La terza Maria

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Niccolò dell'Arco,
Compianto del Cristo Morto
Di Stefano Maioli - Opera propria, CC BY-SA 4.0
24 aprile: Santa Maria di Cleofa, madre dei fratelli di Gesù, per quanto strano ciò possa sembrare

Maria di Cleofa mi fa girare la testa, ogni volta che provo a raccapezzarmici. Forse era la zia di Gesù, forse la cognata, forse entrambe le cose? E come poteva essere madre di eventuali fratelli di Cristo, senza essere la madre del Cristo medesimo? Sono quei classici problemi che nell'antichità coinvolgevano chi cercava di recuperare un minimo di coerenza nei miti greci (in particolare nei rapporti di parentela tra gli Dei), un affanno simile a quello che oggi patiscono quelli che pretendono che funzioni la continuity nei fumetti dei supereroi. 

Nei vangeli la situazione è più circoscritta: a compatire Gesù sotto la croce c'è un gruppo di donne, un dettaglio che da subito sembrò verosimile ma forse anche consono a una sensibilità greco-romana in cui il cristianesimo fu immediatamente trapiantato: non si dà tragedia senza coro. E il coro dev'essere un personaggio collettivo, per cui ha persino un senso che queste donne non abbiano un nome o ne condividano uno che al tempo, ci informano gli archeologi, era davvero diffusissimo, benché nella Bibbia fino a quel momento solo la sorella di Mosè si chiamasse così: una donna su quattro si chiamava Maria, stando alle iscrizioni funerarie. Per cui non è così improbabile che due o tre donne ai piedi della croce si chiamassero Maria. Una sarebbe la madre di Gesù; un'altra è Maria di Magdala, che a sua volta racchiude altri personaggi: la peccatrice che aveva unto Gesù, l'invasata da cui lo stesso Gesù aveva scacciato ben sette demoni, la sorella di Marta e di Lazzaro. C'è poi, ai piedi della croce, una terza Maria, sulla quale gli evangelisti non riescono a mettersi d'accordo: Luca, che di solito è il più completista, si limita a definirla "di Giacomo". Per Marco e Matteo è la madre di Giacomo e Giuseppe, che quindi sono fratelli; Matteo definisce Giacomo "il minore" per distinguerlo dall'altro apostolo che porta lo stesso nome. In tutti i sinottici Giacomo il minore viene chiamato anche Giacomo d'Alfeo. In Matteo, poi, "Giacomo e Giuseppe" sono i primi nomi di una lista di fratelli di Gesù nominati dalla folla. ("Non è egli forse il figlio del carpentiere? Sua madre non si chiama Maria e i suoi fratelli Giacomo, Giuseppe, Simone e Giuda? E le sue sorelle non sono tutte fra noi?") Questa circostanza ha portato molti lettori a identificare Giacomo il minore con il Giacomo che San Paolo nella lettera ai Galati definisce "fratello del Signore", leader della comunità cristiano-ebraica di Gerusalemme. Ora, se si accetta l'idea che Gesù possa avere avuto fratelli di sangue (e alcune confessioni protestanti la accettano), Maria di Cleofa non potrebbe che essere la stessa Maria di Nazareth: e allora perché gli evangelisti nominerebbero due Marie diverse? Per i cattolici l'idea è da escludere: la madre di Dio sarebbe rimasta vergine anche dopo la nascita di Gesù. La presenza di entrambe le Marie davanti alla croce esclude anche la possibilità che Gesù avesse dei fratellastri, perché per sposare una delle due Giuseppe avrebbe dovuto rimanere vedovo dell'altra. 

Un'altra ipotesi, molto apprezzata dai cattolici, è che "fratelli" (adelphoi nell'originale greco) significhi "cugini": nel qual caso le due Marie potrebbero essere sorelle, e complimenti ai genitori per la fantasia. Qui interviene il quarto evangelista, quello che scrive per ultimo e che forse voleva proprio chiarire la questione: senonché finisce per confonderla ancor di più. Giovanni scrive che "Stavano presso la croce di Gesù sua madre, la sorella di sua madre Maria di Cleofa e Maria di Magdala". Viene per la prima volta nominata una "Maria di Cleofa" (una variante di Alfeo?), un nome che fin qui era associato soltanto al discepolo che secondo Luca aveva riconosciuto Gesù a Emmaus. A parte questo, è da duemila anni che ci chiediamo se Giovanni abbia elencato tre donne o addirittura quattro. A quel tempo, si sa, non si mettevano le virgole, per cui sta a noi decidere se "la sorella di sua madre" e "Maria di Cleofa" siano una persona soltanto o addirittura due. Alcuni storici trovano inverosimile che due sorelle si chiamino entrambe "Maria" – io per contro insegno alle medie e mi è capitato di avere sorelle che si chiamavano Miriam e Meriem, per cui non trovo più inverosimile nulla. Tra l'altro Giovanni, che pure sostiene di essere l'apostolo più vicino alla madre di Gesù, non la chiama mai per nome. Un'altra ipotesi è che "sorella" qui significhi "cognata", e perché no? Maria di Cleofa potrebbe essere sorella di Giuseppe il falegname e moglie di Alfeo/Cleofa o viceversa: a quel punto gli apostoli Giacomo e Giuseppe sarebbero davvero cugini di Gesù. 

Una cosa interessante di questa tortuosa ricostruzione, è che è del tutto irrilevante da un punto di vista dottrinale. Lo chiarisce Gesù stesso, in un passo riportato dai tre sinottici: quando gli dicono che sono venuti a trovarlo sua madre e i suoi fratelli, lui risponde platealmente che "sua madre" e i "suoi fratelli" sono i suoi discepoli, e "chiunque avrà fatto la volontà del Padre mio" (Matteo 12,50). Che sia zia, cognata o semplice conoscente, Maria è una delle donne che il terzo giorno dopo la deposizione vanno a visitare la tomba di Gesù (secondo Marco intendevano imbalsamarlo), ma trovano la tomba vuota. Un angelo le avvisa che il Salvatore è risorto. Corrono ad avvertire gli apostoli, i quali almeno secondo Luca restano piuttosto increduli. Lo stesso Paolo, quando raccontava la resurrezione, preferiva omettere il dettaglio della prima apparizione alle pie donne: probabilmente temeva che le testimonianze femminili non fossero abbastanza credibili. Matteo e Luca, viceversa, sembrano dare una certa importanza al fatto che le prime a essere informate della resurrezione siano le donne. È uno dei tanti indizi che ci suggeriscono che Paolo e i sinottici si rivolgessero a pubblici diversi, con sensibilità diverse.
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Il padre (più santo) di Origene

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22 aprile: San Leonida martire, padre di Origene (✝204)

Di Leonida, padre di Origene, sappiamo poco, quasi solo un aneddoto: la notte, mentre Origene dormiva, Leonida gli baciava il petto, "quasi fosse un sacrario dello Spirito Santo". Così almeno secondo il solito Eusebio da Cesarea, ma c'è un problema: come faceva Eusebio a saperlo, se l'unico testimone sveglio era appunto Leonida, morto mezzo secolo prima che Eusebio nascesse, durante le persecuzioni di Settimio Severo? Escludiamo che prima delle persecuzioni, Leonida andasse in giro a raccontare dei bacini notturni che dava al suo figlio prediletto, di cui intuiva le doti intellettuali che considerava un dono dello Spirito Santo. È più probabile che a ricordare di questi bacini fosse Origene stesso, il quale evidentemente non dormiva davvero; a volte magari faceva finta. In età adulta avrebbe poi citato l'episodio in qualche omelia andata perduta, perché in quelle che abbiamo, l'autore parla pochissimo di sé. Ma anche in questo caso, come faceva il piccolo Origene a sapere che Leonida considerava il suo petto "un sacrario dello Spirito Santo"? Forse un giorno gliel'avrà chiesto e avrà ottenuto una sincera risposta; non è impossibile; ma secoli di relazioni tra padri e figli ci fanno sospettare che Origene non abbia mai svelato di essere sveglio e il padre non gli abbia mai davvero spiegato perché gli dava un bacino della buona notte sul cuore. È Origene a essersi convinto di essere uno speciale custode dello Spirito; di avere una potenzialità, un dono, qualcosa di cui il padre era orgoglioso. Cosa pensasse davvero il padre non possiamo saperlo, ma in generale cosa desiderano i padri? In generale il meglio per i figli; poi fortunatamente si tolgono di mezzo prima di verificare se il meglio arrivi o no. 

