66. Dalla pupilla viziosa delle nuvole

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[Questa è la Gara delle canzoni di Franco Battiato, oggi con il confronto più equilibrato di tutti i trentaduesimi, e un brano fuori concorso]. 

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1984: Chanson egocentrique (Battiato/Messina/Tramonti, #32).

Chanson egocentrique alla fine è una delle poche canzoni battiatesche della prima metà degli anni Ottanta che abbiano un mood 'Europa, prima metà anni Ottanta', uno dei casi in cui Battiato potrebbe essersi veramente detto: cosa ascolta la gente in radio oggi? C'è una progressione tipica di quegli anni (ma è anche una riedizione di Areknames, è da lì che arriva quel senso di compimento autoipnotico quando alla fine del giro si ritorna su re maggiore). C'è anche una specie di rap in inglese/tedesco, molto trasognato, e credo che saremmo sulla pista sbagliata se pensassimo che si tratti di un addobbo finale: secondo me la canzone è cominciata così, da una serie di parole straniere compitate a caso. Non sarebbe la prima né l'ultima.  

(Intervallo autoreferenziale: un paio d'anni dopo cominciai a farmi insegnare gli accordi di chitarra, appena ne seppi tre cominciai a improvvisare canzoni in un inglese immaginario di cui molto mi vergognavo, il che non m'avrebbe impedito di continuare a salmodiare questi prisencolinensinainciusol privati fino a vent'anni suonati, che se penso ai miei coinquilini tuttora meco mi vergogno. Poi smisi perché ormai sapevo troppo inglese per non sentirmi ridicolo, però ecco, smisi anche progressivamente di comporre canzoni. Stacco).

Qualche mese fa mi sono messo a guardare 33 giri Italian Masters e ho scoperto che i più grandi cantautori italiani, anche insospettabili, facevano la stessa cosa: che insomma dai Settanta in poi l'inglese diventa la lingua mentale della musica (quella che nel Settecento era l'italiano, e bisogna immaginare i compositori tedeschi improvvisare versi con sillabe italiane a caso stile Bohemian Rapsody). Questo accade anche se nessuno l'inglese lo sa, anzi accade proprio perché nessuno ancora lo sa, è qualcosa di analogo alla fase della lallazione infantile (il momento in cui il bambino comincia ad articolare sillabe a caso senza necessariamente veicolare significati, soltanto per sperimentare la produzione di suoni).

Questo inglese immaginario è un idioletto privato che consente ai compositori di mettere insieme note e accordi, dopodiché, quando la musica più o meno è pronta, anche il testo comincia a prendere forma. Il passaggio dall'inglese immaginario all'italiano è molto brusco, perché le due lingue hanno veramente poco in comune dal punto di vista prosodico. A volte c'è una fase intermedia in cui il cantautore passa dal suo inglese immaginario a un inglese 'vero', lo scrivo tra apici perché non fidandosi (giustamente) della propria competenza linguistica, il cantautore non mette insieme le parole, ma incastra frasi inglesi che conosce già, dall'esiguo campionario di frasi che conosce: la maggior parte sono versi di altre canzoni (in Chanson Battiato riprende addirittura Prehistoric Sound degli Osage Tribe). Il citazionismo insomma non è sempre necessariamente una strizzata d'occhio all'ascoltatore medio-colto: a volte è l'unica soluzione per trovare qualcosa che suoni bene sulla melodia già composta. È una delicata fase di cristallizzazione in cui se ti capita di ripetere troppe volte una qualsiasi scemenza (che ne so, another race of vibration), non te ne liberi più, ormai fa parte della canzone, toglierla sarebbe come togliere una nota o un accordo. Il risultato è una macedonia che a volte trattiene un contenuto lirico, o perlomeno il cantautore ne è convinto e se è bravo riesce a convincere anche l'ascoltatore, purché non conosca troppo l'inglese 'vero'. Non ha senso e allo stesso tempo capiamo tutti cosa ci vuole dire, tranne ovviamente gli anglofoni che devono rimanerci come... voi come ci rimanete davanti a Bohemian Rhapsody? A me confesso dà un certo fastidio, non posso farci niente. 


1996: Strani giorni (Battiato/Sgalambro, #33).

Nulla si crea, nulla si distrugge, e forse dopo una certa età non si inventa neanche nulla di particolarmente nuovo. Quando mette assieme Strani giorni, FB sta semplicemente riscoprendo un procedimento di montaggio che aveva già usato in vari momenti della sua carriera – persino negli anni Sessanta ogni tanto gli capitava di 'montare' una canzone con pezzi di altre canzoni, penso a Occhi d'or – poi ovviamente c'è la fase collage, Ethika fon ethica, ma altri collage arrivano nel decennio successivo, ad esempio Temporary Road. Dunque perché questo procedimento, che fino a quel momento mi lasciava divertito e in certi casi persino ammirato, proprio a partire da Strani giorni mi risulta frastornante? È responsabilità di FB o è colpa mia? Può darsi che nel bel mezzo degli anni Novanta quello che Battiato aveva iniziato pionieristicamente a congegnare vent'anni prima fosse diventato un procedimento fin troppo banale: qualcosa che tra l'altro le tecnologie ormai consentivano di farsi in casa (e Battiato è stato il primo ad approfittarne: la sua musica dai Novanta in poi è particolarmente 'fatta in casa', anche se non sembra). Questo m'induce a considerazioni sulla futilità dell'arte contemporanea, ho appena letto di un tizio che ha denunciato Cattelan (l'artista) perché ha osato attaccare al muro una Banana col nastro adesivo, pare che lui l'abbia fatto qualche anno prima e quindi, a parte la questione della proprietà intellettuale (c'è gente che reclama il possesso dell'idea di attaccare frutta alla parete di una mostra d'arte) implica che l'opera di Cattelan sia molto meno interessante – e in effetti anche una copia perfetta della Gioconda dipinta nel 2020 non è meno interessante della Gioconda originale? Boh, viviamo in strani giorni. 


Fuori concorso (canzoni che non hanno partecipato alla gara per questo o quest'altro motivo).

1971: Prehistoric Sound (Conz / De Joy)

Prehistoric Sound è la versione inglese di Un falco del cielo, primo singolo degli Osage Tribe, che uscì con il lato A in italiano e il B, appunto, in inglese, con un testo molto diverso: niente più nativi americani, ma uomini preistorici intorno al fuoco "all'età dei dinosauri", questa cosa forse negli anni Settanta si poteva dire impunemente. Ma in linea di massima la versione inglese aveva questo vantaggio, ché non si capivano le parole e quindi sembrava più interessante. Questo singolo fu la prima collaborazione tra Battiato, Pino Massara e Gianni Sassi (la copertina del 45 giri era una bambola con la bocca insanguinata!), ma non è affatto chiaro quale sia stato il grado di coinvolgimento di FB: se è solo passato per dare una mano, anzi una voce a una band genovese che aveva già un suo stile e un suo suono (un suono che si metteva alle spalle il prog e viaggiava verso orizzonti più tribali, qualcuno avrà senz'altro fatto il nome di Adam and the Ants), oppure se per qualche tempo ha veramente pensato di essere il cantante del gruppo e magari ha persino collaborato alla canzone ("Ed De Joy" è uno pseudonimo di casa Bla Bla, lo usava Massara ma poteva adoperarlo anche Battiato). Il fatto che nel 1984 abbia ripreso una strofa di Prehistoric per lo scat in inglese in Chanson Egocentrique potrebbe far pensare che lo considerasse tutto sommato materiale suo – senonché, FB ha sempre usato anche il materiale degli altri con molta disinvoltura. 

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65. Una signora vende corpi astrali

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[Questa è la Gara delle canzoni di Franco Battiato; per la precisione è il primo trentaduesimo di finale della Gara delle canzoni di Franco Battiato, all'insegna dell'ambiguità: è giusto conciarsi da bonzi per entrare a corte degli imperatori? Ci stanno bene i budda sopra i comodini?]. 

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1979: Magic Shop (Battiato/Pio, #64)

Da un punto di vista armonico, Magic Shop potrebbe essere la canzone più semplice mai scritta da Battiato – tre accordi in maggiore, La Mi Re, sempre gli stessi – gli accordi di Baba O'Riley, di Sweet Jane, di Changing of the Guards; gli accordi su cui Vasco Rossi nel 1981 costruirà il suo impero. La progressione più epica del rock anni '70, nelle mani di Battiato e dell'incredibile gruppo convocato negli studi Radius, diventa un languido lamento: al posto del ritornello, Battiato vocalizza oscillando a volte di un tono a volte di un semitono, doppiato dalla chitarra di Radius: tanto basta per aggiungere quel tocco di querulità medio-orientale. Ma è il terzetto Radius-Farmer-Esposito a riuscire nell'impresa di non annoiare suonando più o meno la stessa cosa per più di tre minuti – un problema che in quei tardi anni '70 ancora Battiato non aveva cominciato a porsi. 


