Con tutti questi errori, di sicuro stiamo imparando
21-08-2020, 08:00Permalink8. While My Guitar Gently Weeps (George Harrison, The Beatles, 1968).
Con tutti gli errori che facciamo, di sicuro stiamo imparando tantissimo. Tutto il narcisismo e la competitività di cui erano capaci non avevano mai impedito a Paul McCartney e John Lennon di riconoscere una buona canzone del rivale, quando la sentivano. Era una questione di priorità: difendere la propria individualità creativa veniva molto dopo l'opportunità di incidere buone canzoni (e guadagnarci). Il più critico dei due, Lennon, non aveva nulla da eccepire al fatto che McCartney incidesse cose smaccatamente mccartneyane come Michelle o Hey Jude. Purché fossero buone canzoni. E allora com'è possibile che né John né Paul non si siano accorti subito di che bomba George Harrison stava per sganciare? Non ci sono scusanti: la versione incisa e Esher all'inizio dei lavori è già completa in sé: più svelta, ma molto più vicina al risultato finale di altri abbozzi proposti dai colleghi. Sembra già molto promettente. Ma una volta arrivati ad Abbey Road, George scoprì che gli altri due non la stavano prendendo seriamente. Non riusciva a coinvolgerli, non ci credevano. Cosa impediva di riconoscere in While My Guitar un pezzo forte dell'album in lavorazione? Cosa non riuscivano a sentire, che a noi invece risulta così evidente?

While My Guitar segna il ritorno di Harrison alla strumentazione occidentale, dopo un'avventura indiana che lo aveva coinvolto sempre più intensamente dalla fine del 1965 fino al soggiorno di Rikikesh, nel resort di Maharishi. Non è escluso che le cattive vibrazioni sperimentate in quell'occasione possano aver indotto Harrison a rivolgere di nuovo il volto a ovest, ma bisogna aggiungere che Harrison non smise mai di praticare la meditazione, né di collaborare con Ravi Shankar: tracce della sua esperienza indiana rimarranno iscritte indelebilmente nel suo stile chitarristico. Harrison smise di portare il sitar nei dischi dei Beatles perché ormai lo stava prendendo troppo sul serio, e tutta quella serietà non si adeguava all'universo giocoso dei Beatles. La decisione di rimettersi a scrivere pezzi rock per una rock'n'roll band avrebbe complicato un equilibrio sempre più fragile. John e Paul avevano sempre incoraggiato e appoggiato le sue sperimentazioni. Ai suoi raga e ai suoi mantra avevano ritagliato un ghetto dorato in Sgt Pepper. Un George che si rimetteva a scrivere pezzi rock invece suscitava diffidenze. Eppure George non faceva che rielaborare gli stessi stimoli che Paul e John avevano avuto durante il soggiorno indiano. Anche lui come loro si era trovato un po' più spesso del solito con una chitarra in braccio e ne aveva approfittato per arricchire il suo stile di fingerpicking. La strofa di While My Guitar è un esempio di scuola di descending bassline, il trucco semplice e potente intorno al quale McCartney aveva scritto Michelle (una vaga traccia dello stesso trucco si trova nel bridge di un brano proposto da George Harrison ai colleghi addirittura nel 1964, You Know What To Do). Anche Lennon aveva portato un brano acustico costruito intorno a una linea di basso discendente, Cry Baby Cry. In italiano di solito traduciamo "cry" e "weep" con lo stesso verbo, ma "cry" si usa per i pianti molesti che ci svegliano nel cuore della notte, "weep" per i singhiozzi sommessi. "Gently cry" non avrebbe senso: "gently weep" fu un'espressione che George trovò aprendo una pagina di libro a caso, come fosse un I-Ching. Qualcun altro a quel punto si sarebbe calato in un personaggio che piange, ma George non amava fare spettacolo dei suoi sentimenti: a piangere dolcemente sarebbe stata la chitarra: un'ottima idea per una metacanzone (e anche una strategia per rimettere in primo piano il suo strumento).
La strofa di While My Guitar, nelle sue versioni acustiche, ricorda ancora irresistibilmente The House Of the Rising Sun: la discesa del basso, un capotasto alla volta, è un'analogia musicale alla discesa del protagonista nel vizio e nella perdizione. È una suggestione a cui lo stesso Harrison non riesce a sottrarsi: in While My Guitar riaffiora la sua vena moralistica, pur disturbata da un gusto un po' importuno per i giochi di parole "I looked on the floor and I note it needs s-weeping". Così come John è il maestro della prima persona (nel senso che parla quasi sempre di sé) e Paul della terza (si inventa sempre personaggi), George della seconda (si sta sempre rivolgendo a qualcuno, molto spesso in tono polemico). È un atteggiamento che esplode nella strofa, che pure abbina a una melodia molto più conciliante una serie di sentenze senza appello: nessuno ti ha spiegato come distendere il tuo amore, sei stato pervertito, allontanato, invertito, venduto e comprato, non so il perché ma è andata così. La musica sembra molto più tollerante di quanto non ci autorizza a pensare il testo: lo stesso George non era sempre il moralista introverso che rischiava di rappresentare in pubblico. Una volta constatato il boicottaggio più o meno consapevole dei colleghi, avrebbe potuto chiudersi a riccio e cominciare a pensare a una carriera solista che appariva ormai inevitabile, o destinare While My Guitar a qualche altro artista della scuderia che stava allevando in seno alla Apple. Ebbe un'idea migliore: invitò Eric Clapton alle prove, gli cedette l'assolo di chitarra piangente che avrebbe dovuto essere il fulcro del brano. Bastò questo a scuotere dal torpore Lennon e soprattutto McCartney, che alla fine ebbe una buona idea per l'introduzione, quel tasto di pianoforte che suona come la campana del destino.
Un'altra impronta indelebile di Paul è il fraseggio del basso nella strofa, un prestito doo-wop quasi parodistico che lascia un senso di straniamento: altrettanto parodistica suona la sua breve scala ascendente tra strofa e ritornello, da addebitare alla sua fobia per il vuoto, l'ossessione per non lasciare mai nascosto nessun collegamento tra due accordi. A Harrison probabilmente non piaceva (la si sente molto meno in qualsiasi sua versione successiva). Eppure è uno degli elementi più beatlesiani del brano: ci aiuta a ricordarci che malgrado Clapton stia suonando uno dei suoi assoli migliori siamo ancora in un brano dei Beatles, in uno scherzo, in una festa. Non tutti si stanno divertendo: qualcuno in sottofondo sta singhiozzando... ma è ancora una festa.
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Il dottor Miele e il prof Golia
20-08-2020, 08:32repliche, santiPermalink20 agosto - San Bernardo di Chiaravalle (1090-1153), mistico antipatico
[2013]. L'estate sta finendo, l'autostima è sotto i livelli di guardia? Il mistico Bernardo di Chiaravalle ci può aiutare. Nel suo trattato De diligendo Deo, Bernardo ci spiega come raggiungere il più puro amore per noi stessi, attraverso un lungo percorso che può prendere la vita intera. Dunque: in un primo momento noi ci amiamo, perché il nostro amore non può avere altri obiettivi, visto che conosciamo soltanto noi stessi; o meglio, crediamo di conoscerci. Ma presto ci rendiamo conto di non essere autosufficienti, e allora cominciamo a rivolgere il nostro amore a chi ci ha creato e ci sostenta, ovvero Dio. È il Secondo Stadio: amiamo Dio perché ne abbiamo bisogno, allo stesso modo in cui amiamo la mamma perché è un'estensione della tetta che ci nutre, egoismo puro. Ma è comunque amore, un punto di partenza. E nel frattempo cominciamo a ridimensionare il nostro ego, a renderci conto di quanto siamo piccoli, e così arriviamo al Terzo Stadio - quello a cui ragionevolmente possiamo puntare noi miseri peccatori: l'amore di Dio per Dio. Cioè non amiamo più Dio per i doni che ci fa, ma amiamo Dio perché è bellissimo in quanto Dio. E qui si fermano praticamente tutti, ammette Bernardo di Chiaravalle: il quarto stadio forse non è per i viventi. Comunque, se volete provarci, lo stadio finale prevede l'amore per sé stessi attraverso Dio. Sì, nel quarto stadio Bernardo ama Bernardo, perché è una creatura di Dio, e ciò che fa Dio non può essere che meraviglioso, sublime, cioè guarda Bernardo: non è bellissimo?
In realtà è difficile da dire. Di lui ci rimane solo un po' di testa, gelosamente custodita nella cattedrale di Troyes. Il resto del corpo è stato spazzato via durante la Rivoluzione, succede. Era più facile che succedesse a Bernardo che ad altri, perché Bernardo, tanto venerato già in vita, tra tanti carismi non aveva quello della simpatia. Il tempo, in altri casi tanto equanime, non gli ha reso un buon servizio. Oggi lo si ricorda soprattutto per la famosa disputa con Pietro Abelardo, il filosofo più in voga dei suoi tempi (lui modestamente si definiva l'unico filosofo dei suoi tempi, e forse aveva ragione). Una contesa che ha un enorme valore simbolico: filosofia contro fede, scolastica contro misticismo... ma che in realtà verteva su argomenti teologici piuttosto tecnici: la solita Trinità, che Abelardo pretendeva di poter spiegare con qualche strumento filosofico, mentre Bernardo si contentava di ammirarla come un mistero della fede. Una vera e propria disputa, come ci piace immaginarla, non ci fu: Abelardo e Bernardo non si trovarono mai uno di fronte all'altro davanti a un pubblico. Come andò veramente al concilio di Sens non è ben chiaro - ognuna delle due fazioni cerca di tirare l'acqua al suo mulino - ma pare che prima dell'arrivo dell'avversario Bernardo si fosse già lavorato la giuria ecclesiastica, falsificando alcune tesi di Abelardo per accentuare l'odore di eresia. Un caso di straw man argument direttamente dal dodicesimo secolo. Il filosofo, avvertito della trappola in cui stava per ficcarsi, decise di marcar visita e annunciò che intendeva fare appello a Roma, dove sperava di avere ancora degli amici. Non doveva averne abbastanza, perché fu condannato quando era ancora in viaggio.
Abelardo trovò rifugio presso il monastero di Cluny, dove l'abate Pietro il Venerabile intercedette per lui: passò l'ultimo anno della sua vita agli arresti domiciliari, ma poteva ancora insegnare. Aveva una sessantina d'anni, vissuti intensamente. Con Eloisa non si vedeva da più di venti. Però si scrivevano ancora. Anche lui, malgrado tanto filosofare e disputare, è più famoso per aver sedotto una studentessa diciassettenne, da cui ebbe un figlio, e che poi sposò, ma che alla fine decise di spedire in convento; e soprattutto perché a quel punto lo zio di Eloisa assoldò una gang che nottetempo entrò nel suo alloggio e lo evirò. Sembra incredibile che tutto questo sia successo nello stesso secolo in cui Bernardo passa il tempo a invocare crociate, identificare eretici e ammirare Dio, o sé stesso per mezzo di Dio. Ma ad Abelardo erano successe tante altre disgraziate avventure; persino la condanna per eresia non era una novità, ne aveva già subita una con conseguente rito di abiura. Forse a Sens non andò perché era stanco di perdere sempre, contro gente che per di più non se lo meritava. Forse perché era indiscutibilmente il più bravo coi concetti, Abelardo non aveva mai accettato che le dispute si vincono soprattutto con la politica.
Bernardo, per contro, negli anni Quaranta era sulla cresta dell'onda; leader dei cistercensi (benedettini integralisti), pope-maker, boccuccia melliflua e mani ancora pulite dal sangue delle crociate di cui si sarebbero sporcate in seguito. Ci fu chi lo accusò, senza mezzi termini, di aver voluto vincere facile. Benché in una lettera al Papa chiami il suo avversario "Golia", nel senso di gigante gonfio di sé, è difficile immaginarlo nel ruolo di giovane Davide armato solo di un'umile fionda. "Hai trovato Abelardo come bersaglio della tua freccia, per vomitare contro di lui tutta la tua acidità, per spazzarlo via dalla terra dei vivi... eri infiammato contro Abelardo non dallo zelo della correzione, ma dal desiderio di vendetta" (Berengario di Poitiers). Forse più che al vecchio Abelardo, troppo orgoglioso per non farsi mazzolare periodicamente da qualche inquisitore, Bernardo temeva i suoi studenti (che dal termine "Golia", forse iniziarono a essere definiti "goliardi"). Loro sì erano ancora in grado di seminare guai per mezza Europa: come quell'Arnaldo di Brescia che qualche anno dopo avrebbe teorizzato un papato privo di potere temporale, senza fermarsi alla teoria, ma profittando di una vacanza papale per fondare un libero comune a Roma. Erano tempi duri per la cristianità, come sempre d'altronde: scismi in ogni dove, papi e antipapi, che costringevano l'umile Bernardo a uscire periodicamente dal monastero che aveva fondato, a riconquistare il cuore e l'anima dei fedeli, con prediche ben calibrate ed effetti speciali (=miracoli). La gente lo amava, metteva in giro voci ancora più grosse di quanto fosse autorizzato: le api han fatto il nido nella sua bocca, la Madonna stessa lo ha allattato a distanza, ecc. ecc. Ma non andava sempre così bene. In vari centri della Linguadoca i catari, ormai maggioritari, lo buggeravano sistematicamente. Altri santi, come Domenico o Antonio, li affronteranno con più pazienza, mostrando anche una certa ammirazione per la coerenza e la serietà degli avversari. Bernardo no, a un certo punto lasciò scritto che andavano tutti sterminati, tanto non ascoltavano: erano in cattiva fede. Bernardo era già nella tomba da una decina d'anni quando il massacro dei catari cominciò. Più dirette sono le sue responsabilità nel grande flop della seconda crociata in Palestina
Fu papa Eugenio III a metterlo nei guai. All'indomani della sua consacrazione, l'umilissimo Bernardo gli scriveva ricordandogli che prima di essere papa era stato un cistercense ordinato a Chiaravalle, insomma una sua creazione: e sapete cosa si dice in giro Santità? "Che non siete voi a essere papa, ma io e ovunque, chi ha qualche problema si rivolge a me". Benissimo, ma anche Eugenio aveva un problema: Edessa (bastione crociato in Assiria) era caduta, Gerusalemme rischiava di tornare ai Saraceni in tempi brevi. Sarebbe stato uno smacco per tutta la cristianità occidentale; viceversa, una seconda crociata (a mezzo secolo dalla prima) avrebbe fortificato il prestigio della Chiesa romana e dato sfogo a un sacco di nobili riottosi. Bernardo era sensibile all'argomento: aveva già indirizzato i fondatori dell'ordine dei templari con un libretto in cui ammetteva che ammazzare i saraceni poteva essere seccante, erano anche loro creature del buon Dio. Tuttavia, non essendo desiderosi di convertirsi, ma viceversa propensi a minacciare i pellegrini nella loro stessa esistenza, non restava che farli fuori, con qualche attacco preventivo mirato. Era la teoria del "malicidio": uccidere è male, ma uccidere il male non è così male, con la quale si poteva anche giustificare a posteriori il massacro di Gerusalemme del 1099, più un'altra dozzina di spedizioni crociate nei secoli a venire. Da bravo intellettuale neocon dei suoi tempi, Bernardo si mise al servizio della propaganda crociata con la consueta dedizione: dopo le prediche gli ascoltatori gli strappavano lembi del saio, non potevano aspettare che morisse per averne una reliquia.
