluso che quell'isolamento gli era congeniale. Così, dopo un pellegrinaggio a Roma per il giubileo del 1350, scelse di isolarsi definitivamente dal mondo in una dépendance dell'abbazia vallombrosiana, dall'atmosfera così penitenziale che in seguito sarebbe stata soprannominata "il Paradisino". Nel silenzio di una cella, Giovanni poteva finalmente concentrarsi sugli studi: leggere, scrivere, corrispondere con i più famosi letterati di quel secolo complicato ma stimolante. Come quel grafomane di Petrarca, che forse avrebbe invidiato la tranquillità di Giovanni, da cui nessuno pretendeva più che lasciasse lo studiolo e girasse l'Italia per sbrigare estenuanti faccende diplomatiche; o Caterina da Siena, anche lei barricatasi nella casa dei suoi, da dove scriveva lettere meravigliose ai potenti della terra, ma anche a Giovanni delle Celle. 

In effetti la relativa fama di Giovanni è per lo più luce riflessa di Caterina, di cui fu uno degli sponsor più illustri: anche se per parecchi anni non osò scriverle direttamente. A rompere il ghiaccio fu un equivoco: nel 1373 Gregorio XI, stimolato da Caterina, aveva bandito l'ennesima crociata, nell'indifferenza generale delle teste coronate che avrebbero dovuto assumersene il carico. Nel frattempo però a Firenze la fanbase di Caterina strepitava, tra loro persino alcune donne si dicevano pronte a partire per la Terrasanta e una di loro, suor Domitilla, doveva aver manifestato questa volontà anche a Giovanni, che era il suo direttore spirituale. Giovanni aveva ovviamente scritto una lettera per dissuaderla, ma questa lettera, copiata e diffusa fuori dal contesto, era parsa a molti una critica nei confronti di Caterina. L'unico modo di correggere il tiro era chiedere pubblicamente di essere ammesso tra i seguaci di Caterina: la richiesta fu accettata dalla santa stessa, con una lettera datata 10 ottobre 1376. Purtroppo le lettere di Giovanni a Caterina sono andate perse, mentre nel carteggio di Caterina se ne conservano due indirizzate a lui. Ci è rimasto invece il lamento funebre scritto al suo discepolo Piero Canigiani, appena seppe della morte di Caterina nel 1380. "Figliuolo mio Barduccio. Come oggi mai vivremo più, poiché è morta la nostra madre, la nostra consolazione? Che potremo noi fare altro se non piangere la nostra desolazione?" Caterina se ne era andata a 33 anni, durante un digiuno più intenso del solito; Giovanni ne aveva già 80 e ne avrebbe vissuti altri sedici. La vocazione eremitica lo aveva messo al riparo dalla grande peste del 1348, e dalle guerre e carestie di quel secolo complicato. Non ci è dato sapere se ogni tanto, nel segreto delle sue celle, riuscisse ancora a visualizzare seducenti figure femminili: una volta però sarebbe stata proprio Caterina ad apparirgli "circonfusa di luce" mentre Giovanni celebrava una messa in suo onore.  
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Buon 8 marzo, merde

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È uscito il nuovo singolo delle Solite Stronze, giusto in tempo. Io respingo ogni addebito.

 
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Fate bene, fratelli di Giovanni

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Giovanni di Dio mette in salvo i pazienti
durante l'incendio dell'ospedale.
8 marzo: San Giovanni di Dio (1495-1550), fondatore dei Fatebenefratelli

Ci sono certe vite di santi che, a leggerle tra le righe, e con un po' di esperienza (che non significa purtroppo competenza), ti lasciano intendere che il santo in questione potrebbe avere sofferto di un disturbo bipolare. Ecco, la storia di Giovanni di Dio non è tra queste. La vita di Giovanni di Dio non ti lascia intendere qualcosa: la vita di Giovanni di Dio ti urla letteralmente DISTURBO BIPOLARE a ogni paragrafo, con una veemenza che alla fine ti induce a dubitare, cioè alla fine noi cosa ne sappiamo della vita di Giovanni di Dio? Tutto quello che ha raccontato ai suoi seguaci dei suoi primi quarant'anni potrebbe esserselo inventato lì per lì, molte cose sono inverosimili, e poi cos'è che renderebbe riconoscibili i bipolari nei secoli, sentiamo. 