1981: Centro di gravità permanente (Battiato/Pio, #1)

È prassi, presso i commentatori di Battiato, ricordare che il gesuita Matteo Ricci (利玛窦) si vestì effettivamente come un bonzo nel tentativo di entrare a corte dell'imperatore Wan Li (万历). Le cose sono in realtà assai più complesse – tanto per cominciare, cos'è un bonzo? È un termine abbastanza vago, che spesso traduciamo come 'monaco' e si riferisce a figure di eremiti o predicatori buddisti. Ricci si vestì effettivamente come un bonzo, seguendo il principio del suo superiore, Alessandro Valignano: "farsi cinese con i cinesi". Quello che i battiatologi di solito non scrivono, del resto per arrivarci bisogna effettivamente sciropparsi certe storie dei gesuiti in cinque volumi, è che finché restò vestito come un bonzo Ricci non fece un solo metro in direzione della Città Proibita. Fu l'incontro con lo studioso Qu Taisu (瞿太素), molto incuriosito dalla matematica euclidea che Ricci insegnava, a mettere in moto le cose: Qu Taisu spiegò a Ricci che i bonzi non erano generalmente stimati dalla classe dirigente, che spesso li liquidava come parassiti e imbroglioni (se vogliamo cercare un parallelo con l'Europa, lo possiamo trovare in una certa retorica anti-frati che serpeggiava tra Medioevo e Riforma). Se Ricci voleva davvero entrare a corte, doveva vestirsi da intellettuale, viaggiare in lettiga ed enfatizzare le proprie conoscenze scientifiche, che ai mandarini potevano interessare. Tutto questo per dire che insomma, vestirsi da straccioni non è necessariamente la tecnica giusta, e Battiato ne sapeva qualcosa. Battiato negli anni Settanta si era conciato nelle maniere più inverosimili, e qualche gradino del palazzo dell'Impero era riuscito anche a scalarlo. Quello che gli aveva dato da fare, per tutti i Settanta, era la cattiva fede necessaria. Il dover calarsi in una parte – la grande scoperta di David Bowie, il recitare sul palco: ci ha messo un po' di anni ad accettare che era parte del mestiere. Se poi qualcuno ha un'ipotesi sensata sulla vecchia bretone vestita da giapponese, io sarei molto curioso. Non riesco a non pensare a The Kick Inside, il primo disco di Kate Bush uscito nel 1978 con una grafica finto-giapponese e una proposta che non poteva lasciare FB indifferente: poteva apprezzarla o detestarla, ma non restare indifferente (per quel poco che ho trovato, l'apprezzava e forse ne era un poco intimorito). Ma è sicuramente una falsa pista, e poi KB può anche passare per bretone, ma vecchia nel 1981 proprio no. 

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Il catalogo dei santi ribelli è in libreria, e voi?

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Sembra proprio che stia facendo finta che non sia già uscito questo libro a cui lavoro alla fine da più di dieci anni. Non è esattamente così: volevo solo aspettare un'occasione buona, l'uscita di un articolo o di un'intervista che però non stanno uscendo perché, perché, non so neanche più perché. Bisogna avere pazienza con questo libro, è sempre stato difficile da portare in giro. Adesso comunque basta, lo lancio da qui con un articolo che mi hanno appena segato, in effetti a rileggerlo non è che ti fa correre in libreria con gli euro in mano ma vabbe', voi potete anche andarci con calma, magari nelle ore meno calde che ormai non saprei neanche quali sarebbero.


Pubblicare un libro sui santi non è stato semplice. Attenzione: non sto dicendo che è stato difficile da scrivere, perché in effetti no: i santi alla fine sono già materia di leggende (anche i più recenti), e si lasciano raccontare che è un piacere. Del resto è il motivo per cui ho cominciato, più di dieci anni fa: l’idea era quella di attirare i lettori su internet con una rubrica facile da scrivere e non troppo legata all’attualità. L’oroscopo, insomma: ma era già stato fatto. Il santo del giorno non è un genere altrettanto popolare, ma un suo pubblico di nicchia ce l’ha. È uno spunto perfetto per chi si annoia a scrivere sempre le stesse cose: ogni giorno del calendario ti propone un secolo diverso, una leggenda di martiri o una vicenda del novecento, una disputa teologica o un’apparizione misteriosa. Davvero, non è stato difficile scrivere storie sui santi. 

Pubblicarle in un libro, invece.

Non voglio accusare nessuno, se non me stesso: ho un debole per progetti letterari irrealizzabili. Gli scrittori di mestiere al giorno d’oggi sono molto concreti e fanno bene: lavorano sulle trecento cartelle, cercano storie in cui il lettore si possa identificare, investono molto nell’autobiografia perché è un modo di metterci la faccia. Io continuo a immaginare libri immensi in cui di autobiografico non c’è quasi nulla; libri in cui perdersi, scritti da autori collettivi che si nascondono a vicenda per un lettore che li tiene sul comodino e ogni tanto apre una pagina a caso e ci cade dentro. Ci avrei visto bene anche le illustrazioni, magari miniate a mano. A parte questi sogni, mi è capitato più di una volta di destare la curiosità di un editore. La rubrica andava avanti da anni, ovviamente non si poteva pubblicare tutto, ma se si fosse riuscito a selezionare diciamo trecento cartelle, perché no? 

Giuro: quando me lo proponevano non ho mai fatto il difficile. Ci ho sempre provato. Certo, bisognava lavorarci sopra. Su internet mi piaceva scrivere ogni pezzo con un taglio diverso: oggi un racconto, domani un saggio storico (diciamo un riassuntino di un saggio storico), la prossima settimana una teoria sul vangelo, e così via. Era divertente fingere di essere tanti autori diversi, ma quando si fa un libro tutta questa varietà deve ridursi. Bisogna trovare uno stile più uniforme, tagliare un sacco di cose e aggiungere raccordi necessari. Ci ho provato tante volte. Nei miei archivi ho bozze di libri dei santi ormai di otto, nove anni fa. Ci ho provato e ci ho riprovato e ogni volta, quasi all’ultimo momento, un editor mi diceva: mi dispiace, non se ne fa niente. 

Non sono sicuro del perché andasse a finire sempre così. Il materiale mi sembrava buono, forse semplicemente non riuscivo a trasformarlo in un libro vendibile, e a un certo punto ho cominciato a pensare che non ne valesse la pena. Meglio continuare a sognare il mio libro impossibile, la Legenda da mille e più pagine, e continuare a pubblicarla una paginetta alla volta sull’internet. E mi ero fatto anche questa idea (paranoica?) che scherzare sui santi in Italia fosse ancora sconsigliabile. Non che le mie agiografie siano particolarmente anticlericali (anzi a volte sono stato accusato di difendere la Chiesa da questa o quell’accusa, ma direi che la Chiesa ha avvocati più competenti). Ma c’è sempre qualcuno che si offende, oggi più che ieri. Io sono di una generazione precedente, quella che salutò l’arrivo di Internet come di uno spazio franco dove litigare con tutti. Tuttora sui social mi piace prendere le difese dei preti contro gli atei e viceversa, alla voce “fede religiosa” ho scritto “è complicato”. Adesso mi intervistano anche le riviste religiose, tra le varie domande mi chiedono se sono in ordine coi sacramenti. Non sono esattamente in ordine coi sacramenti.

Per un po’ mi è piaciuto crogiolarmi in questa situazione: certo, da lontano avreste potuto scambiarmi per un sedicente scrittore che non riusciva a pubblicare un libro, ma io sapevo di essere un talento misconoscuito, boicottato da editori oscurantisti o superstiziosi. Poi qualcosa si è mosso, proprio mentre stavo lavorando a tutt’altro. Qualche anima santa della Utet (sempre sia lodata), mi ha proposto per l’ennesima volta di riprendere il palinsesto, sfrondare un sacco di cose e trasformarlo in un libro. Io come sempre ho detto: certo, perché no, proviamoci. Ma non ci ho creduto fino alla fine. Neanche quando mi hanno fatto vedere le bozze (tra parentesi, le bozze più corrette che ho visto in vita mia, sempre sia lodata la Utet). Quando mi è arrivato il libro a casa, ecco, ho cominciato a crederci un po’. E poi… ho avuto paura. 

Ho scritto un libro sui santi. Non è che avrò offeso qualcuno? Sicuramente avrò offeso qualcuno. Mi dispiace. Io in realtà volevo soltanto scrivere storie, ma non te le legge nessuno se non offendi qualcuno. Si chiama “Catalogo dei santi ribelli”, e il sottotitolo rincara la dose: Storie di immigrati, ladri e prostitute che hanno cambiato la Chiesa. Non vi dico la fatica per trovare una santa davvero prostituta, perché Maria Maddalena, malgrado tutte le voci calunniose messe in giro in duemila anni, dai vangeli non risulta una sex worker. Più facile trovare qualche ladro: il primo uomo a essere stato canonizzato in direttissima da Gesù Cristo è stato proprio il criminale crocifisso al suo fianco (anche Agostino, com’è noto, rubacchiava frutta da ragazzo, ma solo per il gusto della bravata). Quanto agli immigrati, pensate che a un certo punto in Sicilia bastava avere tratti somatici africani perché la gente cominciasse a venire a chiederti dei miracoli, un pastore si ritrovò a capo di una confraternita quasi suo malgrado. C’è un’intera sezione sui santi genderfluid – da Marina, che si finse uomo per entrare in un monastero maschile e finse così bene che fu accusata di aver messo incinta una cameriera – a Sebastiano, da due secoli patrono ufficioso dei gay per motivi che ho cercato, per quanto possibile, di chiarire. 

