A chi arrestano oggi, e a chi festeggerà
18-12-2016, 17:46cattiva politica, giustiziaPermalink
Ciao, mi chiamo Leonardo e quando a Milano ci fu l'inchiesta Mani Pulite, e i magistrati arrestavano un politico al giorno, io avevo vent'anni. Mi divertivo. Quei politici che cadevano in disgrazia li conoscevo da tanto tempo - mi sembrava tanto tempo - erano stati i cattivoni della mia adolescenza, i Craxi, i Forlani, i Gava. Corrotti, collusi, mafiosi, lo dicevamo da anni, e quando i magistrati cominciarono a confermarcelo non trovammo nulla da eccepire. Sembrava che tutto stesse procedendo verso un lieto fine: come col Muro di Berlino, per 40 anni incrollabile, e poi una notte, puff, finito. Era bello, era giusto, era divertente.
Se ci ripenso in realtà non mi ricordo molto, perché a vent'anni la priorità è il sesso e tutto passa in terzo. in quarto piano. Comunque: noi odiavamo i politici, i magistrati li arrestavano, noi eravamo felici. C'era una specie di arena in cui li vedevamo prender mazzate - i più deboli non reggevano, ma non trovavamo nulla da eccepire nello spettacolo in sé.
Adesso ne ho molti di più e non voglio nemmeno tentare un parallelo. Ogni tanto un magistrato arresta un politico: ho imparato che bisogna aspettare, perché a volte le cose non sono come sembrano. La cosa curiosa che ho notato è che adesso, quando un politico viene indagato, la gente non è più felice come una volta.
Alcuni sì, sembrano felici, ma c'è troppo nervosismo nelle loro manifestazioni di giubilo. È come se, come se, come se stessero tifando per la loro squadra. Ecco. La squadra ha fatto goal e loro festeggiano, ma in realtà sono tesi, sono arrabbiati, si vede che non basta, forse stanno ancora un goal sotto. Altre volte poi non festeggiano, anzi, alcuni fanno finta di niente - dal che deduco che deve aver fatto goal la squadra avversaria. Altri ci restano male o se la prendono con l'arbitro - che per carità, non è infallibile, è più che giusto domandarsi se sia imparziale o no, se ci abbia visto giusto, se non gli sia sfuggito qualcosa. Ma sai come fanno i tifosi: a volte se la prendono con l'arbitro per partito preso. Come se non sapessero, appunto, che non è infallibile, non può vedere tutto, non può evitare che qualcosa gli sfugga.
Ciao, mi chiamo Leonardo e vedo i magistrati arrestare i politici da vent'anni. La principale differenza è che vent'anni fa era uno spettacolo semplice: noi sugli spalti, loro in campo. Oggi è diventato uno sport a squadre, e il match sul campo prosegue negli spalti. Indagano il sindaco di Milano: un boato in curva sud, la curva nord contesta e fa notare che però il sindaco sta reagendo bene. Pochi minuti dopo viene arrestato un assessore a Roma: la curva nord esplode, la curva sud impietrisce e così via. I politici continuano a rubare, i magistrati continuano a guardarsi intorno e a fischiare per quel che possono. Noi continuiamo a guardare, ad applaudire, a urlare, ma c'è molta meno allegria. E ormai ce ne siamo dette così tante, tra di noi, che c'è di sicuro qualcuno che ci aspetta fuori.
Se ci ripenso in realtà non mi ricordo molto, perché a vent'anni la priorità è il sesso e tutto passa in terzo. in quarto piano. Comunque: noi odiavamo i politici, i magistrati li arrestavano, noi eravamo felici. C'era una specie di arena in cui li vedevamo prender mazzate - i più deboli non reggevano, ma non trovavamo nulla da eccepire nello spettacolo in sé.
Adesso ne ho molti di più e non voglio nemmeno tentare un parallelo. Ogni tanto un magistrato arresta un politico: ho imparato che bisogna aspettare, perché a volte le cose non sono come sembrano. La cosa curiosa che ho notato è che adesso, quando un politico viene indagato, la gente non è più felice come una volta.
Alcuni sì, sembrano felici, ma c'è troppo nervosismo nelle loro manifestazioni di giubilo. È come se, come se, come se stessero tifando per la loro squadra. Ecco. La squadra ha fatto goal e loro festeggiano, ma in realtà sono tesi, sono arrabbiati, si vede che non basta, forse stanno ancora un goal sotto. Altre volte poi non festeggiano, anzi, alcuni fanno finta di niente - dal che deduco che deve aver fatto goal la squadra avversaria. Altri ci restano male o se la prendono con l'arbitro - che per carità, non è infallibile, è più che giusto domandarsi se sia imparziale o no, se ci abbia visto giusto, se non gli sia sfuggito qualcosa. Ma sai come fanno i tifosi: a volte se la prendono con l'arbitro per partito preso. Come se non sapessero, appunto, che non è infallibile, non può vedere tutto, non può evitare che qualcosa gli sfugga.
Ciao, mi chiamo Leonardo e vedo i magistrati arrestare i politici da vent'anni. La principale differenza è che vent'anni fa era uno spettacolo semplice: noi sugli spalti, loro in campo. Oggi è diventato uno sport a squadre, e il match sul campo prosegue negli spalti. Indagano il sindaco di Milano: un boato in curva sud, la curva nord contesta e fa notare che però il sindaco sta reagendo bene. Pochi minuti dopo viene arrestato un assessore a Roma: la curva nord esplode, la curva sud impietrisce e così via. I politici continuano a rubare, i magistrati continuano a guardarsi intorno e a fischiare per quel che possono. Noi continuiamo a guardare, ad applaudire, a urlare, ma c'è molta meno allegria. E ormai ce ne siamo dette così tante, tra di noi, che c'è di sicuro qualcuno che ci aspetta fuori.
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Capitan Fantastico scende in città
15-12-2016, 18:12Americana, cinema, Cosa vedere a Cuneo (e provincia) quando sei vivoPermalinkCaptain Fantastic (Matt Ross, 2016).
Lassù sulle montagne, dove l'aria è più buona e il capitalismo non arriva, vive senza chiedervi il permesso la famiglia Cash. Sono filosofi e carnivori; di giorno cacciano e disossano i cervi e la sera, intorno al fuoco, bivaccano studiando la teoria delle stringhe. Scalano montagne, affilano lame, sono buddisti ma armati. Un giorno scenderanno a darvi una lezione. Non si sentono superiori a nessuno; lo sono.
Fino a qualche anno fa non succedeva mai, e quest'anno è capitato già più volte, di ritrovarmi di fronte a un film americano pensando "beh ma preferivo la versione italiana". Non so se abbia più a che fare con la salute del cinema USA o con la mia. Il paragone tra Captain Fantastic e Le meraviglie di Alice Rohrwacher non ha molto senso, comunque: anche se entrambi sono molto piaciuti a Cannes. Da una parte un prodotto d'autore europeo, drammatico (con qualche virata nel simbolico), dall'altra un comedy-drama americano, uno di quei film da Sundance che di indipendente non hanno nemmeno la confezione; l'ennesimo tentativo di far convivere le suggestioni del ritorno alla natura con un linguaggio che infallibilmente ne restituisce immagini patinate. È una di quelle situazioni in cui i famosi production values americani, quei livelli ineguagliati di professionalità e organizzazione, si ritorcono contro la macchina: fai fatica a spiegarci Henry David Thoreau se i tuoi strumenti sono quelli con cui si gira la pubblicità di uno shampoo... (continua su +eventi!)
Matt Ross ha voluto girare un film diametralmente opposto alla sua opera prima, 28 Hotel Rooms: là c'erano soltanto due attori in 28 camere d'albergo diverse (da cui il titolo), qui c'è tutto l'Ovest, dalle foreste dello Stato di Washington fino ai campi di golf del New Mexico, uno schiaffo alla miseria e alla siccità; e una famiglia di selvaggi sapienti che è un trionfo di casting - ragazze e bambini hanno tutti pochi minuti per lasciare un segno, e ce la fanno. E poi c'è Viggo Mortensen, padre-padrone illuminato, che per metà film sembra davvero l'uomo più saggio del mondo: com'è prevedibile, basterà scendere un po' a valle perché tutto venga messo in discussione. Ma appunto, è un po' troppo prevedibile. È capitato ad autori più esperti di Ross di scontrarsi con lo stesso argomento, e di consegnare agli spettatori qualcosa di irrisolto o ambiguo (vedi Into the Wild). È come se intorno all'argomento ci fosse qualcosa di sostanzialmente sacro: magari ritornare alla natura è impossibile, ma non è comunque consentito riderne.
Il manuale di base della sceneggiatura televisiva prevede che l'eroe si scontri con le convenzioni; che a ogni parziale successo corrisponda l'accettazione dei propri limiti; le convenzioni sono elastiche, si lasciano penetrare, ma in cambio l'eroe deve capire che hanno un senso. Captain Fantastic deve accettare di essere un po' meno fantastic; passare dalla caccia all'agricoltura; in cambio resterà un filosofo e continuerà a conservare la sua famiglia bellissima. È un finale che ha un senso soltanto al cinema o in tv, e soltanto in America. Qui da noi è diverso, al punto che di un film così forse non sappiamo che farcene. Captain Fantastic questa settimana resiste solo al Fiamma di Cuneo (giovedì 15, venerdì 16, lunedì 19, martedì 20 e mercoledì 21 alle ore 21; sabato 17 ore 17.30 - 20.00 - 22.30; domenica 18 ore 15.00 - 18.00 - 21.00).
Lassù sulle montagne, dove l'aria è più buona e il capitalismo non arriva, vive senza chiedervi il permesso la famiglia Cash. Sono filosofi e carnivori; di giorno cacciano e disossano i cervi e la sera, intorno al fuoco, bivaccano studiando la teoria delle stringhe. Scalano montagne, affilano lame, sono buddisti ma armati. Un giorno scenderanno a darvi una lezione. Non si sentono superiori a nessuno; lo sono.
Fino a qualche anno fa non succedeva mai, e quest'anno è capitato già più volte, di ritrovarmi di fronte a un film americano pensando "beh ma preferivo la versione italiana". Non so se abbia più a che fare con la salute del cinema USA o con la mia. Il paragone tra Captain Fantastic e Le meraviglie di Alice Rohrwacher non ha molto senso, comunque: anche se entrambi sono molto piaciuti a Cannes. Da una parte un prodotto d'autore europeo, drammatico (con qualche virata nel simbolico), dall'altra un comedy-drama americano, uno di quei film da Sundance che di indipendente non hanno nemmeno la confezione; l'ennesimo tentativo di far convivere le suggestioni del ritorno alla natura con un linguaggio che infallibilmente ne restituisce immagini patinate. È una di quelle situazioni in cui i famosi production values americani, quei livelli ineguagliati di professionalità e organizzazione, si ritorcono contro la macchina: fai fatica a spiegarci Henry David Thoreau se i tuoi strumenti sono quelli con cui si gira la pubblicità di uno shampoo... (continua su +eventi!)

Matt Ross ha voluto girare un film diametralmente opposto alla sua opera prima, 28 Hotel Rooms: là c'erano soltanto due attori in 28 camere d'albergo diverse (da cui il titolo), qui c'è tutto l'Ovest, dalle foreste dello Stato di Washington fino ai campi di golf del New Mexico, uno schiaffo alla miseria e alla siccità; e una famiglia di selvaggi sapienti che è un trionfo di casting - ragazze e bambini hanno tutti pochi minuti per lasciare un segno, e ce la fanno. E poi c'è Viggo Mortensen, padre-padrone illuminato, che per metà film sembra davvero l'uomo più saggio del mondo: com'è prevedibile, basterà scendere un po' a valle perché tutto venga messo in discussione. Ma appunto, è un po' troppo prevedibile. È capitato ad autori più esperti di Ross di scontrarsi con lo stesso argomento, e di consegnare agli spettatori qualcosa di irrisolto o ambiguo (vedi Into the Wild). È come se intorno all'argomento ci fosse qualcosa di sostanzialmente sacro: magari ritornare alla natura è impossibile, ma non è comunque consentito riderne.