Per la Seconda Crociata si smossero anche le teste coronate, che non si erano fatte vedere durante la Prima: un imperatore e un Luigi di Francia, il settimo. Non servì a niente, anzi, il flop fu ancora più eclatante e Bernardo (rimasto in Francia) ne subì il contraccolpo. Scrisse che i crociati erano stati puniti per i loro peccati, e si disse disponibile a partire in testa a una terza spedizione: un bluff che nessuno gli vide mai. Cominciava ad avere un'età, anche lui. Morì a 64 anni nella sua abbazia; fu santificato vent'anni dopo; nel 1830 proclamato dottore della Chiesa. Pio XII gli dedicò una delle sue numerose encicliche, Doctor mellifluus, il dottore al gusto miele. Nella sua bocca melliflua Dante infila la preghiera a Maria, "figlia del tuo figlio", all'inizio dell'ultimo canto della Commedia. In cielo insomma il suo astro non tramonta.
Su questa terra, mah. C'è rimasta solo un po' di testa a Troyes, snobbata dai turisti. Abelardo ed Eloisa invece sono seppelliti assieme al Père-Lachaise, sì, quello di Jim Morrison. La gloria del mondo gira così.
In realtà è difficile da dire. Di lui ci rimane solo un po' di testa, gelosamente custodita nella cattedrale di Troyes. Il resto del corpo è stato spazzato via durante la Rivoluzione, succede. Era più facile che succedesse a Bernardo che ad altri, perché Bernardo, tanto venerato già in vita, tra tanti carismi non aveva quello della simpatia. Il tempo, in altri casi tanto equanime, non gli ha reso un buon servizio. Oggi lo si ricorda soprattutto per la famosa disputa con Pietro Abelardo, il filosofo più in voga dei suoi tempi (lui modestamente si definiva l'unico filosofo dei suoi tempi, e forse aveva ragione). Una contesa che ha un enorme valore simbolico: filosofia contro fede, scolastica contro misticismo... ma che in realtà verteva su argomenti teologici piuttosto tecnici: la solita Trinità, che Abelardo pretendeva di poter spiegare con qualche strumento filosofico, mentre Bernardo si contentava di ammirarla come un mistero della fede. Una vera e propria disputa, come ci piace immaginarla, non ci fu: Abelardo e Bernardo non si trovarono mai uno di fronte all'altro davanti a un pubblico. Come andò veramente al concilio di Sens non è ben chiaro - ognuna delle due fazioni cerca di tirare l'acqua al suo mulino - ma pare che prima dell'arrivo dell'avversario Bernardo si fosse già lavorato la giuria ecclesiastica, falsificando alcune tesi di Abelardo per accentuare l'odore di eresia. Un caso di straw man argument direttamente dal dodicesimo secolo. Il filosofo, avvertito della trappola in cui stava per ficcarsi, decise di marcar visita e annunciò che intendeva fare appello a Roma, dove sperava di avere ancora degli amici. Non doveva averne abbastanza, perché fu condannato quando era ancora in viaggio.
Abelardo trovò rifugio presso il monastero di Cluny, dove l'abate Pietro il Venerabile intercedette per lui: passò l'ultimo anno della sua vita agli arresti domiciliari, ma poteva ancora insegnare. Aveva una sessantina d'anni, vissuti intensamente. Con Eloisa non si vedeva da più di venti. Però si scrivevano ancora. Anche lui, malgrado tanto filosofare e disputare, è più famoso per aver sedotto una studentessa diciassettenne, da cui ebbe un figlio, e che poi sposò, ma che alla fine decise di spedire in convento; e soprattutto perché a quel punto lo zio di Eloisa assoldò una gang che nottetempo entrò nel suo alloggio e lo evirò. Sembra incredibile che tutto questo sia successo nello stesso secolo in cui Bernardo passa il tempo a invocare crociate, identificare eretici e ammirare Dio, o sé stesso per mezzo di Dio. Ma ad Abelardo erano successe tante altre disgraziate avventure; persino la condanna per eresia non era una novità, ne aveva già subita una con conseguente rito di abiura. Forse a Sens non andò perché era stanco di perdere sempre, contro gente che per di più non se lo meritava. Forse perché era indiscutibilmente il più bravo coi concetti, Abelardo non aveva mai accettato che le dispute si vincono soprattutto con la politica.
Bernardo, per contro, negli anni Quaranta era sulla cresta dell'onda; leader dei cistercensi (benedettini integralisti), pope-maker, boccuccia melliflua e mani ancora pulite dal sangue delle crociate di cui si sarebbero sporcate in seguito. Ci fu chi lo accusò, senza mezzi termini, di aver voluto vincere facile. Benché in una lettera al Papa chiami il suo avversario "Golia", nel senso di gigante gonfio di sé, è difficile immaginarlo nel ruolo di giovane Davide armato solo di un'umile fionda. "Hai trovato Abelardo come bersaglio della tua freccia, per vomitare contro di lui tutta la tua acidità, per spazzarlo via dalla terra dei vivi... eri infiammato contro Abelardo non dallo zelo della correzione, ma dal desiderio di vendetta" (Berengario di Poitiers). Forse più che al vecchio Abelardo, troppo orgoglioso per non farsi mazzolare periodicamente da qualche inquisitore, Bernardo temeva i suoi studenti (che dal termine "Golia", forse iniziarono a essere definiti "goliardi"). Loro sì erano ancora in grado di seminare guai per mezza Europa: come quell'Arnaldo di Brescia che qualche anno dopo avrebbe teorizzato un papato privo di potere temporale, senza fermarsi alla teoria, ma profittando di una vacanza papale per fondare un libero comune a Roma. Erano tempi duri per la cristianità, come sempre d'altronde: scismi in ogni dove, papi e antipapi, che costringevano l'umile Bernardo a uscire periodicamente dal monastero che aveva fondato, a riconquistare il cuore e l'anima dei fedeli, con prediche ben calibrate ed effetti speciali (=miracoli). La gente lo amava, metteva in giro voci ancora più grosse di quanto fosse autorizzato: le api han fatto il nido nella sua bocca, la Madonna stessa lo ha allattato a distanza, ecc. ecc. Ma non andava sempre così bene. In vari centri della Linguadoca i catari, ormai maggioritari, lo buggeravano sistematicamente. Altri santi, come Domenico o Antonio, li affronteranno con più pazienza, mostrando anche una certa ammirazione per la coerenza e la serietà degli avversari. Bernardo no, a un certo punto lasciò scritto che andavano tutti sterminati, tanto non ascoltavano: erano in cattiva fede. Bernardo era già nella tomba da una decina d'anni quando il massacro dei catari cominciò. Più dirette sono le sue responsabilità nel grande flop della seconda crociata in Palestina
Fu papa Eugenio III a metterlo nei guai. All'indomani della sua consacrazione, l'umilissimo Bernardo gli scriveva ricordandogli che prima di essere papa era stato un cistercense ordinato a Chiaravalle, insomma una sua creazione: e sapete cosa si dice in giro Santità? "Che non siete voi a essere papa, ma io e ovunque, chi ha qualche problema si rivolge a me". Benissimo, ma anche Eugenio aveva un problema: Edessa (bastione crociato in Assiria) era caduta, Gerusalemme rischiava di tornare ai Saraceni in tempi brevi. Sarebbe stato uno smacco per tutta la cristianità occidentale; viceversa, una seconda crociata (a mezzo secolo dalla prima) avrebbe fortificato il prestigio della Chiesa romana e dato sfogo a un sacco di nobili riottosi. Bernardo era sensibile all'argomento: aveva già indirizzato i fondatori dell'ordine dei templari con un libretto in cui ammetteva che ammazzare i saraceni poteva essere seccante, erano anche loro creature del buon Dio. Tuttavia, non essendo desiderosi di convertirsi, ma viceversa propensi a minacciare i pellegrini nella loro stessa esistenza, non restava che farli fuori, con qualche attacco preventivo mirato. Era la teoria del "malicidio": uccidere è male, ma uccidere il male non è così male, con la quale si poteva anche giustificare a posteriori il massacro di Gerusalemme del 1099, più un'altra dozzina di spedizioni crociate nei secoli a venire. Da bravo intellettuale neocon dei suoi tempi, Bernardo si mise al servizio della propaganda crociata con la consueta dedizione: dopo le prediche gli ascoltatori gli strappavano lembi del saio, non potevano aspettare che morisse per averne una reliquia.
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I'll never look into your eyes, again. |
Su questa terra, mah. C'è rimasta solo un po' di testa a Troyes, snobbata dai turisti. Abelardo ed Eloisa invece sono seppelliti assieme al Père-Lachaise, sì, quello di Jim Morrison. La gloria del mondo gira così.
Così ho acceso un fuoco
19-08-2020, 08:06beatles, musicaPermalink9. Norwegian Wood (This Bird Has Flown) (Lennon-McCartney, Rubber Soul, 1965).
“Una volta ho avuto una ragazza, o forse dovrei dire che è lei che ha avuto me”. Norwegian Wood è una delle canzoni che hanno più diviso il fronte degli ermeneuti beatle. Il dibattito, per semplificare, verte su due punti che Lennon ha lasciato volutamente ambigui: il letto e il fuoco, l'adulterio e il crimine. Per una delle due scuole di pensiero, John viene attirato da una fan nel suo appartamento (i mobili in "legno norvegese" erano un classico degli appartamenti degli studenti), parlano fino alle due, poi lei decide di andare a letto. Lui protesta: non sono mica venuto qui per dormire nella vasca da bagno! Nella vasca o sul divano, in ogni caso quando si sveglia la ragazza è volata via come un'allodola, e allora per vendicarsi il protagonista dà fuoco all'appartamento. Il tutto raccontato con calma, con un sitar già ipnotico in sottofondo (è la sua prima apparizione in un brano beatle). Buono, eh, questo legno norvegese?
La seconda scuola di pensiero è meno drastica. John probabilmente riesce ad accedere al letto della ragazza; l'adulterio viene consumato; qualche ora più tardi si sveglia da solo (lei glielo aveva ben detto che lavorava al mattino), e si accende una sigaretta (o magari riattizza il fuoco in un camino). Buono questo legno norvegese. Ognuno è libero di scegliere la sua versione: l'ambiguità è programmatica. Il testo è costruito con un'astuzia che eleva improvvisamente John Lennon al rango di grande narratore e poeta: la frase allusiva che incornicia la storia ("isn't it good, Norwegian wood"?), il dettaglio del protagonista che si guarda intorno e non trova una sedia, una piccola delusione che ci prepara alla delusione più grande, adombrata ma non esplicitata. Con buona pace di chi preferisce il suo materiale surrealista o lisergico, o le sue pose da profeta/rivoluzionario, Norwegian Wood rimane uno dei suoi testi meglio congegnati. Fa sorridere il pensiero che un autore tanto devoto alla sincerità abbia dato il meglio di sé quando cercava un trucco per raccontare una sveltina senza che la moglie se ne accorgesse (o sentisse la necessità di accorgersene).
Lennon vuole vantarsi di avere una vita sessuale avventurosa, ma vuole anche darci la possibilità di credere che si tratti di una storia tutta matta su un tizio che dà fuoco ai mobili compatibili. Forse quel che gli premeva dissimulare non era tanto l'adulterio, quanto la sua iniziativa. Non sono stato io a farmela, è stata lei che si è fatta me: mi ha attratto con l'inganno, ha lasciato che le ore passassero, poi ha detto che se ne andava a letto e a quel punto non c'era altra possibilità, neanche un divano! Non potevo mica dormire nella vasca da bagno, no? L'inversione dei ruoli nel rapporto amoroso era un suo pallino sin dagli esordi: vedi in It Won't Be Long il fidanzato-casalingo che si strugge nell'attesa che l'amata faccia ritorno. Negli anni ruggenti della Beatlemania, passando da un letto d'albergo a un aeroplano a uno stadio a un altro letto d'albergo, il dubbio deve averli attraversati: sono io che mi sto facendo questa ragazza, sono io che sto approfittando della sua sconfinata ammirazione? O è lei che sta approfittando della mia ingenua golosità di giovane rockstar, è lei che sta prendendo appunti per la storia che racconterà alle amiche? Si sa che ogni storia è una storia a sé. Ma dopo Drive My Car in Norwegian Wood troviamo di nuovo una ragazza che prende l'iniziativa.