Mah, le solite cose. L'alternarsi di lunghi periodi di stasi e improvvise fiammate di euforia. Illuminazioni, epifanie, momenti in cui il protagonista ha la sensazione di aver capito tutto della vita. Qualche allucinazione, qualche gesto sconsiderato. Se avete letto Aurélia di Gérard de Nerval, ecco, oggi sarebbe probabilmente curabile, e invece è morto poeta in un vicoletto, a metà racconto, convinto di essere sulla soglia di chissà cosa. A Giovanni di Dio è andata meglio, anche se deve avere sofferto parecchio. A volte la santità serve a questo: a trasformare dolori immensi in qualcosa di socialmente utile. Non succede spesso, e quando succede c'è davvero da gridare al miracolo. Giovanni addirittura avrebbe anticipato la psicoterapia, il che mi pare un po' esagerato. Però è suggestiva questa idea che l'abbia inventata un tizio che in manicomio un po' c'era stato, e non per motivi di studio. 

Giovanni di Dio, al secolo João Cidade Duarte era convinto di essere nato nel 1495, a Montemor-o-Novo, sud-est di Lisbona. Ma a otto anni sarebbe stato rapito da un sacerdote che l'avrebbe portato in Castiglia. Possibile che João fosse stato tolto ai genitori senza il loro consenso? La madre sarebbe morta dal crepacuore, il padre sarebbe entrato nei francescani. Di entrambi si è persa ogni traccia, per cui davvero c'è qualcosa che non torna. Una tesi intrigante è che i genitori fossero ebrei espulsi dalla Spagna con il decreto del 1492: forse venivano da Toledo ed è proprio a Toledo che il sacerdote lo avrebbe riportato Giovanni, magari per affidarlo a parenti dei genitori, ebrei convertiti. Anche se il primo biografo fosse stato a conoscenza dei particolari della vicenda, avrebbe avuto più di un motivo per nasconderli: si chiamava Francisco de Castro, era il cappellano dell'ospedale fondato da Giovanni, che era morto da appena trent'anni. L'obiettivo era dimostrare che Giovanni meritava la canonizzazione: l'idea che fosse figlio di ebrei fuggitivi non aiutava in nessun modo la causa e anche questo prete rapitore risultava imbarazzante.  

Giovanni forse era già a quel punto soprannominato "di Dio", come capita ai trovatelli. Un piccolo proprietario lo avrebbe assunto come guardiano di pecore nel villaggio di Oropesa. Da otto anni fino a 22, Giovanni non avrebbe fatto altro: dopodiché, per evitare un matrimonio ormai impellente con la figlia del proprietario, si sarebbe aggregato a una compagnia di soldati di ventura che andavano a combattere per Carlo V alla frontiera basca. Questa prima esperienza militare non si sarebbe rivelata incoraggiante: i commilitoni, dopo averlo messo di guardia a un ricco bottino, si erano accorti che ne era sparita la maggior parte. Giovanni non aveva rubato niente; forse si era appisolato, ma questo sarebbe bastato per condannarlo a morte; invece in un qualche modo viene graziato, ma abbandona l'esercito. Ritorna ai suoi pascoli – può darsi che nel frattempo la promessa sposa avesse trovato un partito più affidabile. Quattro anni dopo, la Storia lo viene a stanare proprio a Oropesa: i lanzichenecchi di Carlo V stanno marciando verso l'Ungheria, assediata dai turchi. Giovanni corre ad arruolarsi e stavolta resterà sotto le armi per 18 anni, combattendo a Pavia contro i francesi e a Vienna durante l'assedio dei turchi. Cosa deve avere sperimentato in quegli anni, Giovanni non lo ha mai raccontato con chiarezza, ma le battaglie nel Cinquecento potevano essere molto cruente e lasciare ricordi e rimorsi indelebili. Non è escluso insomma che Giovanni soffrisse di traumatofilia o altre patologie tipiche del mestiere delle armi: né che dietro alle sue imprese penitenziali ci fossero sensi di colpa inespiabili. 