Il manuale di base della sceneggiatura televisiva prevede che l'eroe si scontri con le convenzioni; che a ogni parziale successo corrisponda l'accettazione dei propri limiti; le convenzioni sono elastiche, si lasciano penetrare, ma in cambio l'eroe deve capire che hanno un senso. Captain Fantastic deve accettare di essere un po' meno fantastic; passare dalla caccia all'agricoltura; in cambio resterà un filosofo e continuerà a conservare la sua famiglia bellissima. È un finale che ha un senso soltanto al cinema o in tv, e soltanto in America. Qui da noi è diverso, al punto che di un film così forse non sappiamo che farcene. Captain Fantastic questa settimana resiste solo al Fiamma di Cuneo (giovedì 15, venerdì 16, lunedì 19, martedì 20 e mercoledì 21 alle ore 21; sabato 17 ore 17.30 - 20.00 - 22.30; domenica 18 ore 15.00 - 18.00 - 21.00).
Il conte Gentiloni e gli eterni ritorni
11-12-2016, 12:14cattiva politica, governo Gentiloni, RenziPermalink
Magari sarà un ottimo capo del governo: glielo auguro e ce lo auguro. Però davvero: quant'è buffo, dopo tanta retorica sulla rottamazione, ritrovarsi a Palazzo Chigi un conte Gentiloni Silverj? Un discendente di quel Vincenzo Ottorino Gentiloni che nel '12 firmò il patto dei cattolici con Giolitti (noi ti votiamo e tu blocchi il divorzio e dai il via libera al finanziamento delle scuole cattoliche)? E dire che Paolo ce l'ha messa tutta per lottare contro il determinismo sociale. Ci informano i biografi che nel 1970 scappò di casa "per partecipare alle occupazioni studentesche a Milano" (non aveva 18 anni). Si ritrovò nel Movimento Studentesco di Mario Capanna. Nella sinistra extraparlamentare incontrò personaggi estremi come Ermete Realacci, Chicco Testa. E adesso eccolo a Palazzo Chigi. Da cui il legittimo sospetto: ma se invece se ne fosse rimasto a Roma a studiare e a militare in qualche prudentissima formazione centrista, oggi non si ritroverebbe, non ci ritroveremmo esattamente nella stessa situazione?
Magari Gentiloni non ce la farà: chissà se è un bene o un male. Però quanto è curioso che Renzi, così convinto di rappresentare una novità, si stia comportando più o meno come D'Alema nel 2000? E a D'Alema non andò molto bene, ricordiamolo. Si ritrovò a Palazzo Chigi nel '98 a sostituire Prodi. Aveva le idee abbastanza chiare, puntava a riformare il Paese ma anche a trovare un'investitura popolare perché già allora l'idea che si potesse diventare capo del governo senza vincere esattamente le elezioni dava fastidio ai più. Non c'erano i grillini, non c'era la retorica del presidente non eletto, ma c'era già un sistema bipolare e la sensazione che Prodi nel '96 avesse ricevuto un mandato dagli elettori, e D'Alema no. Per ovviare a questo problema, più psicologico che istituzionale, D'Alema ebbe una trovata molto discutibile, che i suoi cicisbei non esitarono a trovare geniale: non aveva vinto le elezioni del '96? Pazienza, avrebbe vinto le successive. Trasformò ogni consultazione in un referendum sul suo governo. Alle europee non andò molto bene: fece un rimpasto. Alle regionali andò pure peggio e diede le dimissioni. I cicisbei ne lodarono la coerenza - sorprendentemente, alcuni di loro oggi lavorano e tifano per Renzi, l'uomo nuovo che avrebbe voluto ottenere da un referendum confermativo l'investitura che non aveva ottenuto con le elezioni. Stesse scelte, stessi errori, stessi rimedi, stesse sconfitte.
Magari un giorno, riguardando a tutto questo, ci accorgeremo di avere vissuto giorni straordinari, di avere assistito svogliati a una rivoluzione in diretta. In questo momento sembra l'esatto contrario: un eterno ritorno di situazioni già viste. I cattolici tengono alla famiglia e alla scuola e non la mollano, dal 1912 al 2016. Democristiani, diessini, democratici vanno avanti a tastoni e a ogni consultazione rimpastano un po': se le cose vanno male lasciano il posto a un notabile innocuo e dicono in giro di essersi ritirati in campagna. In un suo accorato messaggio ai fan, dopo aver rimboccato le coperte dei figli, il dimissionario Renzi spiega di aver fatto una cosa incredibile, mai vista: si è dimesso senza un voto di sfiducia. ("Di solito si lascia Palazzo Chigi perché il Parlamento ti toglie la fiducia. Noi no"). Chissà se ne è davvero convinto. Chissà se ignora che in tutta la storia della Repubblica dev'esser successo una volta sola a un governo di perdere la fiducia in Parlamento (e fu Prodi, ahinoi). Perché poi con Renzi il dubbio è sempre lo stesso. Davvero è convinto di essere qualcosa di inedito e di mai visto, anche se alla fine si ritrova a giocare lo stesso gioco di un D'Alema o di un Fanfani, e a rifare le identiche mosse?
Magari Gentiloni non ce la farà: chissà se è un bene o un male. Però quanto è curioso che Renzi, così convinto di rappresentare una novità, si stia comportando più o meno come D'Alema nel 2000? E a D'Alema non andò molto bene, ricordiamolo. Si ritrovò a Palazzo Chigi nel '98 a sostituire Prodi. Aveva le idee abbastanza chiare, puntava a riformare il Paese ma anche a trovare un'investitura popolare perché già allora l'idea che si potesse diventare capo del governo senza vincere esattamente le elezioni dava fastidio ai più. Non c'erano i grillini, non c'era la retorica del presidente non eletto, ma c'era già un sistema bipolare e la sensazione che Prodi nel '96 avesse ricevuto un mandato dagli elettori, e D'Alema no. Per ovviare a questo problema, più psicologico che istituzionale, D'Alema ebbe una trovata molto discutibile, che i suoi cicisbei non esitarono a trovare geniale: non aveva vinto le elezioni del '96? Pazienza, avrebbe vinto le successive. Trasformò ogni consultazione in un referendum sul suo governo. Alle europee non andò molto bene: fece un rimpasto. Alle regionali andò pure peggio e diede le dimissioni. I cicisbei ne lodarono la coerenza - sorprendentemente, alcuni di loro oggi lavorano e tifano per Renzi, l'uomo nuovo che avrebbe voluto ottenere da un referendum confermativo l'investitura che non aveva ottenuto con le elezioni. Stesse scelte, stessi errori, stessi rimedi, stesse sconfitte.
Magari un giorno, riguardando a tutto questo, ci accorgeremo di avere vissuto giorni straordinari, di avere assistito svogliati a una rivoluzione in diretta. In questo momento sembra l'esatto contrario: un eterno ritorno di situazioni già viste. I cattolici tengono alla famiglia e alla scuola e non la mollano, dal 1912 al 2016. Democristiani, diessini, democratici vanno avanti a tastoni e a ogni consultazione rimpastano un po': se le cose vanno male lasciano il posto a un notabile innocuo e dicono in giro di essersi ritirati in campagna. In un suo accorato messaggio ai fan, dopo aver rimboccato le coperte dei figli, il dimissionario Renzi spiega di aver fatto una cosa incredibile, mai vista: si è dimesso senza un voto di sfiducia. ("Di solito si lascia Palazzo Chigi perché il Parlamento ti toglie la fiducia. Noi no"). Chissà se ne è davvero convinto. Chissà se ignora che in tutta la storia della Repubblica dev'esser successo una volta sola a un governo di perdere la fiducia in Parlamento (e fu Prodi, ahinoi). Perché poi con Renzi il dubbio è sempre lo stesso. Davvero è convinto di essere qualcosa di inedito e di mai visto, anche se alla fine si ritrova a giocare lo stesso gioco di un D'Alema o di un Fanfani, e a rifare le identiche mosse?
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Bob Dylan, fantasma
10-12-2016, 20:07Bob Dylan, Il Post, musicaPermalinkBob Dylan (Bob Dylan, 1962).
Well, I don't know why I love you like I do
Nobody in the world can get along with you
Cos'è questo rumore. C'è un tizio che strimpella in un caffè del village. È bianchissimo ma cerca di cantare come un nero. È un ragazzino ma vuole sembrare un vecchio. Ha preso uno di quei vecchi ragtime da 78 giri e lo canta come se girasse a 45 - forse è un modo per scaldarsi, forse nei giorni di magra va a suonare sopra le grate della metropolitana, col berretto sul marciapiede. A modo suo è anche bravo. Pare che sia in giro da un anno, pare che abbia già trovato un tizio alla Columbia che gli vuol far firmare un contratto. C'è un piccolo revival del folk, in città, il rock'n'roll ha un po' stancato e non ci sono novità all'orizzonte. E va bene, ma quanto può andare avanti un movimento del genere, voglio dire, chi ha davvero voglia di ascoltare ancora quelle vecchie canzoni? Siamo nel futuro, perdio, siamo nel 1962.
In occasione del conferimento a Bob Dylan del premio Nobel per la letteratura, mi sono deciso a un passo che accarezzavo da anni - si possano accarezzare i passi? vabbe' - ho ascoltato tutti gli album del premio Nobel in ordine cronologico. Sono ancora vivo per raccontarlo, credo (ma se accostate il cuore al mio petto, sentirete il vibrare metallico di un'armonica).
Bob Dylan è il disco di Dylan che nessuno conosceva. Tanti anni fa, quando non esistevano i servizi streaming e non c'era abbastanza banda per scambiarsi intere discografie p2p, se volevi fare il dylanologo c'era un solo complicato sistema: ti dovevi far prestare i dischi dai vecchi. Erano brutti dischi in vinile, segnati - molti che li comprano oggi in libreria non hanno idea di quanto facilmente si rovinassero quegli affari di plastica; e anche le copertine, bellissime, ma compresse l'una contro l'altra perdevano il lucido abbastanza presto e si sgualcivano più in fretta dei libri.
Questi vecchi che conservavano i dischi di Dylan a loro volta li avevano presi in prestito da altri ancora più vecchi, che a volte li avevano addirittura comprati nei negozi, perché sì, a quei tempi esistevano negozi che quel tipo di dischi te li vendevano - il prezzo al chilo era esorbitante. Questo li costringeva a fare scelte abbastanza ciniche. Perciò anche i dylaniti più strettamente osservanti, quelli che avevano diecine di suoi dischi in casa e ci avevano investito centinaia di migliaia di lire, Bob Dylan no, non lo avevano mai comprato. E adesso tenetevi forte: siccome non lo avevano comprato, non lo avevano nemmeno mai ascoltato.
Proprio così. Non c'era modo di farselo prestare, né di telefonare a una radio per chiedere You're No Good. Bob Dylan era già famosissimo, forse lo era un po' più di adesso, ma il suo primo disco non lo aveva nessuno. Dimenticato. I due pezzi originali erano stati ristampati in qualche compilation più o meno ufficiale, e tanto bastava. Nel frattempo uscivano già ristampe assurde, prove di prove di prove, ci fu un periodo in cui la Columbia ricattava Dylan, se non torni con noi pubblichiamo certe canzoni orribili che hai registrato per scherzo qualche anno fa - lo fecero davvero. E poi ci fu quel momento in cui Dylan disse, vaffanculo, volete ascoltare tutto? Proprio tutto? Volete che apriamo gli scaffali e vi facciamo ascoltare venticinque take diverse di Like a Rolling Stone? Tenete, beccatevi questo ennesimo disco di roba che qualsiasi altro artista butterebbe via. E i vecchi compravano, i vecchi avevano accesso a misteriose fonti di liquidità - però il primo disco no, niente da fare. Non era considerato interessante. Perché non l'aveva scritto lui, sapete. Dylan era considerato soprattutto un cantautore a quei tempi. L'idea che avesse iniziato come interprete suonava fastidiosa.
