Contra Probvum (et Probolinos)

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1) L'Appendix Probi

Un millennio e mezzo fa un maestro di grammatica, stanco di leggere e ascoltare sempre gli stessi errori, decise di stilarne una lista. Agli studenti non restava che memorizzare, e la lingua era salva. Già, ma quale lingua? Quella del maestro era ancora il latino. Quella dei suoi studenti non lo era già più. La sua lista, chiamata Appendix Probi perché si trova aggiunta in appendice al manuale di grammatica di Valerio Probo, ha avuto una curiosa fortuna.

Paradossalmente, se il maestro fosse riuscito a correggere per sempre gli errori che trovava insopportabili, nessuno si oggi si ricorderebbe più di lui (il buon maestro è quello che scompare). Invece quegli errori si dimostrarono avversari tenaci: continuarono a ripresentarsi, generazione dopo generazione, finché la buona vecchia lingua capitolò. Così l'autore dell'Appendix (chiamiamolo Probo, per comodità) è passato alla Storia. La sua lista è uno dei documenti più importanti per gli storici della lingua. Non latina: italiana.

Noi oggi non studiamo l'Appendix Probi per i termini a sinistra (che stanno in tutti i vocabolari di latino), ma per quelli a destra. Secondo il Probo grammatico erano errori; noi le riteniamo le prime tracce della nuova lingua che stava nascendo, dalla decomposizione della vecchia. “Speculum, non speclum!”, tuonava il povero Probo. E noi grazie a lui capiamo che già nel IV secolo la u centrale era fuori uso, la C picchiava contro la L e in qualche secolo l'avrebbe assimilata. Infatti oggi diciamo “specchio”. “Viridis, non virdis”. Oggi si dice “verde”. “Auris, non oricla!”: oggi diciamo “orecchie”. Ma la più buffa di tutte resta sempre “Aqua, non Acqua!” Povero Probo, tu non hai nessuna colpa. Anzi, hai il grandissimo merito di aver recitato la parte del severo e ottuso difensore del passato. Per te esisteva una sola lingua, che non sarebbe cambiata mai. Noi sappiamo invece che la lingua cambia in continuazione, e cerchiamo di cavalcarla come possiamo.

D'altro canto, tutta questa evoluzione non può che spaventarci: non si tratta solo di prendere consapevolezza che i bei tempi delle elementari, delle regolette e delle certezze sono finiti. Il fatto è che la novità nasce sempre dalla decomposizione delle forme antiche: e la decomposizione, vista da vicino, fa un po' schifo. Pensate all'orrore istintivo che nutriamo per le K. Eppure i nostri figli o nipoti prima o poi le useranno; non c'è niente da fare: sono comode. I grammatici lo sanno, e se interpellati mostrano sempre una certa disarmante tolleranza. Il fatto è che non ci stanno a fare la figura del povero Probo: non vogliono passare alla Storia per aver tentato di non farla passare. I probolini di oggi, o “grammar nazi”, come li chiamano, li trovi altrove. Su internet per lo più.

Non è un caso. Se i network diventano “sociali”, per prima cosa bisognerà dimostrare di saper stare in società. Più che filologia, si tratta di galateo: disporre gli accenti come le posate in tavola. Inutile chiedersi perché qui no e lì sì: sarebbe come chiedersi il motivo della forchetta dell'insalata, e comunque alle elementari tutti questi perché non ce li fornivano. Se per caso un grammatico viene a cena, rischia di beccarsi dei rimproveri perché accenta “sé stesso” o scrive “obbiettivo” con due b. Il curioso fenomeno per cui alcuni blog sono meno tolleranti dei vocabolari si spiega abbastanza semplicemente: Devoto/Oli e Zingarelli non hanno nulla da dimostrare; i blogger sono parvenu che vivono di parole, la loro autorevolezza poggia sui fragili pilastri della popolarità. Spesso lo snobismo non è che una forma di difesa preventiva.

Per questo capita a intervalli abbastanza regolari che su un blog compaia una lista, proprio come quella di Probo: l'ultima l'ha buttata giù Guia Soncini (tirandomi in ballo), ma in questi anni ne ho lette tante, ormai è un sottogenere. Io, sarà anche perché passo la vita a correggere errori stupidi senza trovarci più nulla di divertente, continuo a essere affascinato più dalla colonna destra che da quella sinistra. Lo so che non si scrive “anedottica”, ma trovo curiosa la persistenza dell'errore. C'è stato un tempo in cui anche “malinconia” era un errore; il Probo di turno lottò per salvare “melanconia”, invano: la parola “male” era troppo a portata di lingua per impedire la contaminazione; e magari i nostri discendenti per un motivo simile diranno “malinconoia”, chi lo sa? Io spero di no, ma preferisco una lingua che cambia a una lingua che si congela e muore.

Per questo motivo volevo inaugurare l'Autunno/Inverno con un'Appendix al contrario: ecco i termini che, per quel che mi riguarda, non sono più errori: ovvero, io non perderò più tempo a correggerli. Il che non significa che li commetterò: nella maggior parte dei casi continuerò a scrivere come mi hanno insegnato i miei maestri. Ma per abitudine, o magari in segno di affetto nei loro confronti. Voi invece siete liberi di fare come credete. Se vi aspettate segni rossi da me, non li avrete. Qui si viene a tavola un po' così, alla buona: tutto è permesso, basta che non pestiate il capslock.


2) L'Appendix Leonardi

Si scrive po', ma si può scrivere anche .

