Di minibot non vuol sentir parlare nemmeno Bagnai

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(Avvertenza: questo post è talmente lungo che ne contiene uno di Bagnai).

"I AM THE CREATOR OF THE MINIBOTS:
LOOK ON MY WORKS, YE MIGHTY, AND DESPAIR!"
(Nothing beside remains. Round the decay
Of that colossal wreck, boundless and bare,
The lone and level sands stretch far away).
Ma la Lega i minibot li vuole davvero? Non sarà una di quelle tipiche cose leghiste che si danno in pasto al parco buoi in estate, come gli esami in dialetto, le bandiere regionali, i ministeri al Nord? L'ultimo intervento di Giorgetti sembrava autorizzare questa ipotesi. Poi Claudio Borghi (colui che su Twitter si fa chiamare "the Creator of the Minibots") ha spiegato che in realtà Giorgetti non voleva completamente sconfessare e ridicolizzare la sua trovata da apprendista economista, eccetera. Va bene.

In questi casi di solito ci si racconta la favola dei falchi e delle colombe: la Lega è ormai un grande partito, e in un grande partito di solito c'è chi interpreta una visione delle cose più realista e moderata (Giorgetti? Tria?) e chi non ha la minima intenzione di seppellire l'ascia di guerra tanto sfoggiata in campagna elettorale: Claudio Borghi, senz'altro, magari Savona. E ovviamente Bagnai.

Ah, giusto, Bagnai. Perché se c'è un falco no-euro in Lega, questi è senz'altro lui. Quindi insomma, dei minibot cosa pensa?

Ecco, è bizzarro. Ne pensa pochissimo, non ne parla mai. Questo sarebbe strano anche se Bagnai non fosse l'economista di punta della Lega, il più preparato e accademicamente titolato. Sarebbe strano anche se Bagnai non fosse l'economista di riferimento dei falchi no-euro della Lega, perché Borghi  tutta quest'aura da economista esperto non ce l'ha mai avuta – è uno da talkshow, diciamo. Questa cosa che Bagnai non abbia mai scritto un solo post, mai un solo post sui minibot, sarebbe strana anche se Bagnai non fosse uno dei blogger più facondi d'Italia (e se ve lo dico io ci potete credere). Bagnai di euro e non euro parla da anni, e mentre ne parla riesce a infilarci dentro qualsiasi cosa, dalla teoria musicale barocca alle strisce giornaliere di Floyd Gottfredson, per cui è davvero molto curioso questo fatto che se scrivi "minibot" sul motore di ricerca del suo blog ti restituisca zero risultati. Insomma l'ultimo dibattito tra Giorgetti e Borghi dobbiamo immaginarcelo recitato alla presenza di un ingombrante convitato di pietra. Questa posizione alla lunga deve essere sembrata insostenibile anche allo stesso Bagnai, che finalmente lunedì ha deciso di chiarire la sua posizione sui minibot.

Ci ha messo 19.128 caratteri.

Che per lui non sono neanche tanti – e del resto seppellire le evidenze scomode sotto mucchi di parole divaganti è una tecnica non nuova su Goofynomics.blogspot.com. Siccome però qua fuori c'è anche gente che lavora, e poi fa anche molto caldo, insomma, ho deciso di venire incontro al pubblico lanciando un servizio di traduzione dal bagnaiese all'italiano, una nuova rubrica (spero molto saltuaria): Alberto Bagnai per chi non ha tempo. Nella casella sinistra troverete quindi l'originale, e in quella destra la mia molto sbrigativa versione. Riconosco che nel passaggio qualche sfumatura di significa potrebbe perdersi: del resto Bagnai è un universo.



BAGNAI

Rischierò di essere ripetitivo.
ITALIANO

Mi ripeto,
Esattamente come, nel tentativo più o meno riuscito di darvi qualche rudimento di analisi macroeconomica, ho scelto di insistere su pochi strumenti, snelli e solidi, fra cui il principale è l'analisi dei saldi settoriali (iniziando col primo e colsecondo post dedicati alla "Premiata armeria Hellas", e proseguendo poi per numerosissimi altri post dove il metodo è stato applicato ai paesi più disparati, dalla "A" di Azerbaijan alla "S" diSlovenia), così, ora, per farvi capire come funziona la politica, devo fornirvi alcuni strumenti essenziali per interpretare i dati politici che vi vengono forniti dai mezzi di informazione.
Il più essenziale è semplicissimo da mandare a mente, e anche piuttosto agevole da comprendere nelle sue articolazioni principali, oltre a essere già stato espresso in modo molto più autorevole da tanti prima di me. Eppure, con mio grande rammarico e stupore, vedo che proprio non vi entra in testa! Ma io sono tenace, altrimenti non vi starei scrivendo da questa scrivania dopo l'incardinamento del decreto "crescita", ma da un'altra scrivania dopo una lezione... sui saldi settoriali (!), e quindi insisto. Non potete, e quindi non dovreste, arrischiarvi in analisi politiche (né tanto meno in proclami o roboanti ultimatum secondo il modulo "Radames discolpati!" riportato in auge dagli "zerovirgolisti" di destra), non dovreste, ripeto, arrischiarvi in analisi politiche senza aver prima ben capito e interiorizzato un dato ovvio:
ma è colpa vostra: siete talmente rintronati che vi devo sempre spiegare tutto dall’inizio, comprese le ovvietà, come per esempio:
i giornali mentono.
i giornali mentono.
Voglio subito chiarire, a scanso di equivoci, che questo non è un giudizio soggettivo, nel duplice senso che (i) non è una mia valutazione soggettiva (è un dato di fatto, come vi ho non ampiamente dimostrato - avrei tonnellate di altri esempi!); e (ii) non è un giudizio sulle intenzioni soggettive dei giornalisti. Non sto assolutamente dicendo che i giornalisti siano "cattivih!" o che lavorino male: dire che i giornali mentono non significa assolutamente dire che i giornalisti siano mentitori. Parole diverse esprimono concetti diversi. Semplicemente, le dinamiche oggettive del loro lavoro conducononaturaliter i nostri amici giornalisti (che conosciamo e stimiamo) alla menzogna. Una menzogna che quindi, proprio in quanto determinata da fenomeni oggettivi, è molto più sistematica e pervasiva di quanto sarebbe se a causarla fosse (solo) una ipotetica mens rea, che ogni tanto potrebbe essere distolta da un suo ipotetico obiettivo di volontaria alterazione del dato.
Nessuna volontà soggettiva, per quanto ferrea, potrebbe ottenere un risultato così graniticamente uniforme e coerente. Non dobbiamo quindi voler male ai giornalisti, trattarli con asprezza, o rampognarli. Semplicemente, dobbiamo non comprare più i giornali, e cambiare canale all'apparire del notiziario (visto che non è l'apparir del vero di leopardiana memoria, ma quello del falso).
I motivi oggettivi cui alludo sono almeno di tre ordini, e due mi erano chiari anche prima di vivere dall'interno le dinamiche della vita parlamentare. Il terzo, che forse è il più devastante, mi è apparso con evidenza solo da dentro il palazzo (essere "dentro" un po' di differenza la fa). Nell'ordine, direi: (i) subalternità al capitale; (ii) ignoranza e fretta (miscela esplosiva!); (iii) selezione avversa.
Non lo fanno neanche apposta, in un certo senso è la loro funzione.

La subalternità al capitale

Della subalternità al capitale ha parlato con tanta chiarezza Gramsci (come ho ricordato nel mio articolo su Micromega), per cui non credo di aver molto da aggiungere. La sua analisi, pubblicata sull'Avanti! nel 1916, la trovate qui a p. 21 sotto il titolo "I giornali e gli operai", e il suo invito a boicottare la stampa borghese, pur se viziato da un ovvio conflitto di interessi (Gramsci scriveva per la concorrenza!), è ben argomentato e, con le dovute rettifiche alle categorie di classe utilizzate all'epoca, del tutto attuale. Il nocciolo è qui:
"Tutto ciò che [la stampa borghese, ndr] stampa è costantemente influenzato da un'idea: servire la classe dominante, che si traduce ineluttabilmente in un fatto: combattere la classe lavoratrice. E difatti, dalla prima all'ultima riga, il giornale borghese sente e rivela questa preoccupazione. Ma il bello, cioè il brutto, sta in ciò: che invece di domandare quattrini alla classe borghese per essere sostenuto nell'opera di difesa spiegata in suo favore, il giornale borghese riesce a farsi invece pagare... dalla stessa classe lavoratrice che egli combatte sempre. E la classe lavoratrice paga, puntualmente, generosamente. Centinaia di migliaia di operai, dànno regolarmente ogni giorno il loro soldino al giornale borghese, concorrendo cosí a creare la sua potenza. Perché? Se lo domandate al primo operaio che vedete in tram o per la via con un foglio borghese spiegato dinanzi, voi vi sentite rispondere: «Perché ho bisogno di sapere cosa c'è di nuovo». E non gli passa neanche per la mente che le notizie e gli ingredienti coi quali sono cucinate possano essere esposte con un'arte che diriga il suo pensiero e influisca sul suo spirito in un determinato senso."
...e 103 anni dopo non credo che ci sia molto da aggiungere. Detto, ovviamente, sine ira et studio. Ma, fatte le debite proporzioni, pensare che oggi grandi industriali o grandi banchieri (gli unici che possono permettersi quei costosi giocattoli in perdita che sono i media) siano così solleciti delvostro interesse da fornirvi strumenti per promuoverlo a discapito del loro mi sembra sia un pochino ingenuo, ne converrete, come pure non occorrono i sensi di ragno di Spiderman per capire che c'è qualcosa che non va quando Landini parla come Giannino (o Giannini)...
Quindi i giornali vi mentono (rectius: vi forniscono una visione partigiana ed artefatta della realtà) perché espressione di interessi costituiti non necessariamente allineati ai vostri: se non siete almeno milionari, è fortemente probabile che ci sia un deciso disallineamento. Ma anche qui, insisto: il giornalista, poverino, non è colpevole, non può farci nulla. Sì, d'accordo, Upton Sinclair, ma non è così semplice. Non è un mero problema venale. Se fosse così, potremmo fare una colletta e corrompere i giornalisti perché dicano la verità! (A beneficio degli ultimi arrivati, chiarisco che non ci servono verità metafisiche: ci bastano verità tecniche, come quella che negli anni '70 la disoccupazione era circa la metà di quella attuale...).
Il problema è più complesso perché corre ormai quasi un secolo (per l'esattezza, 99 anni) da quella conferenza di Bruxelles in cui, come ci racconta Clara Elisabetta Mattei nel suo The guardians of capitalism, gli esperti di economia si raccolsero per elaborare il messaggio, oggi diremmo il frame (nel senso di Lakoff) sul quale articolare il dibattito economico per riprendere il controllo della restless post-war civil society (inquieta società civile post-bellica). Un messaggio a noi ormai tristemente noto: quello dell'austerità. Di "Stato come una famiglia", di "medicina che fa bene solo se è amara", di "riparare il tetto quando il Sole splende - ma anche quando piove", e consimili baggianate moralisteggianti è stata permeata, a botte di milioni e milioni spesi a fini propagandistici, la coscienza civile europea lungo tutto un secolo. Certo, fa specie vedere un giornalista che si crede "di sinistra" dimenticare Gramsci e allinearsi a Giannino (non a von Hayek: a Giannino!). Ma bisogna essere indulgenti: i mezzi dispiegati per frantumare le categorie logiche ed economiche con l'illogica emotiva e moralisteggiante ad uso del padrone di turno sono stati ingenti. Dove non riuscì Keynes, nonostante le sue indubbie qualità letterarie e una fastidiosa tendenza ad azzeccare le previsioni, non presumo di poter riuscire io, o per lo meno non subito, e certamente non da solo.
Ovviamente, il fatto che tutto fosse chiaro a Gramsci 103 anni fa rende inescusabili quei lettori "de sinistra" che ancora si abbeverano alle fonti delmainstream. Quelli "de destra", porelli, in fondo sarebbero assenti giustificati. Ma ci sono altri due argomenti che voglio sottoporre loro, per dotarli di quel fondamentale presidio di igiene del dibattito che è la disinfezione dai media.
Lo diceva anche Gramsci [giornalista], eh, quindi a sinistra siamo coperti.

L'ignoranza (e la fretta)

Le dinamiche oggettive della produzione di notizie non sono di natura tale da condurre a ottimi risultati, e questo ce lo possiamo dire con sincerità (e con sincerità lo ammettono i giornalisti, che sono nostri amici - come la Germania, che a loro tanto piace...). Il rifiuto istintivo da parte dei lettori della qualità scadente e del discorso artefatto e internamente incoerente, qui tante volte espresso, trasforma i media in imprese in perdita. Chi ci lavora, pagato poco, col passare del tempo è pagato di meno, il che, in questo come in altri settori, non è un grande incentivo a lavorare bene, tanto più che alla fine uno può cavarsela col "copia e incolla" dei lanci di agenzia delle 17, aggiungendo qualcosa ad colorandum. Questo spiega perché di fatto quello che leggiamo è, con pochissime eccezioni, un "giornale unico", scritto da chi apre i cancelli dell'informazione alimentando le agenzie, secondo il meccanismo descritto da Marcello Foa ne Gli stregoni della notizia.