Leonida fu martirizzato ad Alessandria d'Egitto verso il 204. Quando lo arrestarono, Origene aveva diciassette anni e avrebbe voluto seguirlo, ma la madre gli nascose i vestiti, o almeno così ci racconta sempre Eusebio. Origene scrisse allora una lettera al padre per esortarlo al martirio. Il martirio ci fu, ma anche la confisca dei beni, e Origene si ritrovò sul groppone sei fratelli minori più la vedova. Era comunque un ragazzo promettente e grazie al sostegno di una matrona cristiana in un qualche modo riuscì a cavarsela: si mise a insegnare retorica, a copiare manoscritti, e nei ritagli di tempo divenne uno degli intellettuali più importanti del secolo III. Santo no, però, perché in quel periodo era complicato: la dottrina non era ancora del tutto fissata, il che lasciava agli intellettuali ampi margini di speculazione. Origene ad esempio non credeva che le pene infernali potessero durare in eterno, ma soprattutto pensava che il figlio fosse subordinato al padre, il che sarebbe stato recisamente escluso dal concilio di Nicea; così si ritrovò eretico, per quanto stimato da tanti contemporanei, compresi un paio di padri della Chiesa. Nel secolo successivo poi su di lui si impigliarono voci sempre più infamanti, così che il primo ad aver dichiarato che "Non c'è salvezza al di fuori della Chiesa"... è tuttora considerato al di fuori della Chiesa. Al tempo del padre le cose erano più semplici: bastava morire da martiri, e nessuno sarebbe andato a controllare se morivi per le idee giuste. Così insomma per quel che ne sappiamo, Leonida è in paradiso e il figlio fuori. Ma che paradiso può essere per un padre, se il figlio resta fuori. 

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Se una santa alza un piede per te

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20 aprile: Sant'Agnese di Montepulciano (1274-1314), mistica


Agnese era talmente famosa per i miracoli che diventò badessa a quindici anni; nella sua Leggenda, Raimondo di Capua racconta che cominciò a guarire i malati quando era ancora una bambina. Ma il più famoso è postumo e piuttosto macabro: quando nel probabile centenario della sua nascita, Caterina di Siena si recò in visita nel suo sacrario, vi trovò un corpo che a quanto pare era ancora incorrotto, e si chinò per baciarle un piede in segno di devozione. Il piede, dicono i testimoni, si sollevò per accorciare la fatica di Caterina. Bisogna però avvertire che il biografo di Agnese, Raimondo, era anche il padre spirituale che i domenicani avevano procurato a Caterina, il quale si trovava dunque in una posizione privilegiata per orchestrare un prodigio come questo, dal significato palese: Caterina era l'erede di Agnese, in quanto domenicana, mistica e santa. Raimondo, accettando la direzione spirituale di un personaggio irregolare come Caterina, era probabilmente conscio di giocarsi la carriera: la ragazza destava scalpore per le lettere che scriveva e inviava ai potenti della Terra, ma come tutti i mistici tra Due e Trecento si muoveva sulla lama sottile che separava l'eresia della santità. Il compito di Raimondo era farne una santa; il precedente di Agnese forniva sia al maestro sia all’allieva un canovaccio da seguire. Possiamo immaginare che Caterina abbia imparato come comportarsi da santa sul libro di Raimondo: anche se il gusto per le privazioni e i digiuni eroici lo aveva già sperimentato ben prima di incontrarlo, leggendo di Agnese aveva scoperto che si poteva vivere per quindici anni a pane e acqua, e che una santa seria al posto del cuscino usa una pietra. 

Il problema è che mentre Agnese era già una leggenda, Caterina viveva ancora nel mondo complicato dei viventi ed è probabile che abbia un poco invidiato la relativa facilità con cui la consorella Agnese era riuscita a farsi spedire bambina in un convento, mentre Caterina per convincere i suoi che non avrebbe sposato il cognato rimasto vedovo dovette fare più di uno sciopero della fame. Anche per farsi accettare come religiosa Caterina aveva faticato non poco, mentre Agnese che viveva in un secolo dove le confraternite religiose erano meno strutturate, aveva trovato immediatamente posto in una comunità quasi spontanea, le cosiddette Suore del Sacco, dette così dal vestito molto ruvido che portavano. Agnese, dappertutto riverita e onorata, a quindici anni era già superiora a Proceno (oggi provincia di Viterbo), e in seguito avrebbe ceduto al desiderio dei compaesani di Montepulciano di fondarne un altro nel suo luogo di nascita, aderendo alla regola domenicana. Caterina invece avrebbe viaggiato in lungo e in largo senza mai trovare pace, impiegata in missioni diplomatiche che la esposero almeno una volta a un attentato, a Firenze. Agnese, come conviene a una santa protagonista di una leggenda, faceva tanti miracoli: dove passava scendeva una manna, un pulviscolo bianco fatto di tante minuscole croci. Anche Caterina qualche miracolo avrebbe voluto farlo: tutti in particolare le chiedevano di riportare il papa da Avignone a Roma e lei in teoria ci riuscì; ma poi scoppiò la guerra, il papa morì subito, i cardinali italiani ne elessero uno e i francesi un altro, tutta una confusione che Caterina cercò di risolvere digiunando, finché ne morì, nove giorni dopo la festa della sua santa modello. Qualche anno dopo Raimondo diventò maestro generale dell'Ordine, come Caterina aveva previsto. Il corpo di Agnese è ancora custodito in una teca, a Montepulciano, anche se i piedi sono piuttosto incartapecoriti e da quella volta nessuno ha più visto muoverli. 

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Il papa verso lo scisma

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19 aprile: Leone IX (1002-1054)

Lo scisma più annoso, quello che non si è ricomposto ancora dopo secoli di tentativi, ha motivi più storici che dogmatici: cristiani di rito latino e cristiani di riti orientali (greco o slavo) hanno sempre avuto qualche difficoltà a capirsi, ma questo non aveva impedito loro di sentirsi parte di una stessa Chiesa... fino a quando? Sui libri di Storia trovate di solito una data, 1054 (a volte 1055). Ma cosa successe in quell'anno, di così irreparabile, tra Roma e Costantinopoli? Chi sono insomma i responsabili di questo strappo che non si è più ricucito, e che tuttora sanguina ogni volta che si riapre un fronte in Europa, nei Balcani come in Ucraina? Il patriarca di Costantinopoli nel 1054 era Michele Cerulario: e a Roma chi c'era? In teoria Leone IX, ma ecco: è difficile capire come siano andate le cose. È molto più facile notare come generazioni di storici e agiografi abbiano tentato di sminuire le responsabilità di questo papa che è venerato come un santo e ammirato come un grande riformatore; per cui attribuirgli uno scisma sembrava forse indelicato.  

Quando un papa sceglie, tra tanti nomi, Leone, di solito ci si aspetta che dia battaglia, e Brunone dei conti di Egisheim-Dagsburg ci provò, anche se alla fine non si può dire che ne vinse. Parente neanche troppo lontano dell'imperatore Corrado II, Brunone in quanto terzogenito era destinato alla carriera ecclesiastica, che non significava necessariamente passare la vita sui breviari. Ad esempio: per conquistarsi il titolo di vescovo della sua Toul, in Lorena, Brunone si mise a 24 anni a capo di un contingente di cavalieri teutonici che accompagnarono Corrado in una campagna in alta Italia. La responsabilità della missione sarebbe spettata al vescovo in carica, troppo anziano: Brunone era già il suo vice e se ne prese carico, in attesa di sostituirlo anche sulla cattedra. Questo precoce successo militare avrebbe segnato il suo destino, per più di un motivo. È probabile che Brunone nell'occasione si sia fatto un'opinione di sé che non sarebbe riuscito nei fatti a dimostrare: per prima cosa, un condottiero vincente – ma è destino dei condottieri continuare a vincere finché non perdono. Nell'occasione potrebbe anche essersi infiltrata nella sua coscienza quell'idea che noi postmoderni chiamiamo meritocrazia: la convinzione che ai posti di comando dovrebbero starci quelli che se lo meritano. Il che sarebbe ineccepibile, senonché molto spesso a parlare di meritocrazia è gente, fateci caso, con un cognome illustre: e arciconvinta di meritarselo. Brunone era figlio di conti (che gli avevano dato un nome che richiamasse quello di altri famosi prelati), parente di imperatori: se non avesse combattuto qualche battaglia a 24 anni sarebbe diventato vescovo comunque; magari un po' più tardi, ma lo richiedeva il suo lignaggio. E però era convinto di esserselo conquistato sul campo, non come certi vescovi a cui la cattedra gliela pagava papà perché si sistemassero, seguendo una pratica che la Chiesa ufficialmente denigrava. Tale pratica era chiamata “simonia”,  dal nome di quel Simone Mago che negli Atti degli Apostoli, invidioso dei miracoli praticati dai cristiani, aveva offerto denaro a Pietro affinché lo ammettesse tra gli apostoli. 