Il motivo per cui la seconda interpretazione risulta più credibile dipende soprattutto dalla musica, non drammatica ma evocativa, che suggerisce l'incanto di quegli incontri fortuiti che durano poche ore e ci lasciano un ricordo vivido per la vita. Certo, possiamo anche immaginare un Lennon completamente schizzato che aspira a pieni polmoni il profumo del legno mentre brucia, Norvegia, brucia! Ma la musica ce lo descrive più facilmente mentre fissa un soffitto di una cameretta sconosciuta, confuso tra i soprammobili e i trofei di una ragazza che in quel momento sta già pensando a qualcos'altro. Sono stato io ad averla, o è stata lei? E chi lo sa. Comunque niente male, questo legno norvegese.
“Una volta ho avuto una ragazza, o forse dovrei dire che è lei che ha avuto me”. Norwegian Wood è una delle canzoni che hanno più diviso il fronte degli ermeneuti beatle. Il dibattito, per semplificare, verte su due punti che Lennon ha lasciato volutamente ambigui: il letto e il fuoco, l'adulterio e il crimine. Per una delle due scuole di pensiero, John viene attirato da una fan nel suo appartamento (i mobili in "legno norvegese" erano un classico degli appartamenti degli studenti), parlano fino alle due, poi lei decide di andare a letto. Lui protesta: non sono mica venuto qui per dormire nella vasca da bagno! Nella vasca o sul divano, in ogni caso quando si sveglia la ragazza è volata via come un'allodola, e allora per vendicarsi il protagonista dà fuoco all'appartamento. Il tutto raccontato con calma, con un sitar già ipnotico in sottofondo (è la sua prima apparizione in un brano beatle). Buono, eh, questo legno norvegese?
La seconda scuola di pensiero è meno drastica. John probabilmente riesce ad accedere al letto della ragazza; l'adulterio viene consumato; qualche ora più tardi si sveglia da solo (lei glielo aveva ben detto che lavorava al mattino), e si accende una sigaretta (o magari riattizza il fuoco in un camino). Buono questo legno norvegese. Ognuno è libero di scegliere la sua versione: l'ambiguità è programmatica. Il testo è costruito con un'astuzia che eleva improvvisamente John Lennon al rango di grande narratore e poeta: la frase allusiva che incornicia la storia ("isn't it good, Norwegian wood"?), il dettaglio del protagonista che si guarda intorno e non trova una sedia, una piccola delusione che ci prepara alla delusione più grande, adombrata ma non esplicitata. Con buona pace di chi preferisce il suo materiale surrealista o lisergico, o le sue pose da profeta/rivoluzionario, Norwegian Wood rimane uno dei suoi testi meglio congegnati. Fa sorridere il pensiero che un autore tanto devoto alla sincerità abbia dato il meglio di sé quando cercava un trucco per raccontare una sveltina senza che la moglie se ne accorgesse (o sentisse la necessità di accorgersene).
Lennon vuole vantarsi di avere una vita sessuale avventurosa, ma vuole anche darci la possibilità di credere che si tratti di una storia tutta matta su un tizio che dà fuoco ai mobili compatibili. Forse quel che gli premeva dissimulare non era tanto l'adulterio, quanto la sua iniziativa. Non sono stato io a farmela, è stata lei che si è fatta me: mi ha attratto con l'inganno, ha lasciato che le ore passassero, poi ha detto che se ne andava a letto e a quel punto non c'era altra possibilità, neanche un divano! Non potevo mica dormire nella vasca da bagno, no? L'inversione dei ruoli nel rapporto amoroso era un suo pallino sin dagli esordi: vedi in It Won't Be Long il fidanzato-casalingo che si strugge nell'attesa che l'amata faccia ritorno. Negli anni ruggenti della Beatlemania, passando da un letto d'albergo a un aeroplano a uno stadio a un altro letto d'albergo, il dubbio deve averli attraversati: sono io che mi sto facendo questa ragazza, sono io che sto approfittando della sua sconfinata ammirazione? O è lei che sta approfittando della mia ingenua golosità di giovane rockstar, è lei che sta prendendo appunti per la storia che racconterà alle amiche? Si sa che ogni storia è una storia a sé. Ma dopo Drive My Car in Norwegian Wood troviamo di nuovo una ragazza che prende l'iniziativa.
Il motivo per cui la seconda interpretazione risulta più credibile dipende soprattutto dalla musica, non drammatica ma evocativa, che suggerisce l'incanto di quegli incontri fortuiti che durano poche ore e ci lasciano un ricordo vivido per la vita. Certo, possiamo anche immaginare un Lennon completamente schizzato che aspira a pieni polmoni il profumo del legno mentre brucia, Norvegia, brucia! Ma la musica ce lo descrive più facilmente mentre fissa un soffitto di una cameretta sconosciuta, confuso tra i soprammobili e i trofei di una ragazza che in quel momento sta già pensando a qualcos'altro. Sono stato io ad averla, o è stata lei? E chi lo sa. Comunque niente male, questo legno norvegese.
Comments (1)
Gli ho detto Sì. Sì. Sì.
18-08-2020, 01:55beatles, musicaPermalink
Pensavi di aver perso il tuo amore? Al quarto singolo, i Beatles sono già una macchina da guerra. Non fanno prigionieri, non hanno pietà di nessuno. In particolare non hanno pietà delle ragazzine. I loro brani sono bombe in un senso non metaforico: si propagano attraverso onde sonore, e interagiscono col sistema endocrino delle adolescenti causando svenimenti, orgasmi, crisi nervose. Li coordina un ingegnere spietato, Mr George Martin: è lui il responsabile di alcuni accorgimenti decisivi, ad esempio l'idea sfacciata di cominciare col ritornello, di modo che ormai non c'è più nessun preavviso, i Beatles come le V2: un attimo prima la ragazzina sta cercando una frequenza sulla radio, un attimo dopo She Loves You Yeah Yeah Yeah è a terra in un pozzo di lacrime e altri liquidi. Ma i veri geni del male sono i due giovani membri dello staff creativo, John Lennon e Paul McCartney: immaginateli mentre incrociano le chitarre e riflettono sul loro prossimo diabolico piano. Magari si stanno chiedendo: cosa possiamo cantare ancora che stracci il cuore a un adolescente? Quali sono le parole che a quindici anni ti avrebbero reso il ragazzo / la ragazza più felice del mondo? Qual è la frase che ti avrebbe alzato tre metri da terra, che ti avrebbe fatto vedere miliardi di colori in un film in bianco e nero? Esiste una formula del genere? Pensiamoci bene.
"Ti amo"?
"No, è troppo impegnativa a quell'età".
"Dici?"
"A sedici anni? Chi è che riesce a guardarti negli occhi mentre ti dice..."
"Aspetta. Cos'hai detto?"
"Che a quell'età nessuno ti dice Ti amo negli occhi. Al massimo..."
"Te lo mandano a dire".
"Già, ti mandano un amico"
"O un'amica. Oddio".
"Stai pensando anche tu?"
"Sì".
"...quello che sto pensando io?"
"Sìììì".
"Lei ti ama?"
"Sìììì".
"Dillo di nuovo".
"Sì".
"Lei ti ama".
"Sì. Sì. Sì".
"Lei ti ama".
"Sì. Sì. Sì, Sììììììììììì".
She Loves You (Yeah, Yeah Yeah) è una bomba. Suona anche un po' come una bomba, qualche manopola quel giorno ad Abbey Road non era girata nel verso giusto, i suoni sono smarmellati in un muro del suono accidentale ma comunque efficace, caldo: ti dà la sensazione di sentirla su una vecchia radio anche se stai ascoltando la versione rimasterizzata su un Hi-fi. Non ti dà il tempo di ragionare: è una ragazza che nel parcheggio della scuola sbuca dal nulla e ti avverte che la sua amica è ancora innamorata di te. Sì. Sì. Sì. Pensavi di averla persa, ma ieri l'ho vista e mi ha spiegato cosa devo dire, dunque, ha detto che ti ama, e questo non può essere un male; anzi, dovresti esserne felice, no? Lo sai che dipende da te, io trovo che sarebbe giusto. L'orgoglio può far male anche a te, dai, scusati con lei, perché lei... ti ama. Sì cazzo sì, mi ama. Nulla è perduto, tutto ancora possibile. Tra qualche anno saremo tutti un po' più grandi, anche i Beatles non potranno evitarlo. Scusarsi diventerà sempre più difficile, e i rapporti un casino: bisognerà imparare a discutere, a vivere accanto, un inferno. Loro continueranno a fare il possibile per procurarti la tua dose di dopamina. Ti canteranno che tutto quello di cui hai bisogno e l'amore; di prendere una canzone triste e farne un inno alla gioia; ti ricorderanno che dopo la notte il sole risorge sempre. Ma la gioia pura, svergognata, di quel mattino che in un parcheggio ti hanno avvisato che Lei Ti Ama, Sì, Sì, Sì, quella tutti gli strumenti esotici al mondo e tutte le tonalità più bizzarre non l'avrebbero potuta replicare. Con un amore del genere, dovresti essere felice. Se non siete esplosi in quel momento, non c'è probabilmente nulla al mondo che possa farvi esplodere. Magari è persino un vantaggio: in tal caso buon per voi.
L'amore era così facile (da suonare)
17-08-2020, 04:01beatles, musicaPermalink11. Yesterday (Lennon-McCartney, Help!, 1965).
Ieri l'amore sembrava un gioco così facile da giocare (ecco, appunto, ricordiamoci che è un gioco, la media di tutte le classifiche professionali che sono riuscito a trovare in rete). Da dove viene Yesterday? Ce lo chiediamo da mezzo secolo, nessuno lo sa con certezza. In Cecilia (una canzone che non assomiglia assolutamente a Yesterday) Paul Simon racconta la storia di una ragazza amorevole, forse troppo. Dopo essersi fatto una doccia, Paul (Simon) torna in camera e la trova con un altro. La canzone assume un significato molto più interessante se assumiamo che Cecilia non sia una ragazza che sta prendendo la rivoluzione sessuale molto seriamente, ma la santa protettrice della musica. Quella che nelle sacre conversazioni porta sempre uno strumento e a volte lo rompe, perché la musica viene dal cielo e il cielo se la riprende quando vuole. Capita a chiunque: ci si sveglia con un motivetto in testa, lo si dimentica appena svegli. Però magari ti torna in mente nel box doccia e sembra fantastico, un capolavoro, ma non fai in tempo a rivestirti che ti accorgi che non è più tuo: è diventato la canzone di qualcun altro. Cecilia, ma perché ci spezzi il cuore così, perché ci distruggi la confidenza in noi stessi, ogni giorno?
Si chiama criptomnesia (“In psichiatria, disturbo della memoria in cui i ricordi appaiono come creazioni originali”) e Paul McCartney sa bene cosa significa, flirtare con le melodie sbagliate. Perdere ore di lavoro per scoprire di avere scritto una canzone di Dylan. Quel che commuove nella leggenda di Yesterday è la diffidenza del suo inventore. Invece di gridare Eureka! e di correre a registrarla, Paul si domanda, per un mese se non sia di qualcun altro. Davvero gli è venuta in mente in sogno? È una bella storia da raccontare, ma neanche lui all'inizio riesce a crederci. Svegliarsi un mattino nella casa della fidanzata Jane Asher, ispirato e affamato; correre al pianoforte; esclamare "scrambled eggs", completare con un distico scemo "oh my baby how I love your legs / not as much as I love scrambled eggs", e rimanere folgorato: ma che canzone sto cantando? È mia? Sul serio nessuno viene a prendersela? Gli esperti ne dibattono da allora.
Partiamo sempre da un presupposto evolutivo: nulla si crea, tutto si modifica. Durante una fase liminare del sonno Paul deve avere modificato in modo particolarmente felice una melodia che il giorno prima esisteva già: resta da stabilire quale. La teoria più accreditata tira in ballo Georgia On My Mind, il brano del compositore jazz Hoagy Carmichael (1930) che ai tempi in cui Paul dormiva in casa Asher era un punto fermo del panorama radiofonico, soprattutto nella versione del 1960 di Ray Charles. È un'ipotesi seducente, non solo perché rende la citazione di Paul in Back In the USSR un'ammissione (“That Georgia's always always on my my my mind”), ma perché quattro anni dopo Georgia avrebbe ispirato l'altro grande brano confidenziale dei Beatles, Something. Un'altra ipotesi riguarda Answer Me, la versione inglese di un brano tedesco del 1953 (Mütterlein), l'unica canzone ad andare in cima alle classifiche inglesi con due versioni diverse nello stesso momento, cantate rispettivamente da Frankie Laine e David Whitfield; ma la versione più famosa fu incisa da Nat King Cole l'anno successivo. Answer Me somiglia a Yesterday soltanto dal punto di vista metrico: la seconda strofa recita: “You were mine yesterday / I believed that love was here to stay / Won't you tell me where I've gone astray”. L'inconscio onirico di Paul potrebbe avere lavorato come il suo prediletto registratore multipiste: su un lato Georgia, sull'altro Answer Me, e al risveglio ecco Yesterday. Questa è senz'altro l'ipotesi più convincente – ma non la più suggestiva, almeno per noi italiani. Perché poi c'è l'ipotesi napoletana.
Più che un'ipotesi è un tarlo, ovvero: non ci sono veri indizi che puntino verso Napoli: soltanto false piste. Eppure, quando qualcuno comincia a pensarci, non riesce più a scacciare l'idea dalla testa: c'è qualcosa di irresistibilmente napoletano in Yesterday. Vittima del tarlo fu per esempio Lilli Greco, uno dei discografici che hanno fatto la storia della musica italiana (scomparso nel 2012), che qualche anno fa dichiarò che Yesterday era ispirata a una romanza napoletana del tardo '800, Piccire' che vene a dicere. Lo avesse detto oggi i giornalisti lo avrebbero preso per oro colato, ma era il 2006 e qualcuno ancora si preoccupava di verificare, sicché saltò fuori che di questa Piccire' non risultava traccia "tra gli oltre trentamila titoli conservati nell'Archivio sonoro della canzone napoletana". Una fake news, insomma? Sì e no: come fece successivamente notare Vince Tempera, la scala che sale McCartney cantando "All my troubles seemed so far away" è molto simile a quella che conduce a Munastero 'e Santa Chiara: lo si sente meglio in questa versione di Murolo.