Lo so che fa schifo, ma dovete accettarlo: quell'apostrofo è condannato. Spacciato, dal momento in cui le tastiere hanno soppiantato la penna a sfera. Tutte le regole e le raccomandazioni e i compiti di punizione non possono passar sopra al semplice fatto che “pò” si scrive con due pressioni del dito, e “po'” con tre. (Inoltre, avete notato? Tra virgolette quasi scompare). Un risparmio di energia pari al 33% non è una cosa contro cui si possa lottare: nei tempi lunghi l'avrà vinta lui. Io continuerò a scrivere po', e a correggerlo sul posto di lavoro: ma è una battaglia persa, che vi esorto a disertare. È già successo nei secoli che un apostrofo si confondesse tra gli accenti, e non è cascato il mondo. Non dovrebbe succedere neanche stavolta.

Si scrive “un'anima”, ma per me si può scrivere anche “un anima”.

...E di colpo le prestazioni dei miei studenti migliorerebbero del 13%; il tempo che dedico a correggere apostrofi inutili si ridurrebbe dell'80%, e tutti avremmo risparmiato un sacco di tempo da dedicare a cose più interessanti: per esempio a imparare a scrivere bene, che è cosa che poco o nulla c'entra con gli apostrofi. La differenza tra troncamento ed elisione teniamocela per l'università.

Si scrive “qual è”, ma per me si può scrivere anche “qual'è”.

Vedi sopra. Perché insomma, cominciamo ad avere un'età: oltre a non esser più i cocchi della maestra, non siamo nemmeno più quei giovani tromboni che si riconoscevano a distanza grazie all'apostrofo rivelatore: se sapevi scrivere “qual è” eri del club. Peccato che non avessimo chiaro di che club si trattasse. Pensavamo che fosse quello dei futuri grandi scrittori, invece era il circolo sociale dei correttori di bozze e maestrini frustrati. Voi fate come volete, io straccio la tessera.

Si scrive “avemmo”, "facemmo", ma per me si può scrivere anche “ebbimo”, "fecimo".

Bello schifo, lo so, ratificare le flessioni verbali di Mr Esselunga. Ma io vado anche più in là: per quel che m'interessa potete scrivere anche “Avebbimo” o “ebavemmo”: viva il passato remoto libero. E la luce fubbe!

Si scrive “effigie”, ma per me (e per i vocabolari) si può scrivere anche “effige.

Questa è una sciocchezza, però la discussione che ne scaturì in pieno agosto fu abbastanza divertente. In buona sostanza, io preferisco la forma breve perché (1) è più breve; (2) non disorienta i lettori (se avete mai discusso con un ragazzini, ma anche laureati, convinti di dover pronunciare un po' di “i” in “cielo” sapete cosa intendo); (3) il digramma “gi” davanti a “e” me lo terrei per i plurali delle parole che finiscono per “gia” (ciliegie, valigie). Anche se, tutto sommato...

Si scrive “valigie”, “ciliegie”, ma per me si può scrivere anche “valige” e “ciliege”.

Sul serio, andiamo, che differenza vuoi che faccia? Per salvare il plurale in -cie di “camicie” dobbiamo estendere una regoletta astrusa a tutte le parole che ci assomigliano? Mi secca un po' doverlo dire, ma onore a Oriana Fallaci, per la cocciutaggine con cui ha lottato per l'accento di sé stesso, e per quel cappello pieno di ciliege in copertina.

Si scrive “ché” (quando introduce proposizioni causali), ma...

Ma non lo scrive più nessuno. Basta, dai.

Si scrive “curricula” al plurale, ma...

Potete fare quel che vi pare. Era solo per segnalarvi un bel pezzo di Chinaski. Poi, sul serio, se cominciamo a sviscerare i plurali delle parole straniere non ne usciamo più. Non c'è una regola fissa: non siamo mai riusciti a farla per due motivi: (1) i nostri accademici della Crusca hanno sempre paura di fare la fine dei probolini; (2) non è mai chiaro quando una parola straniera diventa italiana. Non c'è nessuno che rilascia i documenti. Forum e Curriculum sono due neutri latini: il primo ha bazzicato un po' per le nostre piazze e i tribunali, prima di fuggire in America, dove si è trovato un'occupazione equivoca come sito internet poco raccomandabile. Il plurale latino in -a lo ha perso per strada. Curriculum per contro se ne è rimasto in casa con mamma e papà fino ai capelli bianchi; ha studiato parecchio ed è diventato un po' pedante. Del resto lo usiamo soltanto quando vogliamo dimostrare che anche noi abbiamo studiato e fatto tante cose, e sappiamo anche i plurali un po' buffi e strani. Così vada pure per curricula, se può aiutarvi a trovare un lavoro. Io però non muoverò un dito per difenderlo, sia chiaro.

Si scrive “media”, ma si pronuncia...

Come ti pare. L'importante è che ci capiamo, dai.

Si scrive “A me” o “mi”, ma...

“A me mi” si scrive più o meno dal Trecento. È rimasto brutto, questo sì.

Posso cominciare una frase col gerundio? La mia maestra diceva che...

La tua maestra sapeva che se cominciavi col gerundio probabilmente saresti andato a sbattere contro un anacoluto grosso così. Non era una regola, era un aiuto, come le rotelle della bicicletta. In seguito le hai tolte. Prova a togliere anche la regoletta del gerundio (attento, però, ché il perfido anacoluto è sempre dietro l'angolo).