Ci sono anche molti santi famosi, sui quali avanzo sospetti insinuanti, ad esempio tra gli evangelisti San Luca a volte sembra un infiltrato socialista, quasi tutta la dottrina sociale della chiesa poggia su episodi che riporta lui. San Pietro per contro a un certo punto sembra il guru di una setta che incamera i fondi degli adepti… e San Paolo come faceva a risultare fariseo agli ebrei, greco ai greci e cittadino romano ai romani? Non sembra un po’ una spia? Francesco e Chiara terminarono i loro giorni in silenziosa ribellione contro gli stessi ordini di cui risultavano i fondatori; Caterina da Siena soffriva di anoressia. Padre Pio secondo Giovanni XXIII era un imbroglione (ma coi suoi eventuali raggiri ha finanziato un grande ospedale). Teresa di Calcutta ha raccolto denaro in tutto il mondo senza promettere di guarire un solo malato. Karol Wojtyla forse credeva di essere l’ultimo Papa prima del secondo Avvento, e oltre all’agonia dovette sopportare la delusione.
 
E così via. È stato bello scrivere un libro sui santi. Ho imparato molto da loro. Anche da quelli che non sono mai esistiti (in effetti una delle cose più curiose è il modo in cui anche i santi più improbabili hanno ispirato, anche a secoli di distanza, altri santi realmente vissuti: in questi casi la santità è una sorta di leggenda incarnata). Certo, mi resta il rimpianto per quell’immenso volume immaginario che non scriverò mai, mille e più pagine vergate di caratteri minuscoli. Ma anche questo, davvero, non mi sembra uscito male. È in libreria.
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64. Lu santu è di marmuru e non sura

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[Questa è l'ultima giornata del primo turno della Gara delle canzoni di Franco Battiato – sembrava non dovesse finire mai, e invece le abbiamo ascoltate tutte e 256. Da qui in poi è tutta discesa. Grazie per l'attenzione].  

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1974: Nel cantiere di un’infanzia (#214)

Ho già accennato a quanto mi suonino ancestrali certi brani del Battiato primi anni Settanta, canzoni che hanno più o meno la mia età (e che non credo di aver ascoltato prima dei sedici anni) ma che in un qualche modo mi riportano a galla ricordi improbabili: Qui ad esempio a un certo punto i bambini si mettono a scandire una specie di coro che mi ricorda un ban come se ne intonavano sui pulmini della suola. Siccome mescola suoni elettronici a rumori d'infanzia, Nel cantiere è stata accostata a una delle composizioni più famose di Stockhausen, la Canzone della gioventù nella fornace. Bisogna almeno riconoscere all'allievo di non suonare derivativo. L'insistenza particolare per le registrazioni rovesciate – un trucchetto che ai tempi di Clic aveva perso qualsiasi crisma di novità, anche nella musica leggera – è un tic stilistico che Battiato si porterà con sé per tutta la carriera, da Iloponitnatsoc fino a Joe Patti, senza che forse abbiamo mai capito cosa quale senso Battiato desse all'operazione. 


1988: Veni l'autunnu (#86)

Su Veni l'autunnu ho un paio di ipotesi non dimostrabili. La progressione così tipicamente cantautorale  della strofa (c'è anche il caro vecchio IV-V-I) mi fa sospettare che possa essere addirittura l'unico brano sopravvissuto degli Ambulanti, il duo Alicata/Battiato che nei cabaret milanesi spacciava composizioni di Battiato per canti della tradizione siciliana medievale. I due riuscirono anche a firmare un contratto con un'etichetta discografica, poi stralciato appena il produttore ascoltò i brani. Ma era il repertorio che aveva incuriosito lo stesso Gaber, insomma qualcosa di interessante doveva esserci per forza ed è difficile pensare che Battiato non abbia mai riciclato niente. L'impostazione molto più 'romantica' della strofa mi suggerisce viceversa che Veni l'autunnu sia davvero un brano sfuggito a Battiato mentre cercava di comporre Gilgamesh, e in luogo di melodie ancestrali si accorgeva di trovarsi in mano di nuovo canzoni pop, quelle che in teoria aveva smesso di scrivere. Potrebbero essere vere entrambe le cose ma anche nessuna delle due. In Veni l'autunnu resiste, coperto da una patina vernacolare, il procedimento a collage tipico di Patriots: la canzone è una serie di proverbi e modi di dire ricuciti senza la pretesa di ricavarne un senso d'insieme. Forse era l'unico espediente per consentire a Battiato di scrivere qualcosa di così spudorato come: Sicilia bedda mia, Sicilia bedda. Poi, come spesso succede quando Battiato indulge nel regionalismo, arriva l'arabo che per lui è una specie di palinsesto da intravedere attraverso il vernacolo; ma il buffo è che arriva con una frase da corso per principianti: "Come ti chiami? Mi chiamo Khalifa e studio la lingua araba. Per ogni cosa c'è un tempo e una chiamata. Tutto e sogno tranne l'attesa annunziata". 


1998: Il ballo del potere (#43)

Fingi di riandare avanti con un salto, poi a sinistra con la finta che stai andando a destra. I pigmei e Ginevra Di Marco. Gli aborigeni e Andrea Pezzi. Antropologia e danza, avanguardia e quadriglia, rock e world music, Taijiquan e Beatles(*), in un momento particolare della storia della musica e del costume in cui sembrava stessero saltando tutti gli steccati. Che in un momento del genere il più coraggioso sulla piazza, ma diciamo pure il più folle, fosse l'ultracinquantenne Franco Battiato, non sembrava nemmeno così sorprendente. Il ballo del potere è un brano che confesso di non riascoltare volentieri, non so nemmeno cosa mi dia veramente fastidio (i riti di fertilità degli aborigeni? l'inglese di Andrea Pezzi? un insieme delle due cose?) ma alla fine forse il problema stavo diventando io, forse provavo lo stesso fastidio che dieci anni prima un adulto avrebbe provato davanti a una Temporary Road. Invece c'è sempre bisogno di folli nella musica e nel costume, e se Battiato si era stancato di fare il guru, se voleva movimentare la situazione, buon per lui. Ripensandoci, la cosa più 'anni '90' di tutte sono i cori etnici campionati. In ritardo sui Deep Forest, in anticipo su Moby, ma riascoltandoli alla fine funzionano.    

(*) A un certo punto si sente chiaramente Battiato cantare "Many times I’ve been alone, and many times I’ve cried..."


2001: Bist du bei mir (Battiato/Sgalambro, #171)

Don't play it anymore. Arrivo a Bist du bei mir con una certa stanchezza, insomma è da 64 giorni che glosso quattro canzoni al giorno – ok mi ero messo un po' avanti – ma poi sono finito un po' indietro – e insomma eccomi qui con l'ultimo brano su 256 e... ecco una roba di Sgalambro col titolo tedesco. Ahi. Il titolo è la citazione di un'aria di Gottfried Heinrich Stölzel (1718), che però è stata anche trovata in un quaderno di spartiti di una figlia di Johann Sebastian Bach, i due si conoscevano e potrebbero anche avere usato gli stessi appunti, è un dibattito interessante ma non c'entra molto con la canzone, visto che Battiato non cita davvero l'aria di Stölzel (o Bach). Ne approfitta però per alzarsi nel ritornello in un falsetto molto alto per lui, come a suggerire un'aria di soprano che non esiste. Insomma siamo nel terreno delle false citazioni, degli stucchi suggestivi ma rifatti a macchina, e dobbiamo accettare che Battiato è stato anche questo, e lo è stato per il tratto più lungo e celebrato della sua carriera: un artista da cui ci si aspettava una determinata dose di pretese culturali, da impacchettare in brevi canzoni 'di qualità'. Forse più pretese culturali di quante lui fosse in grado di erogare, da cui la scelta di affidarsi a questo tizio che a differenza di Battiato non sembra aver mai nutrito molti dubbi sulla qualità della propria erudizione: Manlio Sgalambro. Nota che la canzone non è neanche malaccio, sia dal punto di vista musicale (ma che bisogno c'era di evocare un compositore del Settecento?) né lirico, con quell'invito a giocare "sull'orlo di un precipizio": ma che bisogno c'era di tutto quel namedropping, di versi come  La luce abbagliò i miei sensi come in un quadro di Monet mentre l'estate insidiava il giovane Gesualdo? E però il pubblico da Battiato voleva proprio questo: sentirsi in un museo di cose non del tutto comprensibili ma culturalmente rilevanti. Quello che bisogna concedere a questo Battiato (e perfino a Sgalambro) è che questo ruolo che a un certo punto si sono trovati ricucito addosso, l'hanno interpretato almeno con una certa leggerezza che era merce rara già allora e oggi non è più in commercio. Ritrovare il video di Bist du bei mir, ad esempio, è una rivelazione, e mi regala l'ultima lacrimuccia di questi sessantaquattresimi di finale, mentre guardo Battiato che finge di ballare con la modella, poi finge di litigare con la modella, Elisabetta Sgarbi che si tiene Sgalambro sottobraccio, eccetera. Almeno si divertivano. Il mestiere era dispensare sapienza e cultura, ma era divertente, hanno cercato di farlo senza affliggere e annoiare troppo il prossimo, e ci sono quasi sempre riusciti. Grazie per l'attenzione e restate in contatto – si comincia subito coi trentaduesimi. 

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63. Nell'aria qualche cosa si fermò

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[Questa è la Gara delle canzoni di Franco Battiato, oggi con diverse campane e altri suoni che si perdono in lontananza, come i boati che giungono al molo dalle navi].  