Alla fine è semplicemente una scala barocca come ce ne sono tante, senza bisogno di andarle a cercare per i vichi di Napoli. E poi da chi avrebbe potuto ascoltare Munastero 'e Santa Chiara, Paul McCartney? Beh, dalla radio: in fondo è sempre stato un ascoltatore onnivoro. Anche se sarebbe più fantastico pensare che il responsabile sia Peppino Di Capri, con cui i Beatles condivisero alcune date in Italia. Ma era già il 1965, il brano era già pronto, mentre la sua versione di Munastero (molto meno somigliante a Yesterday) Peppino l'avrebbe incisa solo qualche anno più tardi. Che Paul, il principale responsabile delle escursioni più esotiche dei Beatles, non fosse insensibile alla musica napoletana lo dimostra un esempio molto più lampante, che vedremo in seguito. Un'altra ipotesi è che tutta la musica napoletana in realtà sia nata verso la fine del 1400 su iniziativa di un viaggiatore del tempo che avrebbe bofonchiato Yesterday a una fanciulla.
Dopo aver accettato l'idea che il brano era suo – o perlomeno che nessuno lo avrebbe reclamato nel breve-medio termine – Paul dovette scriverne le parole. Ci mise parecchio. Sul set di Help! c'era un organo su cui Paul la provava finché il regista Richard Lester lo minacciò: o finisci la canzone o lo faccio portare via. “Non fa che parlare di quella canzone, manco fosse Beethoven”, commentò a un certo punto George Harrison. La canzone chiedeva a Paul un atteggiamento triste-nostalgico che per lui era un continente ancora quasi del tutto inesplorato. L'impaccio è evidente: gli sfuggono espressioni maldestre che gli abbiamo tutti perdonato volentieri ma che estrapolate dalla canzone più famosa del mondo lasciano perplessi: cosa significa "credo in ieri"? E perché "ieri arrivò improvvisamente"? Non dovrebbe essere vero il contrario, ossia che se n'è andato troppo presto?
Forse Paul sta cercando di razionalizzare l'atteggiamento di Santa Cecilia: un giorno c'è, il giorno dopo scompare, e non spiega mai perché. Mi basta dire qualcosa di sbagliato, e rimango senza niente in mano a struggermi per lo Ieri. Quando l'amore sembrava un gioco così facile da giocare (ma anche da suonare).
Yesterday è una pietra miliare nel percorso dei Beatles: la strada prende una direzione dalla quale non sarà più possibile tornare indietro. Parte della responsabilità è di George Martin, che di fronte alle perplessità dei tre che non sapevano cosa suonare, propose un quartetto d'archi: e dovette persino vincere la diffidenza di Paul, lo stesso che nel giro di un anno comincerà a esigere partiture vivaldiane. All'inizio però Paul era guardingo: impose di evitare il vibrato e pretese che il violoncello accennasse un accordo di settima molto più blues che sinfonico. Temeva realmente di avere scritto una canzone “da nonno”. Rispetto ad altri brani successivi bisogna ammettere che gli archi sono importanti, ma non necessari: oggi abbiamo la sensazione che Yesterday funzionerebbe anche col semplice accompagnamento della Epiphone acustica di Paul (e però quel brivido che ci coglie sul "Suddenly" non è da sottovalutare, specie sui giovani ascoltatori che magari per la prima volta sentivano gli archi su un disco pop-rock). Nel 1965 una versione 'unplugged' era commercialmente impresentabile: persino un pezzo che esibiva con orgoglio caratteristiche folk come You've Got to Hide doveva presentarsi ornato da flauti e percussioni che smorzassero l'impressione di una registrazione dal vivo. E persino dal vivo, quando viene il momento di cantare Yesterday i Quattro si affidavano a una bobina di nastro con gli archi che Ringo si occupava di far partire al momento giusto (su Youtube però c'è anche un video del 1966 in cui a Monaco di Baviera la suonano tutti e quattro, e sembrano divertirsi).
Accanto a George Martin, un ruolo determinante nella svolta di Yesterday lo ebbe Brian Epstein, nel momento in cui rigettò la possibilità di incidere il brano come disco solista di Paul McCartney. Una decisione non scontata per un manager che proprio nello stesso periodo stava curando non soltanto l'immagine e gli interessi dei Beatles, ma un intero ecosistema musicale: il Merseybeat, la scena musicale di Liverpool. All'interno di questo habitat Paul McCartney non era soltanto un membro del gruppo più importante, ma anche uno dei più importanti autori di canzoni che venivano passate ai colleghi. Epstein si stava preoccupando di raggiungere target diversi; una Yesterday de-beatlesizzata avrebbe potuto raggiungere frequenze diverse e ascoltatori più adulti, ma Epstein preferiva che il gruppo restasse compatto. Qualsiasi cosa che Paul e John cantavano, anche completamente diversa dallo stile dei Beatles, ne avrebbe conservato il marchio. Se non avesse preso questa decisione, è possibile che McCartney avrebbe intrapreso una carriera parallela da crooner e compositore, riservando per il catalogo dei Beatles solo i brani più rock. Invece Yesterday fu inserita in un album dei Beatles (ed estratta come singolo negli USA), anche se per la prima volta tre membri su Quattro non avevano avuto altro da aggiungere. Un precedente importante che aumentò esponenzialmente le possibilità dei Quattro – ma ne determinò anche la precoce disgregazione. Del resto ormai lo sappiamo: ieri era tutto così facile, e poi all'improvviso... cos'è successo? boh, qualcosa di complesso e incomprensibile, forse non ci resta che credere nello Ieri.
Ieri l'amore sembrava un gioco così facile da giocare (ecco, appunto, ricordiamoci che è un gioco, la media di tutte le classifiche professionali che sono riuscito a trovare in rete). Da dove viene Yesterday? Ce lo chiediamo da mezzo secolo, nessuno lo sa con certezza. In Cecilia (una canzone che non assomiglia assolutamente a Yesterday) Paul Simon racconta la storia di una ragazza amorevole, forse troppo. Dopo essersi fatto una doccia, Paul (Simon) torna in camera e la trova con un altro. La canzone assume un significato molto più interessante se assumiamo che Cecilia non sia una ragazza che sta prendendo la rivoluzione sessuale molto seriamente, ma la santa protettrice della musica. Quella che nelle sacre conversazioni porta sempre uno strumento e a volte lo rompe, perché la musica viene dal cielo e il cielo se la riprende quando vuole. Capita a chiunque: ci si sveglia con un motivetto in testa, lo si dimentica appena svegli. Però magari ti torna in mente nel box doccia e sembra fantastico, un capolavoro, ma non fai in tempo a rivestirti che ti accorgi che non è più tuo: è diventato la canzone di qualcun altro. Cecilia, ma perché ci spezzi il cuore così, perché ci distruggi la confidenza in noi stessi, ogni giorno?
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Pete Townshend è un pivello. |
Partiamo sempre da un presupposto evolutivo: nulla si crea, tutto si modifica. Durante una fase liminare del sonno Paul deve avere modificato in modo particolarmente felice una melodia che il giorno prima esisteva già: resta da stabilire quale. La teoria più accreditata tira in ballo Georgia On My Mind, il brano del compositore jazz Hoagy Carmichael (1930) che ai tempi in cui Paul dormiva in casa Asher era un punto fermo del panorama radiofonico, soprattutto nella versione del 1960 di Ray Charles. È un'ipotesi seducente, non solo perché rende la citazione di Paul in Back In the USSR un'ammissione (“That Georgia's always always on my my my mind”), ma perché quattro anni dopo Georgia avrebbe ispirato l'altro grande brano confidenziale dei Beatles, Something. Un'altra ipotesi riguarda Answer Me, la versione inglese di un brano tedesco del 1953 (Mütterlein), l'unica canzone ad andare in cima alle classifiche inglesi con due versioni diverse nello stesso momento, cantate rispettivamente da Frankie Laine e David Whitfield; ma la versione più famosa fu incisa da Nat King Cole l'anno successivo. Answer Me somiglia a Yesterday soltanto dal punto di vista metrico: la seconda strofa recita: “You were mine yesterday / I believed that love was here to stay / Won't you tell me where I've gone astray”. L'inconscio onirico di Paul potrebbe avere lavorato come il suo prediletto registratore multipiste: su un lato Georgia, sull'altro Answer Me, e al risveglio ecco Yesterday. Questa è senz'altro l'ipotesi più convincente – ma non la più suggestiva, almeno per noi italiani. Perché poi c'è l'ipotesi napoletana.
Più che un'ipotesi è un tarlo, ovvero: non ci sono veri indizi che puntino verso Napoli: soltanto false piste. Eppure, quando qualcuno comincia a pensarci, non riesce più a scacciare l'idea dalla testa: c'è qualcosa di irresistibilmente napoletano in Yesterday. Vittima del tarlo fu per esempio Lilli Greco, uno dei discografici che hanno fatto la storia della musica italiana (scomparso nel 2012), che qualche anno fa dichiarò che Yesterday era ispirata a una romanza napoletana del tardo '800, Piccire' che vene a dicere. Lo avesse detto oggi i giornalisti lo avrebbero preso per oro colato, ma era il 2006 e qualcuno ancora si preoccupava di verificare, sicché saltò fuori che di questa Piccire' non risultava traccia "tra gli oltre trentamila titoli conservati nell'Archivio sonoro della canzone napoletana". Una fake news, insomma? Sì e no: come fece successivamente notare Vince Tempera, la scala che sale McCartney cantando "All my troubles seemed so far away" è molto simile a quella che conduce a Munastero 'e Santa Chiara: lo si sente meglio in questa versione di Murolo.
Alla fine è semplicemente una scala barocca come ce ne sono tante, senza bisogno di andarle a cercare per i vichi di Napoli. E poi da chi avrebbe potuto ascoltare Munastero 'e Santa Chiara, Paul McCartney? Beh, dalla radio: in fondo è sempre stato un ascoltatore onnivoro. Anche se sarebbe più fantastico pensare che il responsabile sia Peppino Di Capri, con cui i Beatles condivisero alcune date in Italia. Ma era già il 1965, il brano era già pronto, mentre la sua versione di Munastero (molto meno somigliante a Yesterday) Peppino l'avrebbe incisa solo qualche anno più tardi. Che Paul, il principale responsabile delle escursioni più esotiche dei Beatles, non fosse insensibile alla musica napoletana lo dimostra un esempio molto più lampante, che vedremo in seguito. Un'altra ipotesi è che tutta la musica napoletana in realtà sia nata verso la fine del 1400 su iniziativa di un viaggiatore del tempo che avrebbe bofonchiato Yesterday a una fanciulla.
Dopo aver accettato l'idea che il brano era suo – o perlomeno che nessuno lo avrebbe reclamato nel breve-medio termine – Paul dovette scriverne le parole. Ci mise parecchio. Sul set di Help! c'era un organo su cui Paul la provava finché il regista Richard Lester lo minacciò: o finisci la canzone o lo faccio portare via. “Non fa che parlare di quella canzone, manco fosse Beethoven”, commentò a un certo punto George Harrison. La canzone chiedeva a Paul un atteggiamento triste-nostalgico che per lui era un continente ancora quasi del tutto inesplorato. L'impaccio è evidente: gli sfuggono espressioni maldestre che gli abbiamo tutti perdonato volentieri ma che estrapolate dalla canzone più famosa del mondo lasciano perplessi: cosa significa "credo in ieri"? E perché "ieri arrivò improvvisamente"? Non dovrebbe essere vero il contrario, ossia che se n'è andato troppo presto?
Forse Paul sta cercando di razionalizzare l'atteggiamento di Santa Cecilia: un giorno c'è, il giorno dopo scompare, e non spiega mai perché. Mi basta dire qualcosa di sbagliato, e rimango senza niente in mano a struggermi per lo Ieri. Quando l'amore sembrava un gioco così facile da giocare (ma anche da suonare).
Yesterday è una pietra miliare nel percorso dei Beatles: la strada prende una direzione dalla quale non sarà più possibile tornare indietro. Parte della responsabilità è di George Martin, che di fronte alle perplessità dei tre che non sapevano cosa suonare, propose un quartetto d'archi: e dovette persino vincere la diffidenza di Paul, lo stesso che nel giro di un anno comincerà a esigere partiture vivaldiane. All'inizio però Paul era guardingo: impose di evitare il vibrato e pretese che il violoncello accennasse un accordo di settima molto più blues che sinfonico. Temeva realmente di avere scritto una canzone “da nonno”. Rispetto ad altri brani successivi bisogna ammettere che gli archi sono importanti, ma non necessari: oggi abbiamo la sensazione che Yesterday funzionerebbe anche col semplice accompagnamento della Epiphone acustica di Paul (e però quel brivido che ci coglie sul "Suddenly" non è da sottovalutare, specie sui giovani ascoltatori che magari per la prima volta sentivano gli archi su un disco pop-rock). Nel 1965 una versione 'unplugged' era commercialmente impresentabile: persino un pezzo che esibiva con orgoglio caratteristiche folk come You've Got to Hide doveva presentarsi ornato da flauti e percussioni che smorzassero l'impressione di una registrazione dal vivo. E persino dal vivo, quando viene il momento di cantare Yesterday i Quattro si affidavano a una bobina di nastro con gli archi che Ringo si occupava di far partire al momento giusto (su Youtube però c'è anche un video del 1966 in cui a Monaco di Baviera la suonano tutti e quattro, e sembrano divertirsi).