Si può scrivere una subordinata implicita che non abbia il soggetto della reggente? Ad esempio: “Essendo finite le vacanze, l'insegnante non vede l'ora di tornare a scuola”?

Ci sono regole ed eccezioni, ma lasciamo perdere. Diciamo che si può finché la frase resta comprensibile. Ad esempio, quella frase che hai scritto, io non la capisco proprio. Riformula.
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contro la lingua italiana, 36

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L’italiano è una lingua scomoda, ci pensavo qualche giorno fa.

È successa una sciocchezza. Un signore, non molto esperto di wikipedia, si è avventurato su una pagina di discussione per chiedere che fosse tolto un errore che “purtroppo, si sta diffondendo eccessivamente, sia per ignoranza, sia per leggerezza o sia per distrazione”. L’orribile errore era la parola “obbiettivo”, scritta con due B.

Ultimamente collaboro poco a wiki: e quel poco lo spreco in menate come questa. Sì, perché davvero ho perso cinque minuti del mio tempo per ob(b)iettare che non si trattava né di ignoranza né di leggerezza, ma di una forma consentita dai dizionari; e nel frattempo mi chiedevo se esista al mondo un’altra lingua scomoda come quella italiana, con tutte queste false regole e falsi errori che fanno perdere tempo alla brava gente che vorrebbe solo comunicare senza strafalcioni. Forse no: solo noi possiamo perdere una mezz’ora a litigare su una doppia B. O sulla virgola dopo la “e”: ci va o non ci va? (Ci può andare). O sull’accento su “sé stesso” (meglio metterlo). O sul gerundio a inizio frase, che non ha mai fatto male a nessuno. Lunghi dibattiti negli uffici (e su wiki) perché c’è gente che non si rassegna a dire “scannerizzare”, anche se sta già sui dizionari. “Ma è brutto”. Beh, non sempre le parole possono esser belle, ma l’importante è capirsi: e se ci vogliamo davvero capire, “scannerizzare” è più preciso di “scandire” o “digitalizzare”. Proprio non va giù? E va bene, c’è anche “scansionare”. Basta non mettersi a litigare su quale dei due sia più corretto: nei dizionari ci sono entrambi, uno deriva da scanner e l’altro da scansione. Sono sinonimi, come “adempiere” o “adempire”, come “obiettivo” od “obbiettivo”. Ognuno è libero di usare quel che vuole. In realtà l’italiano sarebbe una lingua tollerante… ma forse è proprio questa tolleranza il problema. La libertà fa paura, anche quando è solo la libertà di usare una o due B.

L’ipercorrettismo non viene dall’alto. Chi ha dimestichezza con i grammatici di professione sa quanto siano tolleranti (anche troppo: a volte per non dar torto a nessuno pasticciano un po’, come l’Accademia della Crusca sulla questione “euro/euri”). Gli ipercorrettivi sono persone come noi, che l’italiano lo sanno più o meno come noi, magari con l’inconscio segnato per sempre da una sadica maestrina elementare. Portano l’italiano come una giacca stretta, che in teoria dovrebbe farli apparire eleganti e invece li rende goffi, e pronti all’imminente prossima figuraccia. Il signore che ci teneva tanto a togliere una B alla parola obbiettivo, si muoveva impettito come un mangiatore di scope, mandando avanti virgole a casaccio. Questa è la nostra lingua: un vestito scomodo, che nessuno riesce a portare con grazia. Nel frattempo, chi non vuole correre il rischio taglia la testa al toro e invece di “obiettivo/obbiettivo” scrive “target”, che tanto si capisce lo stesso. Se l’italiano morirà, sarà anche colpa vostra, e della matita rossa che tante volte avete brandito a casaccio.

Ci ho ripensato leggendo questo pezzo di Matteo Bordone, significativo come può esserlo un lapsus. Non tanto per i suggerimenti (alcuni giusti, altri eccessivi), ma per l’atteggiamento: Bordone non ci prova nemmeno, a fare il simpatico. Sa benissimo che sta per interpretare il ruolo del maestrino stronzo, e ci si adegua.
Ho deciso, e l'ho deciso tanto tempo fa, che avrei detto il più possibile a uno che dice "mi pare che è", "guarda che si dice mi pare che sia" (e anche "hai un pezzo di insalata nei denti"). Male che vada, se la prende e gli sto sulla palle; poi però la volta dopo non lo dice, forse. (A dire la verità la tecnica non funziona con tutti, per dire con me non ha mai funzionato perché mia madre ripete il mio nome ad alta voce ogni volta che dico "cazzo", e il risultato è che ho una passione viscerale per ogni forma di turpiloquio.)

Ecco, appunto: tua mamma ha adottato una tattica educativa fallimentare, e tu la stai imitando. Freud ti direbbe che quel che cerchi è proprio il fallimento: davvero non hai pensato i tuoi lettori potrebbero mettersi a dire “anedottica” o “nel merito” con la stessa passione viscerale con cui tu continui a dire le parolacce? Sicuri che non ci sia un sottile gusto del proibito dietro al successo di "piuttosto che" o del sempreverde "a me mi piace"?