E poi c'è un altro problemino.

Le dinamiche oggettive (anch'esse) che ci hanno condotto alla crisi più lunga e profonda della nostra storia (vi rinvio a un articolo in cui i dati non sono aggiornati, semplicemente per ricordare a me stesso che qui certi dati si facevano vedere quando nessuno ne parlava) determinano una conseguenza ovvia: l'economia sta prendendo sempre più il centro della scena. Un processo assistito dal fatto che l'Europa del Fogno (che non è un errore di battitura ma un errore politico) non è mai decollata, riducendosi, come era logico succedesse, ad una mera espressione economica. Ora, l'economia e il pianoforte hanno due cose in comune. La prima è che possono piacere o non piacere (c'è chi preferisce il clavicembalo, ad esempio). La seconda è che vanno studiati da piccoli. Quando sento pretenziosi laureati in laqualunque esternare saccenti in materia della quale nulla sanno, e nella quale si addentrano con la grazia (e l'inevitabile destino) di un toro Miura in un campo minato, mi viene da sorridere di compassione: rivedo certi miei studenti...

La situazione quindi è questa: persone che capiscono poco di una materia della quale non sanno niente vi dicono tutto quello che sapete.

(...si badi bene, sono ammirevoli: da niente a poco è tanta roba!...)

Cosa può andare storto?

A volta mentono per malizia, a volte per insipienza (a proposito: Foglio merda), comunque mentono, lo dice anche Marcello Foà [giornalista], per cui siamo coperti pure a destra.

Un esempio lo chiarirà, ma ad esso devo premettere due brevi parole per calarlo nel contesto.

Tutto questo preambolo per spiegarvi una cosa importante:

Nonostante che la proposta dei minibot sia stato lanciata da Claudio Borghi nel dibattito italiano sette anni fa al primo compleanno di questo blog, e nonostante che io abbia la massima stima per Claudio, come sapete il tema non mi ha mai ispirato particolarmente.

Io coi minibot non c’entro, chiaro? È roba di Claudio.

Se fate una ricerca del termine minibot su questo sito trovate solo interventi dei lettori, per lo più senza mia risposta. Non c'è un motivo particolare.

se me ne chiedete io manco vi rispondo, io di minibot non-ne-parlo, chiaro? È chiaro?

Non ricordo un intervento di Claudio sulla teoria dei saldi settoriali, il che non significa che non sia d'accordo con essa!

E non dirò mai niente di male su Claudio, ma insomma, io dei due sono quello che conosce la teoria dei saldi settoriali.

Certo è che io di quella roba non ne ho mai parlato.

Mentre lui è quello che si fa le foto coi bigliettoni colorati del Monopoli. Vi sfido a trovare un mio intervento su quella roba. Non ne parlo. Chiedete a Claudio.

 Ma se fate una ricerca con le parole chiave Bagnai e minibot trovate tutt'altro: dalCorriere (tanto nomini...) a Next al Post, passando (grazie a Dio) per una testata seria come Lercio (vi risparmio testate minori...) è tutto un chiamarmi in causa in modo più o meno esplicito, ma sempre piuttosto infondato (date le premesse che vi ho esposto).

Se vi è parso diversamente sui giornali, è perché (come dicevo più sopra) i giornali mentono. Fine.

Ora, caso vuole che i minibot siano da più di un anno nel contratto di governo, e il fatto che i media se ne accorgano solo oggi già la dice lunga, ma il tema non è questo. L'indecorosa gazzarra che sta tenendo banco da qualche ora sui media (e che fra poche ore sarà sostituita dalla successiva indecorosa e infondata gazzarra) è nata in questo modo qui:

Il travisamento che ha portato a tante dotte analisi si basa su una tecnica semplicissima: si fa una domanda assurda, e si riporta solo la risposta! Voglio solo attirare la vostra attenzione su un punto. In episodi come questi non c'è necessariamente malizia. A me sembra perfettamente possibile, e molto più probabile, che una domanda così dadaista sia potuta venire in mente al volenteroso operatore dei media per il motivo molto semplice che lui, di che cosa siano i minibot, non sa nulla! Che la cartolarizzazione di un debito dello Stato possa servire ad evitare la procedura di infrazione (intendendo quella per debito eccessivo: ovviamente, ce ne sono anche per i ritardi nei pagamenti della pubblica amministrazione, ma il giornalista non si riferiva certo a queste ultime...) può venire in mente solo a chi non sappia di che cosa sta parlando.

Ed ecco un caso preclaro di come l'esplosivomix di ignoranza e fretta (con la solita porca vanagloria di fare lo "scuppone") fa girare in tondo per due giorni il meraviglioso circo dei media. D'altra parte, se i circhi sono tondi, un motivo c'è...

Un altro caso di consimile dinamica la trovate, se interessa, qui.

Inutile dire che queste dinamiche che, soggettivamente o oggettivamente, tendono a creare un incidente all'interno della maggioranza (fra o nei partiti che la compongono) ci sono ormai note. A noi addetti ai lavori questo fenomeno è perfettamente chiaro, e così se con Alessandro ci siamo sentiti per il piacere di salutarci, anche Claudio e Giancarlo hanno chiarito l'episodio perché dovevano parlare di altro, certo non di una fanfaluca simile.
Io poi Claudio lo devo pur difendere, è chiaro, prima che passasse Claudio insegnavo a Pescara, mò sto a Palazzo Madama, voi non sentirete mai da me una parola cattiva su Claudio. Però per i minibot chiedete a lui.

E qui si arriva al terzo punto, la selezione avversa.

La selezione avversa

I meccanismi che vi ho descritto fin qui determinano due conseguenze piuttosto ovvie in chi come me esercita attività politica a un certo livello. La prima è che non crediamo minimamente a quello che ci dicono i giornali, al punto che, personalmente, nemmeno li leggo. Non mi interessa che cosa dicano di me perché so come lavorano, e quindi non mi interessa che cosa dicano degli altri, o facciano dire agli altri. La seconda è un po' meno evidente a chi sta all'esterno, ma non meno gravida di conseguenze. Siccome sappiamo che qualsiasi cosa diremo sarà travisata o per esigenze di "linea editoriale" (l'ipotesi "Gramsci", di cui questo è un caso), o per mera ignoranza (la storia dei minibot secondo me ricade in questa categoria), quelli di noi che hanno per le mani pratiche minimamente rilevanti ben si guardano dall'accostarsi ai giornalisti, cui rimane, come unico conforto, come unica speranza di arrivare un secondo prima del loro collega, la platea dei nostri colleghi che, per una serie di motivi, non hanno incarichi di rilievo. Ad esempio: i senatori eletti sono 315 e le Commissioni permanenti quattordici, il che comporta che 301 senatori eletti non saranno Presidenti di Commissione permanente, pur essendo magari più preparati di chi ci è capitato (io faccio una fatica bestiale a star dietro a tutto), e pur avendo, in certi casi, maggiori informazioni del Presidente su affari specifici (ad esempio, quando tocca a loro fare da relatori). Fatto sta, però, che a certe riunioni, per problemi meramente organizzativi, ci vanno solo certe persone, che un filo diretto col comando ce l'hanno solo alcuni, ecc., e i giornalisti, a causa del loro comportamente, in modo pressoché sistematico parleranno solo con gli altri. Quindi i "retroscena", i "fonti parlamentari", ecc., sono basati su notizie frammentarie provenienti da fonti non sempre vicinissime ai luoghi dove si esaminano i problemi e si stringono gli accordi politici. Ne conseguono analisi distorte non solo per i due motivi di cui sopra (le dinamiche di classe e quelle del processo produttivo), ma anche perché a causa delle due dinamiche di cui sopra i giornalisti si precludono l'accesso a materia prima sgrezzata: devono prendere quello che trovano, e ogni tanto cadono male. Non tutti hanno bisogno di visibilità: io, ad esempio, l'aborro, tant'è che voi vi lamentate perché non mi vedete abbastanza in tv. Altri magari ne hanno più bisogno, ma allora non necessariamente hanno notizie attendibili. Analisi ulteriormente distorte portano a una ulteriore ritrosia da parte di chi sa ad accostarsi a chi per un motivo o per l'altro falla. Restano solo fonti secondarie, e la conseguenza è un ulteriore scadimento.

Mario Sechi, che è intervenuto prima di me alla scuola GEM2019, mi dicono abbia analizzato in questi termini questo fenomeno, lamentandosene: "non si trovano più fonti parlamentari!". Mario è una persona onesta e (a me) simpatica, anche se sono ideologicamente molto distante da lui. Non credo di dovergli chiarire il perché le fonti si prosciughino! A me piacerebbe, considerandolo un interlocutore intellettualmente stimolante proprio perché non la pensa come me, poter condividere con lui qualcosa di quello che posso condividere (perché nel mio lavoro non tutto si può e non tutto si deve condividere). Ma purtroppo, nonostante che lo stimi, come stimo pochi altri (che quindi non cito perché in una lista breve le omissioni involontarie sarebbe offese cocenti), devo privarmi del piacere di interloquire con lui perché tanto una delle tre porche dinamiche qui descritte alla fine entrerebbe in gioco, rovinando un rapporto che finora è stato, e spero continui comunque ad essere, cordiale.

Chi le cose le fa (come Giorgetti, per fare un esempio...) ha poco tempo per raccontarle, e chi, come me, avrebbe più tempo per comunicare, alla fine pensa che se tanto il giornalista deve mettergli in bocca parole non sue, forse può anche farlo senza la sua collaborazione!

Concludendo

Ecco: quello che vi ho detto oggi, e che "taggo" con la parola "propaganda" (un tema di cui qui ci siamo occupati estesamente) sta alla politica come l'aritmetica dei saldi settoriali sta alla macro. Interessi costituiti, ignoranza e selezione avversa (particolarmente forte in questa stagione politica) rendono, purtroppo, i media assolutamente inattendibili. Basta saperlo. Sapere poi quali sono le dinamiche che li rendono tali aiuta ad esercitare un'attenzione critica mirata. Occorre un filtro molto potente per isolare dal gran noise la poca informazione che porta.

Noi lo vediamo anche come un'opportunità. Alla fine, il nostro nemico spara da solo i fumogeni che gli impediscono di capire che cosa stiamo realmente facendo! Se provassimo noi, che siamo persone ingenue e sincere, a fuorviare i giornalisti per essere lasciati in pace sugli affari che ci stanno a cuore, non potremmo riuscirci tanto bene quanto ci riescono da se stessi (tutto l'affaire minibot è un caso di scuola meraviglioso)!

Voi, invece, dovete stare un pochino più attenti, almeno, se volete che i rapporti restino cordiali. Chi interloquisce su Twitter in modalità "Radames discolpati" perché Giorgetti ha detto e perché Molinari ha fatto fino a oggi è stato bloccato sporadicamente. Dopo questa ampia ed esaustiva spiegazione sarà bloccato sistematicamente. Vado su Twitter per informarmi e divertirmi. Il melodramma non è divertente, e chi non capisce cose semplici, come quelle che ho spiegato oggi, difficilmente sarà portatore di informazioni rilevanti.

...sempre tenendo conto che i giornali mentono. Tutti mentono. Mai fidarsi.

Pax et bonum.

La predica è finita, andate in pace.

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La puttana di Don Milani

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26 giugno -  Don Lorenzo Milani (1923-1967), priore di Barbiana

scuola_ultima[2014, con inserti più antichi].

UNA RAGAZZINA: Alle riunioni sindacali e politiche non si capisce nulla.
DON LORENZO: A fare quelle mossettine in sala da ballo ti riesce e a seguire una riunione politica e sindacale che ti prepara a essere più capace, più sovrana, ti pare di non essere capace? 
(Don Lorenzo Milani, Anche le oche sanno sgambettare (1965), Edizioni Stampa Alternativa, 1995, pagg. 36-37).

Nel suo primo libro, Esperienze pastorali, Don Lorenzo Milani scrisse un intero capitolo "Contro la ricreazione" che a suo parere era tempo sottratto allo studio e al lavoro. Quando l’arcivescovo lo esiliò a Barbiana, lui ne approfittò per creare un esperimento educativo irripetibile, anche perché se qualcuno riprovasse a ripeterlo al giorno d’oggi finirebbe in galera per sequestro di persona: gli alunni di Barbiana studiavano dodici ore al giorno senza giorni festivi e senza ricreazione. Quando seppe che alcune ragazzine del paese scendevano a valle a ballare, attaccò una predica che non finiva più. Le ragazze proletarie non devono ballare! Devono partecipare alle riunioni sindacali e di partito, altroché. A quindici anni.