Accanto a George Martin, un ruolo determinante nella svolta di Yesterday lo ebbe Brian Epstein, nel momento in cui rigettò la possibilità di incidere il brano come disco solista di Paul McCartney. Una decisione non scontata per un manager che proprio nello stesso periodo stava curando non soltanto l'immagine e gli interessi dei Beatles, ma un intero ecosistema musicale: il Merseybeat, la scena musicale di Liverpool. All'interno di questo habitat Paul McCartney non era soltanto un membro del gruppo più importante, ma anche uno dei più importanti autori di canzoni che venivano passate ai colleghi. Epstein si stava preoccupando di raggiungere target diversi; una Yesterday de-beatlesizzata avrebbe potuto raggiungere frequenze diverse e ascoltatori più adulti, ma Epstein preferiva che il gruppo restasse compatto. Qualsiasi cosa che Paul e John cantavano, anche completamente diversa dallo stile dei Beatles, ne avrebbe conservato il marchio. Se non avesse preso questa decisione, è possibile che McCartney avrebbe intrapreso una carriera parallela da crooner e compositore, riservando per il catalogo dei Beatles solo i brani più rock. Invece Yesterday fu inserita in un album dei Beatles (ed estratta come singolo negli USA), anche se per la prima volta tre membri su Quattro non avevano avuto altro da aggiungere. Un precedente importante che aumentò esponenzialmente le possibilità dei Quattro – ma ne determinò anche la precoce disgregazione. Del resto ormai lo sappiamo: ieri era tutto così facile, e poi all'improvviso... cos'è successo? boh, qualcosa di complesso e incomprensibile, forse non ci resta che credere nello Ieri.
Comments (3)
Rocco e il suo fardello
16-08-2020, 08:16repliche, santiPermalink16 agosto - San Rocco (XIV secolo) taumaturgo o untore?
[2012]. Intorno al 1370, nel carcere di Voghera viene tradotto un ambiguo personaggio sulla trentina, vestito alla foggia dei pellegrini, che ha rifiutato di rivelare le sue generalità, ma che l'accento denuncia come straniero. Accusato di spionaggio, non fa nessuno sforzo per difendersi, anzi afferma di essere "peggio di una spia". Trascorre le notti in cella flagellandosi, finché non muore, tre o anche cinque anni dopo. Accanto al suo corpo, le guardie trovano una tavoletta su cui è inciso il suo nome: "Rocco"; e una dedica, "Chiunque mi invocherà contro la peste sarà liberato". Quando sul petto del cadavere viene trovato un angioma rosso a forma di croce, il giudice che lo ha condannato riconosce finalmente un suo lontano parente di Montpellier - sì, nel XIV secolo a Voghera c'era un giudice imparentato con una famiglia nobile di Montpellier, c'è chi ha provato a sostenerlo.
È un modo per tenere insieme almeno qualche pezzo di due leggende diverse: quella che vuole il più celebre protettore contro la peste nato e morto a Montpellier, e quella che lo pretende ingiustamente recluso a Voghera. Ma ce ne sono tante altre, così come probabilmente c'era più di un Rocco in giro per le terre funestate dalle epidemie, tentando di soccorrere, di dare una mano, con qualche trucco da taumaturgo che a volte funzionava a volte no. Può darsi che il più famoso o fortunato si chiamasse Rocco, e che da un certo punto in poi tutti i sedicenti guaritori che arrivavano in città pretendessero di chiamarsi così, come tutti i circhi si chiamano Orfei. E dire che siamo nel Trecento, ormai dovremmo avere a che fare con personaggi storici, non leggende. Ma Rocco è un fantasma trascinato dalla peste, un flagello che surclassa ogni apocalisse scritta o immaginata, arrivando in certe città a dimezzare la popolazione. Muoiono anche i cronisti - a Firenze Giovanni Villani cade con la penna in mano - e la civiltà comunale risprofonda nel medioevo dei miti. C'è un Rocco ad Acquapendente, Viterbo, che guarisce gli appestati con un segno di croce e l'imposizione della mano. Ce n'è uno a Roma che guarisce un vescovo e si fa presentare al Papa, così con l'ortodossia siamo a posto. Ce n'è uno francescano, perché a un certo punto del culto s'impossessano i francescani. C'è quello di Piacenza, che contrae la peste e si ritira in una grotta a Sarmato, dove un cane ogni giorno viene a portargli un pezzo di pane. Ma tanti altri Rocchi ci sono in Francia, e in Germania, e forse nessuno è il Rocco vero. Secondo Pierre Bolle sono tutte rivisitazioni di un San Racho di Autun vissuto nell'alto Medioevo: anche lui imprigionato ingiustamente, ma in una isoletta; perciò a lui ci si raccomandava contro le tempeste. Col passar dei secoli Racho sarebbe diventato Rocco, e le "tempeste" - magari per la disattenzione di un copista - sarebbero divenute la "peste". Bella storia.
Ma la più curiosa resta quella della prigionia di Voghera. Perché quel Rocco - che magari non è il Rocco di Acquapendente o di Piacenza, ma è comunque un taumaturgo - si lascia morire in cella, senza cercare di spiegarsi, senza far valere le sue conoscenze altolocate? "Sono peggio di una spia", dice ai suoi accusatori. Cosa c'è di peggio di una spia? Un untore, per esempio.
Mettiamo che ci sia stato davvero almeno un Rocco in giro per la penisola, durante una delle tante epidemie del secondo Trecento (il morbo era rimasto endemico dopo la spaventosa Peste Nera del 1348). Magari 'curava' con l'imposizione delle mani, magari aveva capito qualche trucco in anticipo (ad esempio, incidere i bubboni). Magari semplicemente assisteva i malati con un'umanità sconosciuta ai terrorizzati dottori del tempo, e questo bastava in tante città per far gridare al miracolo. Però, malgrado i miracoli veri o presunti, la peste continua a falciare intere generazioni. Forse a un certo punto questo Rocco, dalla sua postazione in prima linea, potrebbe aver formulato un'ipotesi sul morbo che ancora per secoli non verrà in mente a nessuno: e se la stessi portando un giro io? Se fossi io il portatore sano? A Piacenza, per esempio, la gente non cadeva come mosche finché non sono arrivato io. A quel punto farsi rinchiudere in un carcere, con un qualsiasi pretesto, diventa un comportamento perfettamente spiegabile. Forse Rocco si riteneva davvero peggiore di una spia, e si è lasciato morire così, in quarantena.
[2012]. Intorno al 1370, nel carcere di Voghera viene tradotto un ambiguo personaggio sulla trentina, vestito alla foggia dei pellegrini, che ha rifiutato di rivelare le sue generalità, ma che l'accento denuncia come straniero. Accusato di spionaggio, non fa nessuno sforzo per difendersi, anzi afferma di essere "peggio di una spia". Trascorre le notti in cella flagellandosi, finché non muore, tre o anche cinque anni dopo. Accanto al suo corpo, le guardie trovano una tavoletta su cui è inciso il suo nome: "Rocco"; e una dedica, "Chiunque mi invocherà contro la peste sarà liberato". Quando sul petto del cadavere viene trovato un angioma rosso a forma di croce, il giudice che lo ha condannato riconosce finalmente un suo lontano parente di Montpellier - sì, nel XIV secolo a Voghera c'era un giudice imparentato con una famiglia nobile di Montpellier, c'è chi ha provato a sostenerlo.
È un modo per tenere insieme almeno qualche pezzo di due leggende diverse: quella che vuole il più celebre protettore contro la peste nato e morto a Montpellier, e quella che lo pretende ingiustamente recluso a Voghera. Ma ce ne sono tante altre, così come probabilmente c'era più di un Rocco in giro per le terre funestate dalle epidemie, tentando di soccorrere, di dare una mano, con qualche trucco da taumaturgo che a volte funzionava a volte no. Può darsi che il più famoso o fortunato si chiamasse Rocco, e che da un certo punto in poi tutti i sedicenti guaritori che arrivavano in città pretendessero di chiamarsi così, come tutti i circhi si chiamano Orfei. E dire che siamo nel Trecento, ormai dovremmo avere a che fare con personaggi storici, non leggende. Ma Rocco è un fantasma trascinato dalla peste, un flagello che surclassa ogni apocalisse scritta o immaginata, arrivando in certe città a dimezzare la popolazione. Muoiono anche i cronisti - a Firenze Giovanni Villani cade con la penna in mano - e la civiltà comunale risprofonda nel medioevo dei miti. C'è un Rocco ad Acquapendente, Viterbo, che guarisce gli appestati con un segno di croce e l'imposizione della mano. Ce n'è uno a Roma che guarisce un vescovo e si fa presentare al Papa, così con l'ortodossia siamo a posto. Ce n'è uno francescano, perché a un certo punto del culto s'impossessano i francescani. C'è quello di Piacenza, che contrae la peste e si ritira in una grotta a Sarmato, dove un cane ogni giorno viene a portargli un pezzo di pane. Ma tanti altri Rocchi ci sono in Francia, e in Germania, e forse nessuno è il Rocco vero. Secondo Pierre Bolle sono tutte rivisitazioni di un San Racho di Autun vissuto nell'alto Medioevo: anche lui imprigionato ingiustamente, ma in una isoletta; perciò a lui ci si raccomandava contro le tempeste. Col passar dei secoli Racho sarebbe diventato Rocco, e le "tempeste" - magari per la disattenzione di un copista - sarebbero divenute la "peste". Bella storia.
Ma la più curiosa resta quella della prigionia di Voghera. Perché quel Rocco - che magari non è il Rocco di Acquapendente o di Piacenza, ma è comunque un taumaturgo - si lascia morire in cella, senza cercare di spiegarsi, senza far valere le sue conoscenze altolocate? "Sono peggio di una spia", dice ai suoi accusatori. Cosa c'è di peggio di una spia? Un untore, per esempio.

Il dibattito secolare su Sua Madre
15-08-2020, 07:39madonne, repliche, santiPermalink![]() |
Il fatto che dopo Tiziano ci siano stati altri pittori mi lascia, talvolta, stupefatto |
[2012]. Buon Ferragosto, la più snobbata tra le feste nazionali. Alcuni ignorano persino che sia un giorno rosso sul calendario: è gente che la pagina di agosto non la degna di uno sguardo, beati loro. Persino tra chi la osserva non c'è accordo su cosa si stia festeggiando: ancora le feriae Augusti, istituite dal primo imperatore romano il 18 avanti Cristo? Sarebbe l'ultima traccia dell'antico impero nel nostro calendario (nel Ventennio si festeggiava anche la fondazione di Roma, il 21 aprile). Molti però sono convinti che Augusto non c'entri nulla, e che si festeggi l'Assunta. Si tratterebbe quindi di una festività nazionale a carattere religioso: una delle due dedicate alla Madonna (l'altra è l'Immacolata, 8 dicembre); ci sarebbe anche il 1° gennaio, Maria Madre di Dio, ma in quel caso il carattere laico ha decisamente preso il sopravvento. Ferragosto è in bilico: a partire dal dopoguerra la transumanza turistica ha svuotato le città dell'entroterra e reso semivuote e malinconiche le processioni con in testa la Madonna in trono. L'Assunta è un po' in crisi, paradossalmente, proprio da quando è diventata un dogma di fede, l'ultimo, nel 1950. Sì, perché prima non c'era molta chiarezza sul fatto che la Madonna fosse stata assunta o no. Ma forse vale la pena spiegare cosa significa "assunta", in cosa consista l'Assunzione.
In sostanza, Maria di Nazareth in questo momento è una delle poche creature (l'unica?) a essere in Paradiso non soltanto con l'anima, ma anche col corpo, come Gesù - però Gesù è Dio; Maria no, è una donna, ma non come tutte le altre: come ufficializzò Pio IX nel 1854, è nata senza peccato originale (da cui la festa dell'Immacolata, appunto), e per questo motivo, seguendo un filo logico, non si vede perché il suo corpo debba essere morto. Se uno guarda le prime pagine della Genesi, nota che la morte è la punizione che Dio commina a Eva, Adamo e tutta la loro stirpe, per avergli disobbedito (il peccato originale). Ma una volta stabilito per dogma di fede che Maria è nata senza, che non avrebbe potuto concepire Gesù altrimenti, non c'è motivo per cui essa debba essere morta, nemmeno nel corpo.
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Se non metto un Carracci stavolta, non lo metto più. |
Ma d'altro canto di Maria la Bibbia parla poco in generale. Il Vangelo di Marco, che come abbiamo visto potrebbe essere il più antico, Maria non la nomina nemmeno. Il Gesù di Marco è un messia piuttosto altero che disconosce madre e fratelli. Con Matteo la madre di Gesù prende almeno un nome, ma è Giuseppe a sognare l'angelo e a portarla prima a Betlemme e poi in Egitto. La Maria che conosciamo davvero è quella di Luca, la vera protagonista della prima parte del suo vangelo: è una donna coraggiosa, illuminata, è persino una poetessa (lì per lì ti improvvisa il Magnificat)... però scompare del tutto appena il figlio comincia a predicare. L'ultimo evangelista, Giovanni, cambia ancora le carte in tavola: non racconta il Natale o altri episodi dell'infanzia di Gesù, ma segnala una "madre" (non la nomina mai per nome) che sembra seguirlo e assisterlo fino alla morte e alla resurrezione. Non che il Gesù di Giovanni sia diventato un mammone, tutt'altro: alle nozze di Cana, quando mamma fa presente che è finito il vino, le risponde "che ho da fare con te, donna?" È la prima cosa che Gesù dice a Maria, in quattro vangeli. Poi, sul finale, quando è già inchiodato alla croce, gli affida Giovanni apostolo ("madre, questo è tuo figlio"), e secondo alcuni l'umanità tutta. Maria è segnalata un'ultima volta da Luca negli Atti, tra le donne che fanno parte dell'entourage degli Apostoli prima della Pentecoste. Ma dalla Pentecoste in poi, quando gli apostoli diventano missionari nel mondo, di Maria si perde ogni traccia. Tutto quello che ci raccontano gli apocrifi (è morta l'anno dopo; ha seguito Giovanni a Efeso; non è mai morta; è morta ed è immediatamente salita in cielo davanti a tutti gli apostoli) non è attestato che un abbondante secolo dopo, insomma, non c'è niente di affidabile e lo sapevano benissimo anche i Padri della Chiesa. Di Maria non si sa più niente.
