Il condominio tra i vulcani

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Attenzione, questa non è un'esercitazione
(è l'Italia)

Si dice di noi italiani che siamo sospesi fra Europa e Africa; il concetto merita un approfondimento geologico. Europa e Africa in effetti non sono due signore che si incontrano pacificamente in un meeting interculturale: si tratta di enormi placche tettoniche che si sfregano contro, e l'Italia è il risultato di questo morboso strusciamento tellurico. Una terra sismica, con centinaia di terremoti storicamente accertati, e noi siamo quelli che ci vivono sopra. Non l'abbiamo scelto noi – ma è vero che molti di noi, lungo i secoli, hanno deciso di andarsene: verso terre più ricche, più accoglienti, e magari più prevedibili.

Allora è possibile che in un qualche modo nel corso del tempo l'Italia si sia scelta i suoi italiani. Voglio dire (forzando parecchio il povero Darwin) che alcuni caratteri nazionali che siamo abituati a identificare come “pregi” e “difetti” sono semplicemente i più adatti a farci vivere qui piuttosto che altrove.
Fate finta che l'Italia sia un condominio. In una zona sismica. Con qualche vulcano nei pressi. Voi lo comprereste un appartamento? Magari al quinto piano? Magari no. Eppure, se ci pensate bene, lo avete fatto. O lo hanno fatto i vostri genitori per voi. Può darsi che infatti stiate pensando di andare altrove: avete i vostri buoni motivi. Ma questo significa che il vostro appartamento resterà sfitto, finché non arriverà da un rione più povero (e ce ne sono, tutt'intorno) qualche persona un po' più rassegnata di voi. Col passare degli anni, e dei secoli, il condominio tra i vulcani avrà selezionato un certo tipo di umanità.

Di questa umanità si possono dire alcune cose buone: essa è generalmente solidale. Per forza, convive con disgrazie ed emergenze. È generosa, anche nella penuria di mezzi. L'Italia non è il posto migliore dove passare una serata, ma non diventa il far west appena qualcuno stacca la luce (come può accadere in Paesi più “civili”).

L'altra faccia della medaglia sono le superstizioni, i piagnistei, utilizzati come valvola di sfogo ogni volta che ci va male, e ci va male spesso; l'affidarsi alla Provvidenza, non tanto come principio metafisico ma più spesso come statua di gesso o uomo di bronzo (o, più recentemente, cerone) da portare in processione. Tutto questo siamo liberi di trovarlo insopportabile, ma è un fatto che lo sopportiamo, tant'è che siamo qui; magari poi ce ne andremo, o sarà nostro figlio a farlo, dopo averci chiesto conto dell'appartamento che gli abbiamo lasciato al quinto piano.
“Ma siete stati pazzi a comprare qui”.
“Però c'è un bel paesaggio”.
“Che bel paesaggio? È un vulcano”.
“Ma è spento da 60 anni”.
“Perché l'eruzione è in ritardo! E sarà esplosiva! Ci sono resoconti storici! Scappate con me finché siete in tempo!”
“Ma no... ma che modi... vedrai che per altri vent'anni resiste...”
“E dopo?”

Ecco, a caratterizzarci è soprattutto l'incapacità di farci questa domanda: “e dopo?” Può darsi che il vulcano non erutti per un po', che la terra non tremi, che la frana non frani: ma dopo? Perché se non succederà a mio figlio succederà al suo – ma io non sono geneticamente selezionato per farmi questa domanda, altrimenti mi sarei già trasferito in Germania da due generazioni, mi chiamerei Leonhardt e verrei solo in agosto a scuotere la testa di fronte alla sagoma del Vesuvio: quanto ziete pazzi foi italiani a costruire qvi. Appena fulcano tremare, zeicentomila perzone da efacuare? Dofe? Però ziete tanto pitoreski.

"Nessuno ha offerto istruzioni calme, rassicuranti, civili, informate", scrive dall'Aquila il dottor Massimo Gallucci
La mia piccola storia assieme alle centinaia di storie di amici, mi ha insegnato che se avessi avuto una torcia elettrica sul comodino non mi sarei fratturato la colonna vertebrale, se avessi avuto un cellulare a portata di mano avrei chiesto aiuto per me e per il palazzo accanto, se molti avessero parcheggiato almeno un’auto fuori dal garage ora l’avrebbero a disposizione, se in quell’auto avessero (e io avessi) messo una borsa con una tuta, uno spazzolino da denti e una bottiglia d’acqua, si sarebbero tollerati meglio i disagi. Se si fosse tenuta una bottiglia d’acqua sul comodino, se si fosse evitato di chiudere a chiave i portoni di casa, se si fosse detto di studiare una strategia di fuga…. Pensate a chi è rimasto incarcerato per ore senza poter comunicare con l’esterno perché aveva il cellulare in un’altra stanza, o perché non trovava al buio le chiavi di casa, come le ragazze di un palazzo a fianco a me già semi sventrato: 6 ore sotto un letto, con la terra che continuava a tremare, perché la porta era chiusa a chiave, senza una torcia elettrica e senza cellulare per chiedere aiuto!
Aggiungerei: pensate a chi non è stato e non sarà mai trovato perché aveva un affitto abusivo (stranieri e studenti, forse il 90% del centro dell'Aquila) e non aveva un cellulare caricato sul comodino. E quindi? Caso Giuliani a parte, perché la popolazione non è stata allertata per un semplice principio di precauzione?