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1983: Temporary Road (#107)

Quella sera il pubblico di Sotto le stelle si aspettava probabilmente un'esecuzione di Cerco un centro Voglio vederti danzare. Quando Battiato comincia a canticchiare una specie di Lied su violini sintetici, l'entusiasmo è ancora alto: magari sta per cominciare una versione alternativa di Cuccurucucù. Il Lied invece prosegue per un buon minuto, e bisogna ricordare che siamo in tv, è il 1983, Battiato è un cantante da alta classifica e lo sarà ancora per qualche anno. Finalmente il batterista comincia a percuotere i suoi esagoni e la canzone diventa una specie di satira sul problema numero 1 degli italiani, il traffico ("Prendo sempre le multe / per divieto di sosta") con stralci di canzonette come ai tempi di Patriots ("solitario me ne vo per la città"). Poi Radius si mette a suonare la marcia turca di Mozart e Battiato ci canta sopra Fra Martino Campanaro. Il brano era stato presentato con il titolo Temporary Road, che ne rivelava il carattere occasionale, e per due anni avremmo continuato ad ascoltarlo in registrazioni radiofoniche abusive (a loro volta probabilmente ottenute da videoregistrazioni tv abusive), con l'introduzione un po' tagliata. A quel tempo il battiatismo non aveva ancora raggiunto il livello filologico tale da consentirci di sapere che una composizione intitolata Temporary Road avrebbe dovuto già essere pubblicata nel disco ormai irreperibile del 1975, Mme "le Gladiator", e che ad almeno un giornalista Battiato aveva parlato di un collage di canzoni di successo: Ruby Tuesday, Like a Rolling Stone... Quel progetto era evidentemente tramontato (per motivi di diritti?), Battiato aveva conservato i titoli per la coda di Cuccurucucù, e forse qualche frammento era finito nel brano del 1983: la marcia turca, appunto, Fra Martino, un Lied non meglio specificato e il verso beluino di Fred Flinstone, "Iabudabudà". Nel palinsesto Rai del periodo aveva tutta l'aria di una provocazione dadaista da parte di un cantante che nel 1983 non aveva ancora nessun disco da promuovere, e quando finalmente arrivò (a dicembre) non somigliava affatto a questo collage goliardico. Lo ritrovammo invece a sorpresa nel disco del 1985, Mondi lontanissimi, che per certi versi era anche una raccolta del materiale eterogeneo prodotto da Battiato al di fuori degli LP italiani in quei primi anni Ottanta: i duetti con Alice (ma registrati senza Alice), una Re del mondo con gli arrangiamenti dell'edizione americana, ecc. In mezzo a tutti questi brani però Temporary Road, con la sua commistione tra suoni orchestrali e brutalismo elettronico, si trovava miracolosamente al suo posto: tanto più che la sutura tra le due parti del pezzo ora veniva sottolineata da una scarica di batteria elettronica che è in assoluto il momento più tamarro mai inciso da Battiato. Spariva "fra Martino", sostituito da un'altra citazione sotterranea da un poemetto pre-crepuscolare ottocentesco (San Francesco del Deserto di Angiolo Orvieto!). Insomma Temporary Road è un brano a cavallo tra Patriots e Mondi lontanissimi, benché i due dischi non confinino tra loro. 


1983: Campane tibetane (Battiato/Pio, #150)

Le bronchiti coi vapori e il Vicks Vaporoub. Il particolare crepuscolarismo di Orizzonti perduti lo rende il disco di Battiato con il maggior numero di product placement involontari (c'è anche l'idrolitina). Non si sofferma mai forse la vostra nostalgia sulle etichette di prodotti consumati nell'infanzia? E non capita ai boomer di rimpiangere persino le belle bronchiti della nostra gioventù, mica come i giovani d'oggi smidollati con quegli aerosol di ultima generazione... Può essere una coincidenza ma Battiato si presenta al microfono con una voce un po' offuscata, probabilmente vuole tentare qualche vocalismo orientale ma la canzone non glielo consente del tutto e una delle peculiarità di Orizzonti è che sembra un disco registrato molto in fretta, buona la prima. È anche un disco brevissimo (28 minuti), che scivola rapido molto prima di annoiare – cosa che all'ennesima canzone sulle nostalgie d'infanzia potrebbe anche capitare, ma Battiato è stato più rapido di noi e ha già finito il disco. La Sicilia sognata stavolta presenta dettagli dissonanti che sono ovvi depistaggi: campane tibetane e addirittura la Via Emilia (ho controllato con google maps, ce n'è una anche a Catania ma non mi sembra così evocativa). E sul finale una delle rime siciliane più geniali di Battiato: i mobili in stile Impero / ritornerò. 


2000: L'ignoto (#235)


Come un branco di lupi che scende dagli altipiani ululando / o uno sciame di api accanite divoratrici di petali odoranti / precipitano roteando come massi da altissimi monti in rovina: / logoi dagli ultimi duemila anni. Che le api divorino i petali è una sineddoche abbastanza discutibile, e ciononostante a Battiato piaceva particolarmente questo attacco di Sgalambro, tratto da un "frammento di poema" chiama Opus postumissimum, se nel mio dipartimento di latino avessi osato coniare un superlativo del genere mi avrebbero stracciato il libretto ma questo non aggiunge nemmeno un grammo di insofferenza a quella che già nutrivo per il massimissimo vate talattico, giuro. Dicevo, a Battiato piaceva questo brano in cui la civiltà frana all'improvviso proprio nel momento in cui Sgalambro diventa anziano, che coincidenza vero? Pensa che succede all'80% degli intellettuali, questa cosa di situare la fine della civiltà intorno al loro sessantesimo anno di età, comunque troveremo la stessa preziosa citazione all'inizio di Inneres Auge e poi in un brano di Joe Patti's Experimental Group, intitolato perlappunto Come un branco di lupi. Ho già avuto modo di riconoscere in Campi magnetici una delle cose più interessanti composta da Battiato nel nuovo millennio e lo confermo, tanto più che in questo brano succedono cose che a questo punto abbiamo già sentito: violini digitali, versi di soprani (o del sopranista Simone Bartolini), irruzioni di sequencer, e così via. Mi resta soltanto il dubbio che sarebbe un disco ancora migliore senza le intrusioni di Sgalambro, senza il suo tormentone "i numeri non si possono amare" che gira e ti rigira alla fine è vieta retorica crociana. Poi ho controllato, il 2000 non è tecnicamente nuovo millennio ma soprattutto su Battiato.it Campi magnetici risulta nella sezione dedicata alla discografia classica: e quindi non avrei dovuto includere le tracce in questo torneo (dove peraltro nessuna aveva speranze di passare il primo turno). Non sono sicuro che sia sempre stato così e mi suona così strano che Battiato considerasse Campi magnetici musica classica e L'Egitto prima delle sabbie musica leggera. In ogni caso ormai il torneo è fatto, indietro non si torna, mi dispiace.

2008: (Sittin' on) the Dock of the Bay (Redding/Cropper, #22)

Watching the ships roll in / Then I watch 'em roll away again. Alla fine Sittin' on the Dock of the Bay parla di un tizio davanti al mare che guarda le navi sparire all'orizzonte. Non così diverso da Sequenze e frequenze. Per cui non è così strano che dovendo trovare un brano per un duetto, Battiato e la cantante jazz francese Anne Ducros riconoscano un minimo terreno comune nel grande successo (postumo) di Otis Redding. La Ducros poi può darsi che su Spotify sia più seguita di Battiato, il che spiegherebbe perché un brano senza infamia e senza lode, abbastanza fuori dalla comfort zone di quest'ultimo, sia in assoluto il suo ventiduesimo brano più ascoltato. Dalla mia distanza sembra più un atto di cortesia che una cover necessaria: tra le due voci non c'è il feeling che scatta quando il timbro di Battiato si imprime su quello di contralti come Alice. E soprattutto non ce lo riesco a vedere Franco Battiato, seduto su quel molo di quella baia. In un universo parallelo dove i Beatles non abbiano mai sfondato in Europa, e la musica pop continentale abbia proseguito sui binari già tracciati tra chanson française e ritmi latini, molti cantautori italiani non lo sono mai diventati (Dalla, Battisti) o hanno un repertorio completamente diverso. In quell'universo invece Battiato ha più o meno fatto gli stessi dischi, anche se la coda di Cuccurucucù contiene titoli diversi e le sue cover di Hey Joe e Ruby Tuesday non esistono. In questo senso Battiato è davvero il cantautore più 'bianco' che abbiamo avuto: con influenze molteplici che vanno dal Medio Oriente a Bach (con qualche occasionale ghiribizzo per l'estremo oriente), ma sostanzialmente alieno alla musica afroamericana. Se vogliamo è la risposta alla domanda: cosa sarebbe stata la canzone d'autore in Italia se avessimo continuato a ignorare i modelli americani? Una domanda che ha poco senso porsi, mi rendo conto. 

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62. L'odore di brillantina si impossessava di me

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[Questa è la Gara delle canzoni di Franco Battiato, oggi con una una delle sfide più difficili fin qui]. 