Così ho deciso di scrivere un commento a tutti i dischi ufficiali di Bob Dylan, dal primo all'ultimo. Compresi i live? Nei limiti del possibile, sì. Compresa la bootleg series? Se ce la faccio, sì. Compreso quel disco con venticinque prove diverse di Like a Rolling Stone? No.
Non è che fosse una rarità. Tecnicamente non credo che lo sia mai diventato, veniva ristampato meno degli altri ma con regolarità. Ma era considerato una falsa partenza. Questo ci dice tanto sul modo in cui è cambiata la nostra immagine di Dylan col tempo, perché se oggi decidi di ascoltare quel primo disco - su Spotify ci metti due minuti a trovarlo - assolutamente no, tutto ti sembra tranne una falsa partenza. Quel ventunenne spavaldo sulla copertina è già Bob Dylan. Ha già idee tutte sue su come si stravolge una canzone. Quel modo di trasformarle nella parodia di loro stesse - ma senza tradirle mai davvero - lo sta già applicando. Sta già trasformando vecchi blues dolenti in cose diverse, cose moderne, di un genere ancora inascoltato e inascoltabile (non credo di avere il diritto di usare la parola protopunk). Suona folk e sta già prendendo in giro il genere folk (Pretty Peggy-O). Suona blues e sta già giocando a cambiare un accordo per vedere se per caso non gli capita di inventare qualcosa di nuovo (Baby, Let Me Follow You Down). Soprattutto, suona già la chitarra e l'armonica come Bob Dylan. In certi pezzi viene il sospetto che le suoni molto meglio qui che altrove. Dylan non è ancora un poeta - ha già scritto diversa roba ma perlopiù l'ha buttata via, come fanno gli adolescenti. Non è ancora un compositore. Ma come musicista è già maturo. Temprato da mesi di gavetta in strade gelide e tutto il resto.
Old New York City is a friendly old town,
From Washington Heights to Harlem on down.
There's a-mighty many people all millin' all around,
They'll kick you when you're up and knock you when you're down.
It's hard times in the city,
Livin' down in New York town.
Dylan viene dal passato. Non dal suo personale, di cui non ci parla mai (continua sul Post)
(L'album successivo: Live at the Gaslight).
Well, I don't know why I love you like I do
Nobody in the world can get along with you
Cos'è questo rumore. C'è un tizio che strimpella in un caffè del village. È bianchissimo ma cerca di cantare come un nero. È un ragazzino ma vuole sembrare un vecchio. Ha preso uno di quei vecchi ragtime da 78 giri e lo canta come se girasse a 45 - forse è un modo per scaldarsi, forse nei giorni di magra va a suonare sopra le grate della metropolitana, col berretto sul marciapiede. A modo suo è anche bravo. Pare che sia in giro da un anno, pare che abbia già trovato un tizio alla Columbia che gli vuol far firmare un contratto. C'è un piccolo revival del folk, in città, il rock'n'roll ha un po' stancato e non ci sono novità all'orizzonte. E va bene, ma quanto può andare avanti un movimento del genere, voglio dire, chi ha davvero voglia di ascoltare ancora quelle vecchie canzoni? Siamo nel futuro, perdio, siamo nel 1962.
In occasione del conferimento a Bob Dylan del premio Nobel per la letteratura, mi sono deciso a un passo che accarezzavo da anni - si possano accarezzare i passi? vabbe' - ho ascoltato tutti gli album del premio Nobel in ordine cronologico. Sono ancora vivo per raccontarlo, credo (ma se accostate il cuore al mio petto, sentirete il vibrare metallico di un'armonica).
Bob Dylan è il disco di Dylan che nessuno conosceva. Tanti anni fa, quando non esistevano i servizi streaming e non c'era abbastanza banda per scambiarsi intere discografie p2p, se volevi fare il dylanologo c'era un solo complicato sistema: ti dovevi far prestare i dischi dai vecchi. Erano brutti dischi in vinile, segnati - molti che li comprano oggi in libreria non hanno idea di quanto facilmente si rovinassero quegli affari di plastica; e anche le copertine, bellissime, ma compresse l'una contro l'altra perdevano il lucido abbastanza presto e si sgualcivano più in fretta dei libri.
Questi vecchi che conservavano i dischi di Dylan a loro volta li avevano presi in prestito da altri ancora più vecchi, che a volte li avevano addirittura comprati nei negozi, perché sì, a quei tempi esistevano negozi che quel tipo di dischi te li vendevano - il prezzo al chilo era esorbitante. Questo li costringeva a fare scelte abbastanza ciniche. Perciò anche i dylaniti più strettamente osservanti, quelli che avevano diecine di suoi dischi in casa e ci avevano investito centinaia di migliaia di lire, Bob Dylan no, non lo avevano mai comprato. E adesso tenetevi forte: siccome non lo avevano comprato, non lo avevano nemmeno mai ascoltato.
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Carnegie Hall, settembre '62. |
Così ho deciso di scrivere un commento a tutti i dischi ufficiali di Bob Dylan, dal primo all'ultimo. Compresi i live? Nei limiti del possibile, sì. Compresa la bootleg series? Se ce la faccio, sì. Compreso quel disco con venticinque prove diverse di Like a Rolling Stone? No.
Non è che fosse una rarità. Tecnicamente non credo che lo sia mai diventato, veniva ristampato meno degli altri ma con regolarità. Ma era considerato una falsa partenza. Questo ci dice tanto sul modo in cui è cambiata la nostra immagine di Dylan col tempo, perché se oggi decidi di ascoltare quel primo disco - su Spotify ci metti due minuti a trovarlo - assolutamente no, tutto ti sembra tranne una falsa partenza. Quel ventunenne spavaldo sulla copertina è già Bob Dylan. Ha già idee tutte sue su come si stravolge una canzone. Quel modo di trasformarle nella parodia di loro stesse - ma senza tradirle mai davvero - lo sta già applicando. Sta già trasformando vecchi blues dolenti in cose diverse, cose moderne, di un genere ancora inascoltato e inascoltabile (non credo di avere il diritto di usare la parola protopunk). Suona folk e sta già prendendo in giro il genere folk (Pretty Peggy-O). Suona blues e sta già giocando a cambiare un accordo per vedere se per caso non gli capita di inventare qualcosa di nuovo (Baby, Let Me Follow You Down). Soprattutto, suona già la chitarra e l'armonica come Bob Dylan. In certi pezzi viene il sospetto che le suoni molto meglio qui che altrove. Dylan non è ancora un poeta - ha già scritto diversa roba ma perlopiù l'ha buttata via, come fanno gli adolescenti. Non è ancora un compositore. Ma come musicista è già maturo. Temprato da mesi di gavetta in strade gelide e tutto il resto.
Old New York City is a friendly old town,
From Washington Heights to Harlem on down.
There's a-mighty many people all millin' all around,
They'll kick you when you're up and knock you when you're down.
It's hard times in the city,
Livin' down in New York town.
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Foto di Joe Alper: Dylan con Suze Rotolo. (Ne risentiremo parlare). |
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Vita da gatto, un film da cani
09-12-2016, 14:15animali, cinema, Cosa vedere a Cuneo (e provincia) quando sei vivoPermalinkUna vita da gatto (Nine Lives, Barry Sonnenfeld, 2016)
Perché la maggior parte della gente cerca di comportarsi bene? Ok, qualcuno pensa di andare in paradiso. Qualcuno spera di lasciare un buon ricordo. Qualcuno proprio per fare il cattivo non è tagliato (ci vuole coraggio, ambizione, inventiva, è complicato). Ma la maggior parte della gente, perché non si comporta male tutto il tempo? Probabilmente credono nella metempsicosi: sperano di reincarnarsi nei gatti d'appartamento. Che altro chiedere dalla vita? Per dire che anche dietro a un film apparentemente inutile come Una vita da gatto c'è un'importante figura dell'inconscio collettivo: il sogno di finire come Kevin Spacey, palazzinaro di New York, troppo preso dalla sua carriera per vedere le esigenze di moglie e figlia bla bla bla bla, che una sera cade dal suo grattacielo e si risveglia nel corpo del gatto di famiglia. Scoprirà che non sono tutte rose e fiori e gomitoli di lana.
Perché l'Europa Corps non fa dei bei film, invece di farli brutti? Non è una domanda così peregrina. Nine Lives aveva un budget di 30 milioni di dollari (il triplo di Big Game): sono pochi? Se puoi scritturare Kevin Spacey, Christopher Walken e Jessica Gardner, e alla regia Barry Sonnenfield (La famiglia Addams, Men in Black); se hai abbastanza computer-grafica da riuscire ad animare un gatto che sembra vero, perché non riesci a costruirci non dico un capolavoro, ma un film abbastanza carino? Coi film d'azione forse è più facile - no, non mi riferisco a Lucy, Lucy è un episodio imperdonabile. Però finché è azione puoi sempre spararle grosse, magari non centri il bersaglio ma un effetto lo ottieni lo stesso, e anche un po' di ridicolo involontario non guasta mai (vedi il ciclo di Taken). Nine Lives invece vorrebbe essere un film per le famiglie: una cosa molto più delicata. Lo hanno scritto in cinque, senza mai azzeccare il tono. Si capisce che l'idea della trasformazione in gatto non è partita da un autore - qualcuno che avesse veramente voglia di dire qualcosa sui gatti d'appartamento, sul loro modo di essere e non essere parte della famiglia - ma dal reparto effetti speciali: ehi, guarda qui, siamo riusciti ad animare un gatto che sembra vero. Facciamoci un film, come quelle vecchie pellicole della Disney in cui a Dean Jones succedevano le cose più strane - in uno si trasformò effettivamente nel cane di famiglia. Perfetto, che problema c'è?
C'è che i gatti non sono cani, per esempio (continua interessantissimo su +eventi!) Immaginare un gatto che si strugge per cercare di dimostrare la propria umanità è faticoso. In generale, è faticoso immaginare un gatto che si strugge. Se sogniamo tutti di reincarnarci in felini è proprio perché sappiamo che quando finalmente ci arriveremo non ci fregherà più nulla di nulla - il nirvana. Gatto-Spacey invece si dà un sacco da fare, deve salvare la sua azienda, finire in qualche video buffo su youtube, creare quei simpatici casini domestici che fanno gli animali, e scoprire tante cose importanti sulla propria famiglia. Addirittura a un certo punto cerca di aiutare sua figlia coi compiti - ma un gatto che fa i compiti non è un gatto. Non fa nemmeno ridere. Nine Lives è un film che mette meccanicamente assieme tante cose che in teoria potevano fare un film, ma non ci riesce. Resta un'accozzaglia di cose messe lì. Negli USA è uscito il 5 agosto 2016, una delle date più terribili della storia del cinema mondiale (uscì anche Suicide Squad). Nine Lives non è altrettanto brutto, ma dimostra che il cinema americano non è un'alchimia così semplice. Anche con buoni attori americani, con un veterano americano alla regia, con un concetto tipico dei film per famiglie americane, il risultato è inferiore alla somma degli addendi. Lo trovate al Cityplex di Alba (19:00); al Vittoria di Bra (20:15); al Cinelandia di Borgo San Dalmazzo (15:15, 17:20, 20:15, 22:30); al Fiamma di Cuneo (18:10, 21:10); ai Portici di Fossano (20:00); all'Italia di Saluzzo (20:00); al Cinecittà di Savigliano (20:20, 22:30).