C'è una risposta sgradevole: la popolazione non è stata allertata perché gli italiani (e gli aquilani in particolare) devono considerarsi sempre allertati. Il cellulare sul comodino, la torcia elettrica nel cassetto, sono precauzioni che ognuno di noi dovrebbe prendere ogni notte. Da un punto di vista razionale potrei dire che uno sciame sismico non anticipa necessariamente una scossa come quella dell'Aquila; da un punto di vista emotivo (di italiano emotivo) aggiungo che lo scorso inverno mi è bastata una scossetta da nulla per dormire sul divano col telefono in mano. Vivere in Italia è questo e lo sappiamo: ci sono le regole (e non le applichiamo), le esercitazioni (e le prendiamo per buffonate)... ma se fossimo persone più razionali e apprensive forse non abiteremmo qui. Perché questa non è una terra per persone razionali e apprensive.

Dovevate comunque allertarci, dicono. Anche in assenza di una previsione scientificamente accettata: per un principio di precauzione. Ma un aquilano che viene avvisato via tv o telefono della possibilità di uno scisma imminente non andrà a letto con un telefono e una torcia a portata di mano: più probabilmente abbandonerà la casa, scenderà in piazza (come s'era visto a Sulmona pochi giorni prima). Il tutto in attesa di una scossa che forse non ci sarebbe stata. O sarebbe potuta arrivare a 100 km. di distanza, in una località dove gli aquilani si fossero rifugiati. O qualche giorno dopo, proprio nel momento in cui gli aquilani decidevano di tornare a casa. A meno che gli aquilani non decidessero di andarsene definitivamente. Ma questo nessuno osa pensarlo. Già, perché nessuno osa?

Osiamo noi. In base a un principio di precauzione, perché deve esistere L'Aquila? Una città di quasi centomila abitanti appoggiata su una faglia. Insediamento medievale, va bene, ma molte rocche medievali le abbiamo pian piano svuotate o trasformate in musei. L'Aquila invece è capoluogo regionale e sede universitaria. Venivano studenti da tutta Europa: anche lì, perché? Ok, gli erasmus sono inconsapevoli, ma gli italiani? Chi, potendo scegliere una sede un po' lontana da casa, opterebbe per una falda sismica?

Qualcuno prima o poi deve aver pianificato di mantenere un grande insediamento lì; la scelta di portarci la Regione e l'Università (fondamentale per l'indotto) l'avrà pur presa qualcuno; qualcuno quindi deve aver fatto uno di quei calcoli che sembra che gli italiani non facciano mai (perché c'è qualcosa di effettivamente osceno in un calcolo del genere). Il calcolo diceva che abbandonare quella terra sismica sarebbe costato di più di sopportare qualche catastrofe ogni tre-quattrocento anni; tanto la gente dimentica presto, e al limite chiederà conto al politico che si è appena insediato. Tanto peggio per quel signore; sempre che non sia abbastanza furbo da farsi inquadrare mentre soccorre la vedova e l'orfano, rivoltando la frittata in suo favore. E cosa vuoi che siano trecento morti, se tre secoli fa erano stati seimila: lo vedi che anche noi col tempo miglioriamo?

Ma ora non vi basta più, volete essere pre-allertati. La terra vi tremava sotto i piedi e siete andati a letto, in case costruite con la sabbia: ma se Bertolaso vi avesse detto qualcosa un'ora prima... non resta che pre-allertare Napoli, a questo punto.
In base allo stesso principio. Il Vesuvio nei prossimi anni esploderà, è chiaro. Nessuno può dirci quando, ma non ha senso restare lì ad aspettare il panico dell'ultimo momento. Ci sono testimonianze storiche abbastanza esplicite: intere città sommerse dai lapilli, nubi di gas roventi. Nei comuni alle pendici bisognerà intensificare le esercitazioni per l'evacuazione. Ma anche in città sarebbe meglio cominciare a dormire con cellulare e torcia a portata di mano. Naturalmente in tutta la provincia va verificato il rispetto delle norme antisismiche, perché vulcano e terremoti vanno a braccetto. Occorre cominciare a pensare a tutto questo e farlo subito.
Oppure fingere che tutto sia sotto controllo e lamentarsi dopo, con le statue di gesso di turno. Ma forse è una falsa scelta, forse è l'Italia che ha scelto noi.
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Crossing Fingers All Around The World

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Oggi ho pensato che se vincesse, costui, sarebbe una bella notizia. Certo, non la migliore notizia dell'anno, però...
Poi mi sono messo a pensare alle belle notizie che abbiamo ricevuto quest'anno, e sul serio, non me n'è venuta in mente neanche una. Neanche una.
E mi sono guardato. Io di solito quando mi guardo mi sorrido in faccia, però dovrei essere immortale per non farmi segnare qualche ruga da un anno così - voi?
Io poi stringo i denti, e faccio il mio dovere come tutti, ma non raccontiamocela: sta diventando dura. Ogni giorno di più.
Ma non mi sembra di chiedere qualcosa di eccezionale, palingenesi o rivoluzioni o cose così. Solo una buona notizia, ogni dieci cattive.
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Due piccole correzioni

La prima correzione è: le cose non si giustificano (né si condannano), le cose al massimo si cercano di capire. Se non altro perché sono lì, le cose, e hanno quindi più dignità di qualsiasi nostra teoria su come invece dovrebbero andare.