Eppure probabilmente l’anno prossimo andrai a lavorare e avrai davanti responsabilità immense: licenzieranno una tua compagna di lavoro e dovrai decidere se scioperi o no per lei, se difenderla o no, se sacrificarti o non sacrificarti per lei, se andare in corteo davanti alla prefettura o davanti alla direzione, se rovesciare le macchine e rompere i vetri oppure se tu dovrai zitta zitta chinare la tesata e permettere che la tua compagna sia cacciata fuori a pedate dalla fabbrica.

Questo è il periodo dell'anno in cui mi capita più spesso di pensare a don Milani, alle sue classi e alle sue lettere. L'anniversario della morte (52 anni nel 2019) non c'entra molto. Un giorno magari finirà sui calendari, ma il percorso per la causa di beatificazione si annuncia molto accidentato. E dire che qualche miracolo da esibire davanti a una commissione Milani ce l'avrebbe: il solo fatto che stiamo parlando ancora oggi di un sacerdote che morì a 44 anni, dopo aver servito e insegnato in due piccole parrocchie, non ha del miracoloso? Ma i tempi non sono ancora maturi: per adesso i suoi seguaci cattolici devono accontentarsi di poter finalmente leggere le Esperienze pastorali senza incorrere nella censura del Sant'Uffizio, ritirata dopo più di cinquant'anni. Bella e saggia mossa di Francesco, dopo il silenzio dei quattro pontefici che l'avevano preceduto. Milani continua a essere un prete molto più popolare fuori dalla Chiesa che dentro.

Tu queste cose le dovrai decidere l’anno prossimo e per ora ti prepari twistando in una sala da ballo?[…] La preparazione alla vita sociale e politica, o oggi o mai. L’età giusta è questa.

Questo è il periodo dell'anno in cui penso più spesso al priore di Barbiana, e ai suoi studenti, perché è il mese degli esami: quel bizzarro momento in cui il bistrattato insegnante, da nove mesi zimbello di studenti genitori e riformatori, si ritrova improvvisamente investito di un potere enorme, sproporzionato: la facoltà di rovinare al fanciullo un'estate, un anno, eventualmente anche la vita. Proprio così: da settembre a maggio il professore soffre, supplica, corregge, sorregge; ma a giugno boccia. O perlomeno potrebbe. Ma prima di brandire un'arma così sproporzionata, il prof pensa sempre a don Milani. Da qualche parte - non necessariamente l'Alto dei Cieli - il priore lo guarda, scuote la testa e dice: lo sai cosa sei, vero? Un cane da guardia del sistema? Sì, ma non basta. Una bestiolina ammaestrata dai padroni? Certo, ma c'è di più. Lo sai.

Sei una puttana.

È in fondo a pagina quarantuno.

Tutti noi, quando ricordiamo un libro, o un film - quando crediamo di ricordare un libro, o un film - in realtà peschiamo dal pozzetto della nostra memoria due o tre situazioni o immagini, sempre le stesse. Sono il riassunto estremo di quell'opera d'ingegno, come lo schema finale che ci siamo fatti la notte prima di un esame. A volte ci aiutano a recuperare il resto; altre volte finiscono per assorbirlo, sicché alla fine molti libri che crediamo di aver letto in realtà non li ricordiamo più, a parte quella paginetta, quella frase. La maggior parte delle persone che conosco, quando pensa a Lettera a una professoressa, ricorda Gianni e Pierino. In effetti sono due personaggi sbozzati in modo molto efficace. Io però quando ripenso alla Lettera, ripesco sempre mio malgrado quel passo volgare in fondo a pagina quarantuno: "Le maestre sono come i preti e le puttane. Si innamorano alla svelta delle creature. Se poi le perdono non hanno tempo di piangere".

Mi viene sempre in mente questo passo a fine giugno, perché non è solo il mese degli esami; è anche quello dei commiati, che a scuola sono sempre frettolosi e informali. L'esame è finito. Buone vacanze. Di solito me la sbrigo così, e in alcuni casi sarà l'ultima cosa che dirò a quella persona in tutta la mia vita. Ho diviso con lui ore, settimane, mesi, anni. Gli ho voluto bene, l'ho detestato, l'ho aiutato quando non ne avrebbe avuto bisogno, l'ho ignorato quando invece gli serviva un aiuto; in ogni caso è tutto finito, buone vacanze. Loro mi dicono "arrivederci", e poi qualche volta mi saluteranno per strada, un po' imbarazzati. Io non ho mai tempo per piangerli perché, in effetti, sono una puttana. A pagina quarantuno è spiegato molto bene, da qualcuno che evidentemente aveva sperimentato sulla sua pelle cosa significa essere maestro, essere prete: voler bene alla gente per mestiere. Con tutto il rispetto per le puttane e la loro professione complicata e pericolosa, mentre per noi maestri o preti si tratta semplicemente di voler bene tutti i giorni a un sacco di gente che poi, improvvisamente sparirà dalla nostra vista senza che ci sia il tempo per rimpiangerla - stiamo già preparando le prime dell'anno prossimo, ci sono già centinaia di nuovi sciagurati a cui voler bene. Da settembre a giugno. È strano, però. Alienante, si sarebbe detto una volta.

A meno di non fare come don Milani: abolire le vacanze, i pomeriggi, la domenica, il tempo libero, la famiglia. Allora sì, l'amore smetterebbe di essere finzione. Noi però alle vacanze ci teniamo, e alle domeniche, e anche i pomeriggi non li passiamo proprio tutti a correggere, ad aggiornarci, ad amare i nostri piccoli clienti a distanza. Perché siamo delle puttane, e Don Milani ce lo diceva in faccia - no, peggio. Ce lo faceva dire dai suoi studenti.

"Quante T ci sono in "puttana"?"
Alla scuola di Barbiana si parlava molto schietto. Sulla porta di tutte le scuole della Repubblica gli studenti di Don Milani avrebbero voluto scrivere LA SCUOLA SARÀ SEMPRE MEGLIO DELLA MERDA. L'aforisma è attribuito al giovane Lucio, che quando non era a scuola dal priore aveva una stalla con 36 mucche da gestire. A me piacerebbe ogni tanto parlarne nelle mie classi, sollecitare un'inchiesta: tu che ne pensi? Secondo te è meglio la scuola o la merda? Ma ho paura di finire sul giornale.

Dici: potresti sempre usare un eufemismo. Potresti chiedere se è meglio la scuola o la deiezione vaccina. No, non potrei. Merda si dice merda. Puttana si dice puttana. Non solo don Milani si lasciava evidentemente sfuggire queste parole di fronte ai suoi ragazzi; non solo permetteva che le scrivessero in un libro, e resistessero alle decine di stesure e ristesure; ma le sottoponeva al vaglio dei suoi amici colti e raffinati, ad esempio David Maria Turoldo che sale a Barbiana per farsi leggere le bozze e "si sganascia dalle risa a ogni parola grossa". Lettera a una professoressa è un testo molto elegante nella sua rozzezza. Profondamente toscano, azzarderei, ma poi dovrei spiegare il perché solo ai toscani è concesso di maneggiare la nostra lingua letteraria come se fosse un coltellaccio da cucina, senza quella distanza, quel disagio in cui consiste l'uso della lingua per tutti noialtri non toscani - quella maschera che indosso continuamente, qualsiasi cosa io scriva, come se io la stessi traducendo da un'altra lingua che ho in testa (quale lingua, se non so nemmeno bene il mio dialetto?) Eppure questa distanza c'è: la sentiamo tutti ogni volta che rileggiamo quello che scriviamo e ci sembra sempre fuori fase, distorto come la nostra voce registrata. Un diaframma che forse è responsabile di intere età letterarie, di barocchi, classicismi e linee lombarde, mentre ai toscani basta scrivere come si mangia. Papini, Malaparte, la Fallaci. Ma anche i ragazzi di Barbiana, e il loro priore che non poteva più pubblicare niente a nome suo.

Questo è il periodo dell’anno in cui tento di scrivere qualcosa in memoria di don Milani, e ogni volta passo dalla biblioteca a ritirare l’edizione speciale del quarantennale (2007) di Lettera a una professoressa, uno dei pochi libri di carta che forse varrebbe la pena tenere in casa. Non solo per il testo, che merita un ripasso ogni tanto, ma anche per il paratesto: le testimonianze di studenti e colleghi, gli articoli che la Lettera ispirò alla sua uscita, e ancor di più la polemica che nacque 25 anni dopo intorno a due articoli di Sebastiano Vassalli su Repubblica. Vassalli detestava la Lettera, la definiva una mascalzonata; e nel suo secondo intervento ammise anche le sue ragioni personali. Nella professoressa svillaneggiata dai ragazzi di don Milani, Vassalli riconosceva sé stesso, giovane professore travolto dalla contestazione. “Per quindici anni, dal 1965 al 1979, mi sono sforzato, giorno dopo giorno, di essere anche un bravo professore; e ho maturato in quegli anni difficili la persuasione – forse sbagliata ma certamente legittima per un insegnante – che la nostra povera scuola di Stato abbia urgente bisogno di un legislatore che porti a termine le riforme avviate trent’anni fa; e che non abbia invece alcun bisogno di redentori, e di maestri carismatici come don Milani. Che i redentori portino solo scompiglio; e questo è tutto”.

figuNel tentativo di vendicare la professoressa, Vassalli si abbatte sul “libretto bianco di don Milani” con foga lacerbiana. Don Milani non sapeva nulla di pedagogia. “Era un maestro improvvisato e sbagliato”, “manesco e autoritario (quanti dei suoi sostenitori d’un tempo hanno veramente saputo che nella Lettera c’è l’apologia della frusta, a pag. 82, e che a Barbiana erano considerati strumenti didattici “scapaccioni”, “scappellotti”, “cazzotti”, “frustate”, e “qualche salutare cignata”? Se da insegnante è portato a diffidare di un maestro in grado di insegnare 12 ore al giorno, da scrittore Vassalli non può credere neanche per un istante all’utopia della scrittura collettiva: macché dibattito, il prete dettava e i ragazzi esprimevano “la propria incondizionata adesione”: un po’ come votare una legge elettorale su beppegrillo.it. Don Milani avrebbe consapevolmente distorto la realtà dei dati statistici, pure generosamente riportati, per “dividere il mondo come allora s’usava, con tutti i buoni da una parte e tutti i cattivi dall’altra”; e soprattutto si sarebbe accanito contro un bersaglio di comodo: gli insegnanti.
Ma se don Milani avesse davvero alzato il tiro contro l’istituzione scolastica e i suoi potentati, l’arcivescovo lo avrebbe costretto a fare le valige anche da Barbiana e gli avrebbe tolto anche quell'ultimo pulpito. Perciò – credo – lui se la prese con gli insegnanti, che del resto sembravano messi lì apposta per fare da bersaglio ai rivoluzionari dell’epoca, come i poliziotti di valle Giulia infagottati nelle loro divise. Soprattutto i giovani, e tra loro l’autore di questo articolo, erano tutti poveracci e figli di poveracci: miracolati del “miracolo economico”, che, in onta alle statistiche, gli aveva permesso di arrivare alla laurea. Manovalanza intellettuale senz’altri sbocchi sul mercato del lavoro, che dall’università passava direttamente nella scuola di Stato, allora in grande espansione, e sognava e si sforzava di migliorarla. Queste e non altre furono, in concreto, le vittime della Lettera a una professoressa; i beneficati, invece, furono i furbi di sempre, studenti e insegnanti che buttarono all’aria libri e registri e si fecero qualche anno di finte lotte e di vere vacanze, movimentate da cortei e da discorsi reboanti contro la scuola di classe… Povera Italia! E povera sinistra, che dal ‘ 68, o forse dal ‘ 45, non ha saputo fare altra politica culturale che quella d’ applaudire tutte le primedonne e tutti i tenori che hanno calcato le platee del bel paese, e che già ha incominciato a pagarne le conseguenze; ma che ancora non sembra rendersene conto, e resta cieca e sorda sui suoi errori di sempre.
Chiedo scusa per la lunga citazione, che tra l'altro non rispecchia il mio pensiero. Nel volume ci sono tanti altri interventi interessanti, tra cui una lunga e ponderata replica a Vassalli di Tullio De Mauro, che ribadisce quanto fu importante, e necessario, il libretto bianco di don Milani e dei suoi studenti. Io però ogni tanto sento la necessità di rileggermi gli sfoghi di Vassalli, non so esattamente il perché. È un modo per sentirmi un po’ meno puttana? Dovrebbe consolarmi il pensiero che, sì, non avrò salvato nessuno dall’ignoranza, ma non ho nemmeno mai frustato un piccolo utente? Credo che ci sia di più. Io ci tengo a mantenere una certa distanza da don Milani, non perché disapprovi le sue frustate. Al contrario, è l’unico modo per sentirle. Se gli corressi incontro, se lo abbracciassi, se sillabassi anch’io “I care” come certi suoi discepoli postumi, magari la cinghia mi eviterebbe, ma che studente sarei? Cosa imparerei da lui? Don Milani diventerebbe anche per me un’icona come un'altra, una di quelle figurine che ti sorridono e ti confortano qualsiasi cosa tu faccia. Io invece vorrei ricordare che Don Milani non era così. Era ruvido, manesco, mi dava della puttana ed è difficile che condividesse il mio rispetto per le sex-worker.