C'è che i gatti non sono cani, per esempio (continua interessantissimo su +eventi!) Immaginare un gatto che si strugge per cercare di dimostrare la propria umanità è faticoso. In generale, è faticoso immaginare un gatto che si strugge. Se sogniamo tutti di reincarnarci in felini è proprio perché sappiamo che quando finalmente ci arriveremo non ci fregherà più nulla di nulla - il nirvana. Gatto-Spacey invece si dà un sacco da fare, deve salvare la sua azienda, finire in qualche video buffo su youtube, creare quei simpatici casini domestici che fanno gli animali, e scoprire tante cose importanti sulla propria famiglia. Addirittura a un certo punto cerca di aiutare sua figlia coi compiti - ma un gatto che fa i compiti non è un gatto. Non fa nemmeno ridere. Nine Lives è un film che mette meccanicamente assieme tante cose che in teoria potevano fare un film, ma non ci riesce. Resta un'accozzaglia di cose messe lì. Negli USA è uscito il 5 agosto 2016, una delle date più terribili della storia del cinema mondiale (uscì anche Suicide Squad). Nine Lives non è altrettanto brutto, ma dimostra che il cinema americano non è un'alchimia così semplice. Anche con buoni attori americani, con un veterano americano alla regia, con un concetto tipico dei film per famiglie americane, il risultato è inferiore alla somma degli addendi. Lo trovate al Cityplex di Alba (19:00); al Vittoria di Bra (20:15); al Cinelandia di Borgo San Dalmazzo (15:15, 17:20, 20:15, 22:30); al Fiamma di Cuneo (18:10, 21:10); ai Portici di Fossano (20:00); all'Italia di Saluzzo (20:00); al Cinecittà di Savigliano (20:20, 22:30).
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Se Grillo fosse, semplicemente, il migliore?
08-12-2016, 02:19Beppe Grillo, RenziPermalink
Quello che sta succedendo sarebbe divertente, non stesse capitando a noi. Per sommi capi: il movimento che ha sempre osteggiato la legge elettorale di Renzi, ora vuole andare a votare al più presto proprio con quella legge; il partito che trovava la stessa legge bellissima, democraticissima, un esempio per tutta l'Europa... ora la vorrebbe cambiare. Nel frattempo si rinfacciano la scarsa coerenza, che pare sia una virtù imprescindibile se fai politica. Entrambe le fazioni sono guidate da personaggi che in passato avevano promesso di ritirarsi dalla politica in caso di sconfitta: Beppe Grillo prima delle catastrofiche europee del 2014; Matteo Renzi prima di questo referendum che evidentemente si illudeva di vincere, o almeno di perdere di misura. Probabilmente continueranno a sfidarsi anche nel '17.
Da questa distanza l'italicum è sempre sembrata una legge pessima, e più adatta a Grillo che a Renzi. Lo scrivevo all'indomani del vertice del Nazareno, non ho avuto in seguito motivo per cambiare idea; (l'ho scritto anche sul quotidiano di riferimento del Pd, finché ho potuto). Non solo era una legge che faceva confusione tra presidenzialismo e parlamentarismo e attribuiva un premio abnorme; ma col ballottaggio avrebbe naturalmente premiato il voto contro, ovvero il M5S. Credo che Grillo oggi sia d'accordo, se ora propone di estendere la stessa legge al Senato (anche se non si può). Credo che anche al Pd condividano la stessa opinione, se smaniano di cambiar legge. Ma ci vuole una maggioranza e non è detto che ci sia.
C'è poi il solito problema del Senato: con una delle sue tipiche mosse impazienti, Renzi fece approvare una nuova legge elettorale che cambiava soltanto il meccanismo della Camera, confidando sul fatto che il referendum confermativo avrebbe eliminato le elezioni del Senato. Era una fiducia, col senno del poi, veramente mal riposta. Confesso: credevo che dietro ci fosse una qualche machiavellica astuzia; anche se fosse stato sconfitto al referendum, Renzi sarebbe rimasto a Palazzo Chigi con la scusa che a quel punto bisognava rimetter mano alla legge elettorale. Il fatto che giusto un mese fa la direzione del Pd avesse dichiarato ufficialmente di volerla modificare era un indizio ulteriore in tal senso. Mi sbagliavo: una volta sconfitto, Renzi non ha voluto restare a Palazzo Chigi un attimo in più del necessario, con tanti saluti al dibattito sulla legge elettorale. Se poi non si riuscisse a formare un altro governo, e si andasse davvero a votare in questa situazione con l'italicum alla Camera e il mattarellum emendato dalla Consulta al Senato, sarebbe davvero reponsabilità di Grillo?
Più in generale: chi dei due ci sta facendo una figura migliore? Non è solo una questione di successo elettorale: oggi Renzi è nella polvere e Grillo è sugli altari, due anni fa era il contrario, chissà che succederà da qui in poi. Ma chi dei due sta mostrando di avere più il polso dei suoi elettori e in generale degli italiani? Chi dei due sta approfittando meglio della situazione - e la politica è anche l'arte di approfittarne? Chi dei due si sta rivelando il migliore politico?
Su un'altra cosa sbagliavo: non credevo che i grillini avrebbero fatto una campagna referendaria così intensa. Ero convinto che questa volta avrebbero lasciato alla propaganda renziana campo libero perché, tutto sommato, una vittoria del Sì non li avrebbe affatto danneggiati. E dopo Roma non mi sembravano così ansiosi di prendere il potere. Mi stavo sbagliando. Il M5S rischia seriamente di vincere un'elezione nel 2017. Se succedesse, attenzione, non sarà una vittoria dell'antipolitica. Se Grillo vincerà, sarà grazie alla sua astuzia e alla sua capacità di cogliere le opportunità e metterle a frutto. Vincerà perché sarà stato più bravo, o gli altri molto più scarsi. In ogni caso se la sarà meritata.
Da questa distanza l'italicum è sempre sembrata una legge pessima, e più adatta a Grillo che a Renzi. Lo scrivevo all'indomani del vertice del Nazareno, non ho avuto in seguito motivo per cambiare idea; (l'ho scritto anche sul quotidiano di riferimento del Pd, finché ho potuto). Non solo era una legge che faceva confusione tra presidenzialismo e parlamentarismo e attribuiva un premio abnorme; ma col ballottaggio avrebbe naturalmente premiato il voto contro, ovvero il M5S. Credo che Grillo oggi sia d'accordo, se ora propone di estendere la stessa legge al Senato (anche se non si può). Credo che anche al Pd condividano la stessa opinione, se smaniano di cambiar legge. Ma ci vuole una maggioranza e non è detto che ci sia.
C'è poi il solito problema del Senato: con una delle sue tipiche mosse impazienti, Renzi fece approvare una nuova legge elettorale che cambiava soltanto il meccanismo della Camera, confidando sul fatto che il referendum confermativo avrebbe eliminato le elezioni del Senato. Era una fiducia, col senno del poi, veramente mal riposta. Confesso: credevo che dietro ci fosse una qualche machiavellica astuzia; anche se fosse stato sconfitto al referendum, Renzi sarebbe rimasto a Palazzo Chigi con la scusa che a quel punto bisognava rimetter mano alla legge elettorale. Il fatto che giusto un mese fa la direzione del Pd avesse dichiarato ufficialmente di volerla modificare era un indizio ulteriore in tal senso. Mi sbagliavo: una volta sconfitto, Renzi non ha voluto restare a Palazzo Chigi un attimo in più del necessario, con tanti saluti al dibattito sulla legge elettorale. Se poi non si riuscisse a formare un altro governo, e si andasse davvero a votare in questa situazione con l'italicum alla Camera e il mattarellum emendato dalla Consulta al Senato, sarebbe davvero reponsabilità di Grillo?
Più in generale: chi dei due ci sta facendo una figura migliore? Non è solo una questione di successo elettorale: oggi Renzi è nella polvere e Grillo è sugli altari, due anni fa era il contrario, chissà che succederà da qui in poi. Ma chi dei due sta mostrando di avere più il polso dei suoi elettori e in generale degli italiani? Chi dei due sta approfittando meglio della situazione - e la politica è anche l'arte di approfittarne? Chi dei due si sta rivelando il migliore politico?
Su un'altra cosa sbagliavo: non credevo che i grillini avrebbero fatto una campagna referendaria così intensa. Ero convinto che questa volta avrebbero lasciato alla propaganda renziana campo libero perché, tutto sommato, una vittoria del Sì non li avrebbe affatto danneggiati. E dopo Roma non mi sembravano così ansiosi di prendere il potere. Mi stavo sbagliando. Il M5S rischia seriamente di vincere un'elezione nel 2017. Se succedesse, attenzione, non sarà una vittoria dell'antipolitica. Se Grillo vincerà, sarà grazie alla sua astuzia e alla sua capacità di cogliere le opportunità e metterle a frutto. Vincerà perché sarà stato più bravo, o gli altri molto più scarsi. In ogni caso se la sarà meritata.
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Renzi avrebbe vinto, se non fosse Renzi
05-12-2016, 18:45campagna elettorale (permanente), referendum costituzionale 2016, RenziPermalink
Il ragazzo è un missile.
Qualche mese fa, in un momento di apparente lucidità, Matteo Renzi ammise che la personalizzazione della campagna referendaria era stata un errore. Già al tempo si sapeva come sarebbe andata a finire; già al tempo qualcuno apprezzò quello che sembrava un tentativo di correggere il tiro. Già allora qualcun altro scuoteva la testa - insomma: è Matteo Renzi. Per forza personalizza. Se l'acqua non bagnasse, se il vento non soffiasse, se Matto Renzi non personalizzasse. Cresciuto politicamente tra provincia e comune di Firenze, in una fase in cui partiti e corpi intermedi si ritiravano lasciando spazio a personaggi e personaggetti, Renzi è progettato per vivere ogni battaglia politica nel modo più plebiscitario possibile. O con lui o contro di lui. Del resto è così che si diventa sindaci, che si diventa personaggi mediatici, e forse funziona così anche con le primarie del Pd, ormai. Con palazzo Chigi le regole (per ora) sono un po' diverse, ma forse era un po' tardi per impararle. Prima o poi doveva metterseli tutti contro e andare a sbattere. È anche difficile prendersela con lui, insomma: è fatto così. Lo avevate pur capito che era progettato così. Un missile innescato dai tempi delle prime Leopolde. Non è che possa cambiare traiettoria in corsa, non è che possa imparare un gioco diverso. I missili solo una cosa sanno fare.
A mezzanotte e un quarto, quando ancora il conteggio delle schede era una stima, Matteo Renzi ha voluto salutarci e mostrarci quanta importanza stesse dando davvero al testo costituzionale - perché a quel punto c'era ancora qualcuno che pensava che il referendum fosse sulla Costituzione, sapete. Ha spiegato che è stata colpa sua, tutta sua. Che i suoi elettori non c'entrano. Che ha fatto tante belle cose ma adesso lascia, perché evidentemente qualcuno non lo vuole. Ha fatto il suo concession speech, tanto simile a quello delle primarie di quattro anni fa, perché alla fine nella sua testa il politico è quella figura americana che ammette le sconfitte a conteggi in corso. Tra qualche tempo forse riuscirà più evidente l'assurdità della cosa: sulla scheda non c'era scritto Renzi, non c'era scritto PD, non c'era scritto Cambia Verso Rottamiamo i Professoroni. C'era un quesito costituzionale. Ma per Renzi le croci sul No erano contro di lui e queste è l'unica cosa che importi: lui. Se l'acqua non bagnasse, se il vento non soffiasse, forse sarebbe andata in un modo diverso.
È la fine della sua carriera? A occhio non sembra, anzi. Non fosse Renzi, avrebbe di che festeggiare, e non è escluso che in privato non lo abbia fatto. Alle europee di due anni fa il PD di Renzi valeva 11 milioni: il 40%. Dopo due anni di governo, con un logoramento inevitabile, senza una parte importante del PD, è riuscito a ottenere il Sì di tredici milioni di italiani. Insomma si tratterebbe di una vittoria, da spartire con alleati evanescenti (Alfano? Verdini?) che difficilmente avranno portato al mulino un milione di elettori in tutto. I sostenitori del Sì e i renziani più o meno entusiasti avrebbero di che festeggiare per un risultato che attesta la popolarità del loro leader, collocandolo al centro dell'arco costituzionale con un pacchetto di consensi che non si sta consumando col tempo. Avrebbero avuto più di un motivo di reclamare un risultato che dice, semplicemente, che qualsiasi futura maggioranza di governo dovrà fare i conti con loro.