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Il Correggio aveva afferrato ciò che ai teologi ancora sfuggiva, ovvero: se potessimo rimirare la Gloria di Dio, vedremmo un sacco di gambe per aria |
Il dibattito infatti sarà tra chi ne parla bene e chi ne parla benissimo, e noi non siamo in grado di seguirlo in tutta la sua completezza, perché chi non ne parlava benissimo rischiava spesso di essere bruciato con le sue opere. Questo è magari il motivo per cui a distanza di secoli non si capisce perché il Papa abbia aspettato tanto a omologare l'Assunzione, quando l'opinione prevalente dei Padri della Chiesa e degli altri teologi che ci sono arrivati oscilla tra il "sicuramente sì" e il "quasi sicuramente sì". Il dibattito si concentrava su altri punti secondari, per esempio: prima di essere assunta in cielo anima e corpo, Maria è morta o no? i committenti di Caravaggio, come vedete sotto, pensavano di sì, e questa era la tesi più diffusa, soprattutto tra gli ortodossi, che il 15 agosto festeggiano la Dormizione (in attesa di risorgere, Maria non muore: dorme). In Occidente però si stava facendo strada l'idea che Maria fosse stata assunta senza passare dalla morte. Pio XII nel 1950 con l'enciclica Munificentissimus Deus lascia aperta la questione, limitandosi a stabilire che "l'immacolata Madre di Dio, la sempre vergine Maria, una volta terminato il corso della vita terrena, fu assunta alla gloria celeste in anima e corpo".

Perciò, se alcuno, che Dio non voglia, osasse negare o porre in dubbio volontariamente ciò che da Noi è stato definito, sappia che è venuto meno alla fede divina e cattolica.Quindi ora siamo tutti d'accordo, no? Sì, c'è solo quel piccolo, minuscolo problema di cui parlavamo sopra: che di questo dogma di fede, discusso per diciannove secoli e definito nel ventesimo, il Nuovo Testamento non parla. Così come non parla di Maria se non per accenni brevissimi. Qualcuno timidamente ha anche sostenuto che un mistero così profondo possa avere una causa divina. Insomma, immacolata o no, assunta o no, forse Gesù preferirebbe che noi non discutessimo troppo di sua madre. Ma è più forte di noi, evidentemente.
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Le due corone di Massimiliano
14-08-2020, 08:30nazismo, repliche, santiPermalink14 agosto - San Maksymilian Kolbe (1894-1941), missionario, radioamatore, vergine e martire.
[2013]. Da bambino ti raccontano tante storie, però tu sei sempre libero di capirle a modo tuo. Ieri sera ho scoperto che la leggenda delle due corone di San Massimiliano l'avevo sempre fraintesa. Nella versione che rammentavo, il giovane non ancora Massimiliano (al secolo si chiamava Raimondo) riceveva nottetempo la visita di una misteriosa signora che gli mostrava due corone, una bianca e una rossa. I colori della Polonia, e i miei.
La signora gli diceva "Scegline una", e Raimondo, come fanno i bambini, rifiuta la contrattazione: "Perché? Mi piacciono tutte e due". Va bene, fa la signora: allora avrai tutte e due. Raimondino non lo sapeva, ma aveva appena scelto la VERGINITÀ e il MARTIRIO. Avevo sempre trovato un po' scorretto questo modo della Madonna di strappare contratti di santità a bambini inconsapevoli. In effetti ho scoperto che la versione ufficiale è ben diversa: è la donna stessa presentarsi come Maria Immacolata e a spiegare a Raimondo cosa implichi scegliere una delle due corone, o entrambe. D'altro canto è pur sempre un bambino, quante volte da bambini abbiamo sognato di morire morti eroiche, generose e piene di significati, ma questo non autorizza la Madonna a comparire proprio in quel momento e dire firma qui - e trent'anni dopo ci ritroviamo ad Auschwitz in una camera della morte ingombra di cadaveri. Insomma, io da bambino l'unica morale che riuscivo a trarre dalla leggenda è: non accettare i regali dagli sconosciuti in sogno, neanche dalla Madonna. Soprattutto dalla Madonna. Massimiliano Maria Kolbe però ha pensato diversamente, ha avuto una vita intensa e breve, piena di soddisfazioni e malattia, ed è morto da eroe. Da martire?
Non è stato subito così chiaro. Paolo VI, che lo beatificò, si contentò di definirlo "confessore" e "martire della carità", che non è proprio un martire al 100%, un martire in nome della fede. Massimiliano non era morto per difendere la fede cristiana, ma più prosaicamente per salvare la vita di un uomo: il soldato Franciszek Gajowniczek, compagno di prigionia e padre di famiglia. Scambiare la propria vita con quella di qualcun altro, morire al suo posto in uno dei modi più penosi possibile è cosa molto nobile, ma ancora negli anni Settanta non rientrava nella definizione compiuta di martirio. Per cambiare questa impostazione ci volle l'interessamento molto attivo di un papa compatriota, Giovanni Paolo II, che nel 1982 lo promosse non solo santo, ma martire a tutti gli effetti. Scegliendo di morire al posto del soldato Gajowniczek, Massimiliano avrebbe infatti combattuto il nazismo, ideologia anti-umana e... anti-cristiana. In un colpo solo Wojtyla procurava alla Polonia un santo recente e lo metteva in prima fila nella lotta contro il nazismo, che già negli anni Ottanta stava perdendo i suoi contorni storici per trasformarsi nel cosiddetto Male Assoluto. Trovare cattolici che invece di collaborare vi si fossero opposti apertamente diventava una priorità.
Kolbe era quasi perfetto nel ruolo: occorreva tuttavia minimizzare la propaganda antisemita che aveva contribuito a diffondere sulle sue riviste nella Polonia anteguerra. Far notare viceversa l'abnegazione con cui aveva soccorso vittime di ogni religione ed etnia, ebrei compresi, durante l'occupazione tedesca. Deportato ad Auschwitz a fine maggio 1944, Kolbe, con un polmone già devastato dalla tbc, vi sarebbe sopravvissuto poco più di due mesi. A fine luglio la fuga di tre prigionieri del suo blocco, durante una trasferta per la mietitura, dà l'occasione al comandante tedesco di procedere a una decimazione sommaria: mette gli uomini in fila e comincia a scegliere: tu, tu, tu. Tra i dieci, il soldato Franciszek è l'unico che si ribella. Implora pietà, strepita che ha moglie e figli. Come se fregasse più qualcosa a qualcuno.
Quando Massimiliano fa un passo oltre la fila e propone al comandante lo scambio, ha scarsissime possibilità che una richiesta del genere sia recepita. Il comandante avrebbe potuto benissimo farli fuori entrambi, probabilmente era il suo "dovere", nella cella della morte il posto c'era. Quando Massimiliano propone di scambiare la sua vita di instancabile propagatore del messaggio cristiano e mariano, di pubblicista e radioamatore all'avanguardia, fondatore di conventi in Polonia e Giappone, con la vita di un soldato semplice, forse è più stanco di sopravvivere di quanto gli agiografi non vogliano ammettere. Agiografi in cui Massimiliano del resto difficilmente sperava. In una tragedia così spaventosa, un sacrificio così minimo - una vita per un'altra - davanti a un pubblico di nazisti indifferenti e vittime destinate comunque al macello da lì a poco - quante possibilità aveva di essere ricordato?
Ma Franciszek sopravvisse. Fatto prigioniero nel '39, internato ad Auschwitz nel '41, ci passò tre anni prima di essere trasferito in un altro campo. In tutto passò cinque anni e mezzo nelle strutture concentrazionarie naziste, e riportò la pelle a casa. Nel frattempo non era più padre di famiglia: i figli erano morti in un bombardamento sovietico nel '45. Lui tirò avanti fino al 1995, quando morì alla ragguardevole età di 94 anni, metà dei quali passati a ricordare il sacrificio di don Maksymilian. Sopravvisse anche qualche carceriere nazista, che poté testimoniare dei quindici giorni trascorsi dal prete e dai compagni nella cella della morte senza acqua né cibo, e dei canti che Massimiliano intonava per infondere coraggio - i tipici canti della devozione mariana, Dall'aurora tu sorgi più bella e consimili, magari anche Noi vogliam Dio o Mira il tuo popolo, certamente Madonna nera, tutta roba che oggi stroncherebbe un papaboy al secondo ascolto, e invece ebbe l'effetto di prolungare l'agonia a dismisura. Non sono mai riuscito a capire se in quella cella ci fossero anche ebrei: voglio sperare di no (di certo Franciszek era cattolico), morire ad Auschwitz è già orribile senza bisogno dell'accompagnamento musicale di un prete mariano. Sopravvisse anche il tenente nazista che dopo due settimane entrò nella cella per iniettare l'acido fenico a chi si ostinava a non morire. In seguito raccontò che mentre lo finiva, Kolbe gli aveva detto: "Lei non ha capito nulla della vita". "L'odio non serve a niente. Solo l'amore crea. Ave Maria".
Qualche mese dopo un B29 americano sganciò una bomba atomica su un sobborgo industriale di Nagasaki, uccidendo quarantamila persone sul colpo. Il convento fondato da Kolbe nel 1930, il giardino dell'Immacolata (Mugenzai no Sono) si trovava dal lato giusto di una collina: resistette all'esplosione e ospitò i feriti durante i primi soccorsi.
***
Questo pezzo ha una buffa appendice; due anni dopo (2015) fu segnalato all'Ordine dei Giornalisti in quanto "disgustoso". L'Ordine tuttavia non poteva però aprire un procedimento disciplinare su di me, siccome non sono iscritto.
Così aprì un procedimento a carico di Luca Sofri (il pezzo era stato pubblicato sul Post), per "violazione della deontologia professionale e vilipendio della religione cattolica".
Per fortuna è finito tutto bene (ho cancellato i nomi).
Ultima postilla: San Massimiliano Kolbe fu canonizzato il 10 ottobre 1982, il giorno in cui nel mio paese nacque un gruppo scout cattolico, che lo elesse immediatamente suo patrono. Anche per questo motivo è un santo che mi è caro in un modo particolare. Il pezzo più o meno disgustoso che scrissi su di lui doveva avere un finalino in cui la Madonna in sogno mi compativa per non aver mai scelto nessuna corona, né bianca né rossa né a pois: vedi cosa ti è successo? Avevi paura a scegliere e non sei diventato niente. L'ho cancellato - mi sembrava un po' troppo personale - e adesso non riuscirei a riscriverlo. Lo segno qui per ricordarmene, non ho molti altri spazi a disposizione.
[2013]. Da bambino ti raccontano tante storie, però tu sei sempre libero di capirle a modo tuo. Ieri sera ho scoperto che la leggenda delle due corone di San Massimiliano l'avevo sempre fraintesa. Nella versione che rammentavo, il giovane non ancora Massimiliano (al secolo si chiamava Raimondo) riceveva nottetempo la visita di una misteriosa signora che gli mostrava due corone, una bianca e una rossa. I colori della Polonia, e i miei.
La signora gli diceva "Scegline una", e Raimondo, come fanno i bambini, rifiuta la contrattazione: "Perché? Mi piacciono tutte e due". Va bene, fa la signora: allora avrai tutte e due. Raimondino non lo sapeva, ma aveva appena scelto la VERGINITÀ e il MARTIRIO. Avevo sempre trovato un po' scorretto questo modo della Madonna di strappare contratti di santità a bambini inconsapevoli. In effetti ho scoperto che la versione ufficiale è ben diversa: è la donna stessa presentarsi come Maria Immacolata e a spiegare a Raimondo cosa implichi scegliere una delle due corone, o entrambe. D'altro canto è pur sempre un bambino, quante volte da bambini abbiamo sognato di morire morti eroiche, generose e piene di significati, ma questo non autorizza la Madonna a comparire proprio in quel momento e dire firma qui - e trent'anni dopo ci ritroviamo ad Auschwitz in una camera della morte ingombra di cadaveri. Insomma, io da bambino l'unica morale che riuscivo a trarre dalla leggenda è: non accettare i regali dagli sconosciuti in sogno, neanche dalla Madonna. Soprattutto dalla Madonna. Massimiliano Maria Kolbe però ha pensato diversamente, ha avuto una vita intensa e breve, piena di soddisfazioni e malattia, ed è morto da eroe. Da martire?
Non è stato subito così chiaro. Paolo VI, che lo beatificò, si contentò di definirlo "confessore" e "martire della carità", che non è proprio un martire al 100%, un martire in nome della fede. Massimiliano non era morto per difendere la fede cristiana, ma più prosaicamente per salvare la vita di un uomo: il soldato Franciszek Gajowniczek, compagno di prigionia e padre di famiglia. Scambiare la propria vita con quella di qualcun altro, morire al suo posto in uno dei modi più penosi possibile è cosa molto nobile, ma ancora negli anni Settanta non rientrava nella definizione compiuta di martirio. Per cambiare questa impostazione ci volle l'interessamento molto attivo di un papa compatriota, Giovanni Paolo II, che nel 1982 lo promosse non solo santo, ma martire a tutti gli effetti. Scegliendo di morire al posto del soldato Gajowniczek, Massimiliano avrebbe infatti combattuto il nazismo, ideologia anti-umana e... anti-cristiana. In un colpo solo Wojtyla procurava alla Polonia un santo recente e lo metteva in prima fila nella lotta contro il nazismo, che già negli anni Ottanta stava perdendo i suoi contorni storici per trasformarsi nel cosiddetto Male Assoluto. Trovare cattolici che invece di collaborare vi si fossero opposti apertamente diventava una priorità.