Al termine della campagna turca, Giovanni si ritrova congedato a bordo di una nave che lo sbarca a La Coruña, non molto lontano dal Portogallo. Decide di andare in cerca dei genitori, di cui non ricorda nemmeno il nome. In un qualche modo riesce a ritrovare parenti che gli raccontano come entrambi siano ormai morti. Non resta che tornare ai pascoli, salvo scoprire che no, la vita pastorale non fa più per lui. Deve cambiare la sua vita (di nuovo): una voce gli suggerisce di partire per l'Africa dove, per male che andasse, può sempre morire da martire testimoniando il Vangelo. Le cose non vanno esattamente così; Giovanni arriva a Ceuta che a quel tempo è un enclave portoghese in Marocco. Diventa confidente di un cavaliere in disgrazia, appena esiliato a Ceuta con moglie e figli. Quando il cavaliere scopre che i suoi beni sono stati confiscati, Giovanni si sobbarca delle necessità di tutta la famiglia. È il primo vero indizio di una eroica propensione al servizio per gli altri, che può essere facilmente confusa per dabbenaggine. Quando un altro compagno di viaggio si converte all'Islam, Giovanni si spaventa: forse a questo punto intuisce di essere lui stesso abbastanza preposto alle conversioni improvvise. Era venuto in Africa per salvare la sua anima, chissà da quali crimini commessi da soldato; ma lì rischiava di perderla. Il colloquio con un sacerdote lo convince a tornare in Ispagna, così che Giovanni entra a far parte di quell'interessantissimo insieme di santi (Antonio da Padova, Vincenzo de Paoli) che l'Africa ha tentato e respinto. Approdato a Gibilterra, Giovanni si ritrova sradicato tra Estremadura, Mancia e Andalusia, un Don Chisciotte in cerca di mulini. A orientarlo verso Granada sarebbe stato il bambino Gesù con un'apparizione in cui per la prima volta lo avrebbe chiamato "Juan de Dios" – se non è un espediente escogitato dal biografo per allontanare l'idea che Giovanni portasse il tipico cognome dei digli di nessuno. 

A Granada Giovanni riesce a mettere insieme un negozio di libri, un settore in rapida espansione: i libri sfusi, senza copertina, erano la novità del secolo, andavano via come oggi le cover dei telefoni, e da qualche parte tra l'Ungheria e il Marocco Giovanni aveva anche imparato a leggere. Non diventerà un grande scrittore (ci ha lasciato solo qualche lettera), e nemmeno un grande libraio perché un giorno, ascoltando le parole di un predicatore itinerante, tale Giovanni d'Avila, ha un'epifania di quelle da ricovero: gridando ossessivamente "Fate bene fratelli, per il nome di Dio" devasta il negozio e si mette a mendicare e flagellarsi per strada, finché i concittadini non lo portano nell'ala dell'ospedale riservata ai matti. Aveva 42 anni. Ci resta qualche mese; viene incatenato, frustato, affamato: tutte terapie che Giovanni, una volta guarito, avrebbe rigettato come inutili e dannose, e oggi saremmo tutti d'accordo con lui, senonché dobbiamo ammettere che da quel manicomio, Giovanni è uscito guarito – o perlomeno stava molto meglio di quando si flagellava a sangue per le strade gridando Fatebenefratelli. Può darsi che a risolvere la crisi sia stata una visita di Giovanni d'Avila, che lo convince a lasciar perdere gli eroismi penitenziali e a dedicare le sue energie a fare il bene, sì, ma agli altri. Parole di buon senso, ma a Giovanni non bastano: le deve ratificare un'apparizione di Maria, incontrata al santuario della Vergine della Guadalupe (in Estremadura, da non confondere con quello messicano). Giovanni torna dunque a Granada e si mette ad assistere i poveri. All'inizio non è molto meno povero di loro, per cui avviene questa cosa incresciosa che lo lascino talvolta nudo per strada. Un vescovo risolve la questione disegnando per lui una tonaca bianca personalizzata, ingiungendogli di non levarsela più; e così, dopo qualche anno di intenso lavoro, Giovanni si ritrova a capo di una comunità socio-assistenziale dedicata a poveri, infermi ed ex prostitute. Questa svolta ha davvero qualcosa di miracoloso, perché è evidente che le famiglie più ricche di Granada, pur sentendosi obbligate a opere di beneficienza, difficilmente si sarebbero fidate di un tizio che ricordavano aggirarsi per le strade della città seminudo e sanguinante, appena pochi anni prima: eppure Giovanni in un qualche modo riesce a conquistare stima e fiducia di chi lo aveva visto impazzire, e a fondare due ospedali. Non diventa comunque un metodico organizzatore: l'ordine dei Fratelli Ospedalieri, che solo in Italia vengono chiamati Fatebenefratelli, si darà uno statuto ufficiale e otterrà l'approvazione ecclesiastica solo dopo la sua morte. La figura di Giovanni in effetti si prestava a diventare una leggenda, ma non sappiamo quanto certe rivoluzionarie intuizioni sanitarie siano davvero farina del suo sacco, o non siano state attribuite a lui dagli orgogliosi successori. Gli ospedalieri furono tra i primi a dividere i malati nelle camerate a seconda della patologia: è persino possibile che questa idea provenisse dalla lunga esperienza militare di Giovanni, durante la quale aveva senz'altro sperimentato gli ospedali da campo. E soprattutto Giovanni sarebbe il primo infermiere che invece di legare i matti prova a discutere con loro, proprio come Giovanni d'Avila aveva discusso con lui. Gli ultimi mesi della sua complicata vita sono particolarmente eroici: nel luglio del 1549, mette in salvo i pazienti dell'Ospedale Reale di Granada da un incendio, salendo ai piani alti e continuando a gettare dalla finestra le suppellettili, calandosi alla fine dal tetto – forse anche in questo caso l'esperienza militare gli era stata utile. In inverno, durante la piena del fiume, cerca invano di salvare un ragazzo dall'annegamento, rimediando una polmonite che forse è la causa della sua morte, l'otto marzo 1550, quindi 475 anni oggi. Fu canonizzato nel 1690: a fine Ottocento Leone XIII lo proclamò patrono degli ospedali e dei malati. 
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Verso nuove radiose giornate