Ma non sarebbero stati renziani. Non starebbero vivendo questi anni di governo come il talent show del giovane primo ministro contro tutti. Sir Robert Baden-Powell, il fondatore dello scoutismo, proponeva di lasciare il mondo migliore di come lo avessimo trovato. Renzi lascia il PD devastato, il principale movimento di opposizione più compatto che mai, la scuola disorientata, il mondo del lavoro in stagnazione e un sistema bancario sull'orlo del baratro. Qualcun altro si sarebbe sentito responsabile per tutto questo. Qualcun altro avrebbe cercato di evitare una consultazione referendaria, magari cercando di far passare qualche riforma attraverso la maggioranza qualificata del parlamento. Se non avesse funzionato, qualcun altro avrebbe potuto almeno recepire le critiche che arrivavano da costituzionalisti insigni e da membri del suo stesso partito. Infine, qualcun altro avrebbe potuto sganciarsi davvero dalla campagna, magari scaricandola sulle spalle della sua ministra delle Riforme, che nessuno considera una bella statuina; qualcuno potrebbe aver mantenuto un profilo super partes, dopotutto è già successo che una maggioranza perdesse un referendum e non è stata la fine di quella maggioranza. Qualcuno avrebbe potuto non essere Matteo Renzi, ma è andata così.
E adesso che succede? Forse niente. Le borse che dovevano crollare sono state calme, confermando che il dramma è tutto televisivo. Matteo Renzi ha finito la sua campagna, Matteo Renzi ha promesso soldi a tutti, cartelle di Equitalia condonate e ponti sugli stretti di Messina, ora l'intervallo è finito. C'è per l'ennesima volta da trovare la quadra a un bilancio difficile, c'è da affidare l'incarico all'ennesimo tizio grigio che alzerà le tasse e si farà odiare da tutti. Renzi se ne torna a casa a contare il suo gruzzolo di Sì, ad aspettare il momento in cui tutti lo rimpiangeremo. Non è escluso che non succeda molto presto, persino a me.
Vorrà dire che tra qualche mese o anno, complice il susseguirsi degli eventi o il rincoglionimento, mi sarò dimenticato quel piccolo dettaglio: il ragazzo è un missile. Forse non sarà per sempre un ragazzo. Forse un giorno imparerà a non andare dritto come un missile. Forse. Ma a quel punto forse è meglio provare qualcos'altro. E la vecchia domanda: ma come andò quella volta, ma chi si mise in testa per primo che quel missile sarebbe stato un ottimo segretario del Pd, un ottimo presidente del Consiglio? Non si vedeva che era un missile? E i missili solo una cosa sanno fare. Magari anche bene, eh. Ma solo una.
Qualche mese fa, in un momento di apparente lucidità, Matteo Renzi ammise che la personalizzazione della campagna referendaria era stata un errore. Già al tempo si sapeva come sarebbe andata a finire; già al tempo qualcuno apprezzò quello che sembrava un tentativo di correggere il tiro. Già allora qualcun altro scuoteva la testa - insomma: è Matteo Renzi. Per forza personalizza. Se l'acqua non bagnasse, se il vento non soffiasse, se Matto Renzi non personalizzasse. Cresciuto politicamente tra provincia e comune di Firenze, in una fase in cui partiti e corpi intermedi si ritiravano lasciando spazio a personaggi e personaggetti, Renzi è progettato per vivere ogni battaglia politica nel modo più plebiscitario possibile. O con lui o contro di lui. Del resto è così che si diventa sindaci, che si diventa personaggi mediatici, e forse funziona così anche con le primarie del Pd, ormai. Con palazzo Chigi le regole (per ora) sono un po' diverse, ma forse era un po' tardi per impararle. Prima o poi doveva metterseli tutti contro e andare a sbattere. È anche difficile prendersela con lui, insomma: è fatto così. Lo avevate pur capito che era progettato così. Un missile innescato dai tempi delle prime Leopolde. Non è che possa cambiare traiettoria in corsa, non è che possa imparare un gioco diverso. I missili solo una cosa sanno fare.
A mezzanotte e un quarto, quando ancora il conteggio delle schede era una stima, Matteo Renzi ha voluto salutarci e mostrarci quanta importanza stesse dando davvero al testo costituzionale - perché a quel punto c'era ancora qualcuno che pensava che il referendum fosse sulla Costituzione, sapete. Ha spiegato che è stata colpa sua, tutta sua. Che i suoi elettori non c'entrano. Che ha fatto tante belle cose ma adesso lascia, perché evidentemente qualcuno non lo vuole. Ha fatto il suo concession speech, tanto simile a quello delle primarie di quattro anni fa, perché alla fine nella sua testa il politico è quella figura americana che ammette le sconfitte a conteggi in corso. Tra qualche tempo forse riuscirà più evidente l'assurdità della cosa: sulla scheda non c'era scritto Renzi, non c'era scritto PD, non c'era scritto Cambia Verso Rottamiamo i Professoroni. C'era un quesito costituzionale. Ma per Renzi le croci sul No erano contro di lui e queste è l'unica cosa che importi: lui. Se l'acqua non bagnasse, se il vento non soffiasse, forse sarebbe andata in un modo diverso.
È la fine della sua carriera? A occhio non sembra, anzi. Non fosse Renzi, avrebbe di che festeggiare, e non è escluso che in privato non lo abbia fatto. Alle europee di due anni fa il PD di Renzi valeva 11 milioni: il 40%. Dopo due anni di governo, con un logoramento inevitabile, senza una parte importante del PD, è riuscito a ottenere il Sì di tredici milioni di italiani. Insomma si tratterebbe di una vittoria, da spartire con alleati evanescenti (Alfano? Verdini?) che difficilmente avranno portato al mulino un milione di elettori in tutto. I sostenitori del Sì e i renziani più o meno entusiasti avrebbero di che festeggiare per un risultato che attesta la popolarità del loro leader, collocandolo al centro dell'arco costituzionale con un pacchetto di consensi che non si sta consumando col tempo. Avrebbero avuto più di un motivo di reclamare un risultato che dice, semplicemente, che qualsiasi futura maggioranza di governo dovrà fare i conti con loro.
Ma non sarebbero stati renziani. Non starebbero vivendo questi anni di governo come il talent show del giovane primo ministro contro tutti. Sir Robert Baden-Powell, il fondatore dello scoutismo, proponeva di lasciare il mondo migliore di come lo avessimo trovato. Renzi lascia il PD devastato, il principale movimento di opposizione più compatto che mai, la scuola disorientata, il mondo del lavoro in stagnazione e un sistema bancario sull'orlo del baratro. Qualcun altro si sarebbe sentito responsabile per tutto questo. Qualcun altro avrebbe cercato di evitare una consultazione referendaria, magari cercando di far passare qualche riforma attraverso la maggioranza qualificata del parlamento. Se non avesse funzionato, qualcun altro avrebbe potuto almeno recepire le critiche che arrivavano da costituzionalisti insigni e da membri del suo stesso partito. Infine, qualcun altro avrebbe potuto sganciarsi davvero dalla campagna, magari scaricandola sulle spalle della sua ministra delle Riforme, che nessuno considera una bella statuina; qualcuno potrebbe aver mantenuto un profilo super partes, dopotutto è già successo che una maggioranza perdesse un referendum e non è stata la fine di quella maggioranza. Qualcuno avrebbe potuto non essere Matteo Renzi, ma è andata così.
E adesso che succede? Forse niente. Le borse che dovevano crollare sono state calme, confermando che il dramma è tutto televisivo. Matteo Renzi ha finito la sua campagna, Matteo Renzi ha promesso soldi a tutti, cartelle di Equitalia condonate e ponti sugli stretti di Messina, ora l'intervallo è finito. C'è per l'ennesima volta da trovare la quadra a un bilancio difficile, c'è da affidare l'incarico all'ennesimo tizio grigio che alzerà le tasse e si farà odiare da tutti. Renzi se ne torna a casa a contare il suo gruzzolo di Sì, ad aspettare il momento in cui tutti lo rimpiangeremo. Non è escluso che non succeda molto presto, persino a me.
Vorrà dire che tra qualche mese o anno, complice il susseguirsi degli eventi o il rincoglionimento, mi sarò dimenticato quel piccolo dettaglio: il ragazzo è un missile. Forse non sarà per sempre un ragazzo. Forse un giorno imparerà a non andare dritto come un missile. Forse. Ma a quel punto forse è meglio provare qualcos'altro. E la vecchia domanda: ma come andò quella volta, ma chi si mise in testa per primo che quel missile sarebbe stato un ottimo segretario del Pd, un ottimo presidente del Consiglio? Non si vedeva che era un missile? E i missili solo una cosa sanno fare. Magari anche bene, eh. Ma solo una.
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Capitan Sully, l'eroe di due minuti
04-12-2016, 23:27cinema, Cosa vedere a Cuneo (e provincia) quando sei vivoPermalinkSully (Clint Eastwood, 2016).
Anche i migliori a volte hanno dei dubbi. Per esempio Clint Eastwood, come dire, la Storia del cinema. Secondo me ogni tanto se lo domanda: e se avessi sbagliato qualcosa? E se avessi fatto un errore? Quell'inquadratura era da dilettanti. Quel raccordo non riesco a perdonarmelo. Quante cazzate che ho fatto, e diciamolo, come attore valevo nulla. Ok, ho scoperto Michael Cimino, ma forse era meglio se lo avessi lasciato a girare pubblicità, per lui e per tutta l'industria. Magari sta uscendo da una macchina, Clint Eastwood, magari cammina su una passerella; tutt'intorno un cordone di sicurezza, sconosciute che vorrebbero abbracciarlo, c'è gente a cui Clint fa sesso a 80 anni, e intanto lui pensa: forse faccio pena.
L'unico modo per cambiare idea è riguardarsi uno dei suoi film. E commuoversi. No, Cristo, io non faccio pena, io sono la fottuta storia del cinema. Ho portato a casa film impossibili, ho dato un capo e una coda persino ad American Sniper - ok, la gente sarebbe andata a guardarlo anche se fosse stato girato e montato da un ragazzino daltonico, ma io ne ho fatto un fottuto film di guerra e di pace, e ci ho messo anche la retorica, ma solo quel pizzico che non stomaca e ti lascia il sapore dolce sul finale. Ed era la storia di un cecchino mitomane, Cristo, lasciate perdere i critici. Non sanno cos'è il mestiere, non se lo immaginano, non possono capire. Nessuno sa cosa vuol dire trovarsi sul set sotto pressione, a un'età in cui dovreste stare ai giardinetti, a stingere i denti e macinare un altro film da 60 milioni di dollari. Nessuno sa quanto sono bravo. Solo io posso capirlo. Gli altri al limite devono fidarsi. Di Clint Eastwood.
Sully forse non è un grande film, ma proprio per questo è un film straordinario. C'erano tanti modi di raccontare un'impresa epica, ma brevissima (cinque minuti tra il decollo di un jet di linea e l'ammaraggio più riuscito della storia dell'aviazione civile, 155 superstiti salvati nelle gelide acque del fiume Hudson, nessuna vittima). Hollywood conosce tantissime ricette per allungare il brodo e produrre film di successo, e Clint Eastwood le ha scartate tutte. Avrebbe potuto concentrarsi sulla biografia del pilota, darci dentro coi flashback; e invece a Eastwood dopotutto il passato di Sully non interessa un granché. Avrebbe potuto insistere sui passeggeri, raccontare le loro vite che si intrecciano casualmente sullo sfondo di una tragedia contemporanea evitata per un soffio - trovando nei nostri cuori più di una corda da suonare, in fondo siamo tutti passeggeri, siamo tutti potenziali vittime, potenziali eroi - invece no, neanche i passeggeri in fin dei conti sono così importanti per Clint. Avrebbe potuto insistere sul procedurale, offrirci dettagli ancora più specifici dell'inchiesta, le manovre vere o presunte della compagnia per pagare qualche migliaio di dollari in meno d'indennizzi - non ci avremmo capito quasi nulla, ma ci sarebbe piaciuto lo stesso, come in quei film di avvocati o broker finanziari. Ma non era quello il punto.
A Clint Eastwood interessavano solo quei due minuti: quelli in cui capitan Sully ha fatto la differenza (continua su +eventi!)