Per Brunone, che apparteneva a un movimento di riforma della Chiesa che si irradiava soprattutto dai monasteri cluniacensi, la simonia era uno scandalo che andava rimosso ad ogni costo, e non è nemmeno così necessario calarsi nella mentalità rigorista di un vescovo del secolo XI per condividerne i motivi: una Chiesa che metteva all’asta i ruoli apicali sarebbe stata inevitabilmente gestita da figli di papà solo raramente, e casualmente, competenti e meritevoli. E allo stesso tempo, non era la simonia un fenomeno inevitabile, in una società che considerava la carriera ecclesiastica come appannaggio delle famiglie più nobili, un modo di tenere impegnati i secondi o terzogeniti senza frazionare più di tanto l’asse ereditario? Da questi rampolli delle grandi famiglie ci si aspettava comunque che contribuissero alla gloria delle loro diocesi con donazioni di beni immobili, terre in beneficio e chiese monumentali, per cui davvero: c’era così tanta differenza tra Brunone e certi vescovi che per diventarlo cominciavano a pagare in anticipo? A distanza di secoli io non ci vedo tantissima differenza, ma capisco quanto fosse vitale per Brunone notarla e farla notare. Ad esempio, quando il vecchio vescovo di Toul passò a miglior vita, l'imperatore voleva investire Brunone senza tanti complimenti, ma quest'ultimo obiettò che la diocesi di Toul era soggetta a quella di Treviri, e che quindi la nomina spettava all'arcivescovo di colà. Giunto a Treviri, però Brunone scoprì che l'arcivescovo lo avrebbe nominato soltanto in seguito a un giuramento di fedeltà che non era previsto dal diritto canonico, sicché alla fine B. riuscì nell'impresa di litigare sia con l'imperatore sia con l'arcivescovo – ovvero con entrambe le autorità che dovevano designarlo. Così almeno scriveva il biografo ufficiale di Leone, mentre il papa era ancora in vita, ma guardando alle date qualcosa non va: tutto questo doppio braccio di ferro tra imperatore e arcivescovo dovrebbe essersi risolto (a favore di Brunone) in meno di due mesi, che in un secolo in cui le informazioni viaggiavano a cavallo passavano in un soffio. È probabile che le resistenze di Brunone siano state ingigantite dal biografo per dimostrare l’alto senso che aveva il futuro Papa per l’autonomia della Chiesa e le prerogative della sua carica, nonché per mascherare un’evidenza: nel giro di cinquanta giorni il vescovo designato dall’imperatore era già in cattedra, con tanti saluti all’autonomia della Chiesa e le prerogative eccetera. Da cui un sospetto: forse tutta la retorica antisimoniaca era funzionale all’affermazione di una nuova gerarchia selezionata direttamente dall’imperatore.

Vent’anni dopo la manfrina si ripeté, stavolta intorno al Soglio di Roma. Alla morte di papà Damaso II, l’imperatore (che ora era Enrico III, figlio di Corrado) non si diede nemmeno la pena di scendere in Italia: convocò una dieta a Worms e nominò Brunone. Brunone obiettò ovviamente che non era degno, ma soprattutto che la nomina spettava al clero romano e persino al popolo: dopodiché arrivò a Roma, vestito da umile pellegrino – ma accompagnato dal fior fiore dei riformisti, tra cui Ugo di Cluny e un giovane Ildebrando di Soana che da qui in poi sarebbe stato l’eminenza grigia dei pontefici riformisti, finché non sarebbe diventato papa lui stesso col nome di Gregorio VII. L’elezione fu una semplice ratifica della designazione imperiale, dopodiché Brunone (da qui in poi Leone) procedette a sorprendere i romani con atteggiamenti che ricordano, alla lontana, quelli di un’altro Papa venuto da lontano, Giovanni Paolo II: considerandosi, più che vescovo dell’Urbe, capo della Chiesa universale (o almeno imperiale), Leone si mise in viaggio e in sei anni di pontificato, si è calcolato che a Roma abbia trascorso soltanto qualche manciata di mesi. Ovunque andava, Leone convocava sinodi che servivano soprattutto a sollevare dai loro incarico i vescovi simoniaci – da sostituire ovviamente con uomini di fiducia di Leone e dell’imperatore. Ma forse perché la simonia non era sempre così facile da dimostrare, sempre più spesso nell’obiettivo di Leone e dei suoi collaboratori c’era un altro fenomeno, il Nicolaismo: l’abitudine di molti prelati a convivere con donne, dalle quali avevano persino bambini. Una plateale violazione dei voti sacerdotali (che però ci avevano messo secoli a essere formalizzati: e a Oriente i sacerdoti si sposavano tranquillamente) ma anche una seria minaccia all’unità patrimoniale della Chiesa. Non sempre le cose andavano lisce: a Mantova durante il sinodo del 1053 scoppiò un tumulto, animato a quanto pare dai servi dei vescovi convocati: vescovi evidentemente molto legati ai loro comportamenti simoniaci e alle loro concubine, sicché Leone dovette lasciare la città senza riuscire a punire nemmeno i colpevoli. 

Ma i veri problemi – che gli furono fatali – Leone li incontrò nel Meridione, dove nell'equilibrio già molto relativo tra ducati longobardi, arabi di Sicilia e Bizantini si erano inseriti con una certa prepotenza i Normanni. I papi li avevano appoggiati – in funzione antiaraba – ma ora cominciavano a temere il loro espansionismo. Leone IX decise di contrastarli proprio nel momento in cui, sul piano dottrinale, era ai ferri corti con i loro avversari: i Bizantini. Da questi ultimi Leone pretendeva, oltre al riconoscimento del primato di Roma (che in linea teorica il patriarca Michele Cerulario non avrebbe potuto discutere) anche la restituzione delle diocesi della Sicilia e del meridione, che dopo secoli di dominio bizantino erano passate al rito greco: e piuttosto di cederle il Cerulario era disposto a rivangare le vecchie polemiche di secoli prima, il filioque e la comunione coi pani azzimi, insomma tutti i pretesti che tornavano utili per minacciare uno scisma. Un politico più astuto forse avrebbe a questo punto sostenuto i Normanni in funzione antibizantina, ma Leone IX forse non lo era, per cui lo si ritrovò ad allearsi coi Bizantini che non riconoscevano la sua autorità spirituale contro i Normanni che invece la riconoscevano; una contraddizione che si sarebbe risolta se almeno Leone avesse vinto, ma prevedibilmente successe il contrario. Dalla Germania, Enrico III si limitò a mandare un contingente di cavalieri, ma non ritenne necessaria la sua presenza. Così toccò a Leone condurre l'esercito: spettacolo inconsueto anche nel medioevo. I Normanni riuscirono a sorprenderlo prima che si potesse riunire con gli alleati Bizantini e lo fecero prigioniero, che è sempre un fatto increscioso per un pontefice: e se anche tutte le fonti dicono che fu trattato con tutti gli onori, e liberato in meno di un anno, è pur vero che di lì a poco morì, ad appena 52 anni e alla vigilia dello scisma d'oriente. Nel frattempo, in effetti, il cardinale che Leone aveva inviato per trovare un compromesso col Cerulario (Umberto di Silva Candida) ottenne il risultato opposto: Umberto e Michele si scomunicarono a vicenda, decretando ufficialmente uno scisma che dura tuttora. A quel punto però Leone era già morto da qualche mese, il che ha dato ai teologi qualche argomento per sostenere che la scomunica impartita da Umberto non avesse più valore legale. Eppure lo scisma c'è, nessuno è più riuscito a risanarlo.

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Ognuno potrà farsi la sua Storia su misura

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Dopo un paio di settimane, è sintomatico che là fuori ancora qualcuno parli del video fake di Barbero. Una storia che sembra escogitata per confermare la saggezza di quegli indigeni che per prima cosa rompevano le macchine fotografiche agli esploratori, non perché le confondessero con delle armi, ma perché capivano benissimo cosa fossero: strumenti che servono a rubare la tua immagine, e quindi la tua anima. Per un secolo li abbiamo presi in giro e poi... abbiamo scoperto i deepfake.

Provo a riassumere. Bottura (che stimo e che saluto) scrive un programma su rai3, che come tutti i programmi rai durano un'ora, un'ora e mezza più di quanto dovrebbero durare per essere divertenti. Riempirlo di contenuti di qualità è economicamente impossibile, e questo conduce rapidamente il nostro autore a un patto col diavolo, ovvero con l'AI: la quale AI forse un giorno scriverà davvero testi interessanti, ma nel frattempo, ricordiamolo, il motivo per cui qualcuno la progetta e qualcun altro la usa è la possibilità di produrre ingenti quantità di contenuti scadenti in tempi brevissimi e a costo zero. È da sempre che su Splendida Cornice compaiono dei video deepfake, anche se di solito più brevi e soprattutto la Cucciari avvisa immediatamente che sono deepfake. Da cui la domanda: ma c'è una sostanziale differenza da quando i deepfake li usava Striscia per far ballare la macarena ai politici a quando li usa Bottura per far dire Barbero che armarsi è giusto? A parte il fatto che a tutti, ogni tanto dovrebbe venire il dubbio: ma se lo facessero a me, un video in cui dico cose in cui non credo, ne sarei contento? A parte questo ognuno risponda secondo coscienza. 