Se oggi sono 52 anni, significa che ne sono passati dodici da quando Walter Veltroni lanciò il Partito Democratico, durante un discorso fiume che nessuno ricorda. Il giorno prima aveva voluto passare da Barbiana. Se il Berlinguer riscoperto da Grillo vi ha dato un po’ fastidio, immaginate per un attimo cosa potrebbe pensare don Milani, nell’alto dei cieli o dovunque, dell’uomo che aveva scoperto il valore culturale della figurina Panini. Il priore che nella sua prima parrocchia aveva abolito il biliardino e il ping pong – il maestro del popolo che non voleva sentire parlare di ricreazione e vacanze – riscoperto da un figlio di dirigente Rai con la fissa per il jazz e per il cinema, l’inventore delle notti bianche. Ecco. Pensate alla Notte Bianca.

Pensate cosa ne scriverebbe Don Milani, se potesse parlare con la lingua sua o dei suoi studenti. Per lui, innanzi tutto, il mondo si divideva in oppressori e oppressi, una distinzione che Veltroni non saprebbe applicare correttamente. Lui stava con gli oppressi e li esortava a bere caffè, a stare in piedi di notte per studiare, per leggere un libro in più, per recuperare la distanza culturale dai padroni. Veltroni invece è, definitivamente, il Sindaco di Roma, l’erede di una lunghissima tradizione di questori la cui principale preoccupazione era Divertire il popolo sotto-occupato, sedarlo a furia di Circenses. Tutti obbligati a far mattina, tutti in fila col bicchiere in mano mentre i padroni si allungano in tribuna vip. E non ci sarebbe niente di male: ma doveva anche prendersi Don Milani, doveva scrivere “I care” sui manifesti...

A loro comodava che sciupaste gli anni migliori della vostra vita in ballonzoli inutili. Perché sapevano che se gli riesce farvi prendere un maritino che vi appioppi due o tre bambini, con un po' di tosse la notte, tra le poppate e una cosa e un'altra, sareste tagliate fuori dalla vita politica e sindacale. E al potere restano quelli che questi anni non li hanno sciupati così. Così succede che in Italia da diciassette anni a questa parte tutti votano liberamente, hanno libertà di sciopero e di organizzazione sindacale, di organizzazione politica, di leggere il giornale che vogliono, però al potere ci sono sempre quei pochi che alla vostra età non hanno ballato. Quelli che sono al potere, i potenti dell'industria e della politica, alla vostraetà hanno studiato, perché sennò non ci arrivavano a reggere in mano il mondo. I poveri obbediscono e gli industruali comandano, e hanno ottenuto questo ballonzolando come voi? 
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Pelagio e il sultano malvagio

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26 giugno - San Pelagio martire, fantasia omofobica

[2013].
“Rodrigo!”
“Mio signore...”
“Come sta il prigioniero?”
“Neanche un graffio, mio signore”.
“Vorrei anche vedere, sai che ne risponderesti con la vita. Ma il morale?”
“Mi pare piuttosto spaventato”.
“Sì, eh?”
“Sta sempre nell'angolo della tenda, non vuole dare le spalle a nessuno”.
“Chissà per chi ci ha presi. Quanti anni avrà, secondo te?”
“Anche quattordici. Questi mori sono precoci”.
“Ma quale moro e moro, non l'hai visto? È biondo”.

"E adesso gli tagliate la gamba destra, grazie".
“Dicevo gli occhi”.
“Gli occhi, già. Portalo qui, Rodrigo”.
“Chiamo il bardo?”
“Ma che bardo e bardo, servi una cena leggera piuttosto”.
“Subito, mio signore”.

***

[Entra il ragazzo moro (biondo)].

“Vieni avanti, vieni, non aver paura. Come hai detto che ti chiami?”
“Non ho detto niente, signore”.
“E dimmelo adesso”.
“Alì”.
“Figlio di?”
“Ibn Mohammed”.
“E ti pareva. E Mohammed tuo padre era figlio di...”
“Di un altro Alì”.
“Certo che voi infedeli, con rispetto, ma ci avete una fantasia coi nomi che non riesco a capire come possano le vostre madri riconoscervi...”
“Signore, abbiamo un solo Dio, e un profeta. Forse è per questo che abbiamo pochi nomi”.
“Ma senti il paggetto teologo, sentilo. Stai insinuando che noi cristiani abbiamo tanti nomi perché siamo idolatri?"
"No, io..."
"Anche noi abbiamo un Dio solo, sai”.
“Ma ha fatto almeno un figlio, a quanto mi risulta”.
“Ma senti che boccaccia. Lo sai che potrei farti frustare? Lo sai? Qua fuori ho tutti gli strumenti all'uopo, e i miei uomini non vedrebbero l'ora di sentire le urla di un infedele che...

[Bussa il servo].

“Che c'è?”
“Mio signore, la cena”.
“Ah già, porta qui. Cos'hai?”
“Melone e prosciutto”.
“Melone e... ma sei fuori di testa? Ma ti pare il caso?”
“Mio signore, è tutto quel che c'è in cambusa, io pensavo che...”
“Pensavi, tu pensavi, ma lo vedi il ragazzino? Ma secondo te lo mangia il prosciutto, uno così?”
“E perché no, signore?”.
“Imbecilli. Sono circondato da imbecilli. Perché è un saraceno, razza di capra di Mursia!”
“Mio signore, con rispetto, ma... è un prigioniero”.
“E allora?”

“Scusate...”
“Che c'è, ragazzino”.
“Se non è un problema, io mi contento del melone”.
“Vede signore? Si contenta del melone”.
“Non abbiamo altro?”
“In questo momento no, finché non arriviamo a Toledo...”
“Uff, Toledo. Sparisci”.

***

“Ti piace il melone?”
“Molto”.
“Devi scusare il mio servo. È un imbecille. Ce n'è parecchi, qui. Questo è il motivo per cui la Riconquista va per le lunghe, sai”.
“Perché ci sono troppi imbecilli?”
“Altrimenti avremmo già espugnato Cordova da cinquant'anni e rispedito tutti gli infedeli al di là del mare. Voglio dire, che ci vuole. Fosse per me la faccenda si sistemerebbe in una primavera. Assedi Cordova in febbraio, Granada in marzo, e... ma non voglio rivelarti i miei piani”.
“Non sarei comunque in grado di capirli, signore”.
“Hai la risposta pronta, tu. Mi piaci. Voglio dire, mi piace come rispondi”.
“Non mi frusterete?”
“Magari sì, ti frusterò, adesso vediamo, per ora mangia. Vedi Mohammed... posso chiamarti Mohammed?”
“Mi chiamo Alì”.
“Alì, già. Vedi, vorrei che tu sapessi che anche se adesso ti può sembrare tutto orribile, la prigionia, le torture eccetera... vorrei che capissi che ci siamo passati tutti – a chi non è capitato di essere dato in ostaggio, o di essere rapito in una scorreria...”
“Signore, avete impalato mio padre”.
“Tuo padre, lasciatelo dire, era un rompicoglioni che mi assillava dai tempi di Segovia. Aveva sgozzato mio cugino. Non che mio cugino non fosse anche lui un imbecille, anzi, avessi potuto scegliere tra i due non so chi avrei fatto fuori prima. Però adesso non cercare di impressionarmi con tuo papà impalato. Siamo in guerra, queste cose capitano”.
“Esiste solo la guerra?”
“Che io sappia sì”.
“Ma quando è cominciata?”
“Niente, qualche secolo fa gli infedeli sono arrivati per mare, han cacciato i Visigoti da tutta la Spagna tranne qualche castellaccio nelle Asturie, dopodiché...”
“Io avevo sentito dire che cominciò quando gli asturiani invasero il Califfato”.
“Eh, eh, certo, come no, siamo sempre noi quelli cattivi che cominciano”.
“Non è così?”
“No, avete iniziato voi. Non potevate starvene di là dal mare?”
“E prima che arrivassimo noi... non c'era la guerra?”
“Ce n'erano altre, contro i Bizantini, i Franchi... ma non è la stessa cosa. Io per dire contro un Franco non mi sarei mica messo a cavallo”.
“E perché?”
“Perché i Franchi sono tipi a posto. Oddio, puzzano di muffa di formaggio, ma a parte questo sono cristiani. Tra cristiani ci si può andar d'accordo. Ma gli infedeli sono come i corvi in un campo. O mangi tu o mangiano loro. E loro non coltivano niente”.
“Ma veramente, i giardini di Cordova...”
C'è anche una chiesa da qualche parte qui dentro.
Da qualche parte qui dentro c'è pure una chiesa.
“…sono i più belli al mondo lo so, ma dicevo per metafora. Gli infedeli vivono di rapine, di scorrerie”.
“Signore, avete al collo l’oro di mio padre”.
“Ah sì? Scommetto che prima era di mio cugino. Noi, vedi, abbiamo un sistema che funziona. I contadini lavorano la terra, e i signori…”
“…mangiano?”
“Li difendono”.
“Li difendete da noi infedeli, quindi anche di noi c’è bisogno”.
"Sì, esatto. Però se la guerra la vinceste voi – cosa impossibile – ma sai che succederebbe? L’estinzione. Fareste piazza pulita della Spagna, vi mangereste tutto finché non crescerebbe più niente”.
“Ma è già successo che vincessimo, e la Spagna è ancora qua”.
“Certo, sì, conosco l’obiezione, ma l’ottavo secolo era una cosa diversa. I musulmani di allora non erano come voi. Cioè per certe cose erano peggio, erano barbari. Ma in fin dei conti non erano molto diversi dai barbari di prima. Gente rude che passa a cavallo, uccide chi gli si para davanti, e si prende la terra. Come prima di loro i Visigoti e prima di loro i Vandali. Ordinaria amministrazione”.
“Mentre adesso?”
“Adesso vi siete raffinati, vi siete inventati queste cose, le città… ma hai presente Cordova? Mi spieghi cos’è Cordova?”
“Non ci sono mai stato”.
“Ci sono stato io da bambino, sai che sono stato ostaggio di Mohammed Ibn Mustapha, magari lo conosci”.
“Conosco Mustapha Ibn Mohammed”.
“Magari è suo figlio”.
“Ha sessant’anni”.
“Allora no. Comunque Cordova è una città enorme, ventimila abitanti, te li immagini nello stesso recinto, ventimila cristiani…”
“Ventimila musulmani”.
“Che parlano, vendono, comprano, dalla mattina alla sera non fanno che vendere e comprare, e nessuno che coltivi un feudo come si deve…”
“Ma veramente i giardini…”
“E dagli coi giardini, è un'ossessione la vostra. Lo so, bellissimi i giardini, però non è una società quella lì, è un bordello. Non può andare avanti. Gente che urla anche di notte…”
“Il muezzin?”
“E poi il bordello, la rilassatezza dei costumi… tu sei giovane e queste cose ancora non le sai, ma se sapessi quel che fanno ai ragazzini…”
“Io sono un ragazzino”.
“Per l’appunto”.
“Nessuno mi ha mai fatto niente di male”.
“Forse eri ancora troppo giovane. In un certo senso sei fortunato, ti abbiamo strappato alle grinfie di una società pervertita, se solo potessi immaginare…”
“Signore, non credo di capire”.
“Beh, ti basti pensare a San Pelagio”.
“Non so di cosa state parlando”.
“Ma già, certo, da voi è vietato parlarne. Allora facciamo così: te lo racconto io, mentre finisci il tuo melone. Potresti anche innaffiarlo col moscato, che ne dici?”
“Non so cos’è, ma probabilmente non dovrei…”
“Assaggia, assaggia, non c’è niente di male. Pelagio, oh, Pelagio, se lo avessi visto, quando suo zio a dieci anni lo cedette come ostaggio al Califfo di Andalus! Pelagio era gentile, disponibile, paziente, il più immacolato dei figli di Dio; ma soprattutto, Pelagio era…”
“Devoto?”
“…bellissimo. Due labbra di ciliegia su un incarnato pallido, tanto più prezioso nel cuore torrido della Spagna – e gli occhi, due olive more, piccole, morbide, amare, che a momenti gliele avresti strappate e succhiate, oh quant’era bello Pelagio; e il Califfo, il perfido califfo, il vizioso califfo, se ne innamorò”.
“Mi sembra tutto, con rispetto, assai improbabile”.
“E invece non poteva andare diversamente, il Califfo essando vizioso, e ricco, ed esausto ormai di ogni piacere, senz’altra legge fuorché quella abominevole di voi infedeli…”
“Ma veramente da noi i sodomiti li bruciamo vivi. Oppure li lanciamo dai minareti a testa in giù, li lapidiamo, a volte le tre cose in sequenza ”.
“Lo vedi che siete dei selvaggi? Posso finire la storia? Dov’ero rimasto?”
“Dicevate che Pelagio era bellissimo”.
“Ah, sì, altroché. Un torso snello, atletico il giusto. Due polpacci non volgari, ma pronti a indurirsi, al minimo sforzo, come due mele renette, ché il perfido Califfo gliele avrebbe morsicate”.
“Essendo perfido”.
“Tre anni crebbe in lui questa demoniaca passione, finché un giorno, rimasto solo con lui, non cedette alla fiamma che lo divorava e Pelagio, urlò, Pelagio, convertiti e ti farò visir, ti farò emiro, sultano, quel che ti pare, ma baciami, Pelagio te ne supplico! Placa questo ardore, o sarai tu a bruciare”.
“E Pelagio?”
“Giammai, gridò, che io possa morire squartato piuttosto che rinnegare la mia fede! Tu perfido califfo, covo d’ogni sozzura, se vuoi il mio corpo dovrai prima farlo a pezzi”.
“E il califfo…”
“…Lo accontentò. Gli fece tagliare le braccia ben tornite, poi le superbe gambe, poi quel che restava ahinoi! Ma fino all’ultimo taglio non smise il bel giovine di rimproverare la lussuria del Califfo”.
“E poi?”
“E poi niente, quando i cristiani si resero conto di come i califfi trattavano i preadolescenti, ripresero la Conquista con rinnovato impeto. Perciò il sacrificio di Pelagio non è stato vano”.
“E voi come fate a sapere la storia? Ci sono testimoni oculari?”
“Ce n’è uno che conobbe personalmente Pelagio e riferì la storia a Rosvita di Gandersheim”.
“Perdonatemi, mai sentita”.
“È una monaca della Bassa Sassonia”.
“Una donna rinchiusa, insomma, in un posto molto lontano da qui”.
“Uff, quanto la fai lunga…”
“E questo testimone conobbe Pelagio in libertà o in prigionia?”
“Penso che ti farò frustare un poco, adesso”.
“Non vorrei sembrare scortese, ho molto gradito la storia…”
“Grazie! Rodrigo! Porta il frustino da sei millimetri, manette e…un paio di piume d’oca. Mi piacciono i preliminari lunghi”.
“… e mi domandavo se non potrei ricambiarvi il piacere raccontandovene una a mia volta, prima che disponiate della mia vita”.
“Vuoi raccontare una storia? Tu a me?”
“Il sole è tramontato ormai, è l’ora in cui con le mie sorelle ci sedevamo a raccontare e ascoltare storie, prima che arrivasse la guerra”.
“C’è sempre stata la guerra”.
“Non ci avevamo fatto caso. E lei non aveva fatto caso a noi”.
“Sei proprio un amore di ragazzino. Sentiamo la tua storia. Ti torturerò più tardi”.
“C’era nel tempo dei tempi e negli anni passati un re della stirpe dei Sassanidi, che regnava nelle isole dell’India e della Cina”.
“Magari ti ammazzo pure. Ti faccio tagliare la testa”.
“Il suo nome era Shahriyàr…”
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Uno, nessuno, centomila Calogero