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1982: Scalo a Grado (Battiato/Pio, #54)

Ci si illumina d'immenso mostrando un poco la lingua al prete che dà l'ostia. Scalo a Grado è una delle più controverse canzoni di Battiato – anche se da fuori non lo si direbbe, insomma c'è Battiato che soggiorna in una zona per lui insolita (il Nordest, tra Grado e Pieve di Cadore: siccome è uno "scalo" lo immaginiamo proteso verso orienti più estremi). Gli capita di partecipare a una funzione cattolica e la descrive: la gente è fintamente assorta, i salmi sono stonati, ma tutto sommato ci si sente in Paradiso. Tutto qui e non mi ricordo di aver mai sentito un cattolico prendersela per un bozzetto che è in realtà estremamente familiare a chiunque vada a messa la domenica: anzi, era rasserenante sentire un cantante che parlava un poco di noi normaloni e non sempre di prostitute e detenuti, perché ben prima della trap anche i cantautori tendevano a concentrarsi su gente che la domenica si sveglia a mezzogiorno. Battiato invece era dei nostri, Battiato ogni tanto andava persino a messa, ma questo succedeva in quel momento particolare in cui i giornalisti lo aspettavano al varco: aveva venduto tantissimo per motivi che loro non avevano previsto né compreso, e ora dovevano assolutamente trovare una formula che lo spiegasse brevemente e che stesse in un titolo su tre colonne massimo. Per esempio Gianfranco Manfredi in un famoso articolo sulla Stampa ci informò che Battiato metteva nelle canzoni "la cultura della nuova destra", una frase che qualche anno prima avrebbe azzoppato cantautori ben più solidi (se uno va a rileggerlo scopre che nel 1982 la "nuova destra" erano Cacciari e Calasso, insomma bei tempi, P2 a parte). Letta da destra, Scalo a Grado può sembrare una condanna della religiosità postconciliare, dei suoi riti annacquati e scadenti: interpretazione che a me sembra forzata ma che ammetto si possa puntellare sulla strofa che dice "Il mio stile è vecchio [?] Come la casa di Tiziano a Pieve di Cadore. Nel mio sangue non c'è acqua, ma fiele che ti potrà guarire". 

Ma la cosa più curiosa è che negli anni successivi mi è capitato più volte di leggere interpretazioni completamente opposte, da parte di atei che riconoscevano in Scalo a Grado una satira anti-cristiana: atei che in molti casi vissero come un tradimento il concerto di Battiato in Vaticano, la Messa Arcaica e in generale il grande ritorno dei temi mistici nelle sue canzoni dal 1988 in poi. A riprova che in ogni canzone ognuno trova quello che vuole trovare: quanto a Battiato, era abbastanza furbo per non smentire nessuna interpretazione. Così anch'io resto fedele alla mia: Scalo a Grado è un'ariosa domenica di aprile, la chitarra di Radius è un raggio di sole che filtra da vetrate istoriate un po' astratte, stile anni '70. E pensare che sull'altro lato c'era appena stata la fine del mondo. Che Battiato non fosse entusiasta delle liturgie postconciliari è molto probabile (in particolare, lo disse più volte, odiava le canzoni accompagnate con le chitarre). Ma che Scalo a Grado sia una condanna, o anche solo una satira meno che bonaria, la musica non me lo dice. Forse è la prima canzone in cui una manifestazione della modernità gli strappa quello sguardo indulgente che oggi è poi quello che tutti preferiscono ricordargli stampato in faccia. 


1983: Mal d'Africa (#75)

Dopo pranzo si andava a riposare, cullati dalle zanzariere e dai rumori di cucina. Dalle finestre un po' socchiuse spiragli contro il soffitto: e qualche cosa di astratto si impossessava di me. Mal d'Africa potrebbe essere la lirica più riuscita di Battiato, quella che meglio mette a fuoco il tema della nostalgia per una Sicilia rimasta ferma al tempo della sua infanzia: peccato per il ritornello, forse l'esempio migliore di inglese battiatesco, nel momento in cui smette di essere una semplice serie di sintagmi ritagliati da altre canzoni e cerca di scomporsi e riagglutinarsi, veicolando significati diversi da quelli della citazione originale. ("I can't live without you, on my own lies a photograph. Please come back and stand by me"). Mal d'Africa potrebbe essere una delle più belle canzoni di Battiato: peccato per l'arrangiamento sintetico – che comunque le conferisce parte del suo fascino, e ormai per noi orfani degli anni '80 suscita un analogo mal d'Africa: lo detestiamo e non riusciamo a farne a meno, se qualcuno riarrangiasse Orizzonti perduti con suoni più umani li troveremmo falsi. Tra l'altro è il punto di massima convergenza tra Battiato e i Pet Shop Boys. Battiato ha finalmente capito come gestire una vena crepuscolare (che aveva scoperto per la prima volta dieci anni prima, con Sequenze e frequenze). Da qui in poi le sue canzoni si popoleranno di ricordi, ma nessuno sarà icastico come il padre che si pettinava da una finestra di ringhiera, ("l'odore di brillantina si impossessava di me").


2001: Il cammino interminabile (Battiato/Sgalambro, #182)

Se vuoi conoscere i tuoi pensieri di ieri osserva il tuo corpo oggi. Se vuoi sapere come sarai domani osserva i tuoi pensieri di oggi. Beh, questa è profonda, non c'è che dire. Secondo Zuffanti (Franco Battiato, 2020) è una citazione dal Majjhima Nikaya dove però Buddha diceva qualcosa come "Se vuoi conoscere il tuo passato, osservati nel presente. Se vuoi conoscere il tuo futuro, allora osservati nel presente", che è comunque interessante (oltre che un po' lapalissiano), ma non sembra includere nella riflessione la dualità tra "corpo" e "pensieri", dove il primo è sempre la conseguenza dei secondi. Dopo aver gettato il sasso con questa affermazione, Battiato si diverte a confondere le acque con un collage di frasi in siciliano che non può non ricordare Veni l'autunno – ed è bizzarro che dopo tanti anni la tecnica compositiva di Goutez et comparez e Frammenti resista soltanto nelle rare composizioni nella lingua vernacolare. In un qualche modo forse Battiato vuole dirci di non essere che il momento di una storia che parte molto prima di lui, una storia che non si può conoscere o raccontare se non in modo frammentario. 


2004: Apparenza e realtà (Arcieri/Battiato/Sgalambro, #203)


Tempi tumultuosi e quindi resto confinato nella mia stanza. Onestamente, a 18 anni di distanza, non mi ricordo proprio cosa ci fosse di tumultuoso ai tempi di Dieci stratagemmi – la guerra in Iraq? Il Forum sociale? L'assassinio Biagi – ok, beh in effetti erano tempi tumultuosetti – certo, nulla in paragone a quanto abbiamo visto dal 2020 in poi. Apparenza e realtà è il brano più Krisma tra quelli composti a quattro mani con Maurizio Arcieri: non solo per l'irruzione di Cristina Moser, ma per i suoni davvero meno eterei del solito, addirittura danzerecci. Sospeso in mezzo a tanti espedienti ritmici, Battiato sembra un padrone di casa pentito di aver invitato gli amici: gli trema la voce, non si sente a suo agio. Il pezzo non è affatto male (si può ballare, davvero) ma abbiamo la sensazione che piaccia più a noi che a lui.

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61. Ed è bellissimo perdersi in questo incantesimo

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[Questa è la Gara delle canzoni di Franco Battiato, oggi con una canzone a rovescio, una canzone sulla polluzione, una canzone sul sesso, una canzone sul saperne fare a meno, col tempo]. 

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1969: Gente (Bonoldi/Logiri, #246)

Una battuta forse involontaria che ho trovato su Youtube è "Gente è Iloponitnatsoc registrata al contrario", ok, è una battuta per battiatofili spinti e forse voi ancora non lo siete (anche se state seguendo la sessantunesima puntata di un torneo di canzoni di Franco Battiato, io a questo punto una domanda me la farei). Insomma bisogna sapere che nel 1969, poco prima di licenziarsi dalla Polygram e troncare la sua carriera di canzonettista, Battiato aveva cercato di mettere assieme un 33 giri che avrebbe contenuto per lo più il materiale già uscito su singolo più alcuni inediti (poi pubblicati negli anni Ottanta dall'Armando Curcio Editore), il più strano dei quali è appunto Iloponitnatsoc. Il titolo è "Costantinopoli" al contrario, e la canzone è un frammento di Gente incisa al contrario. Tutto qui, e ben tre anni dopo che Napoleon XIV aveva pubblicato  aaaH-aH ,yawA eM ekaT ot gnimoC er 'yehT, quindi niente di incredibilmente pionieristico, però qualcosa di decisamente diverso da quanto Battiato avesse fatto fino a quel momento. Probabilmente si trattava di poco più di uno scherzo per aumentare il minutaggio del disco, ma è curioso il fatto che tra tutte le sue canzoni abbia scelto di invertire proprio Gente, una delle canzoni più anonime che abbia inciso. La melodia era tutta di Logiri e Battiato stavolta si astenne anche dal partecipare con il testo. Quest'ultimo potrebbe essere il prodotto di un generatore di canzoni d'amore triste: le frasi che Giovanni Bonoldi mette assieme sono di una banalità che sconfina nel nonsense ("Quante notti da solo aspettando l’aurora: fino a domani estate sarà") Battiato le canta senza crederci troppo, suggerendo qua e là una sensazione di autosabotaggio. È difficile, ascoltando Gente, non chiedersi: perché? Ecco, una sensazione simile l'ho avuta la prima volta che ho sentito Ignudi tra i nudisti di Elio e le Storie Tese: perché fare una canzone del genere? Una domanda in effetti abbastanza strana, non è che le canzoni debbano per forza avere un senso, ma Ignudi è come se ti chiedesse di averlo: succedono troppe cose strane che richiedono una spiegazione e alla fine l'ho trovata: Ignudi è il rovescio di un'altra canzone famosa. Con questo non voglio dire che Battiato abbia registrato Gente solo per ottenere, a rovescio, Iloponitnatsoc. Ma forse per un attimo ha sperato che ci credessimo, e in generale voleva dirci che una canzone del genere è più interessante a rovescio che dritta.