A Clint Eastwood interessavano solo quei due minuti: quelli in cui capitan Sully ha fatto la differenza. Ce li mostra una, due volte: e poi le simulazioni, quattro simulazioni, in tempo reale; e giusto quando stavamo pensando Grazie, Clint, basta anche così, ci infila a forza le cuffie e ci fa riascoltare la scatola nera. Non è neanche più esattamente cinema, non è narrazione, ma nemmeno documentario; alla quinta volta che ritorni nella stessa cabina, è qualcosa di più simile a un addestramento, o a una liturgia. Scordati il passato, non pensare alla famiglia, non preoccuparti dei processi che ti faranno - faranno bene a farteli, ma adesso non ci devi pensare: e anche al boato dei passeggeri lì dietro, non c'è tempo per soffrire con loro, devi salvarli. È tutto lì. È veramente tutto lì. E se andrà a finire bene, ti daranno dell'eroe o del pazzo incosciente, ma che ne sanno? Non ne sanno nulla. Tutti i critici veri o computer-simulati non possono capire cosa vuol dire trovarsi al comando in quel momento, e prendere la decisione che non è mai giusta, la decisione che è meno sbagliata delle altre. Ti odieranno, ti ameranno, ti daranno dell'eroe, ma nessuno potrà capirti. E tu stesso avrai dei dubbi, tu stesso saprai di non poterti fidare dei tuoi ricordi. La memoria fa scherzi assurdi, l'inconscio di notte cambia le carte in tavola.
Sully è la piccola storia straordinaria di un tizio che fa una manovra mai fatta, viene immediatamente acclamato come eroe, ma in cuor suo sospetta di aver sbagliato tutto, di aver perduto un aereo, la pensione, e (soprattutto) l'autostima. Sully è un film che si appoggia con la leggerezza di un jet sul grande tema dello stress post-traumatico: che tra mille modi di commuoverci sceglie di ricordarci quei momenti in cui ci svegliamo di soprassalto pensando a un incidente che stavamo per commettere, e che in un mondo parallelo è successo, e siamo morti tutti, tutti. È un film che prosegue con un paragone azzardatissimo: dopo aver salvato il suo equipaggio, Sully salverà sé stesso, con lo stesso stile: poche semplici manovre al momento giusto. Il discorso con cui impone alla commissione la sua versione dei fatti è efficace e stringato (un altro segno subliminale che l'età di Obama è finita, forse anche nei film di Spielberg i discorsi si asciugheranno). Eastwood aveva a disposizione 60 milioni di budget e Tom Hanks nell'ennesimo ruolo di Capitano d'America. Poteva usarli come li voleva: li spende per dirci che il successo, il boato del popolo che ti ama e ti abbraccia, non significa niente. Se sei un professionista, l'unica verità sta nella scatola nera. Se sei un professionista, il miglior critico di sé stesso sei tu. E Sully questo è: un professionista. Come le hostess che da un attimo all'altro cominciano a eseguire una procedura mai fatta prima, una di quelle che non funziona quasi mai e di solito dopo si muore di schianto. Come tutta la città di New York, tutti i suoi abitanti e impiegati portuali che se vedono un aereo planare non perdono neanche un istante a domandarsi cosa fare: c'è una cosa sola da fare, se sei un professionista. E poi sarai anche un eroe, ma l'impresa eroica è quel tipo di cosa che ti capita se sei un professionista.
Sully è al Cityplex di Alba; al Cinelandia di Borgo San Dalmazzo; al Vittoria di Bra; al Fiamma di Cuneo; al Multilanghe di Dogliani; ai Portici di Fossano; al Baretti di Mondovì; al Cinecittà di Savigliano.
Anche i migliori a volte hanno dei dubbi. Per esempio Clint Eastwood, come dire, la Storia del cinema. Secondo me ogni tanto se lo domanda: e se avessi sbagliato qualcosa? E se avessi fatto un errore? Quell'inquadratura era da dilettanti. Quel raccordo non riesco a perdonarmelo. Quante cazzate che ho fatto, e diciamolo, come attore valevo nulla. Ok, ho scoperto Michael Cimino, ma forse era meglio se lo avessi lasciato a girare pubblicità, per lui e per tutta l'industria. Magari sta uscendo da una macchina, Clint Eastwood, magari cammina su una passerella; tutt'intorno un cordone di sicurezza, sconosciute che vorrebbero abbracciarlo, c'è gente a cui Clint fa sesso a 80 anni, e intanto lui pensa: forse faccio pena.
L'unico modo per cambiare idea è riguardarsi uno dei suoi film. E commuoversi. No, Cristo, io non faccio pena, io sono la fottuta storia del cinema. Ho portato a casa film impossibili, ho dato un capo e una coda persino ad American Sniper - ok, la gente sarebbe andata a guardarlo anche se fosse stato girato e montato da un ragazzino daltonico, ma io ne ho fatto un fottuto film di guerra e di pace, e ci ho messo anche la retorica, ma solo quel pizzico che non stomaca e ti lascia il sapore dolce sul finale. Ed era la storia di un cecchino mitomane, Cristo, lasciate perdere i critici. Non sanno cos'è il mestiere, non se lo immaginano, non possono capire. Nessuno sa cosa vuol dire trovarsi sul set sotto pressione, a un'età in cui dovreste stare ai giardinetti, a stingere i denti e macinare un altro film da 60 milioni di dollari. Nessuno sa quanto sono bravo. Solo io posso capirlo. Gli altri al limite devono fidarsi. Di Clint Eastwood.
Sully forse non è un grande film, ma proprio per questo è un film straordinario. C'erano tanti modi di raccontare un'impresa epica, ma brevissima (cinque minuti tra il decollo di un jet di linea e l'ammaraggio più riuscito della storia dell'aviazione civile, 155 superstiti salvati nelle gelide acque del fiume Hudson, nessuna vittima). Hollywood conosce tantissime ricette per allungare il brodo e produrre film di successo, e Clint Eastwood le ha scartate tutte. Avrebbe potuto concentrarsi sulla biografia del pilota, darci dentro coi flashback; e invece a Eastwood dopotutto il passato di Sully non interessa un granché. Avrebbe potuto insistere sui passeggeri, raccontare le loro vite che si intrecciano casualmente sullo sfondo di una tragedia contemporanea evitata per un soffio - trovando nei nostri cuori più di una corda da suonare, in fondo siamo tutti passeggeri, siamo tutti potenziali vittime, potenziali eroi - invece no, neanche i passeggeri in fin dei conti sono così importanti per Clint. Avrebbe potuto insistere sul procedurale, offrirci dettagli ancora più specifici dell'inchiesta, le manovre vere o presunte della compagnia per pagare qualche migliaio di dollari in meno d'indennizzi - non ci avremmo capito quasi nulla, ma ci sarebbe piaciuto lo stesso, come in quei film di avvocati o broker finanziari. Ma non era quello il punto.
A Clint Eastwood interessavano solo quei due minuti: quelli in cui capitan Sully ha fatto la differenza (continua su +eventi!)
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Questo non è il film (ma nel film è uguale). |
A Clint Eastwood interessavano solo quei due minuti: quelli in cui capitan Sully ha fatto la differenza. Ce li mostra una, due volte: e poi le simulazioni, quattro simulazioni, in tempo reale; e giusto quando stavamo pensando Grazie, Clint, basta anche così, ci infila a forza le cuffie e ci fa riascoltare la scatola nera. Non è neanche più esattamente cinema, non è narrazione, ma nemmeno documentario; alla quinta volta che ritorni nella stessa cabina, è qualcosa di più simile a un addestramento, o a una liturgia. Scordati il passato, non pensare alla famiglia, non preoccuparti dei processi che ti faranno - faranno bene a farteli, ma adesso non ci devi pensare: e anche al boato dei passeggeri lì dietro, non c'è tempo per soffrire con loro, devi salvarli. È tutto lì. È veramente tutto lì. E se andrà a finire bene, ti daranno dell'eroe o del pazzo incosciente, ma che ne sanno? Non ne sanno nulla. Tutti i critici veri o computer-simulati non possono capire cosa vuol dire trovarsi al comando in quel momento, e prendere la decisione che non è mai giusta, la decisione che è meno sbagliata delle altre. Ti odieranno, ti ameranno, ti daranno dell'eroe, ma nessuno potrà capirti. E tu stesso avrai dei dubbi, tu stesso saprai di non poterti fidare dei tuoi ricordi. La memoria fa scherzi assurdi, l'inconscio di notte cambia le carte in tavola.
Sully è la piccola storia straordinaria di un tizio che fa una manovra mai fatta, viene immediatamente acclamato come eroe, ma in cuor suo sospetta di aver sbagliato tutto, di aver perduto un aereo, la pensione, e (soprattutto) l'autostima. Sully è un film che si appoggia con la leggerezza di un jet sul grande tema dello stress post-traumatico: che tra mille modi di commuoverci sceglie di ricordarci quei momenti in cui ci svegliamo di soprassalto pensando a un incidente che stavamo per commettere, e che in un mondo parallelo è successo, e siamo morti tutti, tutti. È un film che prosegue con un paragone azzardatissimo: dopo aver salvato il suo equipaggio, Sully salverà sé stesso, con lo stesso stile: poche semplici manovre al momento giusto. Il discorso con cui impone alla commissione la sua versione dei fatti è efficace e stringato (un altro segno subliminale che l'età di Obama è finita, forse anche nei film di Spielberg i discorsi si asciugheranno). Eastwood aveva a disposizione 60 milioni di budget e Tom Hanks nell'ennesimo ruolo di Capitano d'America. Poteva usarli come li voleva: li spende per dirci che il successo, il boato del popolo che ti ama e ti abbraccia, non significa niente. Se sei un professionista, l'unica verità sta nella scatola nera. Se sei un professionista, il miglior critico di sé stesso sei tu. E Sully questo è: un professionista. Come le hostess che da un attimo all'altro cominciano a eseguire una procedura mai fatta prima, una di quelle che non funziona quasi mai e di solito dopo si muore di schianto. Come tutta la città di New York, tutti i suoi abitanti e impiegati portuali che se vedono un aereo planare non perdono neanche un istante a domandarsi cosa fare: c'è una cosa sola da fare, se sei un professionista. E poi sarai anche un eroe, ma l'impresa eroica è quel tipo di cosa che ti capita se sei un professionista.
Sully è al Cityplex di Alba; al Cinelandia di Borgo San Dalmazzo; al Vittoria di Bra; al Fiamma di Cuneo; al Multilanghe di Dogliani; ai Portici di Fossano; al Baretti di Mondovì; al Cinecittà di Savigliano.
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Tra due dinosauri, scegli quello in via d'estinzione: vota NO.
03-12-2016, 23:20generazione di fenomeni, referendum costituzionale 2016, RenziPermalink21) Poi c'è chi voterà Sì ben sapendo che si tratta di una riforma brutta, scritta male, che probabilmente complicherà le cose, rendendo il clima politico ancora meno respirabile, ma l'alternativa è peggio, perché l'alternativa sarebbe... D'Alema. O Berlusconi. Insomma i vecchi.
Che è un po' la storia che il Sì ha cercato in tutti i modi di raccontare nelle ultime settimane, quelle in cui Renzi, potendo scegliersi un avversario da talk show, ha optato per Ciriaco De Mita. Contro di noi c'è l'accozzaglia, contro di noi i pensionati, contro di noi i dinosauri. Restando nel campo della buona fede, prendiamo Francesco Costa:
Questo argomento immagino abbia sicura presa coi trentenni, specie se cognitari: gente che tutti i giorni si misura nel luogo di lavoro con capi incompetenti che hanno il doppio della loro età (ehm no, non è il caso di Costa, ma per capirci). Cosa potrei obiettare? Secondo me non è vero: non vedremo D'Alema, Monti o Bersani in primo piano alle prossime elezioni. Non funzionerebbero - non credo stiano funzionando nemmeno adesso, non sono loro a spingere il No: al massimo sono un bersaglio comodo per la propaganda del Sì. Berlusconi è un discorso a parte, per gli interessi dell'azienda che rappresenta (e che gli sopravviverà). Ma alla fine non è tanto questo il problema.