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18 giugno – San Calogero eremita 

"San Calogero di Girgenti, miracoli non ne fa nienti;
San Calogero di Canicattì, miracoli non ne fa tri;
San Calogero di Naro, miracoli ne fa un migliaro".

Calogero di Agrigento
[2018]. Di Calogero si sa che fu eremita e fu in Sicilia; su tutto il resto i siciliani disputano. Potrebbe essere vissuto nel primo secolo ad Agrigento o nel decimo a Naro. Potrebbe aver viaggiato l'isola in lungo e in largo, soggiornando in quasi tutte le grotte da cui sgorgano acque termali; potrebbe esser vissuto a lungo, veramente molto a lungo. Per gli abitanti di Naro la questione si risolve come sopra, in modo molto pragmatico: cosa importa il passato? Quel che conta è determinare il Calogero più efficace nel presente, quello che fa più miracoli, e il nostro ne fa mille. Al che gli agrigentini obiettano: "San Calogero di Girgenti, le grazie le fa per nienti; San Calogero di Naro le fa sempre per denaro". Alla fine della disputa ognuno rimane col Calogero suo. Siccome poi "Calogero" in greco vuol dire "buon vecchio", non si fatica a immaginare che di Calogeri ce ne siano veramente stati più d'uno, e che a un certo punto della tarda antichità "Calogero" fosse il semplice appellativo con cui i siciliani si rivolgevano i vecchi e saggi eremiti che vivevano nelle grotte. Per non sottoporre i loro fragili corpi alle tentazioni del secolo? Per trovare nel silenzio e nella solitudine una via più diretta all'assoluto? Ma anche perché avevano scoperto che bagnarsi in acque solforose fa bene alla salute e ti aiuta a invecchiare più lentamente.

Di tutte le leggende, quella della cerva avvalora l'ipotesi. Racconta che giunto intorno ai novant'anni, Calogero non riuscisse più a mandar giù nessun tipo di cibo. Il digiuno, che di solito nelle storie dei santi è una pratica autoindotta e consapevole, qui è semplicemente il segno dell'invecchiamento. Calogero dunque si nutre unicamente del latte ad altissima digeribilità prodotto da una cerva che Dio gli invia tutte le mattine. Finché un cacciatore, Siero, non gliela ferisce a morte. La cerva fa giusto in tempo a tornare nella grotta di Calogero e morirgli tra le braccia; il cacciatore che la stava braccando arriva anche lui nella grotta, vede il monaco che l'ha battezzato bambino chiudere teneramente gli occhi alla preda che ha ucciso: minchia, pensa, l'ho fatta grossa. Ma il santo lo perdona immediatamente, e già che c'è gli mostra la grotta vaporosa e gli illustra tutte le virtù delle acque che sgorgano in quelle falde, un vero tour guidato al termine del quale Siero diventa un suo discepolo, appena in tempo perché Calogero non sopravviverà alla cerva che per quaranta giorni.

Calogero è un buon vecchio che conosce le virtù nascoste all'interno della terra; lo si venera a Sciacca, il cui monte era dedicato al dio Crono; sul monte di Termini Imerese dove avrebbe scacciato i demoni e lasciato l'impronta della mano; mentre a Vicari avrebbe lasciato quella del piede. Calogero è insomma una figura dell'inculturazione, il nome dietro al quale uno dieci o centomila chierici, forse davvero provenienti dalla Grecia bizantina, scacciarono le antiche divinità ctonie dalle grotte della Sicilia; che poi uno o dieci avessero davvero la pelle scura, non è implausibile; ma il momento in cui San Calogero diventò davvero nero fu quando cominciarono a circolare le sue statue, più spesso in bronzo o in rame. Il bronzo dei Calogeri di Agrigento e di Naro ha anche l'indubbio vantaggio di scintillare al sole, il che deve suggerire durante la processione del pomeriggio di giugno l'idea che anche il santo stia sudando; che il suo sudore sia qualcosa di fisico, che si può trattenere nelle pezzuole e poi usare per curare i malati. Il sudore di Naro pare che funzioni di più di quello di Agrigento (ma che sia anche più costoso).

La madonna nera di Czestochowa è talmente nera
che a Haiti è diventata una divinità Vudù,
storia lunga, un’altra volta la raccontiamo.

La negritudine di Calogero nei secoli è stata spiegata con tante ipotesi diverse, nessuna del tutto soddisfacente. Fino a un certo punto deve essere sembrata una cosa naturale, così come era naturale in ambito bizantino dipingere icone della Madonna con un certo pigmento; poi a un certo punto (nel basso Medioevo?) i colori hanno preso un significato diverso, un’icona qualsiasi della Madonna è diventata una “Madonna nera” e gli agiografi hanno cominciato a domandarsi il perché fosse stata dipinta con una tinta così scura (che magari in quel secolo era l’unica a disposizione): o non si era annerita col tempo, e il fumo degli incensi e dei ceri? O il colore scuro indicava la sofferenza? Più difficilmente si sarebbe potuta trattare di un’insolita concessione al realismo, visto che Maria di Nazareth in fin dei conti era un’ebrea della Palestina.


Anche nel caso di Calogero, il colore scuro forse dipende unicamente dai materiali a disposizione degli artisti. Però si lasciava facilmente interpretare anche come un segno della lotta dell’eremita contro i demoni del sottosuolo, quelle forze della terra che aveva domato, ottenendone in dono le acque della salute. Solo al termine del medioevo il colore assume un significato etnico o geografico; è il momento in cui davvero qualcuno potrebbe aver sostituito in un manoscritto l’appellativo Chalkhidonos, (“di Calcedonia”, la città bizantina sulla sponda asiatica del Bosforo), con “Karchidonos“, “Cartaginese”. A Cartagine poi non è che la gente abbia mediamente la pelle molto più scura che sul Bosforo, o a Sciacca. Ma lo scambio segna il momento in cui “nero” comincia a significare “africano”, ovvero “alieno”. Con la complicazione che in Sicilia, a differenza che nelle altre regioni dell’Europa cattolica, qualche alieno ci viveva: persino a quei tempi il Mediterraneo non aveva la chiusura ermetica che piacerebbe a Salvini e ai suoi seguaci. Il fatto che il nero fosse il colore di San Calogero portò a un curioso corto circuito: ai frati neri veniva chiesto più spesso di fare miracoli; e a furia di chiederli evidentemente i miracoli si realizzavano, sicché dopo Calogero in Sicilia nacque e visse più di un santo nero: Benedetto il Moro di San Frau, che oltre a essere nero come un etiope parlava pure un dialetto lumbard, in Sicilia nel XVI secolo, c’è da perderci la testa, e almeno tre Antonii: uno ad Avola (chiamato anche Catagerò, morto verso il 1550), uno a Caltagirone e uno a Camerano; tutti e tre portano il nome di quell’Antonio di Padova che in molti santini viene raffigurato con la pelle olivastra, benché sia nato a Lisbona.

Cercando “Calogero” sulla libreria di immagini
del Post ho trovato la foto di Sacko Soumali,
che è stato ucciso a 29 anni a San Calogero.
Ma il Calogero originale di che colore era? Non ha nessuna importanza. Proviene da un’epoca in cui in effetti nulla di individuale aveva molta importanza: non il colore, non il luogo di provenienza, né la data di nascita, né lo stesso nome. “Calogero” era chiunque riuscisse a invecchiare serenamente in un luogo salubre e appartato; anche tu potevi diventare Calogero e in fondo te lo auguro: è sufficiente togliersi dai piedi, farsi crescere più barba bianca possibile e mandare a memoria un po’ di buoni consigli da snocciolare ai giovani che salgono a trovarti e a portarti qualcosa di non troppo difficile da digerire. La cosa migliore è che quando diventi Calogero il tuo passato individuale scompare: anche se in teoria è il motivo per cui sei lì, nessuno ti chiede più davvero cosa hai combinato, chi eri, contro chi hai combattuto. Il tuo passato finisce sottoterra come quello di tutti i Calogero prima di te: l’idea che si fanno i giovani è che hai passato qualche migliaio di anni a lottare contro i demoni del sottosuolo, che ti hanno carbonato la pelle e incanutito le chiome ma non ti hanno vinto, e se ci rifletti un attimo è andata proprio così. Buon San Calogero a tutti.
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La ballata di San Vito

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15 giugno – San Vito (♱303, patrono di un sacco di posti e di 34 categorie professionali, invocato in tutte le patologie che contemplano convulsioni). 

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[2018]. Vito era un bambino agitato, alzi la mano chi non lo è stato. Il padre gli diceva: vuoi star fermo? Non è che se smetti di correrci non si chiama più corridoio. E quelle sono posate, non bacchette del tamburo. Ce la fai a star seduto mentre mangi? T'ha punto un ragno, t'ha morso un serpente, si può sapere cos'hai? E Vito, sempre: Scusa papà!, perché alla fine era un bambino perbene: ma non lo tenevi neanche con le catene.

"Un giorno io chiamo Diocleziano e gli racconto che sei un cristiano".
"No papà dai, non lo farò più".
"Non farai più cosa?"
"Non lo so, cosa stavo facendo?"

Vito faceva il distratto, alzi il piede chi non l'ha mai fatto. Perché in verità era cristiano sul serio: l'aveva convertito il suo maestro, che poi era San Modesto. E non aveva ancora finito di asciugarsi dall'acqua del battesimo che si era già messo a fare miracoli a destra e a manca; ora si capisce che un santo i miracoli ogni tanto li deve fare, ma Vito proprio non se li teneva, gli scappavano da tutte le parti. Ti guariva la psoriasi anche solo a guardarlo da lontano, anche solo a pensarci. San Modesto gli diceva: ti vuoi calmare? Hai tolto la rabbia all'intero canile, vuoi mandare sul lastrico i veterinari? Non c'è più un caso di encefalite da Praga a Mazara del Vallo: e i dottori che cosa faranno? Anche Cristo si è fermato a Eboli: tu dov'è che pensi di andare? E Vito, sempre: scusa Modesto! perché alla fine era un bambino onesto: ma niente da fare, come si voltava ricominciava a mollare miracoli dappertutto.