Il video in questione proponeva un paragone storico notevolmente più bislacco del solito. Di solito chi fa propaganda cerca di paragonare quello che sta succedendo oggi (chiamiamolo A) con quello che è successo in un altro periodo storico (chiamiamolo B) che infallibilmente è il 1939 – siccome la propaganda al 90% serve a giustificare delle guerre, e l'unica guerra che la coscienza collettiva dà per giustificata sin dalla scuola dell'obbligo è quella contro i nazisti, B è praticamente sempre il 1939. Bottura invece se ne esce con questa idea senza senso di un tentativo degli austriaci di conquistare l'Italia che non solo non è mai successo (cioè inventati uno scenario e poi arrabbiati perché nel tuo scenario accadono cose ingiuste) ma è anche una grottesca inversione di quello che hanno sperimentato i sudtirolesi dopo il 1918: dal loro punto di vista sono gli italiani che li hanno invasi, sono loro che li hanno forzati a parlare in italiano e/o, dopo il 1939 a levare le tende.

Il video fora l'attenzione collettiva, come purtroppo non succede mai alle cose meglio riuscite; tra i critici c'è anche chi nota che in questo caso qualcuno sta speculando sull'immagine di uno storico con un minimo di competenza per raccontare una storiella che non ha senso, uno scenario fittizio che non funziona. Lo stesso Bottura a un certo punto capisce di avere esagerato, almeno dal punto di vista tecnico, e ammette che in futuro starà più attento. Barbero dal canto suo la prende sportivamente, e quindi perché ne stiamo parlando ancora? Perché la fuori c'è gente che non solo è convinta che mettere in bocca a Barbero un messaggio opposto a quello che dice Barbero non sia una pratica scorretta, ma trova il contenuto del finto Barbero interessante. Parliamo di giornalisti, di esperti di comunicazione, di gente che sostiene di condividere con Barbero una passione per la Storia. Quello che hanno in comune, è l'avere sostenuto con molta causa una certo tipo di narrazione intorno al conflitto ucraino, e una non-accettazione del fatto che questa narrazione non avrà evidentemente un lieto fine. Il che li porta a contorsioni logiche e retoriche spettacolari – per chi vi assiste – ma forse anche pericolose.

In controluce c'è tutto un problema di ridefinizione della satira, un genere da cui la mia generazione si aspettava la "resistenza umana", ovvero la creazione di una dimensione altra in cui i torti del potere venivano vendicati da un'eletta schiera di autori satirici che in effetti erano molto bravi, fu un'età dell'oro, ma è finita; e ha lasciato questi cinque-sessantenni orfani non già di un'ideologia, ma di una cosa un po' meno interessante: una retorica. Se non si sono mai chiesti quale sia la differenza tra "satira" e "propaganda", non è per un caso, ma perché la risposta li schianterebbe: non c'è nessuna differenza. La chiamiamo "satira" quando se la prende coi nostri nemici – e in quel caso a quanto pare tutto le è concesso, anche rubare l'immagine e l'anima dei suoi avversari e indossarla per far loro dire il contrario di quello in cui credono – e "propaganda" quando se la prende coi nostri amici, nel qual caso, va da sé, è di regime. Ma se una la vediamo rossa e l'altra la vediamo blu, l'unica cosa che sappiamo davvero è la direzione verso la quale ci stiamo spostando. E questo è forse il motivo per cui continuiamo a parlare di questa storia abbastanza minuscola, mentre fuori si bombardano ospedali: qualcuno sta precipitando, non può più fidarsi dei maestri, come Barbero, nei quali aveva riposto illimitata fiducia; deve ricostruirsi un sistema morale e deve farlo alla svelta; e per quanto non sembri una buona idea, l'AI è lì a disposizione: non costa niente, è veloce, convincente, ormai la usano tutti, insomma perché no. 

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Tomaide e Abbondio

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14 aprile: Santa Tomaide d'Alessandria, vergine e martire (♱476)

Oggi li chiamiamo femminicidi e alla fine non li trattiamo molto diversamente: ne discutiamo, cerchiamo di esecrare gli assassini, di ricordare le vittime, di dare un senso al loro sacrificio. Per molto tempo questo compito, che oggi spesso è demandato ai cronisti di nera, se lo è assunto la Chiesa. Nell'Alessandria d'Egitto del quinto secolo – forse la città più grande del mondo – Tomaide è una ragazza che resiste alle avances pesanti del suocero. Quest'ultimo è un pescatore già anziano che in quello che oggi i giornalisti definirebbero "raptus omicida" la taglia a metà. Poi diventa cieco e si costituisce (verrà decapitato). Tomaide diventa immediatamente oggetto di venerazione, il che ci fa capire come il concetto del martirio si stesse allargando; Tomaide in effetti non è morta per difendere la fede cristiana, che ad Alessandria è maggioritaria (se non praticamente obbligatoria, a quasi un secolo dall'editto di Tessalonica). Non lotta nemmeno per offrire la sua verginità a Dio, visto che era già sposata. Tomaide lotta per lo stesso motivo per cui lotterà Maria Goretti un millennio e mezzo dopo, per lo stesso motivo per cui lottano le ragazze in ogni epoca e di ogni religione. Le martiri della violenza sessuale sul calendario non sono numerose, ma ricorrenti, e illustrano la posizione della Chiesa sul problema (che non fu la stessa nei secoli, e variava col variare delle nozioni; Agostino ad esempio, contemporaneo di Tomaide, nella Città di Dio sembra rifiutare l'idea che la violenza si possa consumare senza che la donna sia almeno in parte consenziente, una concezione quindi molto più antica dei blue jeans attillati: solo morendo la vittima poteva insomma dimostrare la sua contrarietà all'atto). 
Anche Tomaide divenne famosa per un olio, che in quel caso non distillava dalle ossa, ma era semplicemente l'olio che veniva usato per alimentare il lume sulla sua tomba, dopo che il corpo fu traslato a Costantinopoli. L'olio di Tomaide serviva ad allontanare le tentazioni carnali: e se mi chiedete come si faceva a ottenere olio da un lume, che l'olio in effetti lo brucia, non so che dirvi, non saprei proprio come ricavarlo. Saprei invece come usarlo.


Anonimo
15 aprile: Sant'Abbondio, mansionario (VI secolo)

Il patrono di don Abbondio è un santo che apparentemente non gli somiglia, un presbitero umile ma che svolge con grande dignità le sue funzioni di mansionario presso la basilica vaticana (quella vecchia, poi distrutta nel Rinascimento per far posto al guazzabuglio barocco). Il mansionario è un viceparroco senza incarichi amministrativi: in sostanza deve dire messa e amministrare i sacramenti. Un giorno una ragazza disabile, che in quella chiesa è una presenza fissa, le si para davanti: sostiene di avere avuto, a forza di preghiere, un'udienza in sogno con San Pietro in persona, e che San Pietro le ha detto per la guarigione di rivolgersi al mansionario. Eh, beh, se te l'ha detto San Pietro... Abbondio, che fino a quel momento non aveva mai pensato di poter fare un miracolo, senza fare una piega prende la mano della ragazza e la guarisce. L'episodio, riportato da Gregorio Magno nei suoi Dialoghi, è un manifesto della santità cattolica: Dio concede la grazia attraverso tutta una gerarchia di intermediari, uno in cielo (Pietro) e uno in terra (Abbondio). Questo è tutto quello che sappiamo del santo di oggi, che a volte viene confuso col vescovo patrono di Como, nato a Tessalonica e morto nel 499: ma è probabilmente un Abbondio diverso (molte pagine web sostengono che il vescovo sia "morto sul rogo", non si capisce per quale motivo, visto che il Cristianesimo era ormai religione di Stato da un secolo). Abbondio il mansionario è il patrono di tutti i dipendenti a cui un boss chiede di fare qualcosa di impossibile e loro, senza scomporsi più di tanto, lo fanno, o almeno ci provano. In fondo anche Manzoni chiede al suo don Abbondio di mostrare coraggio in un mondo di gangster: salvo che il suo Abbondio invece di essere un santo è un uomo come noi.
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Rolando Rivi, una storia sbagliata

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 13 aprile – Beato Rolando Maria Rivi, martire ragazzo  (1931-1945)

Di foto direi c'è solo questa

Pensavo che non avrei mai scritto nulla su Rolando Rivi. Le storie dovrebbero avere una morale, un senso, e in quella del povero Rolando fin qui non l'ho trovata – se non che in guerra succedono cose tragiche e stupide. Rolando forse morì perché in quanto seminarista si ostinava a vestire da pretino, anche se i genitori glielo avevano sconsigliato – con tutti i partigiani che c'erano in giro, e che già stavano facendo impazzire il prete vero. Rolando avrebbe obiettato almeno una volta che lui preferiva vestirsi così perché apparteneva a Dio, ("la tonaca è il segno che io sono di Gesù"), che è una cosa che può dire un ragazzino a quattordici anni inconsapevole dei pericoli, ma nel suo caso è anche la ragione per cui per il Dicastero delle Cause dei Santi poteva considerare la sua esecuzione un martirio in odium fidei: Rolando in effetti fu ucciso da una formazione partigiana per spaventare il vero prete, o perché il vero prete non si poteva ammazzare, o semplicemente perché vestiva come un prete (da cui la leggenda che poi gli assassini abbiano appallottolato i suoi abiti per giocare a pallone: poco verosimile, se avete mai provato a calciare un pallone di tela). Abbiamo tutti disobbedito ai nostri genitori vestendo in un modo che loro non approvavano, e per questa cosa Rolando è stato ucciso – stupidamente – da partigiani che poi cercarono di convincere i genitori, e una giuria, e sé stessi, che Rolando vestito da prete andava in giro per l'appennino facendo la spia: e non ci riuscirono. Dieci giorni dopo la guerra era finita; alla voce "Triangolo della morte (Emilia)" di Wikipedia, Rivi è il primo della lista delle vittime. 