Fingiamo che davvero ci sia una lotta generazionale, dinosauri contro rottamatori; fingiamo che tutto si decida conquistando i ventenni e i trentenni, ebbene: cari ventenni, cari trentenni, pensateci bene. Tra il dinosauro in via d'estinzione e quello che ha la vostra stessa età, con chi scegliete di combattere?
Sul serio: da una parte gente che ormai ha dato tutto quello che doveva dare. Bersani non dirigerà più il Pd, Monti non è più un nome spendibile per Palazzo Chigi. Berlusconi al limite può fare ancora il kingmaker, con esiti per ora mediocri. Ma Renzi, se lo votate, non ve lo levate più dal groppone. Fin qui l'anagrafe giocava dalla vostra parte, ma (cari trentenni) non sarà sempre così.
Ok, siete abituati a misurarvi nel luogo di lavoro, tutti i giorni, con colleghi e superiori incompetenti più vecchi di voi. Ma fateci caso: cominciano a farvi posto. Cominciano a chiedervi come funziona la tal procedura, perché ormai è innegabile che siate più svelti. Cominciano ad andarsene in pensione. E tra un po' se ne saranno andati tutti. Ma siate sinceri: il clima sta migliorando? Guardatevi attorno: non li vedete i trenta-quarantenni arroganti, quelli convinti di aver capito le cose meglio di voi, quelli che combinano casini pasticciando con le procedure e poi cercano di addossare la colpa a qualcun altro - magari a voi? Quelli che si credono d'aver capito qualcosa, quelli che pensano di poterla spiegare a tutti, quelli in pensione non ci andranno per un pezzo? Capace che vi ci mandino voi. Quelli, se non vi date da fare, ve li tenete finché campate.
Lo so che è uno choc. Fin qui qualsiasi persona odiosa, qualsiasi coglione, per quanto insopportabile, aveva pure una data di scadenza. C'era qualcosa di irresistibilmente comico nella deriva senile di Berlusconi: da una parte le faceva enormi, dall'altra si capiva che non sarebbe durato. Ma avete dato un'occhiata a Renzi, alla Boschi? Quelli non scadranno ancora per tanto, tanto tempo. E vi dicono che dovete scegliere: o loro o quelli vecchi. Io non avrei dubbi, davvero. Di motivi per votare No ne ho tanti altri, e un po' più seri: ma se è una questione generazionale, si risolve alla svelta. Tra due prede da inseguire, sempre scegliere quella stanca e ferita. Tra due nemici, sempre guardarsi dal più giovane e in forze. Lasciate che i morti seppelliscano i morti e votate No.
Gli altri motivi:
1. Non si riscrive la carta costituzionale col martello pneumatico.
2. Non si usa una brutta legge elettorale come moneta di scambio.
3. Non mi piacciono le riforme semipresidenziali.
4. Meglio un Renzi sconfitto oggi che un Renzi sconfitto domani
5. Mandare 21 sindaci al senato è una stronzata pazzesca
6. Mandare sindaci al senato è davvero una stronzata pazzesca.
7. Nel nuovo Senato alcune Regioni saranno super-rappresentate, ai danni di altre
8. Si poteva scrivere meglio, ma non hanno voluto.
9. Di leggi ne scriviamo già troppe: non abbiamo bisogno di scriverne di più e più in fretta, ma di farle rispettare
10. Il numero di firme necessarie per richiedere un referendum abrogativo va aumentato e basta
11. Non è vero che sarà più facile approvare leggi di iniziativa popolare, non fate i furbi.
12. Dio ci scampi dai referendum propositivi.
13. Il Presidente della Repubblica non sarà necessariamente una figura sopra le parti.
14. Gli abitanti delle città metropolitane non avranno il diritto di eleggere i loro rappresentanti? Ma siete scemi?
15. Chi abolisce le Province non capisce il territorio.
16. Se passa la riforma, per un po' ce la dovremo tenere; se non passa, possiamo subito proporne una migliore
17. Perché non vorresti mai darmi ragione.
18. Perché "NO" almeno sai come si scrive
19. Se vuoi risparmiare taglia le poltrone; costringere sindaci e consiglieri a sedere su più poltrone contemporaneamente è una cattiva gestione delle risorse.
20. Perché anche se vincesse il Sì, la riforma non sarà stata approvata dalla maggioranza dei cittadini.
21. Perché tra due generazioni di dirigenti poco capaci, la più pericolosa è quella giovane e ancora in sella.
22. Perché la propaganda renziana è scesa a livelli intollerabili.
Che è un po' la storia che il Sì ha cercato in tutti i modi di raccontare nelle ultime settimane, quelle in cui Renzi, potendo scegliersi un avversario da talk show, ha optato per Ciriaco De Mita. Contro di noi c'è l'accozzaglia, contro di noi i pensionati, contro di noi i dinosauri. Restando nel campo della buona fede, prendiamo Francesco Costa:
Cos’altro succederebbe con una vittoria del No? Un’intera anziana e vastissima generazione politica si guadagnerebbe il diritto a un ultimo giro di giostra: da Brunetta a D’Alema, da Bersani a Berlusconi, da Maroni a Monti, da Gasparri a Fassina, persone che hanno fatto in modi diversi la storia della Seconda Repubblica e ora sono sul punto di uscirne, come fisiologicamente accade in ogni democrazia, conquisterebbero nuova centralità e vitalità nei loro partiti e quindi nel paese. Lo dico a prescindere dal giudizio nei loro confronti: è un fatto che alle successive elezioni bisognerebbe ancora, di nuovo, fare i conti con loro.
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22) Il momento in cui i renziani hanno sorpassato a destra la Casaleggio, occupando pagine di facebook con meme beceri creati per l'occasione (vedi Leonardo Bianchi su Vice). Che a pensarci è già un altro ottimo motivo per votare No. |
Fingiamo che davvero ci sia una lotta generazionale, dinosauri contro rottamatori; fingiamo che tutto si decida conquistando i ventenni e i trentenni, ebbene: cari ventenni, cari trentenni, pensateci bene. Tra il dinosauro in via d'estinzione e quello che ha la vostra stessa età, con chi scegliete di combattere?
Sul serio: da una parte gente che ormai ha dato tutto quello che doveva dare. Bersani non dirigerà più il Pd, Monti non è più un nome spendibile per Palazzo Chigi. Berlusconi al limite può fare ancora il kingmaker, con esiti per ora mediocri. Ma Renzi, se lo votate, non ve lo levate più dal groppone. Fin qui l'anagrafe giocava dalla vostra parte, ma (cari trentenni) non sarà sempre così.
Ok, siete abituati a misurarvi nel luogo di lavoro, tutti i giorni, con colleghi e superiori incompetenti più vecchi di voi. Ma fateci caso: cominciano a farvi posto. Cominciano a chiedervi come funziona la tal procedura, perché ormai è innegabile che siate più svelti. Cominciano ad andarsene in pensione. E tra un po' se ne saranno andati tutti. Ma siate sinceri: il clima sta migliorando? Guardatevi attorno: non li vedete i trenta-quarantenni arroganti, quelli convinti di aver capito le cose meglio di voi, quelli che combinano casini pasticciando con le procedure e poi cercano di addossare la colpa a qualcun altro - magari a voi? Quelli che si credono d'aver capito qualcosa, quelli che pensano di poterla spiegare a tutti, quelli in pensione non ci andranno per un pezzo? Capace che vi ci mandino voi. Quelli, se non vi date da fare, ve li tenete finché campate.
Lo so che è uno choc. Fin qui qualsiasi persona odiosa, qualsiasi coglione, per quanto insopportabile, aveva pure una data di scadenza. C'era qualcosa di irresistibilmente comico nella deriva senile di Berlusconi: da una parte le faceva enormi, dall'altra si capiva che non sarebbe durato. Ma avete dato un'occhiata a Renzi, alla Boschi? Quelli non scadranno ancora per tanto, tanto tempo. E vi dicono che dovete scegliere: o loro o quelli vecchi. Io non avrei dubbi, davvero. Di motivi per votare No ne ho tanti altri, e un po' più seri: ma se è una questione generazionale, si risolve alla svelta. Tra due prede da inseguire, sempre scegliere quella stanca e ferita. Tra due nemici, sempre guardarsi dal più giovane e in forze. Lasciate che i morti seppelliscano i morti e votate No.
Gli altri motivi:
1. Non si riscrive la carta costituzionale col martello pneumatico.
2. Non si usa una brutta legge elettorale come moneta di scambio.
3. Non mi piacciono le riforme semipresidenziali.
4. Meglio un Renzi sconfitto oggi che un Renzi sconfitto domani
5. Mandare 21 sindaci al senato è una stronzata pazzesca
6. Mandare sindaci al senato è davvero una stronzata pazzesca.
7. Nel nuovo Senato alcune Regioni saranno super-rappresentate, ai danni di altre
8. Si poteva scrivere meglio, ma non hanno voluto.
9. Di leggi ne scriviamo già troppe: non abbiamo bisogno di scriverne di più e più in fretta, ma di farle rispettare
10. Il numero di firme necessarie per richiedere un referendum abrogativo va aumentato e basta
11. Non è vero che sarà più facile approvare leggi di iniziativa popolare, non fate i furbi.
12. Dio ci scampi dai referendum propositivi.
13. Il Presidente della Repubblica non sarà necessariamente una figura sopra le parti.
14. Gli abitanti delle città metropolitane non avranno il diritto di eleggere i loro rappresentanti? Ma siete scemi?
15. Chi abolisce le Province non capisce il territorio.
16. Se passa la riforma, per un po' ce la dovremo tenere; se non passa, possiamo subito proporne una migliore
17. Perché non vorresti mai darmi ragione.
18. Perché "NO" almeno sai come si scrive
19. Se vuoi risparmiare taglia le poltrone; costringere sindaci e consiglieri a sedere su più poltrone contemporaneamente è una cattiva gestione delle risorse.
20. Perché anche se vincesse il Sì, la riforma non sarà stata approvata dalla maggioranza dei cittadini.
21. Perché tra due generazioni di dirigenti poco capaci, la più pericolosa è quella giovane e ancora in sella.
22. Perché la propaganda renziana è scesa a livelli intollerabili.
Comments (12)
Un quinto degli italiani ha il diritto di cambiare la Costituzione di tutti?
03-12-2016, 14:18referendum, referendum costituzionale 2016, RenziPermalink
20) Ok, domani si vota. So che non vedete l'ora. E mettiamo che il Sì vinca, ma di misura. Sarà tutto regolare?
No, non sto parlando di brogli. C'è un problema un po' più grosso, ovvero: quanto sarà credibile una vittoria del Sì, se al referendum non votassero in tanti?
Immaginatevi la situazione. Mettiamo che vada a votare meno del 50% degli aventi diritto - una stima anche ottimista, considerando gli ultimi referendum: diciamo venti milioni di italiani. Mettiamo che il Sì prevalga di poco, come suggeriscono alcuni sondaggi (che sbagliano sempre). Diciamo 11 milioni, in linea con le europee del 2014 (due anni dopo Renzi non sembra altrettanto popolare, ma ultimamente s'è speso molto, anche in tv - anche se forse la tv non serve, e tuttavia). Cosa succederà?
Tecnicamente sarà tutto regolare: undici milioni di italiani avranno ratificato la riforma Renzi-Boschi. Fine della storia.
Politicamente, sarà lo strappo definitivo. Milioni di italiani non accetteranno il risultato. Vuoi per tigna, vuoi per livore antipolitico. Ma anche per una questione di buonsenso.
Vi ricordo che la consultazione referendaria è necessaria perché la riforma, in Parlamento, non è passata con la maggioranza qualificata richiesta (2/3 dei votanti). Aggiungiamo che l'attuale parlamento è stato eletto con una legge elettorale incostituzionale. Questo non significa che sia illegittimo: nella stessa sentenza la Corte lo ha escluso, in virtù del "principio fondamentale della continuità dello Stato": nell'attesa di una legge elettorale finalmente costituzionale (attesa che si sta rivelando un po' faticosa), un parlamento deve pur esistere, e quindi ci teniamo quello eletto incostituzionalmente. Forse non era il parlamento più adatto per modificare così profondamente la Costituzione, ma Napolitano ci teneva tanto, Renzi pensava di potercela fare, e così eccoci qui.