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First we take Aviano. Che aria frizzante, che voglia di armarsi, che subbuglio tra i nuovi eroi al caffè. Per quanto potessimo averlo previsto, è abbastanza sorprendente vederlo realizzato nel giro di un mese: là dove era tutto un "difendiamo l'Occidente", adesso c'è scritto che dobbiamo difendere l'Europa, e mica a parole: servono armi e servono subito. Non vi commuove tutto questo improvviso europeismo? E chissà cosa difenderemo l'anno prossimo. Poi per carità: se è la fine della Nato, io non ho molto da obiettare, e immagino che un massiccio riarmo sia inevitabile – ma solo se è la fine della Nato, altrimenti è una farsa. Fare la guerra a Putin a questo punto non è troppo diverso dal fare la guerra a Trump; non mi sembra un'impresa all'altezza delle nostre forze, ma soprattutto non è cosa che possiamo pensare di fare mentre ospitiamo militari e agenti americani in centinaia di basi del nostro territorio. E quindi, amici interventisti, un po' di chiarezza: volete davvero strappare l'Occidente, e in che modo? Sono sinceramente curioso. 

Le nuove Radiose Giornate. Uno dei motivi per cui a volte chi viene qui a commentare non mi capisce, è che più che due lingue diverse, parliamo due guerre diverse. Molti commentatori parlano la Seconda Guerra Mondiale: per loro non è semplicemente l'ultima guerra importante, ma il mito fondativo dell'Occidente, l'architrave morale che definisce il Male assoluto (il nazismo) nonché giustifica qualsiasi male relativo (se devi combattere il nazismo puoi anche spianare Strisce e deportarne la popolazione). Quindi arrivano qui e si giocano invariabilmente la carta dello Spirito di Monaco. Qualsiasi guerra è necessaria, perché l'alternativa alla guerra è l'appeasement e l'appeasement è la colpa primigenia, senza l'appeasement non vivremmo del frutto del nostro sudore e le donne non partorirebbero con dolore. Va bene. (Cioè no, non funziona così, non è più Storia, è un mito, ma io credo nella tolleranza religiosa e quindi devo tollerare anche la vostra buffa religione). Però io parlo un'altra guerra, la Prima: e ogni volta che si dibatte sui motivi per farne una – che molto spesso sono i motivi per farla fare agli altri – io mi ritrovo di nuovo nel 1914 nelle bagarre tra Interventisti e Neutralisti, a litigare con futuristi, lacerbiani, dopo un po' è arrivato anche quel socialista romagnolo che prima scriveva quei fondi trucidi sull'Avanti, tutti avventurieri con scarse nozioni di strategia, tutti eroi ar caffè, voi venite qui a darmi del Chamberlain e non sapete neanche quanto somigliate a Giovanni Papini e quanto sia offensiva questa cosa che vi sto dicendo.