"Guarda che arriva Diocleziano, guarda che scopre che sei cristiano".
Difatti un bel giorno arrivò, lo processò e lo condannò. Ma Vito era un po' iperattivo, chi non lo è stato controlli se è vivo. Vuoi stare un po' fermo (gli diceva Diocleziano mentre lo immergevano nella pece bollente)? Non vedi che sporchi dappertutto.

"Guarda qui che macello, ci sono macchie di pece fino in Basilicata".
"Scusa Cesare".
"Augusto, io mi chiamo Augusto, Cesare è il mio vice. Ma a scuola non la studiate più la tetrarchia?"
"Non lo so, ho perso il diario".
"La solita scusa, anche mio figlio non fa in tempo a scriversi i compiti che..."
"Tuo figlio in realtà è indemoniato".
"Ti dirò che la cosa non mi sorprende affatto".
"Comunque l'ho guarito".
"Meno male, adesso se non ti dispiace potresti smettere di accarezzare quel leone?"
"Ma perché? È così carino".
"Non è carino, è una belva feroce, è anche paurosamente magro, non mangia da una settimana, l'abbiamo liberato in questa arena affinché ti morsichi a morte e tu gli stai facendo i grattini dietro alle orecchie".
"Senti che fusa, senti".
"Va bene, ho capito, portate via il leone, proviamo col supplizio del cavalletto. Io non li sopporto questi cristiani. Han così tanta voglia di morire e poi alla prova dei fatti non muoiono mai. Li immergi nella pece e non si scottano, liberi i leoni e fanno le fusa. Abbassi la scure e la scure rimbalza. Li lanci dalla finestra e s'involano con gli angeli, ma che razza di religione è. Se proprio ci tieni a morire, non puoi star fermo un attimo e aspettare che ti ammazzino? E adesso cosa c'è? Cosa dice il boia?"
"Cesare, si dimena troppo, non riusciamo ad appenderlo".
"AUGUSTO! MI CHIAMO AUGUSTO! È da vent'anni che ho implementato questa cazzo di tetrarchia e ancora i sottoposti non sanno come chiamarmi ma dico io, le leggete le circolari?"
"Ma Maestà..."
"Non si dice Maestà, non siamo in una fiaba medievale, questo è l'impero romano e io devo essere chiamato Au-gu-sto, Au-gu-sto, Gaio Aurelio Valerio Diocleziano per i biografi. E il cristiano nel frattempo che fine ha fatto?"
"Credo che si sia involato con gli angeli".
“No vabbe’. Io esco. Vado a Spalato a coltivare i cavoli, con vent’anni di contributi da imperatore credo di potermi permettere una villetta in campagna”.

L’angelo aveva portato San Vito alla foce del fiume Sele, dove fece giusto in tempo a morire a causa delle torture, e salito in paradiso cominciò a tormentare anche i santi. Ma vuoi stare un po’ fermo? gli diceva San Simeone Stilita. T’ha morsicato un serpente? gli chiedeva San Patrizio. Qua bisogna dargli qualcosa da fare, propose Sant’Isidro contadino. Buona idea, pensò San Pietro: “Vito, ti va di proteggere i farmacisti? Non hanno ancora un patronato, potresti pensarci t–”

“Fatto”.
“Come fatto”.
“Li ho protetti, capo”.
“Ma ti ho detto di farlo due secondi fa”.
“Controlla”.
“Sì vabbe’ ma scusa non si fa così, non te l’ha spiegato San Modesto? Bisogna avere anche un po’ di rispetto per i santi che ci mettono più tempo”.
“Scusa hai ragione, prova a darmi un altro patronato”.
“Eh vabbe’, così, su due piedi… Gli albergatori”.
“Ok”
“Ok cosa vuol dire? Li hai già protetti?”
“No, no, ci sto lavorando”.
“Non fare il furbo con me”.
“Ti giuro capo, non ho già finito, ci sto mettendo più tempo, guarda”.
“Ci hai messo tre secondi in più, Vito, dai, non è una cosa seria”.
“Ma che ci posso fare? Sono nato così”.
“Non c’è nessuna gloria nell’essere nati, io per dire ero nato pescatore. Bisogna sforzarsi un po’, inventarsi qualcosa. Sennò sembriamo palline scagliate dalla racchetta di Dio. Almeno un po’ di effetto, un po’ di libero arbitrio; Dio t’ha fatto tondo? Prova a metter fuori gli angoli. Se Dio ti ha creato veloce tu almeno prova a rallentare”.
“Ma se Dio mi ha creato in un modo…”
“Di sicuro non era per vederti finire nello stesso modo. Dio ama le sorprese”.
“Ma se è onnisciente”.
“Esatto, ama l’unica cosa che non può avere davvero. È per quello che ci somiglia tanto. Ma cosa puoi capirne tu, sei solo un bambino. E probabilmente lo resterai. Ma fa una cosa: proteggimi i birrai, tu che non bevi mai”.
“Protetti”.
“E i bottai”.
“Fatto”.
“I muti e i sordi, tu che non taci mai”.
“Protetti”.
“Gli abitanti di Sapri e di Rijeka già Fiume, in Croazia. Gli idrofobi e i letargici – proprio tu che non dormi mai”.
“Ok”.
“Sei uno spasso, Vito, non invecchiare”.
“Capo, non credo di poterlo fare”.

Vito era un bambino complesso, chi non lo è stato può alzarsi adesso. Batti quel piede, batti la mano, danza con Pietro e con Diocleziano. Tu che se vuoi riesci a stare seduto (e per questo ai maestri sei sempre piaciuto); che se ti dicono “fermo” tu stai; ma io dico “balla”, e tu ballerai. Tutta la notte finché, sfinito, non ti verrà a salvare San Vito. Lui fa in un attimo, stende la mano: su te, su Pietro e su Diocleziano. Così saprai come ci si sente, a non poter star mai fermi per niente: a sentirsi bruciare le ossa, mentre i nervi ti danno la scossa. E avrai pietà anche di quel cristiano: e pietà per Pietro, e per Diocleziano.
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Chi ha azionato l'

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Un eventuale film sull'ultimo giorno di scuola conterrebbe una sequenza in soggettiva in cui mi aggiro perplesso in una nube di polvere, intravedo a fatica i contorni degli eastpack cosparsi di bianco, i ragazzi però non ci sono, meno male sono tutti fuori, i polmoni cominciano a prudere la colonna sonora è una trap così molesta che strappo il cavo di alimentazione della lim dalla presa e solo a questo punto sento i colleghi gridare CHI HA AZIONATO L'ESTINTORR. Per il pregiato Sole 24Ore sono in ferie già da una settimana.
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Not so Deep

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E comunque secondo me il computer che batte gli uomini a scacchi, se gli chiedi di programmare gli esami orali di un istituto comprensivo senza sovrapporre i docenti a scavalco con altri tre istituti comprensivi, e senza offrire il dono dell'ubiquità agli insegnanti di religione, secondo me Deep Blue, coso, ti domanda se non può rigiocarsela con Kasparov anche senza regina, senza torri, bendato (puoi bendare un computer?), poi comincia a cercare su Google immagini di distopie totalitarie, nella stanza una strana puzza di chip bruciati, qualche rumore disumano, e insomma povero Deep Blue, è andata così, insegna agli angeli a che serve l'arrocco.
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Il Santo che batté il Brasile. Due a uno.

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San Cono di Diano o Teggiano (XIII secolo), patrono ufficioso di chi si rovina al lotto e della nazionale di calcio dell'Uruguay. 

E lo stadio era pieno.
E lo stadio era pieno (record ineguagliato di spettatori).
[2014]. L'Uruguay è un piccolo Paese con un record calcistico impressionante: schiacciato tra Brasile e Argentina, ha vinto più Coppe America di entrambi. In effetti, ha vinto più Coppe America di qualsiasi altro Paese. È stata la prima nazione a organizzare una Coppa del Mondo (1930) e a vincerla; nelle due edizioni successive - vinte dall'Italia - non partecipò nemmeno. Si ripresentò nel 1950, al primo mondiale disputato in Brasile: e proprio contro il Brasile si trovò a disputare l'ultima partita, decisiva per aggiudicarsi il torneo. Al Maracanà, figuratevi.

Non era una finalissima vera e propria perché, per la prima e fin qui unica volta nella storia della FIFA, la fase finale del torneo era un girone all'italiana con quattro squadre: ma le due europee qualificatesi, Spagna e Svezia, si erano dimostrate molto inferiori al gioco delle sudamericane. Il Brasile, in particolare, aveva infierito su entrambe: 7-1 contro la Spagna, 6-1 contro la Svezia. L'Uruguay aveva più modestamente superato la Svezia per 3 reti a 2, e contro la Spagna aveva addirittura pareggiato. Dunque quella sera al Brasile bastava un pareggio. Già, ma voi avreste mai scommesso su un pareggio del Brasile, al Maracanà appena costruito, davanti a duecentomila spettatori paganti, nella finale di Coppa del Mondo?

Era stato un mondiale stranissimo, un difficile tentativo di recuperare la normalità dopo la lunga interruzione dovuta alla guerra mondiale. Su 16 squadre qualificate, solo 13 si erano presentate. L'India era stata squalificata perché si faceva un punto d'onore di giocare a piedi nudi. La Scozia non era venuta perché non sopportava l'idea di non essere testa di serie come l'Inghilterra. L'Inghilterra non aveva molta esperienza del gioco oltremanica, e si ritrovò sbigottita a perdere 0-1 contro gli Stati Uniti d'America. L'Italia - detentrice del titolo, conquistato dodici anni prima in camicia nera - si era presentata stremata da un viaggio di tre settimane in transatlantico. Le altre squadre avevano preferito prendere l'aereo, ma la federazione italiano aveva appena perso gran parte dei titolari nel disastro di Superga, e non se la sentiva di rischiare. Il transatlantico si era rivelato un pessimo ambiente per un ritiro: tutti i palloni dopo qualche giorno erano finiti nell'oceano. Inseriti in un girone a tre con Svezia e Paraguay, perdemmo con la prima che pareggiò col secondo, e a quel punto eravamo già fuori: vincemmo comunque col Paraguay ed eravamo già pronti a re-imbarcarci.

A quel punto non restava che tifare Uruguay, una delle nazioni più italiane del mondo. Italiani erano i cognomi dei titolari più titolati: Ghiggia, Schiaffino. Entrambi avrebbero qualche anno più tardi indossato la maglia della nostra nazionale. Il capitano, Obdulio Varela, prima della partita invoca addirittura un santo italiano, Cono da Diano. Promette, in cambio della vittoria, di compiere un pellegrinaggio a piedi da Montevideo al santuario di San Cono a Florida, ridente cittadina dell'Uruguay. Ma perché proprio San Cono?

La cappella di San Cono a Florida (Uruguay)
La cappella di San Cono a Florida (Uruguay)
Cono Indelli nacque a Diano (in seguito conosciuta come Teggiano, provincia di Salerno) alla fine del dodicesimo secolo, e scappò appena poté in un monastero benedettino a Montesano della Marcellana. Lì visse una vita breve, santa e, per i nostri parametri, noiosissima, ravvivata da qualche saltuario evento miracoloso: come quella volta che vennero a trovarlo i genitori e lui dimostrò l'amore che riservava loro nascondendosi in un forno acceso. Quando se ne andarono ne saltò fuori incolume: miracolo! Pur di non dire ciao papà, ciao mamma.

Del resto il forno era il suo habitat, ci entrava dentro per cucinare; col tempo aveva magari sviluppato una certa resistenza. È anche vero che morì giovane: e che a un anno dal decesso ancora non avevano deciso dove seppellirlo. Ne reclamavano le spoglie ancora incorrotte sia Diano che Padula - quest'ultimo centro non so a che titolo - finché non si decise di tirare a sorte, abbandonandole a metà strada su un carretto legato a due buoi. I due buoi presero di buona lena la strada per Diano e si fermarono solo davanti alla chiesa del paese. Vince Diano, perde Padula.

Gli abitanti lo eleggono subito protettore del paese e ricorrono a lui a ogni crisi. Le solite cose: una guerra coi vicini, un assedio, un’epidemia, il terremoto del 1857. Santificato nel 1871, durante le migrazioni di fine Ottocento Cono comincia a essere venerato anche nell’Altro Mondo. In particolare a Florida, Uruguay, dove al suo esordio in una processione pubblica fa tremare la terra. L’Uruguay ha la sua parte di sfortune, come ogni Paese del mondo, ma non è zona sismica: il terremoto è un prodotto d’importazione, grazie San Cono. Per diciassette anni nessun sacerdote mette piede nella cappella a lui dedicata. Più che superstizione, è il segno di un conflitto tra la comunità italiana che l’aveva portato con sé da Teggiano e la curia locale, ispanofona. Il dissidio viene superato in un modo bizzarro quando il 3 giugno del ’45 sulla ruota di Montevideo esce il 3. Il giorno della morte di San Cono, il giorno della sua festa in Cielo.