Le storie dovrebbero avere una morale, un senso, ma quello che riesco a dedurre è che nemmeno in guerra la stupidità ci dà tregua, trasformando in goffi assassini quelli che erano saliti in montagna per fare gli eroi, e in martiri dei ragazzini che magari si sentivano a disagio a vestire in borghese. Ovvio che raccontandola in questo modo riuscirei a ferire sia chi venera il martire, sia chi difende la lotta partigiana: ed entrambi hanno le loro ragioni che capisco e dovrei rispettare, per cui pensavo che non avrei mai scritto nulla su Rolando Rivi. Poi ho letto che a Monchio la sua lapide era sparita. Non è la tomba, ma è la pietra che ricorda il luogo dove Rolando fu ucciso, davanti alla buca già scavata, secondo alcuni dopo aver chiesto di pregare per i genitori; secondo altri mentre piangeva e implorava pietà appeso alla gamba di chi impugnava la pistola. Lì i cattolici avevano messo una lastra di marmo e qualcuno l'ha tolta: a ottant'anni dalla morte di Rolando, la stupidità non ci ha affatto abbandonato, il che non è una sorpresa ma nemmeno una buona notizia. Così scriverò un pezzo su Rolando Rivi, che prima o poi verrà anch'esso cancellato; ma a questo punto se non scrivessi niente mi sentirei reticente. Non sono reticente. 

Sugli ultimi giorni di Rolando esistono, a volerle semplificare, tre versioni. La prima, quella raccontata dai partigiani al processo, descrive i movimenti di un ragazzo intraprendente, che si aggira per l'Appennino dal 10 aprile, imbattendosi in varie bande partigiane, fornendo informazioni false che fanno cadere una formazione in un agguato che costa la vita a sei partigiani; chiedendo a ogni distaccamento la posizione di un altro distaccamento che intendeva raggiungere, finché tutti si fanno l'idea che il ragazzo stia cercando di fare la spia; lui nel frattempo ha sottratto una pistola e quando i partigiani della Garibaldi, allertati da due contadini, decidono di fermarlo, la punta contro uno di loro, ma fa cilecca. Viene quindi fermato da un plotone della Garibaldi, che lo perquisisce e scopre che ha con sé cinquecento lire; inoltre sotto l'abito nero da seminarista veste una canottiera su cui è cucito un fascio littorio. Durante l'interrogatorio, conferma di aver ricevuto il denaro dal commissario del Comune di Castellarano in cambio di informazioni, e asserisce spavaldamente che, se l'avessero rilasciato, sarebbe andato a far rapporto. Insomma è reo confesso di spionaggio e tradimento, per cui dopo un rapido processo il distaccamento, costituitosi a giuria, lo condanna a morte. A eseguire la condanna fu il commissario politico, Giuseppe Corghi, che all'epoca aveva 28 anni. Non solo Corghi non negò mai l'accaduto, ma questa versione la raccontò direttamente al padre di Rioli, che dopo qualche giorno di affannose ricerche (a piedi, in mezzo alla guerriglia) era riuscito a individuare l'ultima formazione partigiana con cui era stato visto suo figlio. La versione divenne poi la tesi difensiva al processo del 1951: a difendere Corghi e il comandante del distaccamento Narcisio Rioli, il PCI inviò Leonida Casali, che fece del suo meglio recuperando diverse testimonianze; la storia comunque faceva acqua da molte parti. Ad esempio: secondo le disposizioni del Comitato di Liberazione, Corghi non avrebbe avuto l'autorità per eseguire una condanna a morte. Questo forse nel 1945 Corghi non lo sapeva, ma sei anni più tardi lo stimolò a cambiare la versione: a Rivi aveva dovuto sparare perché stava scappando. Oppure invece no, non stava esattamente scappando, ma la situazione era tesa, la formazione si stava spostando e non avrebbe potuto gestire un prigioniero. Inoltre il commissario prefettizio di Castellarano, quello che avrebbe pagato le 500 lire a Rolando, non era affatto caduto in disgrazia dopo il 25 aprile: per cui poté testimoniare che non l'aveva mai incontrato.

La seconda versione è quella del padre di Rolando, che da subito fu adottata dalla stampa di area democristiana. Il 10 aprile il padre si era accorto della sparizione del figlio perché aveva trovato, nel luogo dove si appartava quotidianamente a pregare, il suo breviario (altre fonti dicono un suo quaderno) con un foglietto. Sul foglietto c'era un messaggio che diverse fonti riportano con qualche differenza: ma la versione più accreditata è: "Non cercatelo, viene un attimo con noi partigiani". Il padre, in compagnia di un sacerdote (don Camellini), comincia subito a cercarlo presso le varie formazioni, nella speranza che il figlio abbia semplicemente deciso di unirsi a una brigata: magari di quelle cattoliche di cui aveva sentito parlare e per le quali nutriva una grande ammirazione. Le cinquecento lire che si trovava in tasca erano una ricompensa del parroco di San Valentino per i servizi prestati durante le funzioni religiose. Rolando insomma era stato prelevato dai partigiani, forse come atto di ostilità verso il parroco, che già in precedenza era stato minacciato. Inoltre il ragazzo era stato malmenato: lo confermò al processo del 1951 la padrona della casa dove i partigiani avevano condotto Rolando per l'interrogatorio. La signora, settantenne, non aveva assistito direttamente all'interrogatorio, ma aveva sentito i colpi. 

La terza versione è una sintesi piuttosto recente delle prime due, che ha preso vita in quell'area post-giampaolopansesca che possiamo anche definire revisionista. Con l'avvertenza che Pansa, molto prima di essere uno storico o un revisionista, è un narratore: e anche i suoi discepoli risentono di questa impostazione, dando spesso rilievo a dettagli incongrui o esagerazioni che uno storico professionista liquiderebbe a prima vista come incrostazioni leggendarie (ad esempio la storia della partita a pallone con la tunica di Rolando, che serviva ai cattolici per ribadire l'odio dei partigiani comunisti per l'abito del prete; o la voce, non avvalorata da nessun testimone, che Rolando sia stato torturato per tutto il tempo della detenzione). Ma insomma secondo questa versione Rolando era davvero un ragazzo intraprendente e un po' impiccione, anche se non una spia; avrebbe veramente voluto unirsi alla Brigata Italia dei cattolici, che era il motivo per cui continuava a chiedere a tutti quelli che incontrava dove la Brigata si trovasse: e forse in questa ricerca era stato instradato da qualche falso amico che invece militava nella Garibaldi. Queste, molto in sintesi, le tre versioni, e siete liberi di credere quello che volete. I partigiani hanno combattuto perché voi foste liberi di credere in quello che volete (anche Rolando, paradossalmente, è morto per lo stesso motivo). 

Quanto a me, io sono un pessimo investigatore: di solito mi affeziono a un indizio e non riesco più a levarmelo dalla testa. In questo caso, il bigliettino. Soprattutto la frase "viene un attimo con noi partigiani", che mi sembra troppo strana per essere inventata: quindi più plausibile (lectio difficilior) di altre frasi riportate da altre fonti. Quell'"un attimo" contiene un sarcasmo troppo crudele perché un padre possa essersela scritta da solo. Se davvero qualcuno ha scritto "un attimo" (e non riesco più a immaginare che non l'abbia scritto), quella persona stava giocando con il ragazzo come il gatto col topo. Altre cose che fatico a immaginare: un prefetto che offre denaro a un quattordicenne in cambio di confidenze; un ragazzino che gira liberamente tra le bande partigiane vestito da prete per dare ancor più nell'occhio. Insomma ho più di un motivo per credere alla seconda versione, anche se alla fine l'unico indizio decisivo per me è quel biglietto.