Scurati ci vorrebbe più guerrieri. Ieri sulla Repubblica appare un pezzo di Scurati che segnala "la principale carenza europea rispetto alla possibilità di combattere autonomamente una guerra difensiva: la mancanza di guerrieri". Siamo già a questo? L'intellettuale che pochi mesi fa era diventato l'icona dell'antifascismo, è già pronto a litigare coi compagni e rifondare il Popolo d'Italia? Sì e no; Scurati queste cose le ha sempre scritte, salvo che non se ne accorgevano in molti perché i riflettori erano altrove. Se lo conoscessi un po' di più mi azzarderei a dire che un certo gusto melodrammatico per la guerra guerreggiata Scurati lo ha sempre conservato nello stile: certi fregi liberty come, nel pezzo su Repubblica, la definizione del nostro continente come "scoglio euroasiatico popolato di guerrieri feroci, formidabili, orgogliosi e vittoriosi". Da cui il sospetto che l'approccio romanzesco a Mussolini fosse anche un'accettazione di certe radici stilistiche nietzscheano-dannunziano-lacerbiano-futuriste, nonché un tentativo di rovesciarle, profanarle, ricordare a sé stesso e al suo pubblico che un certo stile ha un esito pratico, tante parole culminano portano a un punto, e questo punto è la guerra. Va bene. Diciamo che Scurati è un intellettuale che in questo preciso momento torna utile mettere sulle prime pagine, come certe Fallaci d'antan. E così come il Popolo d'Italia, per sensibilizzare il pubblico italiano sulla necessità di salvare l'eroico Belgio dall'imperialismo prussiano prendeva fondi dalla Fiat, questo pezzo di Scurati, che auspica che "l’Europa ritrovi lo spirito combattivo e, con esso, il senso della lotta", ricordiamocelo, ci è offerto da Stellantis. (La guerra, poi, se proprio dovremo farla, la faremo combattere agli immigrati. Un'alternativa interessante ad assemblare macchine già obsolete in Tunisia o in Serbia).

Il nuovo irredentismo. L'avreste mai detto che ci sarebbe toccato morire, tra tanti motivi, proprio per il Donbass? Un posto tuttora difficile da trovare sulla cartina. La sensazione è di assistere a una partita a carte che doveva essere una cosa alla buona, tra amici che si erano portati un pollo da spennare in fretta, questo Vladimir Putin. Molte ore dopo, Putin sta vincendo ed essi hanno perso talmente tanta credibilità che l'idea di alzarsi dalla sedia e salutare non li sfiora nemmeno; devono rifarsi in qualche modo, ritirarsi adesso significherebbe ammettere che i polli erano loro, e questa cosa è inammissibile. Gli USA, che avevano organizzato la partita, se ne sono già andati a casa e senza perdere un soldo, anzi a ben vedere ci hanno guadagnato. I tedeschi ci hanno perso due gasdotti e la certezza di essere la locomotiva d'Europa, ma questo è impossibile da accettare: per cui ora cominceranno a firmare assegni e andranno avanti fino all'alba, metodici nella sconfitta com'erano stati metodici nella vittoria. 

L'ideologia è sempre quella degli altri. Michele Serra lancia un appello per andare tutti in piazza senza bandiere o stemmi, non per la Palestina che si sa, la pulizia etnica è un tema divisivo, bensì... per l'Europa. Che è una cosa bellissima, lo dico senza ironie, ma Europa in che senso? Per fare la pace con Putin prima che la faccia Trump (e pigliarsi le materie prime prima che lo faccia Trump) o per proseguire la guerra anche se Putin si mette d'accordo con Trump, ovvero a questo punto farla a un Putin spalleggiato da Trump? Serra non lo dice, sarebbe un tema divisivo.
Elly Schlein fa subito sapere che ci sta, in due righe: noi ci siamo, senza bandiere, ok. Poi per chi vuole leggerla c'è una lenzuolata di motivazioni in cui, senza chiarire nessuno dei punti lì sopra (trattiamo subito una pace o proseguiamo la guerra, magari con contingenti europei) avanza comunque una serie di proposte operative (federalismo soprattutto fiscale, togliere l'unanimità, un'altra next generation da 800 miliardi), insomma un po' di politica la Schlein la fa: accetta una piattaforma molto vaga e con tanta cautela introduce i temi che le interessano. E verso la fine fa anche notare la debolezza dell'avversario politico, l'indecisione daa Meloni tra UE e Trump.
A questo punto, con fragore di tromboni e fagotti, irrompe Mattia Feltri e intona Nooooooo! Come ti permetti Elly Schlein, sei troooooppo divisiiiiiva! Vuoi trasformare una piazza non politica in una piazza politica, e così Forza Italia non verrààààà! Tod und Verzweiflung. Dove si vede che la "politica" è sempre quella sporca che fanno gli altri, perché se in quella piazza Elly Schlein incontrasse Tajani e scoprisse una corrispondenza di amorosi sensi che fosse propedeutica a un governo Draghi 2 che spianasse la strada a un'UE draghiforme, ebbene Mattia Feltri non troverebbe nulla di "politico" in ciò, nulla di divisivo, perché le uniche divisioni che contano sono tra i soggetti politici che vorremmo vedere a letto assieme. Questa mania di trovare "ideologica" solo l'ideologia degli altri, questa ottusa incapacità di Feltri e similfeltri di capire che anche loro hanno un'ideologia, anche loro hanno un'agenda politica, che a volte uno pensa: ma lo sanno benissimo, fanno solo finta, e invece no; i loro genitori facevano finta, loro no.