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Dino Battaglia nel 1962 |
Quando Massimiliano fa un passo oltre la fila e propone al comandante lo scambio, ha scarsissime possibilità che una richiesta del genere sia recepita. Il comandante avrebbe potuto benissimo farli fuori entrambi, probabilmente era il suo "dovere", nella cella della morte il posto c'era. Quando Massimiliano propone di scambiare la sua vita di instancabile propagatore del messaggio cristiano e mariano, di pubblicista e radioamatore all'avanguardia, fondatore di conventi in Polonia e Giappone, con la vita di un soldato semplice, forse è più stanco di sopravvivere di quanto gli agiografi non vogliano ammettere. Agiografi in cui Massimiliano del resto difficilmente sperava. In una tragedia così spaventosa, un sacrificio così minimo - una vita per un'altra - davanti a un pubblico di nazisti indifferenti e vittime destinate comunque al macello da lì a poco - quante possibilità aveva di essere ricordato?
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Nizzi-Tacconi, 1982 ("Il Giornalino"). |
Qualche mese dopo un B29 americano sganciò una bomba atomica su un sobborgo industriale di Nagasaki, uccidendo quarantamila persone sul colpo. Il convento fondato da Kolbe nel 1930, il giardino dell'Immacolata (Mugenzai no Sono) si trovava dal lato giusto di una collina: resistette all'esplosione e ospitò i feriti durante i primi soccorsi.
***
Questo pezzo ha una buffa appendice; due anni dopo (2015) fu segnalato all'Ordine dei Giornalisti in quanto "disgustoso". L'Ordine tuttavia non poteva però aprire un procedimento disciplinare su di me, siccome non sono iscritto.
Così aprì un procedimento a carico di Luca Sofri (il pezzo era stato pubblicato sul Post), per "violazione della deontologia professionale e vilipendio della religione cattolica".
Per fortuna è finito tutto bene (ho cancellato i nomi).
Ultima postilla: San Massimiliano Kolbe fu canonizzato il 10 ottobre 1982, il giorno in cui nel mio paese nacque un gruppo scout cattolico, che lo elesse immediatamente suo patrono. Anche per questo motivo è un santo che mi è caro in un modo particolare. Il pezzo più o meno disgustoso che scrissi su di lui doveva avere un finalino in cui la Madonna in sogno mi compativa per non aver mai scelto nessuna corona, né bianca né rossa né a pois: vedi cosa ti è successo? Avevi paura a scegliere e non sei diventato niente. L'ho cancellato - mi sembrava un po' troppo personale - e adesso non riuscirei a riscriverlo. Lo segno qui per ricordarmene, non ho molti altri spazi a disposizione.
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Credo che sto per essere triste
13-08-2020, 07:45beatles, musicaPermalink12. Ticket to Ride (Lennon-McCartney, singolo del 1965, poi in Help!)
Sto per essere triste, anche perché è il giorno in cui Ticket to Ride esce dai giochi. Era inevitabile prima e poi, e tuttavia. Quelli che preferiscono Help!... non esistono. Non ho mai sentito un beatlemane affermare che il suo disco preferito è Help!, forse non ne conosco abbastanza. In effetti, non rischi di passare per un intenditore, se in mezzo a tanti dischi preferisci proprio Help! E però ormai siamo alla porta della top 10 e ve ne siete accorti? Sgt. Pepper, il Bianco e Abbey Road hanno ancora in mano un biglietto solo; di Help! fin qui ce n'erano ancora due, che ora ci stanno per lasciare e la cosa ci sembra molto ingiusta. Il disco che contiene Yesterday, Help!, Ticket to Ride, You've Got to Hide, I've Just Seen a Face, il disco che se l'avessero fatto uguale, butto lì, i Rolling Stones, sarebbe il disco più importante degli Stones... per i Beatles è stato un rapido rito di passaggio.
Ticket to Ride ne è la primizia assoluta, offerta dai Beatles al goloso pubblico in attesa del nuovo film che mostrerà i Quattro beniamini in technicolor: esce come singolo nel febbraio del 1965, quando nei trailer con Ticket in sottofondo si intitola ancora “Otto braccia per abbracciarti”. Nel Regno Unito fu il settimo numero 1 consecutivo: negli USA il quarto di sette, anche se vendette un po' meno degli altri e non ottenne il disco d'oro. E pensare che George Harrison non credeva che avrebbe potuto funzionare da singolo... In effetti, dopo la chiusura un po' sottotono del 1964, qualche rischio c'era: ma se qualcuno poteva correrlo erano loro. Il fatto è che quando quando uscì, Ticket to Ride non assomigliava a nulla. Un riff di una chitarra a 12 corde? Un ritmo così sincopato che sembra ubriaco (eppure non sgarra una battuta)? Un testo enigmatico su una donna che avrebbe anche un biglietto per andare o fare qualcosa, ma non gliene frega più niente? Una seconda voce che resta impiccata un'ottava più in alto, come se dentro quel cantante che cerca di fare il duro ce ne fosse un altro che urla disperato? Una nota di bordone che segue la canzone per tutti e tre i minuti? E a proposito, cos'è questa novità di far durare una canzone tre minuti?
Insomma, ce l'avevano fatta di nuovo. Dopo aver colonizzato tv, radio, cinema, quotidiani e riviste; dopo aver venduto dischi anche ai bambini, all'improvviso avevano cambiato pagina e ora sembravano di nuovo appena arrivati da Marte. Con Ticket to Ride i Beatles cominciano a scomporre il procedimento di registrazione, partendo da una base e aggiungendo gli strumenti. Uno dei motivi per cui il pezzo continua a suonare così bene è probabilmente il fatto che avevano un po' meno fretta del solito, un po' più tempo per scambiarsi le idee e proporre soluzioni nuove. È il caso del riff iniziale, un'invenzione di John su cui George sperimenta il suono della sua nuova Rickenbaker a 12 corde. Il risultato è semplicemente l'esplosione del sound folk-rock che dalla California porterà i Byrds in classifica di lì a poco con Mr Tambourine Man (l'assolo invece lo suona Paul).
Ma l'esempio più macroscopico resta il groove della batteria, uno dei monumenti più riusciti allo stile percussionistico di Ringo: un batterista che sembra sempre un po' più goffo di quanto non sia davvero. E se anche l'idea del groove fosse venuta a Paul, come sostiene qualche beatleologo, questo non toglie a Ringo il merito di avere accettato un suggerimento tanto folle. Lo si può considerare il momento di un'evoluzione verso l'avanguardia assoluta, l'anello di congiunzione tra What You're Doing e Tomorrow Never Knows. Impossibile non rammentare che sia Paul sia Ringo erano mancini: ma a differenza di Paul che a un certo punto aveva iniziato a invertire corde e battiplettri, Ringo non ha mai pensato seriamente di cambiare la disposizione della batteria. In quelle asimmetrie, quelle frazioni di secondo in cui la bacchetta rimane sospesa e va spinta con un movimento enfatico della spalla, Ringo aveva trovato il suo stile. L'impronta che lascia su Ticket è così nitida che ci fa soffrire la stessa allucinazione uditiva del riff di And I Love Her: crediamo di sentirla per tutta la canzone, invece dopo qualche strofa Ringo cambia groove, lo semplifica, forse cominciava ad annoiarsi e ci teneva che non succedesse anche a noi.
Sto per essere triste, anche perché è il giorno in cui Ticket to Ride esce dai giochi. Era inevitabile prima e poi, e tuttavia. Quelli che preferiscono Help!... non esistono. Non ho mai sentito un beatlemane affermare che il suo disco preferito è Help!, forse non ne conosco abbastanza. In effetti, non rischi di passare per un intenditore, se in mezzo a tanti dischi preferisci proprio Help! E però ormai siamo alla porta della top 10 e ve ne siete accorti? Sgt. Pepper, il Bianco e Abbey Road hanno ancora in mano un biglietto solo; di Help! fin qui ce n'erano ancora due, che ora ci stanno per lasciare e la cosa ci sembra molto ingiusta. Il disco che contiene Yesterday, Help!, Ticket to Ride, You've Got to Hide, I've Just Seen a Face, il disco che se l'avessero fatto uguale, butto lì, i Rolling Stones, sarebbe il disco più importante degli Stones... per i Beatles è stato un rapido rito di passaggio.
Ticket to Ride ne è la primizia assoluta, offerta dai Beatles al goloso pubblico in attesa del nuovo film che mostrerà i Quattro beniamini in technicolor: esce come singolo nel febbraio del 1965, quando nei trailer con Ticket in sottofondo si intitola ancora “Otto braccia per abbracciarti”. Nel Regno Unito fu il settimo numero 1 consecutivo: negli USA il quarto di sette, anche se vendette un po' meno degli altri e non ottenne il disco d'oro. E pensare che George Harrison non credeva che avrebbe potuto funzionare da singolo... In effetti, dopo la chiusura un po' sottotono del 1964, qualche rischio c'era: ma se qualcuno poteva correrlo erano loro. Il fatto è che quando quando uscì, Ticket to Ride non assomigliava a nulla. Un riff di una chitarra a 12 corde? Un ritmo così sincopato che sembra ubriaco (eppure non sgarra una battuta)? Un testo enigmatico su una donna che avrebbe anche un biglietto per andare o fare qualcosa, ma non gliene frega più niente? Una seconda voce che resta impiccata un'ottava più in alto, come se dentro quel cantante che cerca di fare il duro ce ne fosse un altro che urla disperato? Una nota di bordone che segue la canzone per tutti e tre i minuti? E a proposito, cos'è questa novità di far durare una canzone tre minuti?
Insomma, ce l'avevano fatta di nuovo. Dopo aver colonizzato tv, radio, cinema, quotidiani e riviste; dopo aver venduto dischi anche ai bambini, all'improvviso avevano cambiato pagina e ora sembravano di nuovo appena arrivati da Marte. Con Ticket to Ride i Beatles cominciano a scomporre il procedimento di registrazione, partendo da una base e aggiungendo gli strumenti. Uno dei motivi per cui il pezzo continua a suonare così bene è probabilmente il fatto che avevano un po' meno fretta del solito, un po' più tempo per scambiarsi le idee e proporre soluzioni nuove. È il caso del riff iniziale, un'invenzione di John su cui George sperimenta il suono della sua nuova Rickenbaker a 12 corde. Il risultato è semplicemente l'esplosione del sound folk-rock che dalla California porterà i Byrds in classifica di lì a poco con Mr Tambourine Man (l'assolo invece lo suona Paul).
Ma l'esempio più macroscopico resta il groove della batteria, uno dei monumenti più riusciti allo stile percussionistico di Ringo: un batterista che sembra sempre un po' più goffo di quanto non sia davvero. E se anche l'idea del groove fosse venuta a Paul, come sostiene qualche beatleologo, questo non toglie a Ringo il merito di avere accettato un suggerimento tanto folle. Lo si può considerare il momento di un'evoluzione verso l'avanguardia assoluta, l'anello di congiunzione tra What You're Doing e Tomorrow Never Knows. Impossibile non rammentare che sia Paul sia Ringo erano mancini: ma a differenza di Paul che a un certo punto aveva iniziato a invertire corde e battiplettri, Ringo non ha mai pensato seriamente di cambiare la disposizione della batteria. In quelle asimmetrie, quelle frazioni di secondo in cui la bacchetta rimane sospesa e va spinta con un movimento enfatico della spalla, Ringo aveva trovato il suo stile. L'impronta che lascia su Ticket è così nitida che ci fa soffrire la stessa allucinazione uditiva del riff di And I Love Her: crediamo di sentirla per tutta la canzone, invece dopo qualche strofa Ringo cambia groove, lo semplifica, forse cominciava ad annoiarsi e ci teneva che non succedesse anche a noi.
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E la risposta è: lascia che sia
12-08-2020, 08:23beatles, musicaPermalink13. Let It Be (Lennon-McCartney, singolo del 1969, poi nell'album omonimo).
When I find myself in time of trouble. Mary Patricia Mohin McCartney, scomparsa nel 1956 quando Paul aveva 14 anni, è una (non)presenza più discreta di Julia Stanley Lennon. Per John la perdita della madre è un trauma di cui vediamo le tracce sin dall'inizio, nella possessività incolntrollabile di brani come You Can't Do That o Run For Your Life, negli squarci emotivi di I Call Your Name; un fondo oscuro di rabbia e angoscia che in seguito si stempera con l'identificazione consapevole di un surrogato in Yoko (Julia). Paul nel frattempo non lascia trapelare quasi nulla. Per sette anni è come se alzasse un muro: l'unica crepa che ci è data osservare è una certa difficoltà a rapportarsi con l'altro sesso una volta esaurita la tematica del corteggiamento, un'oscura consapevolezza della caducità dei rapporti umani, a volte espressa con tristezza ("While she had to go? I don't know, she wouldn't say") altre volte con una franchezza un poco disarmante ("A love that should have lasted years"!) Alla fine, quando ormai i giochi volgono al termine, Paul apre deliberatamente una breccia nel muro ed evoca Mother Mary. Come l'ultima risorsa di un conferenziere o un sacerdote che debba assolutamente farvi piangere entro la fine del discorso – ed è così, "father McCartney" doveva assolutamente farci piangere: lo richiedeva la situazione. I Beatles si scioglievano. John stava già mettendo da parte i pezzi migliori per la carriera di artista-rivoluzionario. Serviva una canzone semplice e maestosa per non far sentire l'orribile stridere delle saracinesche, gli avvocati che affilavano le stilografiche. Occorrevano parole di sapienza e di consolazione, un inno che ci strizzasse le lacrime e ce le riasciugasse, e occorreva che lo scrivesse lui. Infatti lo ha scritto. Paul non deludeva quasi mai. L'immagine della canzone regalata nel sogno qui è verbalizzata: ("I wake up to the sound of music"); la situazione è grave ("the night is cloudy") ma ogni speranza è autorizzata, sia per i cuori spezzati, sia per chi è stato diviso: there is still a chance that they will see.