Mi piacerebbe raccontare storie con una morale chiara, un senso; ma non sempre è possibile. È lo stesso motivo, in fondo, per cui la Chiesa inventa i santi: dare un senso a vite che se lo sarebbero meritato; tutte le vite se lo meriterebbero. Rivi sarebbe diventato un buon sacerdote, o forse pessimo. Non lo sapremo mai; in compenso è stato proclamato Beato da papa Francesco e ha già guarito almeno un malato terminale nelle Filippine. Inoltre nel 2018 la Pieve di Castellarano è diventata il Santuario del Beato Rolando Rivi, e per l'occasione i fratelli di Rolando hanno abbracciato la figlia di Giuseppe Corghi, che aveva scoperto la storia soltanto da adulta (e sì che il padre qualche anno di prigione lo aveva fatto, prima dell'amnistia Togliatti). Nel 2013 invece a Rio Saliceto (RE) alcuni genitori protestarono per la visita organizzata a una mostra sul Beato Rolando Rivi, che avrebbe offeso la memoria della guerra partigiana. E io sinceramente capisco tutti. Capisco i preti, che celebrano un loro martire; capisco la figlia di un assassino, che non sapeva di esserlo e sente il bisogno di essere perdonata pubblicamente per un reato che non si è nemmeno sognata di commettere; capisco i genitori che non vorrebbero che la prima lezione sulla Resistenza impartita ai figli fosse quella in cui dei partigiani ammazzano un ragazzo innocente. Se voi state leggendo qui siete adulti, partecipate a quell'esiguo percentile di adulti che ancora legge lunghi testi scritti evidentemente per passione. Sapete benissimo, lo avete studiato, che in ogni guerra vengono commessi crimini insensati, e che questo non è un motivo per stabilire che la tale guerra non andava combattuta. 

Se avete figli, o se li avrete, e vi chiederanno cos'è stata la Resistenza, probabilmente cercherete di imbastire un breve discorso su quanto fosse necessario resistere a nazisti e fascisti. Da lì poi si può partire per un discorso un po' più lungo, un po' più complesso; finché questa complessità potrà anche farsi carico dell'enorme stupidità che ovunque ci soverchia, di modo che verso la fine del secondo ciclo di istruzione non sarebbe affatto sbagliato cominciare a introdurre il tema dei crimini commessi anche dai partigiani. Sono sinceramente convinto che la Storia s'impari così, tornando e ritornando sugli stessi argomenti, aggiungendo sempre più complessità man mano che il nostro giudizio critico ci consente di gestirla: e di solito, quando m'imbatto in qualcuno che ha problemi con la Storia, noto che non ce l'ha fatta, che è stato investito troppo presto da un concetto troppo complesso per lui. È un tratto tipico dei complottisti, fateci caso, la fissa maniacale per uno o due episodi storici memorizzati con troppa attenzione senza conoscere il contesto. È il problema di Pansa, che pur avendo studiato la Resistenza alla fine l'aveva riscoperta da giornalista e la trattava come una materia opaca da cui disseppellire dei casi da offrire a un pubblico che voleva esattamente sentirsi dire che i partigiani non erano dei santi: no, non lo erano. Ma ai bambini prima devi raccontare chi erano i nazisti e i fascisti, e soprattutto cosa fecero. Monchio la misero a ferro e fuoco, uccidendo donne e bambini, risparmiando solo un violinista forse perché sapeva suonare Beethoven. Poi gli spieghi chi erano i partigiani: persone normali che a rischio della vita cercavano di contrastare i nazisti e difendere la popolazione. Non erano addestrati e in molti casi fecero disastri: se l'argomento vi interessa avrete tutto il tempo della vita per tornarci, ma no, in coscienza non credo che sia il caso di cominciare dai disastri. Non è reticenza. È senso delle proporzioni forse. Non è paura di parlarne: vedete, ne ho parlato. 

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Un frate sposato e un monaco non venerabile

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10 aprile: Beato Antonio Neyrot da Rivoli, martire (1423-1460)

Su EBay sta a 29,99, dice che è rarissimo

Per tutto il Basso Medioevo, il cristianesimo si è rifranto contro l'Africa come contro un muro. Se abbatterlo era fuori questione, anche solo penetrarlo si rivelava periodicamente impossibile. Falliscono i primi missionari francescani in Marocco, che almeno hanno la consolazione di morire da martiri; fallisce Francesco stesso, che in Egitto riesce a impressionare il Sultano ma non lo converte; fallisce Antonio da Padova, che si ammala appena mette piede nel continente; fallisce Re Luigi il Santo, che ci prova due volte finché non muore di dissenteria. Ci prova anche, due secoli dopo, il domenicano Antonio Neyrot (o Neirotti) da Rivoli, ma il suo caso è abbastanza singolare, e si capisce perché non gli abbia assicurato una maggiore fama; a quanto pare, prima di morire eroicamente da martire a Tunisi, Antonio si era convertito all'Islam, e addirittura sposato!

È una storia di cui sappiamo poco, né chi l'ha tramandata aveva interesse a saperne di più. I resti di Antonio vengono acquisiti da mercanti genovesi e ritornano a Rivoli nel 1469, nove anni dopo il suo martirio. Probabilmente non erano in un buono stato. I mercanti avevano tutto l'interesse a sostenere di avere acquisito i resti di un martire della fede, i cui resti emanavano il caratteristico profumo: e tuttavia non era affatto chiaro cosa ci facesse Antonio a Tunisi. L'Ordine non ce l'aveva mandato, e si sa che uno dei voti dei domenicani è l'obbedienza. Ma Antonio da questo punto di vista forse non era il perfetto tra i frati. I suoi anni di apprendistato li aveva trascorsi nel convento di San Marco a Firenze, il che ha spinto qualche agiografo a collegarlo con Antonino Pierozzi, il famoso priore che divenne arcivescovo al posto del Beato Angelico. Se Antonio fece in tempo a essere allievo di Antonino, doveva davvero essere l'ultimissimo; dopodiché a venticinque anni avrebbe chiesto un trasferimento in Sicilia. Questo rappresenterebbe un indizio delle velleità missionarie di Antonio; ma davvero nella Sicilia del Quattrocento c'era tutta questa esigenza di missionari? E infatti il priore non era affatto convinto; sicché Antonio avrebbe fatto ricorso nientemeno che alla Santa Sede. È una storia strana, che sconfina definitivamente nel romanzesco quando qualche anno dopo la nave in cui viaggiava viene catturata dai pirati berberi che conducono i passeggeri a Tunisi per venderli come schiavi. Non è che queste cose non succedessero davvero, ma non è chiaro come mai il vascello si trovasse sulla tratta Sicilia-Napoli: stava tornando a Firenze? A Tunisi viene riscattato da un mercante genovese: anche queste cose succedevano; ma invece di tornare in Italia con lui, Antonio decide di restare in città, non si sa bene con che budget. In un qualche modo riesce a trovarsi una sistemazione, e nel 1459 si converte all'Islam e si sposa. Non è chiaro di cosa vivesse, ma gli agiografi riportano i suoi tentativi di tradurre il Corano in italiano. Un altro dettaglio bislacco: i  buoni musulmani non apprezzano le traduzioni del libro di Dio, che è tale solo quando è scritto nella lingua in cui fu dettato a Maometto, ovvero l'arabo. Tradurlo sembra un gesto più da studioso che da devoto, per cui non possiamo escludere che Antonio fosse arrivato in Africa per soddisfare una curiosità antropologica più potente della vocazione religiosa. La sua storia per certi versi somiglia all'avventura africana di Vincenzo De Paoli, anche lui rapito dai pirati e rivenduto a Tunisi un secolo e mezzo dopo. E in entrambi i casi si insinua nella nostra mentalità scettica il sospetto: ma davvero se la cavavano così bene, gli schiavi cristiani a Tunisi: davvero riuscivano a riscattarsi così facilmente e trovarsi subito qualche professione interessante? Non è possibile che almeno uno dei due sant'uomini in Africa ci sia andato volontariamente, magari perché il vestito di religioso che indossavano in Europa gli stava stretto e la prospettiva di fare altro, magari anche di farsi una famiglia, li tentava? 

Ma non c'era niente da fare: l'Africa respingerà, ancora per qualche secolo, anche i cristiani pentiti. Vincenzo tornerà in Francia dopo due anni, in seguito a una misteriosa traversata che non vorrà mai raccontare in dettaglio. Nel 1460 invece Antonio viene lapidato, probabilmente per apostasia. Possiamo ipotizzare che fosse rimasto cristiano tutto il tempo, come i musulmani in Spagna e in Sicilia che si facevano battezzare ma continuavano di nascosto a pregare in direzione della Mecca; oppure si era stancato di sua moglie; o la moglie si era stancato di lui e l'aveva denunciato, chi lo sa. Agli agiografi tornava più utile raccontare che il fatale ravvedimento fosse stato ispirato da un'apparizione in sogno del vecchio maestro Antonino Pierozzi. Al martirio avrebbe assistito un frate gerolamino, Costanzo da Carpi, che avrebbe scritto la prima agiografia su di lui; un altro resoconto fu fornito dal domenicano siciliano Pietro Ranzano, che avrebbe avuto accesso a lettere provenienti da Tunisi. Tanta documentazione, come si vede, non ha affatto chiarito l'ambiguità del caso: anzi ogni dettaglio sembra smentire un pezzo di storia. Persino il ritrovamento del corpo, che dopo un tentativo di bruciarlo, le autorità avrebbero abbandonato una discarica; eppure i mercanti genovesi dovettero spendere qualcosa per riscattarlo. Dove si vede la potenza del commercio: quel che a Tunisi era un rifiuto da smaltire, a Genova sarebbe diventata una preziosa reliquia che Amedeo duca di Savoia avrebbe acquisito, non senza un esborso importante.