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I 42 martiri di Amorio

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6 marzo: 42 martiri di Amorio (845)

Il califfo riceve diplomatici bizantini 

Quando furono decapitati, il 6 marzo dell'845 lungo le rive dell'Eufrate, i 42 prigionieri di Amorio erano reclusi da sette anni. Amorio, la loro città, era già parzialmente ricostruita; il disastroso assedio dell'837 ormai una pagina di Storia, ancora fresca ma già voltata; i due protagonisti della vicenda, il califfo Al Mutasin e il basileo Teofilo, entrambi morti. Eudosio, l'autore dell'agiografia, racconta come i carcerieri arabi avessero tentato in tutti i modi di convertire i prigionieri all'Islam, con minacce e blandizie ma soprattutto con la forza dei ragionamenti, inviando nel parlatorio del carcere sapienti musulmani e altri ex cristiani convertiti. Solo l'empio Baditze si era lasciato circoncidere, ma poi era stato condannato a morte ugualmente, e alla fine il suo era l'unico cadavere che invece di galleggiare era stato mangiato dai coccodrilli. 

Baditze era l'ufficiale ritenuto colpevole di tradimento: perché Amorio era stata la Caporetto dei bizantini, e proprio come gli italiani dopo Caporetto, i bizantini non riuscivano a concepire che fosse caduta grazie alla superiorità militare del nemico: no, qualcuno doveva aver tradito. 

Quella di Eudosio è l'ultima agiografia tardoantica. Più che a una vecchia storia di cristiani perseguitati, l'eccidio dei 42 comincia a sembrare qualcosa di diverso: l'esecuzione di un gruppo di ostaggi, un crimine di guerra. Siamo nell'Anatolia del nono secolo, in un angolo cieco della nostra memoria storica, nel mezzo di una guerra infinita tra due imperi teocratici, due dinastie che non dureranno ancora molto. Entrambi i monarchi traggono la loro legittimazione dalle vittorie sul campo: se vincono, è segno che Dio è dalla loro parte; se perdono, presto o tardi saranno destituiti. Questo è vero soprattutto per il più giovane dei due, Teofilo l'Amoriano, l'ultimo imperatore iconoclasta: ma per dimostrare che Dio davvero non ama essere raffigurato, e apprezza i roghi delle vecchie icone, bisogna dare battaglia e vincerla. Nell'833 la situazione è favorevole: l'avversario, il Califfo al-Mutasun, è distratto da beghe interne, mentre nel Caucaso sta creando scompiglio una nuova setta, i khurramiti. Costoro, combinando elementi di zoroastrismo e islam sciita, hanno fatto proseliti soprattutto presso la popolazione azera: il loro esercito è una spina nel fianco arabo. Nel 834, la svolta: un leader khurramita si fa battezzare, assume il nome di Teofobo e sposa una sorella dell'imperatore. Nel tentativo di liberare un gruppo di khurramiti prigioniero del califfo, Teofilo e Teofobo marciano assieme verso le città di Sozopetra e Arsamosata con un'armata, per i tempi, assolutamente smisurata (centomila uomini secondo Al-Tabari, in un secolo in cui con venticinquemila era già guerra totale). Una volta prese le città, Teofilo sente di aver compiuto la sua missione e riparte subito per Costantinopoli dove celebrerà il trionfo dell'iconoclastia. Teofobo invece rimane sul campo e, non essendo riuscito a liberare i correligionari, lascia i suoi uomini liberi di saccheggiare le città e abusare dei civili. 