1972: Pollution (#118)

La portata di un condotto è il volume liquido che passa in una sua sezione nell'unità di tempo: e si ottiene moltiplicando la sezione perpendicolare per la velocità che avrai del liquido. A regime permanente la portata è costante attraverso una sezione del condotto. Io poi per anni ho creduto che FB si fosse iscritto a una cosa tipo ingegneria e cercasse un sistema per memorizzare gli enunciati o le formule – in effetti oggi Pollution potrebbe essere quel tipo di canzone che ti suggerisce youtube mentre stai ascoltando i pezzi di Lorenzo Baglioni e dei Supplenti Italiani (se non li conoscete ascoltate almeno le Leggi di Keplero). Un'altra suggestione che è impossibile scacciare è che questo disco sull'"inquinamento" (pollution in inglese) stia anche parlando di polluzioni, nel senso italiano del termine: non lo dice da nessuna parte ma in compenso ci parla della portata di un condotto in cui passa un liquido. Pollution costituisce insieme a Plancton il momento più riuscito del secondo omonimo album, e si adorna di un coretto senza parole ("na na na na na") che è la melodia più sfacciatamente Primi Anni Settanta incisa da Battiato – a riprova che nessuna nicchia sperimentale poteva salvarlo dallo Zeitgeist: per quanto si nascondesse e si travestisse, Battiato qualcosa di orecchiabile e cantabile non poteva fare a meno di registrarlo. Poi, certo, poteva cantarci su le sue solite cose assurde (che ai tempi non erano ancora così solite). Atomi dell'idrogeno, campi elettrici ioni-isofoto. Radio, litio-atomico, gas magnetico.


1981: Sentimiento nuevo (#11)

A Battiato mi iniziarono i miei cugini: uno un po' più grande (classe Iloponitnatsoc), uno appena un po' più piccolo (classe Aries). Dunque quando comprarono la cassettina della Voce del padrone, il più piccolo aveva sette anni e per qualche settimana il fratellone riuscì a nascondergli l'ultima traccia. Quando finalmente io e lui riuscimmo ad ascoltarla, forse non ci accorgemmo subito del perché. Probabilmente il cugino grande temeva che gli chiedessimo ragguagli sui desideri mitici di prostitute libiche. Soprattutto dopo averci detto che Segnali di vita era una canzone che esprimeva una cristianissima tensione verso l'assoluto. Uno o due anni più tardi, quando finalmente ebbi un flauto dolce, il cugino grande mi chiese: cosa ci vuoi suonare? Chiedimi qualsiasi aria, vedrai che so insegnartela. Voglio l'introduzione di Sentimiento nuevo, gli dissi. La mia canzone preferita a 10 anni parlava della lotta pornografica dei greci e dei latini. Perdonate l'aldonoveggiamento, ma Battiato è stato anche questo per la mia generazione. Un modo per cominciare a riflettere sul sesso – prima o poi dovevamo cominciare, e molti altri riferimenti non li avevamo. Qualche volta sui cigli della strada trovavamo riviste impiastricciate, ecco, Battiato ci mostrava possibilità diverse. Il sesso non doveva per forza essere sporco, furtivo, volgare. Complicato, questo sì, Sentimiento nuevo suggeriva che fosse abbastanza complicato. Probabilmente sarebbe servita una certa cultura per discernere i riferimenti, è chiaro che lo shivaismo tantrico di stile dionisiaco non ce lo avrebbero insegnato insieme al flauto dolce. Ma bellissimo. Se La voce del padrone è l'equivalente musicale del Nome della Rosa – un bestseller concepito freddamente a tavolino da un cinico professionista che finisce per prenderci gusto – Sentimiento nuevo è la pagina in cui Adso giace con la pulzella senza nome, anzi la pagina in cui da anziano trascrive l'esperienza in un montaggio di citazioni letterarie sempre più concitate. Il preziosismo linguistico può servire a tante cose – troppo spesso serve a spaventare, a darsi un tono, a creare una distanza tra sé e il pubblico: in certi rari casi diventa un modo di esprimere l'eros sulla carta o in musica. Battiato sta facendo sesso col vocabolario, la sua esuberanza lessicale è già una tecnica di seduzione: il pettirosso gonfia gli addominali, il pavone fa la ruota, Battiato disquisisce di senso del possesso che fu prealessandrino. E cosa c'è di più bello di un pettirosso fiero del suo petto rosso, di un pavone che si pavoneggia, di Battiato che canta le sue cose astruse. La sua voce, come un'oasi del deserto, ancora mi cattura. Ed è ancora bellissimo, scusate, devo andare a suonare una frase introduttiva, torno subito (meraviglioso anche l'hammond finale, dolce e sfumato come l'assopimento postcoitale).


2002: Col tempo sai (Ferré, Defaye , Medali, Simontacchi, #139)

Col tempo tutto se ne va. Ogni cosa appassisce, io mi scopro a frugare in vetrine di morte quando il sabato sera la tenerezza rimane senza compagnia. Può darsi che dei grandi maestri francesi, Ferré fosse il più consono a Battiato ed è un peccato che quest'ultimo ne abbia ripreso una sola canzone (e proprio nel secondo volume dei Fleurs, quello in cui si compiace a movimentare le cose con arrangiamenti elettronici abbastanza sbrigativi). Col tempo sai è una canzone sulla fine dell'amore, di qualsiasi amore: anche di quello per chi ti diceva: Copriti, fa freddo (questo avrebbe davvero potuto scriverlo Battiato, che a Giuni Russo aveva fatto cantare "qui c'è umidità"); anche quell'amore scompare, sai? Quel "sai", a proposito, è una maledizione. Il francese ci illude: è una lingua così apparentemente simile alla nostra, ma appena proviamo a tradurre una canzone, ahi, scopriamo che tutti gli accenti sono fuori posto; il francese è una lingua tronca, l'italiano una lingua piana, tradurre versi brevi in musica diventa impossibile. Servono zeppe monosillabiche, parole di due o tre lettere che non dicono veramente niente, servono soltanto a tenere lo spazio per l'accento, e sono i sai, i mai, i già, i va', non ci puoi far niente, se traduci questa roba ti serve. Col tempo poi cominci a fregartene, tout va bien. Forse il brano più convincente di Fleurs 3, e tuttavia... basta ridare un'occhiata a un'interpretazione di Ferré per capire che c'è una dimensione teatrale, in queste canzoni, che a Battiato manca del tutto. Ma va bene lo stesso, col tempo va bene tutto. 

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60. Le emozionali imprese della specie

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[Questa, ridi e scherza, è la sessantesima giornata di Gara delle canzoni di Battiato. Da due mesi non facciamo altro che ascoltare Battiato, come va? Ho sentito dire che c'è una crisi di governo, povera patria]. 

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1965, 2008: E più ti amo (Amurri, Barrière, Ferrari, Pallavicini, #38)

"Ricordo bene quando venni ingaggiato la prima volta per quei dischi. Il maestro mi fece un provino di qualche secondo; cantai una sola strofa. "Basta, va bene!", e mi convocò per il giorno successivo in sala d'incisione. Mi presentai incosciente: era la prima volta che entravo in un posto del genere. Il pezzo era E più ti amo di Alain Barrière. Mi misi la cuffia. Il maestro mandò la base. Finii di cantare. Mi disse che andava bene. Per me era un successo. Quel giorno ho capito che cantare e fare musica sarebbe diventato il mio mestiere" (Tecnica miste su tappeto, 1992). 

Battiato non amava i suoi dischi degli anni Sessanta. Non gradiva che li ristampassero: si oppose con fermezza a una riedizione ragionata del 33 giri fantasma del 1969. Non li fece inserire nel suo sito ufficiale e non li reinterpretò mai, con una sola eccezione. Questa eccezione purtroppo è una canzone d'amore abbastanza ordinaria ma che per Battiato doveva avere avuto un'importanza fondamentale: con E più ti amo aveva capito che avrebbe potuto farcela. Avrebbe vissuto di musica. Non sarebbe stato facile (nel 1965, oltre a incidere questi flexi disc annessi alla Nuova Enigmistica Tascabile, li recapitava nelle edicole in quanto fattorino della stessa NET) ma sarebbe stato il suo mestiere. Battiato sostiene di "ricordare bene" la circostanza, ma a guardare le date il primo flexi a uscire sarebbe stato L'amore è partito, il 20 febbraio, mentre E più ti amo sarebbe uscito soltanto il 27 marzo (e come lato B). C'è però un altro dettaglio da non sottovalutare, ovvero: L'amore è partito è cantata abbastanza male; sembra difficile pensare che Battiato abbia vinto un ingaggio con una prova del genere. Laddove E più ti amo è veramente la dimostrazione che questo ragazzo sa cantare: non solo la voce è educata ed espressiva, ma si ha la sensazione che Battiato stia modulando il suo timbro per assomigliare il più possibile all'originale che sta imitando – ricordiamo che questi flexi disc sono imitazioni, la gente li portava a casa per avere una versione simile all'originale ma a prezzo scontato. Questo originale non è, come molti scrivono, Gino Paoli, ma lo stesso Alain Barrière che aveva inciso la canzone in un buon italiano con un'affascinante cadenza straniera: ecco, anche Battiato riesce a dare alla sua interpretazione un accento 'altro', e se non sembra un cantante francese, non sembra nemmeno del tutto italiano (ecco uno dei rari casi in cui la fonetica siciliana poteva risultare un vantaggio).

