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Stasera non sapevo con chi prendermela, così (grazie anche a benzina) ho deciso di inaugurare una polemica…

…contro la Lingua Italiana (1)


La propria lingua è come il proprio paese: impossibile non affezionarcisi. Però è anche impossibile evitare i confronti e notare certi limiti. Io ci vivo, nella lingua italiana, e probabilmente non riuscirei a stare a lungo altrove. Però certe convenzioni stupide, certi trabocchetti, alla lunga scocciano. È ora di finiamola.

Prendiamo un esempio qualsiasi: la forma atona della terza persona plurale del pronome personale complemento. Oddio, che è. Tranquilli, non è nulla. Ma proprio nulla. La “forma atona della terza persona plurale, ecc.” non esiste, in italiano.
O meglio, fa finta di non esistere.

Ma cerchiamo di spiegarci in italiano, visto che è di quello che stiamo parlando.
Se parlo di un disco che piace a me, posso dire che il disco “mi piace”: quel “mi” è un pronome atono di prima persona singolare. Alla prima persona plurale, quei dischi “ci piacciono”. E alla seconda, naturalmente, “vi piacciono”.
Ma alla terza?

Qui casca l’asino. Secondo una nota teoria, uniformemente diffusa (grazie soprattutto allo zelo degli insegnanti, dalle elementari fin su ai licei), la terza persona plurale non esisterebbe.

Che sarebbe come negare che la pioggia cade dall’alto verso in basso. Sappiamo tutti benissimo che non è vero: la terza persona plurale atona esiste. Nella vita di tutti i giorni non ci stiamo neanche a pensare: diciamo che quei dischi “gli piacciono”.
Ma scrivendo, non osiamo. La penna rossa di qualche prof deve avere lasciato segni indelebili in qualche settore del nostro cervello. Fatto sta che scriviamo “piacciono loro”, o (forse meglio) “piaccciono a loro”. Così, tanto per aggiungere una sillaba in più.

Magari abbiamo un blog, dove dopo una dura giornata di lavoro andiamo a sfogare i nostri istinti. E li non ci preoccupiamo certo delle convenzioni borghesi. Se dobbiamo dire cazzo diciamo cazzo, e merda, e vaffanculo. Ma non oseremmo mai dire una cosa come “gli piacciono”. È un tabù. Più semplicemente, abbiamo paura che qualcuno ci umili come ai tempi della scuola dell’obbligo. Turpiloquio sì, ma guai a sbagliare le regole dell’italiano. L’Italiano è sacro.

Sì, peccato che “gli piacciono” sia italiano corretto, e perfino consigliabile.
Per vari motivi:

#1 la lingua deve vivere
Di solito i linguisti sono persone molto più ragionevoli di quanto uno non pensi. Non so che grammatica abbiate in casa, ma scommetto che se cercate bene troverete una noticina che ammette l’uso di “gli” plurale nell’italiano colloquiale. Anche se poi ne scoraggia l’uso nell’italiano scritto.
Ora, il problema è che le lingue o si evolvono, o muoiono. E se si evolvono, di solito procedono così: la lingua orale innova; la lingua scritta in un primo momento resiste, ma poi si adegua, e “sdogana” le forme orali. E siccome è da più di cinquant’anni, credo, che le grammatiche registrano “gli” plurale come forma colloquiale (sia al maschile che al femminile), sarebbe anche ora di fare il passo decisivo: sdoganare. E perché non lo facciamo?
Questo è uno degli effetti curiosi della scolarizzazione di massa. Che ha diffuso l’italiano, ma lo ha anche congelato nelle forme scritte. Però bisogna stare attenti. Una lingua scritta congelata alla lunga non resiste. Perché intanto la lingua parlata cambia. Secondo me è meglio adeguarsi. Perciò, io uso “gli” al plurale. Sia femminile che maschile.

#2 siamo o non siamo neolatini?
Questo motivo annulla in parte il precedente. Nel senso che non è affatto vero che “gli” sia un’innovazione dell’ultimo secolo. Chi ha parlato l’italiano nei secoli scorsi (non erano tanti, ma c’erano) ha sempre detto “gli”: non a caso i dizionari lo registrano come un toscanismo. Io direi che dei toscani ci si possa fidare. E prima dei toscani, chi c’era?
C’erano i latini. Che avevano una forma sia singolare che plurale. Al singolare (dativo) dicevano “illi” ; al plurale dicevano “illis”.
Ora, se da “illi” latino è derivato “gli” maschile singolare, perché da “illis” non dovrebbe derivare “gli” maschile plurale? E già che ci siamo, anche femminile plurale, visto che “illis” in latino andava bene per maschi e femmine.
Insomma: il prossimo che vi bacchetta perché scrivete “gli piace” invece di “a loro piace”, potete rimandarlo al liceo a studiarsi il famoso latino, quello che in teoria dovrebbe servire a imparare qualsiasi cosa (e in realtà tante volte non ci assiste nemmeno con l’italiano).

#3 se lo ha fatto Manzoni possiamo farlo anche noi
Questo è l’argomento finale. Apriamo lo Zingarelli (il mio è del 1995): se scorriamo tra i significati di “gli” troviamo anche “pron. Pers. Atono di terza pers. m. e f. pl. (fam., tosc.)”, e poi una citazione nientemeno che dal Manzoni.

“Chi si cura di costoro a Milano? Chi gli darebbe retta” (MANZONI)

Manzoni, ricordiamolo, è lo scrittore che ha rielaborato un romanzo per più di una ventina d’anni per cercare di renderlo più ‘italiano’ possibile. Se scrive così, non è per distrazione. E se lo fa lui, possiamo benissimo farlo anche noi. Ma val la pena di leggere cosa dice ancora il dizionario:

L’uso di gli come pronome personale di terza persona è sempre più accettato, soprattutto nella lingua parlata. Meno comune è il termine loro: ho incontrato Mario e Anna e ho consegnato loro i biglietti suona certamente più formale che gli ho consegnato. Si usi quindi loro solo in determinati contesti specialmente nella lingua scritta.

Avete capito? lo Zingarelli consiglia di limitare l’uso di loro, non di gli. Vedete? I linguisti sono persone ragionevoli. Sanno benissimo che la lingua parlata è il traino della lingua scritta. Sono i maestri e i professori che ci castrano. E perché lo fanno?

È un fenomeno frequente soprattutto presso il ceto medio (e i prof sono ceto medio puro): si chiama ipercorrettismo. L’ossessione di darsi regole per distinguersi dal volgo. Così la casella del pronome atono plurale sarebbe stata lasciata vuota soltanto per prendere in trappola gli incolti, quelli “che scrivono come parlano”.
Ma c’è anche un motivo più onorevole: cercare di salvare il pronome atono femminile singolare, il gentile “le”, che molto spesso nella lingua parlata si trasforma nel solito “gli”. È chiaro che se passa l’idea che “gli” va bene al plurale sia per il maschile che per il femminile, qualcuno si comincerà a chiedere perché dobbiamo distinguere il genere al singolare. Tra l’altro i latini dicevano illi sia per gli che per le.

Ma in fondo i latini sono tutti morti, e a me interessano solo quando giustificano i miei errori di grammatica. Il quarto motivo è molto semplice: io scrivo così perché mi va. Come diceva un generale, “l’intendenza seguirà”. Noi scriviamo. I grammatici seguiranno.
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