L'altra cosa che si era messo da parte per l'occasione era la grande novità del pop di fine anni '60: la progressione Pachelbel. Un ciclo di otto accordi già molto apprezzato dai compositori del '700 (Mozart lo inserì nel Flauto Magico), la cui attestazione più antica è il Canone e giga in Re maggiore per tre violini e basso continuo di un compositore tedesco di fine Seicento, Johann Pachelbel. Può darsi che Pachelbel a sua volta lo avesse derivato da altri compositori che non ci hanno lasciato manoscritti: può darsi che la sua progressione in un certo senso esista in natura, basata com'è su rapporti che l'orecchio tende a trovare naturali, logici. La Pachelbel non ha confini: per restare in Italia, è una Pachelbel Albachiara di Vasco Rossi, Sally di Fabrizio De Andrè, Indietro di Tiziano Ferro, A te di Jovanotti. Considerata la sua pervasività, è abbastanza incredibile che fino al 1968 l'idea di usarla nel pop non fosse venuta quasi a nessuno. I Beatles, nella loro sfrenata sperimentazione armonica, c'erano arrivati pericolosamente vicini con I Want to Hold Your Hand; nel 1965 Percy Sledge con When a Man Loves a Woman aveva scoperto la Pachelbel partendo dal continente apparentemente più lontano, il r'n'b; poi nel 1968 la versione dell'orchestra di Jean-François Paillard ottiene in Europa un successo straordinario, per un disco di musica classica. A quel punto è solo una questione di prontezza di riflessi prima che qualcuno riesca a farne un disco pop: la gara è vinta da tre concorrenti improbabili, un gruppo di greci trapiantati a Parigi che si fanno chiamare Aphrodite's Child. Il brano s'intitola Rain and Tears e ha un successo, anche grazie alla voce particolare del solista, Demis Roussos.
Nello stesso periodo, durante le sessioni del Disco Bianco, Paul comincia a combinare gli accordi che poi diventeranno Let It Be. Paul però non può limitarsi a riprendere la progressione di una canzone in voga. Il metodo è quello già adottato con successo con Hey Jude: Paul si lascia tentare da maestose strutture barocche, preoccupandosi però di semplificarle, di renderle più basilari ed emotivamente potenti. Ne è prova in Let It Be la cadenza che segue il ritornello, una scala di note ostentatamente banale che gli strumenti ripetono a turno, come se stessero punteggiando una cerimonia religiosa. In effetti è articolata sulla cadenza plagale, l'intervallo tra IV e I che gli inglesi devoti sono così abituati a sentire durante la Messa da definirla “the Amen cadence”, la cadenza su cui si canta “Amen”. Amen significa: così sia. Let it be, let it be.
Perfezionata durante le difficili sessioni di Twickenham, Let It Be diventa presto il brano di punta del progetto Get Back; ed è proprio durante la lavorazione di Let It Be che il progetto di un disco registrato dal vivo, senza sovraincisioni, comincia a rivelare le sue contraddizioni: c'è il rischio di sprecare un brano dalle potenzialità commerciali enormi. A un certo punto la cinepresa immortala John mentre chiede a Paul: dobbiamo ridacchiare durante l'assolo? (“Are we supposed to giggle in the solo?”) In un altro momento, John accusa bonariamente qualcuno di barare: probabilmente Paul e George stavano già pensando all'idea di sovrapporre l'assolo di chitarra. Il brano viene provato e riprovato per tutto il gennaio del 1969, prima ai Twickenham Studios, poi a Abbey Road e sul tetto della Apple Corps. Viene tenuto in serbo per tutto il resto del 1969 e ritoccato nell'ultimissima sessione del 4 gennaio 1970 (Lennon non c'era più) con l'aggiunta dei fiati e di un coro in cui, per la prima e l'unica volta, Linda McCartney canta in una canzone dei Beatles. Harrison suona un nuovo assolo, più drammatico, che forse per un certo periodo immagina di far dialogare col precedente registrato in aprile. Per il singolo George Martin esegue un mix molto sobrio, scegliendo il primo assolo (in sottofondo si sente quello della traccia originale).
Rimane la pratica del film, col quale i Beatles devono onorare il loro contratto con la United Artists; e della colonna sonora, che Allen Klein affida a Phil Spector. Sono passati pochi giorni ma la situazione è cambiata: ora è Paul ad essersi allontanato dal gruppo rifiutandosi di firmare le carte di Klein, mentre John si è temporaneamente riaccostato agli altri due. Spector alza il volume dell'accompagnamento orchestrale; aggiunge riverbero ai charleston di Ringo; sceglie il secondo assolo, più impetuoso; inserisce all'inizio e in coda al brano due inserti in funzione profanatrice, due veri e propri 'fuori onda', Dig It e Maggie Mae, per suggerire all'ascoltatore l'impressione che John stia ormai ridendo degli sforzi di Paul di tenere insieme il gruppo. Quando ascolta la versione già pronta per essere stampata, Paul va su tutte le furie, ma è troppo tardi. Invece di alzare le spalle e ripetersi "Let it be", continuerà a battere sul punto finché nel 2003, non sarà ripubblicata una versione della colonna sonora de-spectorizzata, Let It Be (Naked). Devo dire che per quel che mi riguarda l'ultima cosa che mi viene in mente di fare quando ascolto Let It Be è preoccuparmi di che versione è. Sarà che cerco di ascoltarla di rado. Ma una versione beatle di Let It Be che non mi commuova, se ci penso, non l'ho ancora sentita. Spector con il riverbero aveva dato più rilievo al lavoro di Ringo; anche quest'ultimo però dopo aver sentito la versione despectorizzata l'ha trovata nettamente migliore. "Paul si è sempre opposto a Phil... Ora mi toccherà sentirgli dire: vedi? te l'avevo detto". Lascia che sia, Ringo, lascia che sia.
When I find myself in time of trouble. Mary Patricia Mohin McCartney, scomparsa nel 1956 quando Paul aveva 14 anni, è una (non)presenza più discreta di Julia Stanley Lennon. Per John la perdita della madre è un trauma di cui vediamo le tracce sin dall'inizio, nella possessività incolntrollabile di brani come You Can't Do That o Run For Your Life, negli squarci emotivi di I Call Your Name; un fondo oscuro di rabbia e angoscia che in seguito si stempera con l'identificazione consapevole di un surrogato in Yoko (Julia). Paul nel frattempo non lascia trapelare quasi nulla. Per sette anni è come se alzasse un muro: l'unica crepa che ci è data osservare è una certa difficoltà a rapportarsi con l'altro sesso una volta esaurita la tematica del corteggiamento, un'oscura consapevolezza della caducità dei rapporti umani, a volte espressa con tristezza ("While she had to go? I don't know, she wouldn't say") altre volte con una franchezza un poco disarmante ("A love that should have lasted years"!) Alla fine, quando ormai i giochi volgono al termine, Paul apre deliberatamente una breccia nel muro ed evoca Mother Mary. Come l'ultima risorsa di un conferenziere o un sacerdote che debba assolutamente farvi piangere entro la fine del discorso – ed è così, "father McCartney" doveva assolutamente farci piangere: lo richiedeva la situazione. I Beatles si scioglievano. John stava già mettendo da parte i pezzi migliori per la carriera di artista-rivoluzionario. Serviva una canzone semplice e maestosa per non far sentire l'orribile stridere delle saracinesche, gli avvocati che affilavano le stilografiche. Occorrevano parole di sapienza e di consolazione, un inno che ci strizzasse le lacrime e ce le riasciugasse, e occorreva che lo scrivesse lui. Infatti lo ha scritto. Paul non deludeva quasi mai. L'immagine della canzone regalata nel sogno qui è verbalizzata: ("I wake up to the sound of music"); la situazione è grave ("the night is cloudy") ma ogni speranza è autorizzata, sia per i cuori spezzati, sia per chi è stato diviso: there is still a chance that they will see.
L'altra cosa che si era messo da parte per l'occasione era la grande novità del pop di fine anni '60: la progressione Pachelbel. Un ciclo di otto accordi già molto apprezzato dai compositori del '700 (Mozart lo inserì nel Flauto Magico), la cui attestazione più antica è il Canone e giga in Re maggiore per tre violini e basso continuo di un compositore tedesco di fine Seicento, Johann Pachelbel. Può darsi che Pachelbel a sua volta lo avesse derivato da altri compositori che non ci hanno lasciato manoscritti: può darsi che la sua progressione in un certo senso esista in natura, basata com'è su rapporti che l'orecchio tende a trovare naturali, logici. La Pachelbel non ha confini: per restare in Italia, è una Pachelbel Albachiara di Vasco Rossi, Sally di Fabrizio De Andrè, Indietro di Tiziano Ferro, A te di Jovanotti. Considerata la sua pervasività, è abbastanza incredibile che fino al 1968 l'idea di usarla nel pop non fosse venuta quasi a nessuno. I Beatles, nella loro sfrenata sperimentazione armonica, c'erano arrivati pericolosamente vicini con I Want to Hold Your Hand; nel 1965 Percy Sledge con When a Man Loves a Woman aveva scoperto la Pachelbel partendo dal continente apparentemente più lontano, il r'n'b; poi nel 1968 la versione dell'orchestra di Jean-François Paillard ottiene in Europa un successo straordinario, per un disco di musica classica. A quel punto è solo una questione di prontezza di riflessi prima che qualcuno riesca a farne un disco pop: la gara è vinta da tre concorrenti improbabili, un gruppo di greci trapiantati a Parigi che si fanno chiamare Aphrodite's Child. Il brano s'intitola Rain and Tears e ha un successo, anche grazie alla voce particolare del solista, Demis Roussos.
Nello stesso periodo, durante le sessioni del Disco Bianco, Paul comincia a combinare gli accordi che poi diventeranno Let It Be. Paul però non può limitarsi a riprendere la progressione di una canzone in voga. Il metodo è quello già adottato con successo con Hey Jude: Paul si lascia tentare da maestose strutture barocche, preoccupandosi però di semplificarle, di renderle più basilari ed emotivamente potenti. Ne è prova in Let It Be la cadenza che segue il ritornello, una scala di note ostentatamente banale che gli strumenti ripetono a turno, come se stessero punteggiando una cerimonia religiosa. In effetti è articolata sulla cadenza plagale, l'intervallo tra IV e I che gli inglesi devoti sono così abituati a sentire durante la Messa da definirla “the Amen cadence”, la cadenza su cui si canta “Amen”. Amen significa: così sia. Let it be, let it be.
Perfezionata durante le difficili sessioni di Twickenham, Let It Be diventa presto il brano di punta del progetto Get Back; ed è proprio durante la lavorazione di Let It Be che il progetto di un disco registrato dal vivo, senza sovraincisioni, comincia a rivelare le sue contraddizioni: c'è il rischio di sprecare un brano dalle potenzialità commerciali enormi. A un certo punto la cinepresa immortala John mentre chiede a Paul: dobbiamo ridacchiare durante l'assolo? (“Are we supposed to giggle in the solo?”) In un altro momento, John accusa bonariamente qualcuno di barare: probabilmente Paul e George stavano già pensando all'idea di sovrapporre l'assolo di chitarra. Il brano viene provato e riprovato per tutto il gennaio del 1969, prima ai Twickenham Studios, poi a Abbey Road e sul tetto della Apple Corps. Viene tenuto in serbo per tutto il resto del 1969 e ritoccato nell'ultimissima sessione del 4 gennaio 1970 (Lennon non c'era più) con l'aggiunta dei fiati e di un coro in cui, per la prima e l'unica volta, Linda McCartney canta in una canzone dei Beatles. Harrison suona un nuovo assolo, più drammatico, che forse per un certo periodo immagina di far dialogare col precedente registrato in aprile. Per il singolo George Martin esegue un mix molto sobrio, scegliendo il primo assolo (in sottofondo si sente quello della traccia originale).
Rimane la pratica del film, col quale i Beatles devono onorare il loro contratto con la United Artists; e della colonna sonora, che Allen Klein affida a Phil Spector. Sono passati pochi giorni ma la situazione è cambiata: ora è Paul ad essersi allontanato dal gruppo rifiutandosi di firmare le carte di Klein, mentre John si è temporaneamente riaccostato agli altri due. Spector alza il volume dell'accompagnamento orchestrale; aggiunge riverbero ai charleston di Ringo; sceglie il secondo assolo, più impetuoso; inserisce all'inizio e in coda al brano due inserti in funzione profanatrice, due veri e propri 'fuori onda', Dig It e Maggie Mae, per suggerire all'ascoltatore l'impressione che John stia ormai ridendo degli sforzi di Paul di tenere insieme il gruppo. Quando ascolta la versione già pronta per essere stampata, Paul va su tutte le furie, ma è troppo tardi. Invece di alzare le spalle e ripetersi "Let it be", continuerà a battere sul punto finché nel 2003, non sarà ripubblicata una versione della colonna sonora de-spectorizzata, Let It Be (Naked). Devo dire che per quel che mi riguarda l'ultima cosa che mi viene in mente di fare quando ascolto Let It Be è preoccuparmi di che versione è. Sarà che cerco di ascoltarla di rado. Ma una versione beatle di Let It Be che non mi commuova, se ci penso, non l'ho ancora sentita. Spector con il riverbero aveva dato più rilievo al lavoro di Ringo; anche quest'ultimo però dopo aver sentito la versione despectorizzata l'ha trovata nettamente migliore. "Paul si è sempre opposto a Phil... Ora mi toccherà sentirgli dire: vedi? te l'avevo detto". Lascia che sia, Ringo, lascia che sia.
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