Ricordiamo en passant che lo stesso Renzi governa con una maggioranza che al momento delle elezioni non esisteva, dato che non esistevano i partiti che la compongono; quello di Alfano, quello di Verdini (che adesso non so più come si chiamino) e il PD di Renzi - quest'ultimo, sì, esisteva, ed aveva pure vinto il super-premio di maggioranza alla Camera, ma presenandosi alle elezioni del '13 con un programma diverso, e un altro leader (Bersani): Renzi era stato sconfitto alle primarie e non s'era nemmeno candidato alle politiche.
Ricapitolando: c'è un parlamento eletto con una legge incostituzionale, che può legiferare soltanto perché finché non scrive una legge costituzionale non ci può essere un altro parlamento più legittimo. C'è un governo che è espressione di una maggioranza composta da partiti che alle elezioni non si sono nemmeno presentati. Il suo leader può contare su una maggioranza, alla Camera, grazie a un premio elettorale (incostituzionale) conquistato dal suo predecessore, che non ne condivideva le idee e i progetti di riforma costituzionale. Questo nuovo giovane leader, invece di limitarsi a far riscrivere una legge il più costituzionale possibile e rassegnare le dimissioni, auspicando lo scioglimento del parlamento... decide di presentare allo stesso parlamento la riforma costituzionale più radicale dal 1946. Servono però i due terzi dei parlamentari: ce li ha? No. Malgrado il super-premio (incostituzionale), malgrado le alleanze (strette dopo le elezioni con partiti che non si erano nemmeno presentati), Renzi quei due terzi non ce li ha. E allora chiede di indire un referendum propositivo.
Il referendum lava più bianco: non importa quanto sia raffazzonata e trasformista la compagine che sostiene Renzi: non importa che provenga da un parlamento eletto incostituzionalmente, perché a questo punto la palla passa ai cittadini. Se più della maggioranza degli elettori troverà buona la riforma Renzi-Boschi, il fatto che sia stata scritta da gente arrivata al governo un po' per caso non avrà più importanza. Più che la Renzi-Boschi, sarà la riforma del popolo italiano. Tutto bene? Insomma.
C'è un piccolo intoppo. Il referendum propositivo non ha il quorum. 11 milioni di italiani potrebbero reclamare il diritto di cambiare la Costituzione per gli altri 50 (per altri 40 di aventi diritto). Vi sembra giusto? A milioni di italiani non sembrerà giusto. Non lo accetteranno. Potrete sempre inveire contro di loro sui social: trattarli da ignoranti che non capiscono la democrazia.
Dove la democrazia è quella cosa che secondo voi funzionerebbe così: un parlamento eletto con una legge incostituzionale, invece di scriverne un'altra costituzionale e sciogliersi, vota la fiducia al governo diretto da un tizio che non ha vinto le elezioni - era opposizione interna nel partito che le ha pareggiate, non si è neanche candidato - e approva (ma senza maggioranza qualificata) una riforma costituzionale voluta da costui: la stessa riforma viene poi confermata mediante referendum da... un cittadino su quattro. Ma siete proprio sicuri che la democrazia sia ancora questa cosa qui? Siete sicuri che i grillini, oltre a essere beceri, ignoranti, livorosi, non abbiano semplicemente ragione?
Nel dubbio, fossi in voi, voterei No. Magari la prossima volta si fa una riforma più condivisa.
(Gli altri motivi:
1. Non si riscrive la carta costituzionale col martello pneumatico.
2. Non si usa una brutta legge elettorale come moneta di scambio.
3. Non mi piacciono le riforme semipresidenziali.
4. Meglio un Renzi sconfitto oggi che un Renzi sconfitto domani
5. Mandare 21 sindaci al senato è una stronzata pazzesca
6. Mandare sindaci al senato è davvero una stronzata pazzesca.
7. Nel nuovo Senato alcune Regioni saranno super-rappresentate, ai danni di altre
8. Si poteva scrivere meglio, ma non hanno voluto.
9. Di leggi ne scriviamo già troppe: non abbiamo bisogno di scriverne di più e più in fretta, ma di farle rispettare
10. Il numero di firme necessarie per richiedere un referendum abrogativo va aumentato e basta
11. Non è vero che sarà più facile approvare leggi di iniziativa popolare, non fate i furbi.
12. Dio ci scampi dai referendum propositivi.
13. Il Presidente della Repubblica non sarà necessariamente una figura sopra le parti.
14. Gli abitanti delle città metropolitane non avranno il diritto di eleggere i loro rappresentanti? Ma siete scemi?
15. Chi abolisce le Province non capisce il territorio.
16. Se passa la riforma, per un po' ce la dovremo tenere; se non passa, possiamo subito proporne una migliore
17. Perché non vorresti mai darmi ragione.
18. Perché "NO" almeno sai come si scrive
19. Se vuoi risparmiare taglia le poltrone; costringere sindaci e consiglieri a sedere su più poltrone contemporaneamente è una cattiva gestione delle risorse.
20. Perché anche se vincesse il Sì, la riforma non sarà stata approvata dalla maggioranza dei cittadini).
No, non sto parlando di brogli. C'è un problema un po' più grosso, ovvero: quanto sarà credibile una vittoria del Sì, se al referendum non votassero in tanti?
Immaginatevi la situazione. Mettiamo che vada a votare meno del 50% degli aventi diritto - una stima anche ottimista, considerando gli ultimi referendum: diciamo venti milioni di italiani. Mettiamo che il Sì prevalga di poco, come suggeriscono alcuni sondaggi (che sbagliano sempre). Diciamo 11 milioni, in linea con le europee del 2014 (due anni dopo Renzi non sembra altrettanto popolare, ma ultimamente s'è speso molto, anche in tv - anche se forse la tv non serve, e tuttavia). Cosa succederà?
Tecnicamente sarà tutto regolare: undici milioni di italiani avranno ratificato la riforma Renzi-Boschi. Fine della storia.
Politicamente, sarà lo strappo definitivo. Milioni di italiani non accetteranno il risultato. Vuoi per tigna, vuoi per livore antipolitico. Ma anche per una questione di buonsenso.
Vi ricordo che la consultazione referendaria è necessaria perché la riforma, in Parlamento, non è passata con la maggioranza qualificata richiesta (2/3 dei votanti). Aggiungiamo che l'attuale parlamento è stato eletto con una legge elettorale incostituzionale. Questo non significa che sia illegittimo: nella stessa sentenza la Corte lo ha escluso, in virtù del "principio fondamentale della continuità dello Stato": nell'attesa di una legge elettorale finalmente costituzionale (attesa che si sta rivelando un po' faticosa), un parlamento deve pur esistere, e quindi ci teniamo quello eletto incostituzionalmente. Forse non era il parlamento più adatto per modificare così profondamente la Costituzione, ma Napolitano ci teneva tanto, Renzi pensava di potercela fare, e così eccoci qui.
Ricordiamo en passant che lo stesso Renzi governa con una maggioranza che al momento delle elezioni non esisteva, dato che non esistevano i partiti che la compongono; quello di Alfano, quello di Verdini (che adesso non so più come si chiamino) e il PD di Renzi - quest'ultimo, sì, esisteva, ed aveva pure vinto il super-premio di maggioranza alla Camera, ma presenandosi alle elezioni del '13 con un programma diverso, e un altro leader (Bersani): Renzi era stato sconfitto alle primarie e non s'era nemmeno candidato alle politiche.
Ricapitolando: c'è un parlamento eletto con una legge incostituzionale, che può legiferare soltanto perché finché non scrive una legge costituzionale non ci può essere un altro parlamento più legittimo. C'è un governo che è espressione di una maggioranza composta da partiti che alle elezioni non si sono nemmeno presentati. Il suo leader può contare su una maggioranza, alla Camera, grazie a un premio elettorale (incostituzionale) conquistato dal suo predecessore, che non ne condivideva le idee e i progetti di riforma costituzionale. Questo nuovo giovane leader, invece di limitarsi a far riscrivere una legge il più costituzionale possibile e rassegnare le dimissioni, auspicando lo scioglimento del parlamento... decide di presentare allo stesso parlamento la riforma costituzionale più radicale dal 1946. Servono però i due terzi dei parlamentari: ce li ha? No. Malgrado il super-premio (incostituzionale), malgrado le alleanze (strette dopo le elezioni con partiti che non si erano nemmeno presentati), Renzi quei due terzi non ce li ha. E allora chiede di indire un referendum propositivo.
Il referendum lava più bianco: non importa quanto sia raffazzonata e trasformista la compagine che sostiene Renzi: non importa che provenga da un parlamento eletto incostituzionalmente, perché a questo punto la palla passa ai cittadini. Se più della maggioranza degli elettori troverà buona la riforma Renzi-Boschi, il fatto che sia stata scritta da gente arrivata al governo un po' per caso non avrà più importanza. Più che la Renzi-Boschi, sarà la riforma del popolo italiano. Tutto bene? Insomma.
C'è un piccolo intoppo. Il referendum propositivo non ha il quorum. 11 milioni di italiani potrebbero reclamare il diritto di cambiare la Costituzione per gli altri 50 (per altri 40 di aventi diritto). Vi sembra giusto? A milioni di italiani non sembrerà giusto. Non lo accetteranno. Potrete sempre inveire contro di loro sui social: trattarli da ignoranti che non capiscono la democrazia.
Dove la democrazia è quella cosa che secondo voi funzionerebbe così: un parlamento eletto con una legge incostituzionale, invece di scriverne un'altra costituzionale e sciogliersi, vota la fiducia al governo diretto da un tizio che non ha vinto le elezioni - era opposizione interna nel partito che le ha pareggiate, non si è neanche candidato - e approva (ma senza maggioranza qualificata) una riforma costituzionale voluta da costui: la stessa riforma viene poi confermata mediante referendum da... un cittadino su quattro. Ma siete proprio sicuri che la democrazia sia ancora questa cosa qui? Siete sicuri che i grillini, oltre a essere beceri, ignoranti, livorosi, non abbiano semplicemente ragione?
Nel dubbio, fossi in voi, voterei No. Magari la prossima volta si fa una riforma più condivisa.
(Gli altri motivi:
1. Non si riscrive la carta costituzionale col martello pneumatico.
2. Non si usa una brutta legge elettorale come moneta di scambio.
3. Non mi piacciono le riforme semipresidenziali.
4. Meglio un Renzi sconfitto oggi che un Renzi sconfitto domani
5. Mandare 21 sindaci al senato è una stronzata pazzesca
6. Mandare sindaci al senato è davvero una stronzata pazzesca.
7. Nel nuovo Senato alcune Regioni saranno super-rappresentate, ai danni di altre
8. Si poteva scrivere meglio, ma non hanno voluto.
9. Di leggi ne scriviamo già troppe: non abbiamo bisogno di scriverne di più e più in fretta, ma di farle rispettare
10. Il numero di firme necessarie per richiedere un referendum abrogativo va aumentato e basta
11. Non è vero che sarà più facile approvare leggi di iniziativa popolare, non fate i furbi.
12. Dio ci scampi dai referendum propositivi.
13. Il Presidente della Repubblica non sarà necessariamente una figura sopra le parti.
14. Gli abitanti delle città metropolitane non avranno il diritto di eleggere i loro rappresentanti? Ma siete scemi?
15. Chi abolisce le Province non capisce il territorio.
16. Se passa la riforma, per un po' ce la dovremo tenere; se non passa, possiamo subito proporne una migliore
17. Perché non vorresti mai darmi ragione.
18. Perché "NO" almeno sai come si scrive
19. Se vuoi risparmiare taglia le poltrone; costringere sindaci e consiglieri a sedere su più poltrone contemporaneamente è una cattiva gestione delle risorse.
20. Perché anche se vincesse il Sì, la riforma non sarà stata approvata dalla maggioranza dei cittadini).
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