Il resoconto dei profughi che riusciranno attraverso il deserto ad arrivare a Samarra, capitale del califfato, scuoterà la corte: stavolta gli infedeli hanno esagerato, occorre rispondere con quella che un cortigiano del tempo avrà definito "violenza incomparabilmente superiore". Al-Mutasin chiede ai dignitari di segnalargli l'obiettivo più inaccessibile: gli viene fatto il nome di Amorio (Ἀμόριον), roccaforte della Frigia, "dove nessun musulmano è mai entrato". Presso i bizantini, gli spiegano, è più famosa di Costantinopoli: tutte balle, Amorio era una roccaforte importante ma sicuramente meno famosa ed espugnabile di Costantinopoli, tant'è che gli arabi l'avevano già presa e tenuta per due anni tra il 666 e il 668. Si trattava soprattutto di un obiettivo di importanza simbolica, come quella Stalingrado su cui i nazisti si intestardirono irrazionalmente perché portava il nome di Stalin; Amorio invece era la patria del padre di Teofilo, Michele II, fondatore di una dinastia che qualcuno cominciava già a chiamare amoriana. A parte questo, assediarla non aveva molto senso. Occorreva penetrare nell'Anatolia cristiana per qualcosa come cinquecento chilometri, e farlo con un esercito ancora più grande di quello messo in campo da Teofilo: secondo alcuni cronisti anche un mezzo milione di effettivi, ma è davvero difficile crederci. 

Teofilo, che tenta di intercettare una delle colonne ad Azen, viene sconfitto e si salva per un pelo dalla cattura. Da lì in poi tenterà più volte di fare la pace, inviando scuse formali per i crimini di guerra commessi a Sozopetra e Arsamosata dopo che lui – questa è la versione ufficiale – se n'era già andato. Il califfo non accetterà nessun tipo di indennizzo, salvo la testa dell'irreperibile Teofobo. L'assedio durerà due settimane e costerà, ma sono davvero numeri esagerati, centomila vittime: la città sarà resa al suolo, la popolazione decimata e ridotta in schiavitù. Tentato di continuare la campagna fino a Gerusalemme, Al-Mutasin sarà invece richiamato a Samarra dalla notizia di una congiura ai suoi danni. Con sé porterà il generale Ezio, il presunto traditore Baditze e altri importanti dignitari che Teofilo tenterà più volte, negli anni successivi, di riscattare. 

Amorio è l'ultima grande vittoria degli abbasidi in Anatolia, ma non porterà a conseguenze durature: nel giro di un secolo il califfato subirà le invasioni degli sciiti iraniani e poi dei turchi. Quanto a Teofilo,  morirà tre anni più tardi, forse prostrato dalla sconfitta, ma la provincia sarà riconquistata dal figlio, Michele III detto (ingiustamente) l'ubriacone. Amorio sarà ricostruita, anche se non sarà mai più così importante. L'effetto più duraturo della guerra sarà la fine del movimento iconoclasta: le icone, che non erano mai veramente sparite dalle case di Bisanzio, torneranno a essere esibite anche a corte. Eppure i 42 martiri non entreranno mai nel repertorio di pittori e autori di mosaici. Come se fossero arrivati troppo tardi.

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Grande televisione, terribile diplomazia

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Alla fine credo che la sintesi migliore l'abbia fatta proprio Trump: This is going to be great television. Quello che abbiamo tutti visto l'altro giorno nella Sala Ovale è un esempio di cosa succede quando selezioni una classe dirigente in televisione. Per quanto Trump e Zelensky siano personaggi a più dimensioni, la dimensione che hanno in comune è appunto la tv: una grande parte della costruzione del personaggio Trump proviene da The Apprentice (compreso il tormentone, "You're fired", che è poi quello che sta applicando al personale federale), Zelensky prima di fare il presidente dell'Ucraina ha recitato in una serie in cui faceva il presidente dell'Ucraina. Entrambi sono piuttosto bravi sotto i riflettori ed entrambi, a questo punto della loro carriera di successo, possono essersi convinti di poter svoltare la situazione improvvisando in diretta. È deformazione professionale: se metti sotto i riflettori un insegnante, lui cercherà di farti una lezione; se metti due personalità televisive nella stanza dei bottoni, inevitabilmente ne verrà fuori un talk e potrà anche essere un successo (prova è che ne stiamo tutti parlando), ma non diplomazia: almeno una diplomatica di professione a un certo punto si è coperta agli occhi dall'orrore. 