Per fare un esempio spiccio, io non è che debba mettermi a difendere o a condannare lo sciopero selvaggio degli autoferrotranvieri, perché lo sciopero c’è, funziona, e se ne frega assai, della mia difesa o della mia condanna.
Semmai ci aiuta a fare il punto. Abbiamo sentito per anni criticare i sindacati perché, a seconda del punto di vista, erano sdraiati dalla parte dei padroni o dei lavoratori: perché erano diventati una realtà para-istituzionale o viceversa perché non accettavano il loro ruolo istituzionale di mediatori; perché prendevano troppi soldi (e lo dicevano anche i politici, poveracci); perché avevano trasformato gli scioperi in cerimonie d’identità senza più valore. Bene.

Chi ha svillaneggiato i sindacati per tanto tempo, chi si è dato da fare per dividerli, chi li ha equiparati tout court al brigatismo, oggi se è a Milano si può godere la lotta di classe vecchio stile, con le serrate, i picchetti, i caporali. Fa un certo effetto, eh? Però se i tram stanno fermi Milano non funziona. C’è una categoria professionale che può bloccare tutte le altre, e siccome può farlo, lo fa. Senza intermediazioni. Senza cerimonie.
Non è molto sportivo, vero? No, non lo è.
Non è neanche molto legale, probabilmente. Già, non lo è.
Però funziona, questo è il punto.

Ci dimentichiamo spesso che la nostra è la famosa società aperta: vale a dire – a parte qualche paletto messo qua e là in epoche diverse, non sempre dritto e non sempre saldo – in una jungla. Chi privatizza, esternalizza, de-regolarizza, attenta alla dignità dei lavoratori, è convinto che il settore dei servizi possa subire qualsiasi taglio senza fiatare – al massimo una chiassata di piazza con le bandiere e poi di nuovo tutti al lavoro. Non è così. Ci sono categorie di lavoratori che hanno ancora il coltello dalla parte del manico: forse non conveniva metterli spalle al muro.

In fondo gli autoferrotranvieri fanno esattamente quello che fa qualsiasi imprenditore d’assalto, qualsiasi amministratore finanziario disonesto (che magari oggi sta ricomprando i junk bond parmalat): bada prima di tutto ai suoi interessi. È la regola non scritta della società aperta. È in questo tipo di società – negli USA, per esempio – che sono nati i primi sindacati, e non sempre erano pieni di persone educate con tante belle idee: a volte erano controllati da persone senza scrupoli, magari collusi con la mafia. Di film sull’argomento se ne sono fatti parecchi.

E qui veniamo alla seconda piccola correzione: la Sinistra non è il mondo delle brave persone che rispettano le leggi e protestano contro il governo cattivo nei limiti della legalità e dell’educazione. La Sinistra rappresenta alcune classi sociali che lottano per i loro, chiamiamoli diritti, anche se oggi si dice: interessi. Non è scritto da nessuna parte che debba essere educata o onesta (tanto meglio se lo è, ci mancherebbe).
Non è buona, non è cattiva, non si giustifica: semplicemente, sta lì. E noi ci siamo dentro non perché crediamo di essere più buoni o più belli o di avere un miglior gusto nel vestire: ci siamo dentro perché apparteniamo a una di quelle classi sociali, il più delle volte senza aver neanche avuto la possibilità di scegliere.
Siamo poi liberi di comportarci secondo il nostro senso della legalità e secondo la nostra educazione (se ne abbiamo ricevuta una): ma man mano che andremo avanti, anzi, che indietreggeremo con le spalle al muro, saremo sempre più spaventati e nervosi, e sempre meno rispettosi della legge e delle buone maniere.

Che è poi, esattamente, quello che si vuole da noi. Colpire gli intermediari, criminalizzare il movimento… la strategia è sempre la stessa.


Postilla.
Può capitare a volte che una cosa detta da me si avveri, non perché abbia studiato a lungo la cosa, ma perché sono pessimista, e un pessimista nei tempi medio-lunghi ha sempre ragione (il pessimismo è una scorciatoia per l’intelligenza).
Ci tengo però a precisare che non sono di quei pessimisti che quando va tutto a rotoli si divertono, e se Roma prende fuoco salgono sul terrazzo con la cetra, e dicono che la situazione è eccellente. Io sono un pessimista triste e incazzato: le cose vanno male, lo so e mi dispiace. No, perché non vorrei che mi si prendesse per uno che.

E poi non è vero che non mi vergogno.
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