Gli errori non sono semplicemente “ignoranza, leggerezza, distrazione”. Prima di tutto sono segni di un disagio. Non c’è dubbio che sia triste sentirsi dire “c’è stato un misunderstanding”, quando l’italiano ha almeno due espressioni più brevi (e più belle) per dire esattamente la stessa cosa. Ma impuntarsi non serve. Occorre almeno cercare di capire perché succede: com’è possibile che qualcuno in Italia preferisca “misunderstanding” a “equivoco”? Davvero l’italiano è diventato così scomodo? E se lo è diventato, la colpa non sarà un po’ di tutte le maestrine che pretendono di imporre le loro idiosincrasie? Se “v’è” ti fa schifo, non usarlo. Ma perché qualcun altro non potrebbe preferirlo a “c’è”? Proprio l’esempio di Bordone (“Del doman non c’è certezza”) mostra come a volte un “v’è” possa evitare una cacofonia. L’italiano dovrebbe essere quella lingua confortevole in cui si può scegliere tra “v’è” o “c’è”, o “tra” e “fra”, a seconda di come suona la frase. Dovremmo sforzarci di rendere la lingua italiana un posto accogliente e confortevole, dove le parole si possono scegliere anche in base al suono, alla simpatia; e dove i neologismi e varianti fossero ancora benvenuti. Perché così era al tempo di Dante, e ancora al tempo di Gadda; e i periodi bui che ci sono stati in mezzo sono proprio quelli dominati da maestrine superciliose con problemi di punteggiatura. Anche a me danno fastidio i participi “ad sensum” (“ad minchiam”, li chiama Bordone), però alla fine dei conti che male fanno? Se i latini li tolleravano, c’è un motivo oggettivo per cui gli italiani non dovrebbero usarli?

Avremmo ancora una lingua viva, se solo volessimo. Invece perdiamo tempo prezioso a correggerci errori inesistenti, a lamentare la morte del congiuntivo (morte lentissima: se ne parla almeno da cinquant’anni), a stringerci ancora senza motivo il colletto linguistico. Moriremo strangolati dai nostri cravattini. If you want, be happy now: for tomorrow’s never sure.
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Aggregatore della Domenica

Mi piacerebbe iniziare con una buona notizia, ne abbiamo? Ne abbiamo.

Banca Intesa non fornirà più finanziamenti al commercio di armi, forse. il gruppo vuole rispondere anche a un'esigenza espressa da ampi e diversificati settori dell'opinione pubblica, che fanno riferimento a istanze etiche sia laiche sia religiose. Sono cose che vanno incoraggiate.

Così come va incoraggiato chiunque, martedì 30 marzo alle ore 21, verrà a sentire me, i Polaroidi e il grande vecchio Blogorroico allo Juta café di Modena, in Via Del Taglio (vicino alla piazzetta della Pomposa). Presenteremo Blogout, un libro che non si presenta mai abbastanza. Venite, venite.

***

L'ultimo pezzo Contro la Lingua italiana ha scatenato una ridda, un pandemonio (si dice "pandemonio" quando mi scrivono più di due persone):

d'accordissimo con te nella battaglia contro gli ipercorrettismi, ma pignoleria mi impone di precisarti che "sono tornato aroma" a Roma non è un ipercorrettismo, ma una forma dialettale. E' noto infatti che i romani hanno in uggia le doppie erre (il famoso adagio "guera con una ere è erore") e ciò vale anche per il raddoppiamento fonosintattico. Aggiungo
che non tutti i dialetti del sud raddoppiano tutto: raddoppiare dopo il da, per esempio, è esclusiva toscana. ciao


Credo che l'italiano non preveda raddoppiamenti dopo il "da". Oh, ecchissene (notate in questa parola due raddoppiamenti corretti).


***

Io non so neanche se il blogging italiano sia così in ritardo. Posso raccontare la mia storia, interessa?

Due anni fa io mi consideravo un po' più informato della media, perché navigavo su Internet e consultavo vari siti d'informazione. Inoltre avevo un blog.

Un anno fa io mi accorgevo di essere molto meno informato della media, perché passavo sempre più tempo on line sui blog, interessandomi più dei fatti altrui che delle vere e proprie "notizie". I siti d'informazione li scorrevo molto più velocemente. Ero molto più attratto da polemiche e commenti.

Oggi mi accorgo di essere un po' più informato della media, perché nella lunga distanza ho selezionato una discreta quantità di blog che mi riportano le notizie meglio dei siti d'informazione ufficiali. Questi ultimi, quando li sfoglio, mi dicono solo cose che so già.

Faccio un esempio. Io so che la settimana scorsa Berlusconi ha detto che Al Quaeda sono solo quattro beduini. Questa notizia, in Italia, non è passata tanto. Io l'ho trovata da Lia. Per inciso: l'Islam come lo racconta lei non ce lo sta raccontando nessuno. Qualcuno, un giorno, dovrà prendersi la briga di pubblicarla.

(Sullo splendido tempismo di Berlusconi, che 'sfida' i beduini proprio sotto Pasqua, valgono le riflessioni di due anni fa).

Altro esempio. Il caso della stagista di Ivrea esclusa a causa del velo islamico: quante ne avete sentite sui media ufficiali? Una buona percentuale sono stronzate. Come faccio a saperlo? Leggo Pfaall. (Vedi anche sul caso del quattordicenne kamikaze in Palestina).

Oppure. Mettiamo che a me interessi qualcosa dei radicali. In realtà no, ma un sacco di blog che leggo s'interessano dei radicali. Qui Brodo, se ho ben capito, denuncia le infiltrazioni fascistoidi. Qualcosa del genere sul redivivo Wash it on post (per chi non lo sapesse, fu uno dei primi tentativi di blog-aggregatore: adesso è il blog in cui Wile, bontà sua, si ostina a dialogare coi Neoconi).