La diplomazia non funziona così, ma a tanti osservatori oggi questo non interessa perché, da anni, non si stanno interessando più alla concreta situazione delle forze in campo – alla politica, insomma – bensì al teatro, dove ogni questione politica viene immediatamente trasformata in un apologo morale: i buoni devono essere ricompensati, i cattivi puniti, il pubblico non sarà contento finché non succederà, e in effetti oggi il pubblico è inquieto e deluso. Se davvero c'era soltanto "un invasore e un invaso", perché tutto sembra doversi decidere a Washington, che non è né l'uno né l'altro? Si cerca di capire se Zelensky abbia o fatto una bella o una brutta figura, e si cerca di capirlo contando i tweet o i comunicati di sostegno, come se davvero si trattasse di un attore la cui efficacia si misura sulla popolarità, e bisogna concedere che Zelensky in questi anni è stato anche questo, un testimonial molto efficace. Ma le guerre non si vincono così. 

Chi avesse sul serio a cuore la situazione dovrebbe applicare lo sforzo costante di intravedere le quinte; Trump interpreta il ruolo del padrone arrogante, ma dietro di lui c'è un sistema militare-industriale che non ritiene più necessario sostenere la resistenza ucraina. Zelensky interpreta il ruolo di eroico presidente integerrimo e sono pronto a convenire che lo interpreta in modo convincente, mettendoci il cuore e a rischio della vita: ma dietro c'è una nazione che non ce la fa più. Questi sono i fattori di cui tener conto: chi vuole restare in superficie può senz'altro inveire alle smorfie di Trump o godere perché 'ha messo Z. al suo posto', cioè può restare nel teatrino, nel ruolo di pubblico che applaude ride e piange a comando.

Una parola per gli americanisti che professano ad alta voce la propria delusione: ricomponetevi. Davvero siete cresciuti pensando che l’America fosse “the land of the free and the home of the brave”? E si vede che non siete cresciuti abbastanza, non so quanto sia il caso di farlo sapere in giro. Capisco quanto sia comodo immaginare che Trump non sia quell'America, bensì un marziano venuto chissà dove e arrivato a Washington per puro caso. Ma Trump non è un incidente, Trump è la necessaria evoluzione di un capitalismo in fuga e di una politica imperialista in un mondo che cresce a ritmi che l'impero non riesce più a reggere. Trump è un imprenditore tipicamente americano, un palazzinaro di NY che ha ereditato un po' di soldi dai genitori come succede tipicamente ai ricchi americani, attirando l'attenzione dei media americani con un'ostentazione tipicamente americana; si è candidato alle elezioni americane e grazie alla deregolarizzazione dei media consentita dalle amministrazioni americane da Reagan in poi, è riuscito a costruirsi un consenso che gli ha consentito di vincere due elezioni presidenziali col sistema elettorale tipicamente americano – addirittura in un caso ha preso più voti dell'altra candidata, una cosa che negli USA non è nemmeno necessaria per vincere le elezioni, ma lui lo ha fatto lo stesso. Nel frattempo era stato complice di un tentativo di colpo di Stato, ma le autorità giudiziarie americane non hanno ritenuto necessario evitare che si ricandidasse e rivincesse. Una volta reinsediato, benché si sia comportato in modo straordinariamente arrogante, non ha fatto nulla che la costituzione americana e la prassi non gli consentano di fare. Certo, ha reso questa arroganza molto più trasparente di prima: è questo che non gli perdonate, ma cercate di capire. Intorno a voi ci sono persone che si ricordano cos'è successo con l'intervento americano in Afganistan – un disastro, e ora il giogo dei talebani è più stretto di prima – e con l'intervento in Iraq: un milione di morti. Ci sono persone che hanno visto tutte le amministrazioni USA, nessuna esclusa, spalleggiare Israele in operazioni di pulizia etnica sempre più tendenti al genocidio. Se oggi scoprite che l'America è arrogante coi suoi alleati e spietata coi suoi nemici, almeno non fate quella faccia stupita: ora sapete come ci sentiamo noi da sempre, benvenuti.

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