Due giorni dopo si estrae il primo premio della lotteria nazionale: il numero del biglietto finisce per 3. Può essere una coincidenza, ma a quel punto molti bravi uruguagi si mettono a giocare numeri che finiscono per 3. La situazione degenera al punto che le lottomatiche del Paese decidono di imporre limiti alle puntate sul 3 nelle settimane a cavallo tra maggio e giugno

A questo punto la cabala si scatena. Il tre negato in Uruguay può sempre uscire sull’altra riva del Rio della Plata, in Argentina. Oppure si può giocare il 2, o il 4: è l’intenzione che conta, il Santo capirà. Se esce l’12, è il secolo in cui nacque; il 13, quello in cui morì. A proposito, forse morì a 18 anni: controlla, due settimane fa è uscito un 18. È stato canonizzato nel 1871: prova il 18, il 71 o 1+8+7+1=17. La sua cappella è al numero 50 della strada numero 26. E così via.
L’ultima partita della Coppa del Mondo del 1950 si giocò il 16 luglio (1+6=7: le lettere di S-a-n-C-o-n-o). Gli spettatori erano 199.854, di cui un centinaio uruguagi. Molti tifosi brasiliani vestivano già la maglietta Brasil campeão 1950. La partita fu preceduta da un discorso del prefetto che salutava i connazionali come campioni del mondo. Insomma si possono dire tante cose dei brasiliani, ma non che pecchino di scaramanzia.


Potrei sbagliare ma Ghiggia dovrebbe essere il secondo in basso da destra; Schiaffino tiene il pallone.
Potrei sbagliare ma Ghiggia dovrebbe essere il secondo in basso da sinistra; Schiaffino tiene il pallone.

Durante il primo tempo non segnò nessuno – i tre quarti d’ora più noiosi dell’intero torneo. All’inizio della ripresa segnò Friaça per il Brasile. Tutto sembrava andare per il verso giusto.

Venti minuti dopo Ghiggia serve un cross a Schiaffino. Uno a uno. Tosto, però, l’Uruguay. E va bene, tanto al Brasile basta un pareggio. D’altro canto, è il Brasile. Nello suo stadio nuovo, concepito apposta per il trionfo. Non può mica cominciare a coprirsi, non sarebbe nemmeno capace. Altri tredici minuti. Ancora Ghiggia. Due a uno per l’Uruguay.

Due più uno fa tre.

A quel punto l’Uruguay serra le file – forse sanno che San Cono non ha più numeri a disposizione – o forse è il silenzio spaventoso dei duecentomila spettatori che non festeggiano più, non gridano più. Quando l’arbitro fischia tre volte, la Coppa sembra dissolversi in una nebbia d’angoscia. La banda non suona perché non si sono portati lo spartito dell’inno dell’Uruguay, e di suonare quello del Brasile non è veramente il caso. Jules Rimet, presidente FIFA e inventore della coppa del mondo, cerca le autorità brasiliane per andare a consegnare il trofeo, ma non le trova – sono tutti scappati. Scende in campo, vede piangere i soldati in uniforme di gala che dovrebbero creare il cordone di sicurezza. Individua Varela, lo saluta, gli consegna il trofeo d’oro che comincia a scottargli in mano, e scappa pure lui. Sulle gradinate non c’è la violenza come la conosciamo oggi. I brasiliani se la prendono con sé stessi. Si lanciano dagli spalti. Alcuni accusano fitte al petto; si contano almeno dieci infarti. Molti avevano scommesso sulla vittoria. Il governo proclamerà tre giorni di lutto nazionale. Il Brasile non giocherà per due anni, e abbandonerà per sempre la maglietta bianca e il colletto blu con cui aveva disputato tutte le competizioni internazionali fino a quel momento (la tenuta verde-oro debutterà quattro anni più tardi nel mondiale in Svizzera).

Al santuario di San Cono, Florida, tra gli ex-voto c’è una maglietta bianco-azzurra della nazionale dell’Uruguay. La leggenda racconta che l’abbia portata un calciatore, a piedi da Montevideo.

PS: Forse avrete sentito dire che quest’anno, dopo 64 anni, la Coppa del Mondo si disputa di nuovo in Brasile. Il 24 giugno si gioca Italia-Uruguay. 2+4=6. Giugno è il sesto mese. 6+6=12. 1+2=3. Coincidenza? Noi della rubrica dei santi del Post crediamo di no.
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Kizito e Carlo Lwanga, martiri di Buganda

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3 giugno - San Carlo Lwanga, San Kizito e i loro undici compagni, martiri d'Uganda (1886)

La vetrata che ricordo io però è più bella.
Senza essere nulla di
artisticamente rilevante,
la vetrata che ricordo io
però è più bella.
[2014]. C'è una chiesetta da queste parti, in cui nessuno mette piedi da due anni ormai. È una piccola pieve romanica molto rimaneggiata, che a dispetto dei sigilli e dell'incuria non vuole saperne di crollare. Nel coro della chiesetta c'è una vetrata istoriata che risale agli anni Ottanta del secolo scorso - il momento in cui l'astrattismo simbolico conciliare cede al riflusso del realismo e dopo tanti agnelli, anelli, croci e mani giunte, finalmente si rivedono sulle finestre le sane vecchie storie di santi. I due protagonisti della vetrata, che pregano sommersi dalle fiamme, hanno qualcosa che li rende particolari: sono neri, neri dell'Africa. Una didascalia in calce li chiama Carlo Lwanga e Kizito, martiri in Uganda. La vetrata testimonia la passione missionaria di quella minuscola parrocchia, accennando a una storia che da piccolo nessuno mi sapeva raccontare. Prima o poi, pensavo, qualche missionario in vacanza al paese mi avrebbe ragguagliato su quei due neri in un roveto ardente. Ma non successe mai, e ci ho messo anni a scoprire il perché. Il martirio del robusto lottatore e catechista Carlo Lwanga, del suo più giovane studente Kizito, e di altri undici compagni dai nomi molto difficili da trascrivere, non è una semplice storia di eroismo e testimonianza della fede.

C'entra anche il sesso.

E c'è poco da scherzare. Un anno fa mi capitò di raccontare la leggenda del martire Pelagio, fatto a pezzi dal sultano malvagio perché non rispondeva alle sue avances. Pura propaganda omofoba e antislamica messa in giro dalla prima drammaturga europea, Rosvita di Gandersheim, durante la riconquista cristiana della Spagna. Mentre dalla Germania alla Castiglia si spacciavano storie di califfi sodomiti e pedofili, i califfi veri lanciavano i gay dalle torri. Dalle due parti del fronte rimbalzavano le stesse accuse di virilità deviata. Pelagio probabilmente non è mai esistito, è il fantasma di una purezza che esiste solo nei sogni di chi non ha mai visto una guerra dal vero. Ma non facciamo in tempo a derubricarlo a leggenda medievale, che inciampiamo in Kizito.

L'unica foto che ritrae Kizito e compagni
L’unica foto che ritrae Kizito e compagni
Kizito non è medievale e non è una leggenda. È realmente vissuto, almeno per 14 anni, nel cuore dell'Africa: un mondo alieno che gli europei scoprono soltanto nell'Ottocento, dove al loro passaggio molti fantasmi occidentali prendono vita. Kizito ebbe il dubbio onore di essere scelto tra i paggi di Mwanga II, kabaka (re) di Buganda, al tempo una delle nazioni più importanti dell'Africa orientale. Gli agiografi del XXI secolo lo descrivono come un sovrano dissoluto, dedito a vizi d'importazione:
"Da mercanti bianchi venuti dal nord, ha imparato quanto di peggio questi abitualmente facevano: fumare hascisc, bere alcool in gran quantità e abbandonarsi a pratiche omosessuali. Per queste ultime, si costruisce un fornitissimo harem costituito da paggi, servi e figli dei nobili della sua corte." 
L'unica foto che ritrae il Kabaka Mwanga II
L’unica foto che ritrae il Kabaka Mwanga II
Prego notare il razzismo al contrario, che pur sempre razzismo è. Hascisc, alcool, sodomia: tutto deve venire per forza dai corruttori bianchi. Eppure l’abitudine a circondarsi di un harem di prepuberi era antica e consolidata, presso i kabaka. Possiamo dire che fosse parte delle prerogative reali, così come la poligamia su larga scala: il padre di Mwanga aveva avuto 85 mogli, lui si limitò a 16. Se ci immaginiamo un anziano vizioso siamo un po’ fuori strada, perché nel 1884, quando fu scelto da un collegio di anziani come successore del re appena morto, aveva soltanto sedici anni.

Ne aveva solo due in più quando mise fine alla politica di tolleranza che aveva permesso a suo padre di mettere cattolici, anglicani e musulmani gli uni contro gli altri, e lanciò ai cristiani della sua corte un ultimatum: rinnegate la vostra fede e sottomettetevi ai miei appetiti, oppure morite.

Tra i primi caduti il vescovo inglese James Hannington, assassinato nel suo villaggio. Quando il maggiordomo di corte (nonché sacerdote cattolico), Joseph Mukasa, accusò Mwanga di essere il mandante dell’omicidio, e lo rimproverò esplicitamente per le sue pratiche omosessuali, Mwanga lo fece giustiziare con una coltellata al cuore. Charles Lwanga, già primo tra i paggi reali, ne prese subito il posto.

martiri d'uganda

Pare che Mwanga lo ammirasse anche come wrestler. Ma Charles oltre che lottatore era un buon cristiano, maestro di catechismo addirittura: e molti paggi reali erano suoi catecumeni. Il giorno successivo si autoaccusa al cospetto del re con una ventina di suoi studenti. Mwanga non li fa ammazzare subito. Spera che il tempo, e un po’ di tortura, giochi a suo favore. Quando la sua residenza va a fuoco li porta con sé nella sua villa sul lago Vittoria: un lungo viaggio durante il quale alcuni compagni di Charles e Kizito muoiono trafitti dalle lance della guardia reale. Per tutto il tempo, raccontano gli agiografi, Mwanga non cessa gli approcci sessuali nei confronti dei suoi prigionieri, ma Charles riesce a difenderne l’onore. Quando il 3 giugno viene posto sulla pira, gli aguzzini hanno cura di accendere il fuoco sotto i suoi piedi, e si assicurano di carbonizzarli prima di dare fuoco al resto del corpo. Mentre muore, Charles dice due cose: “mi bruciate ma è come se rovesciaste acqua addosso al mio corpo” e katonda“, mio Dio. Con lui, anche dieci sacerdoti anglicani e due musulmani. A suo modo Mwanga non faceva differenze.

Ronald Muwenda Mutebi II e Sylvia Nagginda

Ronald Muwenda Mutebi II e Sylvia Nagginda

Lo scandalo per il massacro fu il pretesto che spinse i britannici a entrare nel Buganda, appoggiando una rivolta islamo-cristiana contro gli animisti governativi. Mwanga dovette scappare. Al suo posto, gli inglesi pescarono uno dei più di cento fratellastri. Durò un mese, e poi fu sostituito da un altro fratellastro. A questo punto Mwanga II rientrò in ballo, promettendo tra trasformazione del Buganda in un protettorato in cambio del suo reinsediamento al trono. Di lì a dieci anni avrebbe capeggiato due rivolte anti-inglesi, per finire i suoi giorni in esilio alle Seychelles, dove fece in tempo a convertirsi e morire a 35 anni, una vita intensa. Gli anglicani lo battezzarono ironicamente col nome di Daneri, Daniele: il libro della Bibbia in cui si racconta dei ragazzini che furono gettati in una fornace e non tradirono il loro Dio. Sì, ma loro dalla fornace uscirono illesi.

Kizito e i suoi compagni bruciarono vivi. Charles gli aveva promesso: Se dobbiamo morire per Gesù moriremo insieme, mano nella mano. Gli ultimi giorni della sua vita, il ragazzino li passò tra due fuochi non letterali: quello del supplizio minacciato dal re, e quello dell’inferno evocato dal suo educatore, Charles. Vinse l’educatore, dal suo punto di vista un successo glorioso. Dal mio non saprei, ma è ingiusto sovrapporlo a una storia che conosco appena.