Quindi: i blog fanno bene o male all'informazione? Non lo so. Nel mio caso va a periodi, vi terrò informati.

***

E' vero: linco sempre gli stessi. Col tempo mi correggerò, ma volevo segnarmi un appunto.
Sembra un blog quieto e minimale, inoffensivo, ma è fondato sull'angoscia. E sul precariato. L'angoscia è la sua musa. Quella sensazione di cadere in moto rettilineo permanente. Non c'è rete, non c'è fondo. E' sempre lei.

***

In realtà, col tempo ti selezioni un gruppo di lettori abbastanza sintonizzati sulla tua lunghezza d'onda, che si beve qualsiasi cosa (quasi). Si rischia un po', invece, a mettere un pezzo su Macchianera : rivalità, livori, ma soprattutto un sacco di gente che dice: "Mbè? E chi è questo?"

Qualche settimana fa andava di moda cominciare i pezzi così: "ero al ristorante e ho visto Scalfari..." "Facevo la spesa e ho incrociato Veltroni..." "Pat Metheney non riusciva a ricaricare il cellulare"... il massimo del provincialismo, anche se non dovrei dirlo io. A un certo punto ho voluto contribuire, e ho scritto:

Mi chiama Dio al telefono, mi chiede se ho impegni in serata.

Con quel che segue... Beh, uno ha commentato:

Bello, troppo lungo e troppo fine.
Leo sei vecchio.
Va adattato per i neoblogger: più sesso, più ritmo, più provocazione, meno da leggere, meno da capire.

CLONE POST:

Mi chiama al telefono Dio, mi chiede se ho impegni in serata.
“In effetti avrei altri cazzi per la testa, volevo trombare Simona, certo che sei un bel rompiballe..”


Il resto è qui.
Ho paura che fili meglio il clone...
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Contro la lingua italiana, 3

(Le altre puntate: 1, 2)

Essere contro la lingua italiana significa essere anche contro il raddoppiamento fonosintattico. A questo punto bisognerebbe però spiegare cos’è questo raddoppiamento. (Per fortuna ci ha già pensato Aelred, chiaro e conciso).

In pratica si tratta della regola per cui “che vuoi?” si pronuncia “chevvuoi?”;
per cui “è vero” si pronuncia “èvvero”,
la pronuncia corretta di “là vicino” è “làvvicino”,
e la frase “Carlo è venuto a dirmi che ha fatto il compito tutto da sé” in italiano si deve pronunciare:
“Carlo èvvenuto addirmi che àffatto il compito tutto dassé”.

Vi risulta?
Dipende su quale versante del crinale tosco-emiliano siete nati.
Se siete italiani a sud della linea Rimini - La Spezia, la regola magari non la conoscevate, ma non vi dice niente di nuovo: avete sempre pronunciato “chevvuoi”, e nessuno vi ha mai corretto (a meno che non vi siate trovati un lavoro da speaker a radiopadania).

Se invece abitate sul versante padano (e non avete fatto un corso di dizione), probabilmente la regola non vi risulta. Perché nessuno ve l’ha insegnata . Anzi, sin dalle elementari vi è stato inculcato il principio per cui “l’italiano è la lingua che si pronuncia come si scrive”, (vero: ma solo fino a un certo punto). Perciò avete sempre pronunciato “che vuoi?”, “è vero”, “là vicino”, ecc., esattamente come erano scritti. Covando magari un po’ risentimento per il romanesco televisivo. Sorpresa: i presentatori finto-buzzurri pronunciano l’italiano meglio di voi. Frustrante, vero?

Prendiamo un padano a caso, me.
Otto anni di scuola dell’obbligo. Cinque di liceo. Poi quattro anni di facoltà di lettere – un errore, probabilmente, ma non è questo il punto. Il punto è che, malgrado tutta questa scolarizzazione, la regola del raddoppiamento fonosintattico mi sarebbe del tutto ignota se non l’avessi trovata per caso in un vecchio e simpatico libro di grammatica di mia madre. Un Oscar Mondadori che costava £. 1500: Aldo Gabrielli, Il museo degli Errori. Immagino che non lo ristampino più.

Sul Gabrielli ho anche capito il perché del raddoppiamento. È la memoria di antiche consonanti latine, che i dialetti del Centro e Sud hanno conservato, e quelli del Nord no. “A me”, in latino, si diceva “Ad me”: la particella “ad” si saldava alla parola, per cui la pronuncia diventava “admé”; ma già i latini cominciavano ad assimilare le consonanti e a leggere “ammé”. Lo stesso vale, per esempio, con “è vero” (est verum -> estverum-> evverum).

Questa è la “regola”. Ma bisogna intenderci una volta per tutte su cos’è una “regola”, in italiano.
È una “legge”, sì, ma non ha valore coercitivo. Non sono previste sanzioni penali per chi la infrange (in altri Paesi succede, da noi no). È una legge, nel senso in cui esistono “leggi” nella scienza. Non è che Einstein abbia ordinato a “E” di essere uguale al quadrato di “mc”. Einstein ha trovato una formula per descrivere una cosa che esiste già (forse).
Allo stesso modo, la grammatica è l’arte di descrivere fenomeni linguistici che esistono già. La regola del raddoppiamento fonosintattico spiega perché gli italiani delle regioni centrali tendono a raddoppiare certe consonanti di cui nell’italiano scritto non c’è traccia.