Quarantaquattro anni dopo, Battiato decide di reincidere la canzone nel suo terzo CD di cover, riconoscendo così per la prima volta la continuità sotterranea tra i suoi Fleurs e la precoce carriera d'interprete negli anni Sessanta. La nuova E più ti amo è uno degli episodi più interessanti di Fleurs 2 per come è strutturata: c'è un Battiato contemporaneo che suona la strofa, sull'ottava più bassa, che rapidamente si sviluppa e rivela al suo interno il Battiato giovane, sull'ottava alta, annunciato dalla gioiosa quintina di pianoforte che scampanellava nella versione del 1965 (quasi un campionamento). Come dire che dentro di noi, da qualche parte, c'è ancora il nostro io di vent'anni, anche se di solito preferiremmo che non si vedesse troppo. Perlomeno Battiato per molto tempo ha fatto di tutto per nasconderlo, e soltanto in questo caso ha deciso di esibirlo. Giusto il tempo di due ritornelli. 


1972: La convenzione (Albergoni/Battiato, #219)

Centinaia di anni fa l'uomo viveva sulla terra. Cronologicamente, La convenzione è a metà strada tra Fetus e Pollution, di cui forse anticipa la trama: nel 2000 è successo qualcosa ("la convenzione"), l'umanità si è sparsa sui pianeti e sotto gli oceani. In realtà questo singolo diverge da entrambi gli album in una direzione diversa che Battiato si rifiutò di prendere. Quando parliamo di fase prog, rischiamo un equivoco: negli anni in cui il prog era una nicchia di mercato in espansione, Battiato non era così prog. Avrebbe potuto essere molto più prog. Pino Massara, Gianni "Frankenstein" Sassi, lo avrebbero preferito molto più prog. Uno degli aspetti più curiosi del singolo è il packaging: un 45 giri con copertina apribile era un oggetto piuttosto raro. La BlaBla ci stava credendo molto, in questo Battiato prog, e non badava a spese (nel singolo era incluso persino lo spartito, che al tempo l'autore non sapeva leggere). Il brano è un robusto quattro quarti, la cosa più rock mai tentata fino a quel momento (e fino al Cinghiale Bianco) con uno sfoggio di sonorità che rischiamo di fraintendere: per quanto possano sembrare fuori le righe e avanguardistici, non erano molto diversi in questo caso dai suoni del prog da classifica – sì, in quegli anni il prog italiano arrivava in classifica. Quel che è davvero interessante non è il brano in sé, ma la distanza tra il brano e quelli che usciranno pochi mesi dopo su Pollution: una distanza che ci lascia capire quanto Battiato già nel 1973 fosse sospettoso nei confronti del carrozzone che Sassi e la BlaBla gli stavano montando addosso. La convenzione era l'idea che i suoi manager avevano di lui: lui nel frattempo stava già tentando qualcosa di diverso. Alla Convenzione Battiato tornerà, ed è indicativo, durante il tour di Gommalacca, forse per far fronte a un'esigenza di brani rock da proporre a un pubblico nuovo e non troppo smaliziato. Attenti poi a non cascare in un tranello di Youtube, che a volte smercia come La convenzione del 1973 una versione che è un vero e proprio falso storico, con batteria ancora più dritta e chitarra heavy metal. È la "versione 1997", il bonus dello strano CD uscito nel 2002 proprio col titolo La convenzione, un'antologia piuttosto spuria di brani di Camisasca, Osage Tribe e Battiato – uscita probabilmente all'insaputa di quest'ultimo.   


1998: Quello che fu (Battiato/Sgalambro, #166)

Retrospettivamente bisogna ammettere che Gommalacca è un disco in cui Battiato si prende rischi rari per un artista della sua età e con un pubblico già così consolidato. Certo, era pur sempre Battiato: il diritto a mettere nei solchi quello che gli pareva se lo era pazientemente conquistato. In Quello che fu cerca di operare una sintesi tra un certo suo stile salmodiante (lo sentiamo nell'introduzione elettronica) e il rock lento e tetragono dei CSI di Tabula Rasa Elettrificata, che a un certo punto si impossessa del brano e lo trasforma in un lungo incedere di due accordi scalpellati da una chitarra distorta. Anche il testo di Sgalambro è piegato in tal senso: Fu quello che fu è una tautologia di sapore ferrettiano, potrebbe stare nello stesso taccuino di chi c'è c'è e chi non c'è non c'è, chi è stato è stato e chi è stato non è. Forse per ottenere questo risultato Battiato ha sforbiciato qualche verso di troppo, così che Quello che fu diventa un esempio del suo peculiare anacoluto, la sua tendenza ad affastellare subordinate senza agganciarle a una principale: "Quel che deve ancora avvenire, il sorgere della città di Dio, l'emblema che ci fa forti e sicuri oppure pazzi e disperati". Forse quel che deve ancora avvenire è il sorgere della città di Dio, ma non è così chiaro e probabilmente non vuole esserlo. In questa struttura sferragliante Battiato non riesce a mantenere l'aplomb del sedicente allievo e si concede acuti inconsulti anche per lui. Ci voleva del coraggio. Lui l'aveva.

2007: Tiepido aprile (#91)


Pensieri leggeri si uniscono alle resine dei pini. Se dico che è il mio verso preferito di tutto il Vuoto, cosa dimostro? Una certa insofferenza per le tematiche spirituali che ormai erano il leitmotiv del disco? Battiato stava diventando per me quel tipo di conoscenza con cui preferisci discutere del clima, tutti gli altri argomenti ormai li conosci e preferite evitarli? Oppure mi sto lasciando catturare da un raro esempio di prosodia battiato/sgalambresca, un verso in cui gli accenti cadono dove devono cadere suggerendo ritmo e musica PenSIEri legGEri si uNIscono  alle REsine dei PIni. Addirittura più in là canta al siLENzio lonTAno delle NUvole. Basta davvero così poco per farmi contento? Tiepido aprile mi sembra di gran lunga il più bel momento di tutto il Vuoto. Particolarmente straziante risulta l'ascolto della versione della Royal Philarmonic Concert Orchestra, in Torneremo ancora.   

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59. Che non si parli più di dittature

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[Questa è la Gara delle canzoni di Battiato, oggi con Povera patria e altri tre brani su quant'è difficile vivere insieme a una persona (quale persona? Non si è mai saputo, non era così importante)]. 

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1978: Hiver (per soprano e pianoforte) (#230)


Il primo interminabile turno della Gara sta volgendo al termine e ho la sensazione di non aver ancora parlato di tante cose e persone, ad esempio Alide Maria Salvetta. Prima di Giuni Russo, prima di Alice, è stata la prima voce femminile a lasciarsi plasmare da Battiato, nei dischi del biennio 1977-78: Battiato e Juke-Box. Probabilmente il brano in cui lascia più il segno è questo Hiver, che stasera mi sembra anche il più interessante di tutta la non-colonna-sonora del Brunelleschi. Battiato la fa sussurrare e saltellare tra le ottave: il risultato forse dovrebbe ricordare la sensazione di solitudine che danno i suoni ovattati dalla neve. La canzone parla di un coinquilino che lasciava la finestra aperta mentre fuori nevicava: forse è il primissimo bozzetto milanese di Battiato.    


1991: Povera patria (#27)


Si può sperare che il mondo torni a quote più normali? Che possa contemplare il cielo e i fiori? Il testo di Povera patria sembra il tema di uno studente svogliato che voglia impressionare il prof con quella tipica retorica che si dà per scontato che piaccia ai prof, salvo che non avendo mai veramente prestato interesse a 'quella tipica retorica' (in classe gli arrivava come attraverso una campana di vetro) si ritrova a mimarla con esiti esilaranti – il mondo deve contemplare il cielo, ok, posso quasi capire, ma i fiori? Il mondo deve contemplare i fiori? Ma chi pensi che ci cascherà con questa roba? Tutti. Ci sono cascati tutti. Gli è bastato aprire con una tirata populista per mandare in classifica anche un disco altrimenti incommerciabile, alla fine è riuscito a piazzare 300mila copie di una cosa che per la metà è lui che canta arie di musica classica, che sagoma questo Franco Battiato. 

Con Povera patria si conclude la mutazione da Solito Stronzo a Venerato Maestro. Vien proprio da rimproverare questi governanti, questi perfetti e inutili buffoni: ma non vi vergognate ché avete fatto arrabbiare monsignor Battiato? Con tutto quello che ha da fare, con tutta l'arte che ha da esprimere, con tutti i Lied che deve intonare.

L'anno scorso all'improvviso tutti si sono messi a scrivere "cringe", e quando tutti intendo persino i miei studenti, che almeno hanno il buon motivo di non sapere con quante z si scrive "imbarazzante". Povera patria è il Battiato più cringe. Non è che non avesse già costeggiato pericolosamente l'imbarazzo (in Fisiognomica, ad esempio), ma è in Povera patria che lo abbraccia senza residuo pudore. Sembra quasi che si compiaccia a scrivere versi che oggi immaginiamo in fondo alla sezione commenti degli articoli on line del Fatto Quotidiano, ad es. "che non si parli più di dittature", cioè capite Battiato ha detto no alle dittature, e mica solo ad alcune eh? No a tutte! Ce lo vedo anche incollato su un fumetto apocrifo di Mafalda, e altre manifestazioni boomeristiche che oggi consideriamo giustamente barbarie, ma dobbiamo pure ricordare questo fatto incredibile, che Povera patria è del 1991. Fosse uscita nel 1992 sarebbe stata una speculazione su Tangentopoli e sulle stragi di mafia: ma nel 1991 era una trascrizione abbastanza fedele di come si sentiva la gente. "Non cambierà / non cambierà", "Sì cambierà, forse cambierà". Tutta l'Italia stava cantando questa cosa, tutta l'Italia stava aspettando Di Pietro più di quanto Israele attendesse un Messia. Battiato non era più il profeta scostante che parlava per enigmi: bensì il sacerdote che mostrava al popolo quel che il popolo pensa, con parole semplici e severe. 