Il Buganda esiste ancora, è una regione autonoma che occupa un quarto dell’Uganda, ci vivono sette milioni di abitanti. L’odierno kabaka si chiama Muwenda Mutebi II. Sua moglie, la regina Sylvia Nagginda di Buganda, è molto impegnata in campagne di scolarizzazione e prevenzione delle malattie infettive.
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Giovanna era bellissima che ne sai

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30 maggio - Santa Giovanna D'Arco (1412-1431)


Spiacente Milla, mi spiace Ingrid,
Jean Seberg è più Giovanna di tutte.
[2013]. Santa Giovanna mi trova sempre nel momento peggiore - scadenze e pendenze d'ogni tipo, scrutini, rovesci temporaleschi, astratti furori che rubano sonno ed energia. Si arriva a fine anno scolastico sopravvivendo a tutti i buoni propositi caricati a settembre, seppelliti uno alla volta lungo il sentiero verso il maggio atroce, il giugno torrido. Si parte giovani e pieni di voglia di cambiare il mondo e si arriva stanchi, sfibrati, senza prospettive, come doveva trovarsi il Bastardo d'Orléans nel 1429, mentre difendeva Orléans. Tutti i sogni cavallereschi di gioventù seppelliti in quel disastro che era stato la battaglia delle aringhe. Ormai la guerra, se non già perduta, era comunque un mestiere come un altro, magari più a rischio infortuni. Il Bastardo, a dispetto del soprannome un nobile di primo rango, tirava avanti perché aveva due riscatti da pagare: i fratellastri prigionieri degli inglesi. Era l'ultimo Orléans rimasto in campo e ci mise 25 anni a saldarli, peggio di un mutuo sulla casa. Una guerra insomma senza gloria, le prospettive oscillavano tra la resa disonorevole e gli orrori di un assedio a oltranza, crepare di fame e peste mentre il tuo popolo ti maledice. Le provviste in città erano già razionate, il re Carlo lontano e talmente pavido da non potersi nemmeno definire in senso stretto un re: non aveva le palle per sfidare gli inglesi mettendosi una corona in testa. E poi che altro? Niente, sta arrivando in città una matta, una contadina che parla con gli angeli, ha appena imparato a cavalcare e dice che la guerra la vincerà lei. Pure i matti adesso, putain, non bastavano le epidemie? Ma quando finisce 'sto medioevo che ne ho piene le palle.

Finché non arriva Giovanna: ed è bellissima.

No, non abbiamo ritratti. Ma che fosse bella è chiaro. Per quanto tu possa parlare con Michele Arcangelo e vederti ogni sera con Domineddio, se non sei un po' carina difficilmente ti darebbero retta gli eserciti della Francia intera. Doveva essere bella di una bellezza scostante, hai presente quelle ragazze talmente fuori standard che nessuno ci prova veramente: così come non ci provarono i cavalieri che la stavano accompagnando, e che testimoniarono sulla sua correttezza al di sopra di ogni sospetto. Questa spaventevole bellezza, Giovanna doveva portarla con molta disinvoltura: in poche settimane aveva imparato a cavalcare, mentre teneva testa ai nobili della corte di Chinon e ai dotti di Potiers. Per esigenze di cavalcatura si era adattata a mettere i pantaloni, cosa mai vista se non in qualche bordello assai raffinato, di cui lei nella sua incontestabile innocenza nulla poteva sospettare. E poi che altro?

E poi era simpatica. Anche su questo, tutti concordano. Pronta al riso e alla battuta, di fronte a qualsiasi autorità. A Potiers un erudito, fra Seguin - immaginatevi un accademico davanti a una contadina che sostiene di parlare gli angeli, immaginatevelo - le aveva chiesto che lingua parlassero, questi angeli. Glielo aveva chiesto con uno spiccato accento di Limoges, la Campobasso della Francia meridionale. Beh (rispose lei) senz'altro una lingua migliore della vostra. E fu amore a prima battuta, anche per il professorone. Seguin avallò il parere della commissione, che considerava Giovanna utile alla causa regia, e anche ad anni di distanza non smise mai di parlarne e di scriverne tutto il bene che poteva scrivere il futuro ultrasettantenne decano della facoltà di Poitiers.

Giovanna era incantevole, nell'autentico senso. Piacque a tutti quelli che ebbero l'opportunità di conoscerla un poco. Durò poco (e lo sospettava) ma finché durò i mercenari smisero di chiedere riscatti, i saccheggiatori di saccheggiare, i politici di mercanteggiare, i francesi di lamentarsi - riuscite a immaginarli? Francesi che non si lamentano? Tutto dunque era possibile. Il Bastardo incontrò Giovanna, e all'improvviso non era più il mesto impresario di un teatrino al massacro. Era di nuovo un Capitano del Re; e anche il Re, quella mezzasega, se Giovanna insisteva una corona in testa poteva ben mettersela.

Jean de Dunois, senza l'aria di essere soprannominato il bastardo d’Orléans.

Giovanna non sapeva combattere, e ben presto fu chiaro che nemmeno le piaceva. Dopo la prima scaramuccia seria chiese di non portare la spada, ma la bandiera. Prima di ogni combattimento implorava i nemici di arrendersi, e riconoscere l’evidenza: erano un esercito di occupazione, avevano Dio contro, ma se si fossero arresi Giovanna li avrebbe difesi da vendette e ritorsioni. E quelli: fottiti strega! Puttana degli armagnacchi! Giovanna non portava rancore. Si prese frecce e pietrate; cadde sull’antenata di una mina antiuomo – un arnese di ferro appuntito che serviva ad azzoppare cavalli. Era la Guerra dei Cent’Anni, era cominciata con le frecce e finì coi cannoni. La gente nasceva in guerra, viveva in guerra, moriva in guerra, e gli anni di tregua dovevano lasciare come una sensazione di vuoto dentro. Più di una rivelazione angelica, questo era miracoloso: che una contadina nata in un’enclave armagnacca nei territori occupati credesse a qualcosa che chiamava “pace duratura”. Non erano mai esistite paci durature, solo tregue un po’ più lunghe del solito: esistevano assedi e battaglie, massacri e riscatti, dai tempi del nonno e del nonno del nonno era sempre andato così, in che modo una bella ragazza avrebbe potuto cambiare le cose?

Giovanna ci provò. Li fece innamorare. Liberò Orléans, diede al Bastardo la sua vittoria più bella. Portò il Delfino a Reims, dove si incoronavano i re di Francia, e lo fece re, lo rese uomo. Ma non poteva durare, ed era la prima a saperlo. Gli uomini son fatti così, i re come i bastardi: qualche anno di fuoco e fiamme, e poi cenere. Appena indossata la corona Carlo VII stava già pensando a cosa offrire agli inglesi per non farli troppo incazzare. A Giovanna regalò uno stemma nobiliare, ma nessuno riusciva a immaginare una Giovanna a corte che sorseggia champagne e discute di beneficenza rifiutando pudicamente un macaron. Disobbedendo all’ordine di ritirata, proseguendo la guerra in qualche scaramuccia periferica, Giovanna aveva controfirmato il suo destino: prima o poi si sarebbe fatta ammazzare. Si trattava semplicemente di stabilire il quando, il come. A Compiègne  mentre rientrava da una sortita trovò la porta della rocca chiusa. Forse qualcuno aveva tradito. C’erano taglie sulla sua testa, gli inglesi avrebbero pagato parecchio per portarla nella zona occupata, svergognarla pubblicamente e bruciarla viva. Anche se all’inizio la presero i borgognoni.


Divenuta merce di scambio lungo la proficua e intricata filiera dei riscatti, Giovanna per qualche tempo fu ospite-prigioniera di tre nobildonne che avevano il suo stesso nome. Quel poco di psicologia che crediamo di condividere con l’aristocrazia del Quattrocento ci lascia immaginare cosa potessero pensare queste tre Giovanne ben nate di lei, contadina in pantaloni al soldo del nemico. Ma è proprio da questi dettagli che si riesce a capire quanto doveva essere irresistibile la pulzella di Orléans, perché le tre dame si innamorarono anche loro, non volevano lasciarla andare; Giovanna di Lussemburgo minacciò di diseredare il nipote. Niente da fare, Giovanna finì a Rouen, a recitare la parte di invasata e strega, e a farsi bruciare viva.

Sola, senza nessun uomo esperto di legge o teologia, Giovanna combatté la sua ultima battaglia: e vinse. Per più di un mese la contadina che sentiva le voci mise in imbarazzo i teologi che cercavano disperatamente prove di eresia o stregoneria. Chiunque dia un’occhiata ai verbali non può nutrire dubbi su da che parte stessero superstizione e fanatismo. Il vescovo Cauchon le provò tutte. Insistette a lungo sulle ghirlande con cui da bambina Giovanna aveva adornata un albero al suo paese: è un’usanza pagana! Si fece ridere dietro, e intanto gli inglesi scalpitavano: la volevano al rogo, la procedura era un dettaglio; purché si trovasse un modo. Giovanna di morire sembrava tutt’altro che entusiasta, e si difese in tutti i modi che riuscì a trovare; ma non rinunciò mai alla sua ironia, forse controproducente. Quando l’inquisitore le chiese se un’entità soprannaturale le avesse suggerito un modo per evadere, Giovanna sbottò: ma se davvero me l’avesse detto ve lo racconterei? Dopo un po’ cominciarono a fare le udienze a porte chiuse.

Rarissima foto di santa travestita da altra santa (è Teresina del Bambin Gesù nei panni di Giovanna, e ci crede un casino).

Alla fine non riuscirono a trovare niente di più incriminante dell’abitudine di indossare i pantaloni. Giovanna aveva capito al volo e si era rimessa una gonna: gliela tolsero. Sola in un carcere maschile, senza indumenti (dopo aver già subito percosse e tentativi di violenza), Giovanna alla fine cedette e si rimise i pantaloni. Tecnicamente questo faceva di lei una relapsa, un’eretica che dopo aver abiurato alle sue perfide idee ritornava sui suoi errori. Cauchon si volle assicurare che il falò fosse composto di solida legna, e non fascine che avrebbero asfissiato la ragazza prima che le fiamme l’ustionassero. Giovanna doveva andare arrosto e bestemmiare, l’accordo con gli inglesi era questo. Giovanna andò arrosto, ma non bestemmiò. La gente venuta a vedere la strega allo spiedo tornò a casa dicendo che era morta da santa. Un soldato inglese ebbe un malore, raccontò di averle visto uscire di bocca una colomba.

Vent’anni più tardi gli inglesi avevano perso la guerra, una volta per tutte. Carlo VII era ancora re, il primo dopo secoli a regnare su qualcosa di simile a una Francia unita. Il Bastardo era diventato suo gran ciambellano. Un giorno ebbero la pensata di riabilitare Giovanna, con un processo al contrario. Invitarono i testimoni sopravvissuti, trovarono molta gente che non ne disse che bene. Il perfido Cauchon non era più su questa terra: lo scomunicarono ex post. E magari così si lavarono un po’ la coscienza, per aver lasciato andare al rogo quella ragazza bellissima che nel giro di pochi mesi aveva preso quei due falliti da un angolino sfigato del libro di storia – il bastardo e il delfino – e li aveva fatti uomini. Non risulta nessun tentativo di Carlo VII di liberare Giovanna, nei mesi della prigionia e del processo. Qualche storico pietoso però ha notato come non vi siano tracce del Bastardo, per almeno due mesi nel bel mezzo del 1431: sembra scomparso. Il Quattrocento non è un secolo oscuro, a saper scartabellare si riesce a trovare anche il nome del cavallo preferito dell’arcivescovo di Limoges; ma del Bastardo, in quei due mesi, niente. Così si è fatta strada questa ipotesi: che il Bastardo fosse in missione segreta per ordine di sua Maestà, oltre le linee nemiche. Scopo: liberare la pulzella, fede, speranza, amore della Francia. È una bella storia, raccontabile in settembre.

Ma è il trenta maggio e io me ne immagino un’altra: probabilmente il Bastardo era da qualche parte nelle retrovie, a non combinare un granché come la maggior parte degli uomini nella maggior parte delle loro esistenze (i soldati, poi). La Storia poi la fanno i vincitori, e il re e il suo uomo di fiducia avrebbero avuto vent’anni a disposizione per riscriverla a piacere, fingendo una missione priva di un reale senso strategico. Giovanna era andata, ormai: bellissima ragazza, sì, d’accordo, ma ingestibile come combattente, e nemmeno così performante. Invece come martire avrebbe ancora avuto un senso, e in fondo non era quello che voleva? Non era quello che aveva sempre voluto? Erano gli angeli a ispirarla, no? Ci pensassero gli angeli.

E così se n’è andata un’altra primavera. Quanta vita mi è passata intorno, senza che sia riuscito a trarne niente di sensato. Ormai non riesco neanche a ripromettermi che la prossima volta andrà diversamente: non andrà diversamente, come potrebbe? Le forze in campo sono queste, le conosco. Sono qui sotto assedio da cent’anni, è il mio mestiere e non so più perché lo faccio, chi sto riscattando. Intanto paro i colpi, schivo le scadenze, campo alla giornata. Eppure lo so, lo sento, che potrei rivincere tutto in un giorno solo, una sola meravigliosa battaglia campale. Se solo Giovanna si rifacesse viva e sorridesse, io mi ci metterei. E vincerei. Ma poi la tradirei, metterei pancia, e penserei a lei soltanto un giorno all’anno. Quel giorno farei in modo di trovarmi in una locanda, berrei forte e al primo borgognone che incontrassi farei una scenata: a chi hai detto puttana? Ta gueule, frocetto, mettiti in ginocchio quando parli di lei. Tu non c’eri, tu non puoi capire, era bellissima.
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