Di qui a dire che tutti gli italiani devono raddoppiare le consonanti, ce ne corre.
In sé, non ci sarebbe nulla di male a uniformare la pronuncia. Ma bisognerebbe farlo subito, insegnando dizione sin dalla scuola dell’obbligo. Cercare di correggere gli adulti è inutile. Ormai la frittata è fatta.

Ma c’è di più: non solo mezza Italia (da Rimini in su) non sa di pronunciare male; ma anche l’altra mezza, (da Rimini in giù) spesso non sa di pronunciare bene. Così, nelle occasioni speciali, cosa fa? Si corregge. Anzi, si iper-corregge. Da un commento sul Village:

...il romano verace, quando vuole essere fino sta attento attento attento alla pronuncia e si sforza di non raddoppiare, cerca di levarsi il vizio, insomma. ottenendo come risultato quello di stuprare regolarmente anche questa regola, l'unica che invece gli permetterebbe il raddoppio. così, può capitare di sentire signore ingioiellate che ti dicono per esempio: "sai, ero a cortina, poi sono tornata aroma", invece di dire più semplicemente e più correttamente arroma. il tutto è molto comico.

È il solito spettro che si aggira per l’Italia: l’ipercorrettismo. A Roma ‘fa fine’ ricalcare la pronuncia del nord, semplicemente perché è diversa dall’uso comune. È segno che con questa lingua non ci troviamo a nostro agio. Che siamo sempre alla ricerca di regole per complicarcela. E se fosse questo, il problema? Questa ossessione per le regole astruse e per le eccezioni ancora più astruse, per gli accenti che tanto non sappiamo pronunciare, per tutto quello che la scuola non ci ha insegnato?

Più che fissarci su una o più regole, forse dovremmo cercare di superare questo disagio. Trasformare l'italiano in una lingua più confortevole, tollerante, elastica.

Chiedo perciò indulgenza per quei venticinque-trenta milioni di persone che abitano da Rimini in su e non conoscono la regola del raddoppiamento fonosintattico. Come a dire, la metà degli italiani. Per come sono andate le cose, trovo già abbastanza miracoloso che nel giro del secolo si sia trovata una lingua comune. Abbiamo perso i dialetti, però. Lasciateci almeno un po’ di pronuncia.

(D’altro canto, i leghisti che vogliono far studiare il “lumbard” a scuola andrebbero tutti deportati in Toscana, a sciacquare i panni in Arno: non come il loro antenato, proprio letteralmente).
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Contro la lingua italiana, 2

Secondo voi, qual è la regola più cretina della lingua italiana? Quella più inutile e assurda? Per me non ci sono dubbi.

Non è proprio una regola, in verità: è un’eccezione a una regola. Un’eccezione universalmente diffusa. Non ho mai capito chi l’abbia introdotta (qualcuno deve pur esser stato): anzi, se qualcuno lo sa, per favore, me lo segnali. Chi è stato a decidere una volta per tutte che “sé stesso” e “sé medesimo” si potevano scrivere anche senza accento? Come gli è potuta venire un’idea del genere? Quali buoni motivi poteva avere? E perché la cosa ha preso così tanto piede?

“Guarda, ti sei sbagliato! Hai scritto sé stesso con l’accento, ah-ah”.
“Non mi sono sbagliato, si scrive così”.
“Ma dai, lo sanno tutti che sé stesso si scrive senza accento”.
“Guarda sul dizionario, vedrai che sono ammesse entrambe le forme”.
“E se sono ammesse entrambe, perché devi usare la più strana?”
“Non è la più strana. Quella senza accento è più strana: infatti di solito l’accento c’è”.
“Ma sembra che tu non sappia la regola…”

È tutto qui: dimostrare di sapere una regola in più. Anche se è una regola immotivata, illogica, idiota. Ipercorrettismo.

Andiamo con ordine: perché “sé” di solito viene accentato? Per distinguerlo da “se”, congiunzione ipotetica: “se io facessi”, “se tu volessi”, “se lei mi amasse”. Naturalmente, anche “se” ha un accento (tutte le parole hanno un accento), e siccome è un monosillabo, non può che cadere sulla “e”: ma gli italiani hanno deciso di non scriverlo, per evitare appunto la confusione con il “sé” pronome riflessivo.

(Tra parentesi: quell’accento sulla “e” è sia tonico che fonetico: oltre a distinguere il pronome dalla congiunzione, dovrebbe indicare anche come si pronuncia la vocale: in questo caso più chiusa che aperta. Ma siccome ogni regione ha una pronuncia diversa, e a scuola nessuno te le insegna, la confusione è grande, e ti capita di trovare l’accento sbagliato anche su libri e giornali. Oggigiorno è la tanto bistrattata correzione automatica di word a metterci una pezza, nella più parte dei casi: per esempio, se scrivo “sè" lui mi corregge automaticamente in “sé”).

Insomma, l’accento serve soprattutto a distinguere le due parole: con l’accento è un pronome, senza accento è una congiunzione. Un criterio abbastanza chiaro, utile, pulito. Potevamo forse esimerci dal complicarlo? E allora dai, inventiamoci delle eccezioni stupide, per dimostrare che siamo andati a scuola e le sappiamo.
Così si è diffusa l’abitudine di scrivere “se stesso” senza accento, “perché tanto non ci può essere confusione”: non solo i dizionari e le grammatiche la tollerano, ma addirittura questa forma viene considerata in un qualche modo più… elegante. Dove si vede che l’eleganza, per molti, non consiste nella semplicità, bensì nell’arte di complicare le cose più elementari per il solo gusto di distinguersi.