10 aprile: San Beda il Giovane (IX secolo), non il Venerabile

I genovesi c'entrano qualcosa anche con la storia di Beda il Giovane, l'ennesimo esempio di come un equivoco possa trascinarsi per secoli e trasformarsi in una leggenda. Beda sarebbe un chierico sassone che dopo una pluridecennale esperienza professionale a corte di Carlo Magno avrebbe scelto di ritirarsi a vita contemplativa in uno dei luoghi più umili al mondo, che al tempo era già il Polesine. Nel monastero di Gavello avrebbe passato gli ultimi anni della sua vita sempre studiando, insegnando e rifiutando offerte di promozione ad abate o vescovo. Alla sua morte, sopraggiunta verso l'883 (ma è una data veramente molto avanzata per un ex cortigiano di Carlo), sarebbe stato sepolto dai confratelli nel monastero e fatto oggetto di una venerazione piuttosto tiepida, visto che quattro secoli più tardi un monaco genovese, Giovanni Beacqua, avrebbe scoperto la sua tomba quasi per caso in questo monastero ormai abbandonato tra le paludi, e organizzato in fretta e furia la traslazione dei resti mortali di San Beda presso il monastero di San Benigno di Capofaro (GE). Ora, tutto questo potrebbe anche non essere mai successo, perché l'unica fonte di tutta la storia è una cronaca anonima che confondeva questo Beda sassone trapiantato in Polesine col più illustre Beda il Venerabile, vissuto quei due secoli prima in Inghilterra. O più facilmente preferiva confonderli, e sostenere che Giovanni Beacqua avesse recuperato le ossa di un santo così importante, pensate, in territorio veneziano; e di essersele portate a Genova senza tanti complimenti. Per tutto il resto del Duecento abbiamo la sensazione che i fedeli genovesi credessero di custodire le ossa del Beda importante (quello che tra l'altro aveva proposto di contare gli anni a partire dalla nascita di Cristo), e soprattutto di averlo sottratto ai veneziani. L'errore sarebbe stato scoperto più tardi, forzando gli agiografi a separare i due Beda, il Venerabile e il Giovane: quest'ultimo piuttosto evanescente.
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Demetrio, o il Dio in incognito

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Icona russa del XVIII sec.
9 aprile: San Demetrio di Tessalonica, mistero 

Demetrio è uno dei casi in cui più grande è il distacco tra quanto un santo è venerato e quanto è conosciuto, nel senso che pur essendo un santo molto importante (soprattutto nelle Chiese orientali, dove però la sua festa è in ottobre) non abbiamo idea di chi sia e di cos'abbia fatto o se se sia nemmeno mai esistito. In occidente la sua fama ebbe un'impennata durante le crociate, per cui la sua situazione è in qualche modo simile a quella di San Giorgio (col quale forma una coppia di combattenti vagamente simile ai soliti dioscuri): antichi soldati romani, che magari erano stati martirizzati proprio perché si rifiutavano di combattere per imperatori pagani, innalzati mille anni dopo come stendardi da soldati venuti ad ammazzare musulmani. Ma se di Giorgio qualcosa sappiamo, Demetrio non risulta nemmeno in una lista dei martiri di Tessalonica del terzo secolo: un dettaglio molto strano, dal momento che Tessalonica (oggi Salonicco) nel medioevo era il centro del suo culto: tanto che nei documenti curiali ci si lamentava che i tessalonicesi venerassero più Demetrio che Cristo. Come nel caso dell'altro santo popolarissimo nel Mediterraneo orientale, Nicola, un veicolo importante del culto era un olio miracoloso che in teoria sgorgava dai resti del santo; in teoria, perché questi resti non era possibile vederli. L'olio aveva ovviamente proprietà curative e non ci è dato sapere se la sua messa in commercio sia nata dalla popolarità del santo, o se viceversa il santo abbia avuto successo perché in effetti l'olio era buono.  

Giorgio e Demetrio sconfiggono un drago (monastero di Sumela, Trebisonda)

Nel Settecento i Bollandisti ipotizzano che il Demetrio di Salonicco sia lo stesso Demetrio di Sirmio (oggi Mitrovic in Bosnia): il che spiegherebbe come mai, malgrado un culto così importante, a Salonicco di resti veri e propri non ce ne fossero. Siccome si trattava di un santo soldato, per i Bollandisti era facile ipotizzare che il trasferimento del culto non avesse seguito la traslazione di un cadavere, ma lo spostamento di una legione da Sirmio a Tessalonica. A Sirmio per la verità Demetrio non faceva il soldato, ma il diacono: una volta trasferito nella nuova città avrebbe però perso la sua identità, mantenendo unicamente il ruolo di protettore dei soldati. L'ipotesi è convincente, ma non possiamo nemmeno accantonare la proposta avanzata nel 2000 da uno storico americano, David Woods, che fa notare come le uniche reliquie custodite a Salonicco non fossero ossa, com'era tipico, ma una sciarpa e un anello. È una combinazione di oggetti assai rara, per non dire unica: molto singolare quindi il fatto che una simile coppia di oggetti fosse menzionata dal poeta Prudenzio nel Peristephanon, associata a due martiri spagnoli, Emeterio e Chelidonio. Da cui un'ipotesi: e se i due oggetti fossero arrivati a Tessalonica dalla Spagna, magari portati dall'imperatore Teodosio durante i suoi soggiorni in città (379-380)? Le reliquie, custodite in un luogo sacro, sarebbero state rapidamente dimenticate e riscoperte trent'anni dopo da un prefetto dell'Illiria, Leonzio, che nei paraggi era guarito miracolosamente da un male e voleva capire quale santo lo aveva salvato (i maliziosi penseranno che voleva fondare un nuovo luogo di culto, o magari lanciare una sua linea di olio). Il ritrovamento delle reliquie da parte di Leonzio è documentato da ben due Passio: secondo Woods, Leonzio avrebbe potuto trovato il nome "Emetrius" e aver pensato che la D iniziale era andata cancellata, come doveva succedere spesso in quei secoli in cui la gente scriveva sulle pietre, sulla terracotta e altri materiali facilmente sbrecciabili. Avrebbe quindi deciso di portare anello e sciarpa in una chiesa che a Tessalonica esisteva già, ed era dedicata al Demetrio di Sirmio, contribuendo involontariamente a fondere l'immagine dei due santi. 

Questa è in assoluto la storia più interessante che sono riuscito a trovare su San Demetrio. In realtà stavo cercando qualcuno che si attentasse a collegare il santo con culto del dio Mitra, molto diffuso proprio negli stessi secoli (III e IV) e proprio in ambiente militare. Davo per scontato che ne avrei trovati, dopotutto Demetrio in bosniaco si dice proprio "Mitra" (e Sirmio oggi si chiama Sremska Mitrovica). Certo, c'è il solito problema che di Mitra sappiamo davvero poco, proprio come di San Demetrio. Non pochissimo, ma molto poco rispetto all'importanza che ebbe il culto negli stessi secoli in cui si stava diffondendo il cristianesimo. Veniva senz'altro da oriente (esiste un Mitra indù, dio solare degli affari; e un Mitra persiano, dio dell'amicizia e dei contratti), verso il primo secolo si diffonde nell'Impero, soprattutto nelle zone con alta concentrazione di accampamenti militari, com'è il caso dei Balcani. È ancora un Dio solare, ma più timido di Gesù: non cerca grandi folle, ma piccole comunità che praticano riti misterici di cui non sappiamo quasi niente. Sono comunità esclusivamente maschili, e questo forse fu l'aspetto che condannò il mitraismo, nel mentre che il cristianesimo si diffondeva offrendo alle ricche matrone un modo di rendersi protagoniste della gestione economica di intere comunità. Ci ha lasciato centinaia di mitrei, luoghi di culto dalla forma facilmente riconoscibile, sale rettangolari senza finestre in cui la comunità compiva le sue liturgie festeggiando ogni sette giorni il sole con un pasto rituale che, ammette lo stesso Tertulliano, ricordava parecchio il banchetto eucaristico dei cristiani. Il culto scompare all'improvviso a fine quarto secolo, quando proprio a Tessalonica l'imperatore Teodosio dichiara con un editto i non cristiani eretici e "dementes". Proprio per le sue caratteristiche misteriche, il mitraismo avrebbe potuto sopravvivere in clandestinità ancora per qualche generazione, anche tra i ranghi dell'esercito: per finire presto o tardi normalizzato, magari con l'istituzione di un Demetrius a nascondere quel che restava di un Deus Mitra. 