1998: Vite parallele (Battiato/Sgalambro, #155)

Tu pretendi esclusività di sentimenti: non me ne volere, perché sono curioso, bugiardo e infedele. Gommalacca assomiglia a certi spettacoli itineranti con un sacco di figuranti che uno alla volta se ne vanno dalla scena, finché negli ultimi numeri non rimane solo il capocomico che finalmente si toglie dalla maschera (la maschera in certi casi è Sgalambro): eccolo qua, Franco Battiato. È bugiardo e infedele: meno male che lo dice lui perché nessuno da trent'anni ha più il coraggio di dirglielo. Sa (come noi) di vivere tra "miliardi di galassie" ("tocco l'infinito con le mani"), ma proprio come noi sembra più interessato a farsi toccare da qualche presenza più vicina e interessata. Si dice convinto che vivrà in eterno, ma questo non gli impedisce di temere "l'oblio, la dimenticanza". Crede nella reincarnazione, ma ammette di praticarla già, reincarnandosi un po' ogni giorno, vivendo "vite parallele, ciascuna con un centro, una speranza, la tenerezza di qualcuno". Viene in mente una cosa che diceva Camisasca in un'intervista qualche tempo fa: non fatene un santino. 


2012: Eri con me (Battiato/Sgalambro, #102)


Siamo detriti, relitti umani, trascinati da un fiume in piena. Eri con me è l'ultima canzone composta da Battiato per Alice. Purtroppo non regge il confronto con i brani degli anni Ottanta (in linea di massima tutte le composizioni di Apriti sesamo, benché non banali, eseguite con intensità e arrangiate con cura, danno la sensazione che Battiato non avesse più molte idee musicali da esprimere). Condivide la generale mestizia del lunghissimo appressamento della morte che Battiato stava raccontando, e presenta un ritornello enigmatico che potrebbe descrivere il rapporto tra due artisti che tutto sommato non hanno collaborato tantissimo, malgrado le scintille che facevano scoccare: eri con me, ma io non ero con te; sei con me, ma io non sono con te; ero con te, ma tu non eri con me. Rispetto alla versione eterea di Alice (che era uscita poco prima), Battiato realizza una canzone più rumorosa e vitalista, coi sintetizzatori e poi l'orchestra e poi basso chitarra e batteria. Più si avvicinava al Silenzio più sembrava aver voglia di far baccano. 

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58. Tornerà la moda dei vichinghi

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[Questa è la Gara delle canzoni di Franco Battiato, oggi con una batteria di canzoni da meditazione. Scegliete la vostra preferita come l'adepto si sceglie il tappetino, ohm].   

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Il tabellone


1983: Tramonto occidentale (Battiato/Jaeggy, #59)

Friedrich Nietzsche era vegetariano: scrisse molte lettere a Wagner, ed io mi sento un po' un cannibale e non scrivo mai a nessuno. La decadenza è anche questo: quando cerchi di evocare il ciclo dei Nibelunghi e senza volere ti esce Semplice di Gianni Togni – rarissimo caso di plagio inconsapevole, perché davvero non riesco a immaginarmelo Battiato che pensa: adesso per ottenere il correlativo musicale della decadenza nel ritornello passo in maggiore e così l'ascoltatore si renderà conto che quella che sembrava un pezzo di sinfonia elettronica e apocalittica è in realtà Semplice di Gianni Togni (sia la canzone di Togni sia quella di Battiato devono poi qualcosa a Follow You Follow Me dei Genesis). Tra i tanti lamenti per la fine della civiltà che Battiato ha messo sui solchi, Tramonto occidentale si segnala perché è forse l'unico caso in cui il cantautore non osserva la decadenza da qualche astratto piedistallo, ma la vede procedere in sé stesso: è lui che non ha voglia di leggere o studiare, "solo passeggiare sempre avanti e indietro lungo il Corso o in Galleria". È lui che mentre constata che "la famiglia è in crisi da generazioni per mancanza di padri" ammette di essere un solitario, incapace di disciplina, e di divertirsi a osservare i suoi concittadini che sventolano le bandiere "fuori dalle macchine all'uscita dello stadio", con la voluttà di ingaglioffarsi che a volte prendeva Nanni Moretti nei film di quegli anni. È lui che non riesce nemmeno ad ammettere la dipendenza dal tabacco. Non so quanto questo aspetto di Tramonto occidentale – che me la rende molto più simpatica di tante altre sue canzoni sullo stesso tema – dipenda dal testo di partenza di Fleur Jaeggy: non lo so perché non ho idea dell'originale, nessun battiatologo per ora l'ha individuato, e abbiamo già visto che molto spesso Battiato interviene su testi già pubblicati, non necessariamente in versi, sforbiciandoli di molto. 


1991: Gestillte Sehnsucht (Brahms, #187)

Desiderio placato. La predilezione di Battiato per Johannes Brahms – più volte dichiarata nelle interviste – trova finalmente uno spazio per esprimersi nel 1991 sul secondo famigerato lato di Come un cammello in una grondaia: in questo caso oltre a cantare Battiato si prende cura anche dell'orchestrazione, purtroppo lasciandoci un senso di insoddisfazione: dopo aver giocato più volte nella sua carriera con Beethoven, Bach, Ciajkovskij, quando finalmente decide di affrontare Brahms si comporta forse in modo troppo rispettoso per ottenere qualcosa di memorabile. Non so se capiti anche voi qualche volta di svegliarsi con in testa una melodia che non è la solita canzone per l'estate, ma un brano di musica lirica o classica (dipende soprattutto da cosa si ascolta di giorno). Ecco, in questi casi a volte qualcosa ci frena, ci impedisce di canticchiare o fischiettare a cuor leggero quelle che alla fine sono comunque splendide melodie. È il rispetto che si deve alla musica colta, o forse quel senso di distanza che danno le voci impostate. Canticchiando il suo Brahms, Battiato intendeva soprattutto mostrarci che questa distanza è colmabile, abbattere il muro tra la musica fischiettabile e quella non fischiettabile. Non importa che la sua Gestillte Sehnsucht non sia la migliore Gestillte Sehnsucht (ci mancherebbe altro): l'importante è che si possa fare: il Cammello segnalava che lo steccato era caduto, avremmo potuto cantare qualsiasi musica del passato senza vergogna. Quel che è successo è purtroppo l'opposto di quello che auspicava Battiato, ovvero i cantanti d'opera si sono messi a fare dischi pop.  


1993: Lode all'inviolato (#70)

Ne abbiamo attraversate di tempeste. Me la sono cercata: l'altro giorno commentando Delenda Carthago scrivevo: bizzarra per gli standard battiateschi la scelta di impostare tutta la canzone su una progressione di quattro accordi ascendenti. Non avevo notato che in Lode all'inviolato succede più o meno la stessa cosa: Mi-, Fa, Sol, La-. A mia discolpa, la scala è parzialmente dissimulata dal fatto che la voce parte sul La-, dando la sensazione che la progressione cominci sull'accordo più alto. Tra questo e il Mi-, che è il più basso, si protende la scala naturale discendente suonata nell'introduzione dal pianoforte e poi dai violini. Musicalmente, Lode all'inviolato è poi tutta qui: un ciclo breve e quasi ipnotico sul quale Battiato è libero di salmodiare senza fissarsi su nessuna melodia. Persino se non capissimo le parole (e non è che le capiamo proprio tutte) avremmo comunque la sensazione di trovarci più davanti a una preghiera che a una canzone. Non solo una lode, ma anche (e soprattutto) una professione di fede: Battiato rifiuta il male, i "personaggi inutili" che ammette di avere indossato, e indica una via che attraverso la saggezza arriva alla gioia. Tutto molto mistico ma io in quegli anni ero convinto di averlo perso e rimpiangevo soprattutto i personaggi inutili che non indossava più. 


2004: Conforto alla vita (Battiato/Sgalambro, #198)

Ah, quanto fumo si levò che non fu fiamma. A volta Battiato in Dieci stratagemmi dà la sensazione di voler ripassare in alcuni punti meno noti del suo catalogo, come a dire: ricordatevi che facevo anche questo tipo di cose. Conforto alla vita ad esempio sembra, da lontano, uno di quei brani un po' salmodianti del periodo di Caffè de la Paix (vedi sopra Lode all'inviolato), quelli di cui nessuno parla male anche se quasi tutti preferiscono ascoltare qualcos'altro. È una somiglianza solo superficiale, in realtà tante cose sono cambiate, ad esempio la musica è ancora più libera e sfuggente e nel reparto parole c'è Sgalambro che a quanto pare sta maneggiando citazioni scelte da Johann Gottfried Herder, pensatore settecentesco in realtà interessantissimo e molto peculiare (inventò lo storicismo, chiacchierando con Goethe imbastì in sostanza la traccia per il romanticismo tedesco, nel tempo libero litigava su Kant sulla Ragion Pura) che però nelle sapienti mani del nostro filoffo talattico preferito diventa un Budda qualsiasi, un erogatore di massime aspirazionali ("Sii forte e sereno anche nei giorni dell'avverso fato", ok). 

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