La motivazione che “tanto non ci può essere confusione” è straordinariamente cretina. Facciamo degli esempi per assurdo. Conoscete la parola “cielo”? Certo, come no. Vi siete mai chiesti perché è scritta con la “i”, che la maggior parte degli italiani non pronuncia? Storicamente, quella “i” è quel che resta di uno iato latino (i latini scrivevano caelum e pronunciavano qualcosa di simile a “kaelo”). Ma se fosse per quello, la “i” non meriterebbe di resistere. Sopravvive, invece, solo perché è utile a distinguere graficamente il “cielo” dalla prima persona singolare del verbo “celare” (nascondere), che si scrive, infatti, “celo”. Chiaro, no? Anche abbastanza facile.

Bene, e se adesso io dicessi che si può scrivere “celo azzurro” in luogo di “cielo azzurro”, perché davanti al colore “non ci può essere confusione”, voi cosa pensereste di me? Che sono un cretino che perde tempo a complicarsi la vita con regole balorde? Infatti. Ora, l’idea di togliere l’accento dall’espressione “sé stesso” è altrettanto cretina e balorda. Solo che ormai ci siamo abituati.

Come ogni cretineria, oltre a essere inutile, fa correre anche inutili rischi a chi la usa. L’ipercorrettivismo è un virus diabolico. Chi si mette a togliere l’accento da “sé stesso”, finirà per toglierlo anche da “sé stessi”. Commettendo un grave errore, perché al plurale questa grafia non è consentita. Infatti qui la confusione tra “Non credono più neanche in se stessi” e “Ah, se stessi dormendo, stanotte” è possibile eccome. “Ma tanto c’è il contesto”, dirà qualcuno. Sì: c’è sempre il contesto. Ma c’è anche l’accento: si fa così fatica a scriverlo? Posso capire quando si scrive a mano, ma… sulla tastiera? Si tratta di premere un tasto, niente di più, niente di meno.

Io sarò anche un fissato, ma ogni volta che trovo un “se stesso” mi verrebbe da tirare pugni al muro, non a un muro qualsiasi, ma a quello dell’accademia della Crusca. Ma com’è possibile impiegare anche solo un neurone del cervello per ricordare una regola così inutile? E tutti gli italiani dovrebbero ricordarsela? Fanno quasi sessanta milioni di neuroni: tutta intelligenza sprecata che potremmo usare per qualsiasi altra cosa. Per esempio: per imparare a usare gli accenti bene, a distinguere il grave dall’acuto, il tonico dal fonetico. Perché poi il punto è quello: ci rifugiamo dietro le eccezioni per ammettere che non sappiamo che accenti scegliere. Che non ci troviamo a nostro agio, con la lingua italiana.

Una lingua, per difendersi e diffondersi, ha bisogno di regole pratiche, comode, facili da insegnare e da imparare. “Se” congiunzione non si accenta; “sé” pronome si accenta. Non è abbastanza facile? E allora semplifichiamo ancora di più; perché invece preferiamo renderci le cose più difficili? Soltanto per il gusto di sapere una regola in più del vicino e di aspettarlo al varco con la matita rossa? Non abbiamo proprio niente di meglio da fare?

(Vai alla puntata precedente: “gli piacciono”)
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Stasera non sapevo con chi prendermela, così (grazie anche a benzina) ho deciso di inaugurare una polemica…

…contro la Lingua Italiana (1)


La propria lingua è come il proprio paese: impossibile non affezionarcisi. Però è anche impossibile evitare i confronti e notare certi limiti. Io ci vivo, nella lingua italiana, e probabilmente non riuscirei a stare a lungo altrove. Però certe convenzioni stupide, certi trabocchetti, alla lunga scocciano. È ora di finiamola.

Prendiamo un esempio qualsiasi: la forma atona della terza persona plurale del pronome personale complemento. Oddio, che è. Tranquilli, non è nulla. Ma proprio nulla. La “forma atona della terza persona plurale, ecc.” non esiste, in italiano.
O meglio, fa finta di non esistere.

Ma cerchiamo di spiegarci in italiano, visto che è di quello che stiamo parlando.
Se parlo di un disco che piace a me, posso dire che il disco “mi piace”: quel “mi” è un pronome atono di prima persona singolare. Alla prima persona plurale, quei dischi “ci piacciono”. E alla seconda, naturalmente, “vi piacciono”.
Ma alla terza?

Qui casca l’asino. Secondo una nota teoria, uniformemente diffusa (grazie soprattutto allo zelo degli insegnanti, dalle elementari fin su ai licei), la terza persona plurale non esisterebbe.

Che sarebbe come negare che la pioggia cade dall’alto verso in basso. Sappiamo tutti benissimo che non è vero: la terza persona plurale atona esiste. Nella vita di tutti i giorni non ci stiamo neanche a pensare: diciamo che quei dischi “gli piacciono”.
Ma scrivendo, non osiamo. La penna rossa di qualche prof deve avere lasciato segni indelebili in qualche settore del nostro cervello. Fatto sta che scriviamo “piacciono loro”, o (forse meglio) “piaccciono a loro”. Così, tanto per aggiungere una sillaba in più.