Mitra era di solito raffigurato nell'atto di uccidere un toro: una raffigurazione chiamata tauroctonia, in cui sono coinvolti anche un serpente, un cane (che bevono la ferita dal collo) e uno scorpione (attaccato ai testicoli). La tauroctonia probabilmente ha un significato astrologico: Toro, Scorpione, Cane Maggiore (o Cane Minore), e un non meglio precisato Serpente (l'Idra) rappresenterebbero le costellazioni in cui il sole transitava a partire dall'equinozio di primavera nell'era del Toro, più o meno 4000 anni fa; perché oggi, a causa della precessione degli equinozi, il sole passa dai Pesci (e verso il 2500 passerà dall'Acquario). Forse la Tauroctonia è lontanamente imparentata col tetramorfo che attraverso il libro di Daniele arriva al cristianesimo: la nube in cui compaiono un angelo, un vitello, un'aquila e un leone (in seguito identificati con gli evangelisti). San Demetrio purtroppo non compare mai nell'atto di uccidere un toro – un'immagine così avrebbe chiuso la questione, ma ormai anche se la vedessi penserei a un fake digitale. In ambito occidentale a volte trafigge con la lancia un uomo scuro di pelle, ma è un'iconografia chiaramente ispirata alle crociate e all'identificazione del nemico con il moro. Magari il moro ha preso il posto del toro (il cambio di iniziale funziona anche in latino: taurus, maurus). Quando il saggio cercava di metterci in guardia dal Demone dell'Analogia, credo si riferisse a questo tipo di coincidenze.
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L'apocalisse è una soluzione

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Saverio De Musso. 
5 aprile: San Vincenzo Ferrer (1350-1419), angelo autonominato dell'apocalisse. 

La svolta avvenne nel 1398, durante l'assedio di Avignone. Fino a quel momento la carriera del valenciano Vicente Ferrer era stata quella del prelato insigne di nobili natali, dottore di teologia e spesso impiegato in missioni diplomatiche. Nulla lasciava presagire che l'ormai cinquantenne domenicano sarebbe di lì a poco l'angelo dell'apocalisse, il primo grande divo del secolo ruggente della predicazione, il Quattrocento. Del resto Dio ti può chiamare in qualsiasi momento, anche se alle prove dei fatti tutte queste apocalissi annunciate non si verificano mai. Agli scettici voglio proporre un'altra ipotesi: nell'Apocalisse, Vicente potrebbe aver trovato una via d'uscita da una situazione che non sembrava più indicarne altre. Vicente in effetti era in trappola: non solo perché Avignone era circondata dalla cavalleria di Carlo VII di Francia. Gli assedi sono cose che capitano, un grande imbarazzo per chi combatte e chi fatica a mettere insieme pranzo e cena, ma di solito si risolvono prima che anche a corte si cominci a far la fame. Il vero dubbio che doveva tormentarlo, era quello di avere puntato sul papa sbagliato. 

Ai tempi era un errore piuttosto comune: vent'anni prima, allo scoppio dello scisma d'Occidente, Vicente era un giovane chierico in carriera alla corte del cardinale aragonese Pedro de Luna. Tra il papa di Roma (Urbano VI) e quello fuggito ad Avignone (Clemente VII) non aveva avuto la possibilità di scegliere: la Chiesa aragonese si era schierata con Clemente, fine della discussione. Non solo, ma alla morte di Clemente, nel 1394, i cardinali avignonesi avevano eletto come successore il protettore di Vicente, Pedro de Luna, che aveva preso il nome di Benedetto XIII e nominato Vicente suo maestro di palazzo. Oltre a essere suo stretto collaboratore, Vicente era il suo confessore, e può darsi che il tarlo del dubbio gli si sia insinuato così: conosceva troppo il suo Pedro per ritenerlo un buon papa. D'altro canto, licenziarsi da una carica così prestigiosa e delicata non doveva essere semplice: e anche il fatto che a Pedro non ne stesse andando bene una, poteva rendere la cosa ancora più complicata: Magari non a voi, magari siete quel tipo di persona che non ha difficoltà a mollare una ditta in difficoltà, o una scuola in crisi, o un partner problematico; ma accettate che non sono tutti come voi, c'è gente che piuttosto di abbandonare al suo destino boss che lo aveva scelto e protetto per vent'anni si fa venire la febbre e le visioni apocalittiche. Questa almeno è la mia ipotesi notturna su San Vincenzo Ferrer, che durante l'assedio del 1398 soffrì violenti febbri dalle quali guarì miracolosamente, dopodiché informò il suo papa (che oggi consideriamo un antipapa) che non poteva più lavorare per lui, Cristo gli era apparso insieme a San Francesco e San Domenico per esortarlo a mettersi in strada per convertire l'umanità intera, dal momento che la fine dei giorni era ormai vicina. Cristo, in effetti, era l'unica autorità che Pedro riconosceva superiore alla sua.

Detto questo, resta da spiegare come fece un domenicano quasi cinquantenne che fino a quel momento aveva frequentato la curia e le facoltà di teologia a trasformarsi in un imbonitore di piazza, un santone dal miracolo facile, l'impresario di un circo apocalittico che trascinava un codazzo di fanatici in giro per l'Europa. La spiegazione carismatica, anche in questo caso, è la più semplice: Dio ti può scegliere in qualsiasi momento per combinare qualsiasi cosa. Può darsi che mettendosi in strada, Vicente abbia messo a frutto dei talenti che fino a quel momento erano rimasti inespressi. Il pubblico ad esempio andava in visibilio perché, in ogni città, Vicente riusciva a farsi capire, benché parlasse per lo più in lingua valenciana. Secondo i linguisti è possibile che a inizio Quattrocento i dialetti romanzi tra Spagna e Italia fossero così poco differenziati da permettere a Vicente di predicare senza traduttori. E però si può anche notare che Vicente aveva un passato di studioso e diplomatico, e forse come Antonio da Padova poteva contare su un talento naturale per lingue che ai tempi (tempi in cui a studiare erano molto in pochi) più facilmente veniva scambiato per una facoltà miracolosa. Tanto più che nei suoi discorsi preferiva concentrarsi su contenuti semplici (la fine del mondo è vicina, pentitevi) e mantenere l'attenzione con effetti di scena – i miracoli, appunto. Vincenzo è forse il santo che è riuscito a farsene omologare la maggiore quantità: quando, su impulso del re Alfonso d'Aragona, fu avviata la pratica delle canonizzazione e furono trascritti i miracoli, si scoprì che ce n'era almeno un'ottantina di documentati – una stima largamente difettiva, dal momento che di lui dicevano che se un giorno non avesse fatto miracoli, ecco, quello sarebbe stato un miracolo. 

Nel suo viaggio verso la fine del mondo Ferrer lasciava dietro di sé una scia di storpi raddrizzati, epidemie sanate, siccità risolte. Si racconta che una volta vide un tizio cadere dalla finestra e lo bloccò a mezz'aria, perché Benedetto XIII gli aveva proibito di fare altri miracoli e lui voleva prima il suo permesso. I miracoli lo resero popolarissimo presso i ceti più umili, disorientati da uno scisma che non finiva mai. I papi erano quasi sempre due, quando finalmente si arrivava a un compromesso se ne nominava un terzo. Predicando l'Apocalisse, Vicente era riuscito a chiamarsi fuori dalla contesa, anche se per mantenere il suo personaggio doveva vivere frugalmente, girare l'Europa occidentale in sandali, accompagnarsi da flagellanti che oltre che infliggersi ferite ne arrecavano parecchie soprattutto agli ebrei che saccheggiavano di città in città. Quando gli proposero lo zucchetto da cardinale, lo rifiutò, così come rifiutò di partecipare al Concilio di Costanza che doveva risolvere lo scisma una volta per tutte. Ma quando a Costanza fu proclamato un nuovo papa, Martino V, a Ferrer toccò l'ingrato compito di comunicare a Benedetto XIII che anche il re Ferdinando di Aragona non lo considerava più un papa: una missione resa ancora più penosa dal fatto che era stato grazie a Benedetto che Ferdinando era salito al trono. Ma anche Vicente doveva quasi tutto al vecchio antipapa a cui diede il benservito. Fu una delle sue ultime missioni ufficiali: morì nel 1419 in Bretagna a 69 anni, senza aver visto l'Anticristo che pure secondo i suoi calcoli doveva essere nato intorno al 1402. Gli sopravvisse per due anni Pedro detto Benedetto XIII, ancora convinto di essere l'unico papa legittimo, barricato nel suo castello di Peñiscola con tre prelati che considerava i suoi cardinali, ai quali chiese di eleggere un successore. 

San Vincenzo di Valencia è venerato un po' dovunque, anche se in Sudamerica a volte è confuso o sovrapposto a Vincenzo di Saragozza. A Napoli è particolarmente festeggiato in luglio, quando "O munacone" viene portato in processione nel rione Sanità. È una statua di San Vincenzo che tradisce le origini domenicane della Basilica di Santa Maria della Sanità; benché l'ordine fosse stato sciolto a inizio Ottocento, la statua fu considerata risolutiva durante l'epidemia di colera del 1836. Tra i santi domenicani è abbastanza facile da riconoscere: spesso, oltre al saio bianconero dell'ordine, porta due ali d'angelo, dal momento che si considerava l'angelo dell'apocalisse.

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