Magari abbiamo un blog, dove dopo una dura giornata di lavoro andiamo a sfogare i nostri istinti. E li non ci preoccupiamo certo delle convenzioni borghesi. Se dobbiamo dire cazzo diciamo cazzo, e merda, e vaffanculo. Ma non oseremmo mai dire una cosa come “gli piacciono”. È un tabù. Più semplicemente, abbiamo paura che qualcuno ci umili come ai tempi della scuola dell’obbligo. Turpiloquio sì, ma guai a sbagliare le regole dell’italiano. L’Italiano è sacro.

Sì, peccato che “gli piacciono” sia italiano corretto, e perfino consigliabile.
Per vari motivi:

#1 la lingua deve vivere
Di solito i linguisti sono persone molto più ragionevoli di quanto uno non pensi. Non so che grammatica abbiate in casa, ma scommetto che se cercate bene troverete una noticina che ammette l’uso di “gli” plurale nell’italiano colloquiale. Anche se poi ne scoraggia l’uso nell’italiano scritto.
Ora, il problema è che le lingue o si evolvono, o muoiono. E se si evolvono, di solito procedono così: la lingua orale innova; la lingua scritta in un primo momento resiste, ma poi si adegua, e “sdogana” le forme orali. E siccome è da più di cinquant’anni, credo, che le grammatiche registrano “gli” plurale come forma colloquiale (sia al maschile che al femminile), sarebbe anche ora di fare il passo decisivo: sdoganare. E perché non lo facciamo?
Questo è uno degli effetti curiosi della scolarizzazione di massa. Che ha diffuso l’italiano, ma lo ha anche congelato nelle forme scritte. Però bisogna stare attenti. Una lingua scritta congelata alla lunga non resiste. Perché intanto la lingua parlata cambia. Secondo me è meglio adeguarsi. Perciò, io uso “gli” al plurale. Sia femminile che maschile.

#2 siamo o non siamo neolatini?
Questo motivo annulla in parte il precedente. Nel senso che non è affatto vero che “gli” sia un’innovazione dell’ultimo secolo. Chi ha parlato l’italiano nei secoli scorsi (non erano tanti, ma c’erano) ha sempre detto “gli”: non a caso i dizionari lo registrano come un toscanismo. Io direi che dei toscani ci si possa fidare. E prima dei toscani, chi c’era?
C’erano i latini. Che avevano una forma sia singolare che plurale. Al singolare (dativo) dicevano “illi” ; al plurale dicevano “illis”.
Ora, se da “illi” latino è derivato “gli” maschile singolare, perché da “illis” non dovrebbe derivare “gli” maschile plurale? E già che ci siamo, anche femminile plurale, visto che “illis” in latino andava bene per maschi e femmine.
Insomma: il prossimo che vi bacchetta perché scrivete “gli piace” invece di “a loro piace”, potete rimandarlo al liceo a studiarsi il famoso latino, quello che in teoria dovrebbe servire a imparare qualsiasi cosa (e in realtà tante volte non ci assiste nemmeno con l’italiano).

#3 se lo ha fatto Manzoni possiamo farlo anche noi
Questo è l’argomento finale. Apriamo lo Zingarelli (il mio è del 1995): se scorriamo tra i significati di “gli” troviamo anche “pron. Pers. Atono di terza pers. m. e f. pl. (fam., tosc.)”, e poi una citazione nientemeno che dal Manzoni.

“Chi si cura di costoro a Milano? Chi gli darebbe retta” (MANZONI)

Manzoni, ricordiamolo, è lo scrittore che ha rielaborato un romanzo per più di una ventina d’anni per cercare di renderlo più ‘italiano’ possibile. Se scrive così, non è per distrazione. E se lo fa lui, possiamo benissimo farlo anche noi. Ma val la pena di leggere cosa dice ancora il dizionario:

L’uso di gli come pronome personale di terza persona è sempre più accettato, soprattutto nella lingua parlata. Meno comune è il termine loro: ho incontrato Mario e Anna e ho consegnato loro i biglietti suona certamente più formale che gli ho consegnato. Si usi quindi loro solo in determinati contesti specialmente nella lingua scritta.

Avete capito? lo Zingarelli consiglia di limitare l’uso di loro, non di gli. Vedete? I linguisti sono persone ragionevoli. Sanno benissimo che la lingua parlata è il traino della lingua scritta. Sono i maestri e i professori che ci castrano. E perché lo fanno?

È un fenomeno frequente soprattutto presso il ceto medio (e i prof sono ceto medio puro): si chiama ipercorrettismo. L’ossessione di darsi regole per distinguersi dal volgo. Così la casella del pronome atono plurale sarebbe stata lasciata vuota soltanto per prendere in trappola gli incolti, quelli “che scrivono come parlano”.
Ma c’è anche un motivo più onorevole: cercare di salvare il pronome atono femminile singolare, il gentile “le”, che molto spesso nella lingua parlata si trasforma nel solito “gli”. È chiaro che se passa l’idea che “gli” va bene al plurale sia per il maschile che per il femminile, qualcuno si comincerà a chiedere perché dobbiamo distinguere il genere al singolare. Tra l’altro i latini dicevano illi sia per gli che per le.

Ma in fondo i latini sono tutti morti, e a me interessano solo quando giustificano i miei errori di grammatica. Il quarto motivo è molto semplice: io scrivo così perché mi va. Come diceva un generale, “l’intendenza seguirà”. Noi scriviamo. I grammatici seguiranno.
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