"Né domani né mai"

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Per quanto possa essere parso inelegante o semplicemente rozzo, non si può dire che il riferimento di Alfano alle "nozze gay" non abbia ottenuto un risultato: a distanza di 48 ore i dirigenti del PD - che sulla questione TAV avevano dato prova di una certa inedita compattezza - stanno litigando; addirittura la presidente Bindi contro il vice Scalfarotto. La prima dice che il no ai matrimoni gay è un "punto molto fermo"; per il secondo "il matrimonio è l'unica soluzione razionale per le coppie omosessuali". Le posizioni, come si vede, sono piuttosto lontane da qualsiasi compromesso, che è esattamente quello che dovrebbe formulare un partito.

Non è un caso. Lo si era già capito ai tempi del disegno di legge sui DiCo: c'è una questione che più di ogni altra riesce a mostrare in controluce i punti di massima fragilità del Partito Democratico, ed è precisamente la questione del matrimonio gay. Niente riesce a polarizzare altrettanto bene laici e cattolici di centro-sinistra, che su tanti altri argomenti hanno opinioni assolutamente sovrapponibili. Alfano poteva dire tante cose e forse le ha dette, ma la piaga su cui poteva mettere il dito è una sola: tutto il resto è indolore e ce lo siamo già scordati. Le nozze gay invece fanno male: mettono contro i cattolici e i loro "valori non negoziabili" e i gay a cui è negato un diritto civile. In mezzo, una buona percentuale di elettori che forse sull'argomento non hanno una posizione chiara ma che legittimamente si aspettano che il loro partito ne formuli una, invece di trovarsi a leggere di battibecchi tra presidenti e vice.

Chi scrive è abbastanza convinto che al matrimonio omosessuale ci si arriverà... (continua sull'Unità, H1t#116Se l’Italia riuscirà a restare agganciata alle economie e alle società più avanzate, non c’è motivo perché quello che è successo in Spagna non avvenga anche da noi. Non è tanto un problema di “se”, quanto un problema di “quando”. A tal proposito non ho motivo di dubitare della fermezza della Bindi: finché lei conterà qualcosa (e conta ancora molto) di matrimoni gay non si parlerà. Ovvero, se ne parlerà, ma soltanto per litigare, e gli ultimi ad approfittare di questi litigi saranno le coppie gay. Bisogna sempre tener conto che la Bindi non è su quella sedia di Presidente per caso: che alle primarie del 2007 fu l’unica seria avversaria di Veltroni, con una piattaforma che per certi versi era più progressista di quella del vincitore. Non è mai stata una baciapile alla Binetti, però è cattolica e i cattolici, di matrimonio gay, non intendono sentir parlare: non è un mistero, lo dicono apertamente da anni.

Tornano in mente le parole che un altro ex esponente della Margherita, Pierluigi Castagnetti, si fece sfuggire tre anni fa“Noi abbiamo due appartenenze: una alla Chiesa, l’altra alla politica. Per me, come per Franceschini, per tutti noi cattolici, insomma, il vero “capo” è lui: il Papa. Per noi è il vicario di Dio in terra, e questo gli ex diesse dovrebbero alla fine comprenderlo”. In realtà non c’è nessun segreto: Castagnetti, la Bindi, Franceschini, non hanno mai fatto mistero di avere “due appartenenze”. Gli “ex diesse” dovrebbero comprenderlo: si può discutere di tante cose; perfino di Chiesa, finché si parla di determinati aspetti laici della questione (l’ICI, l’otto per mille) ma di sacramenti no: e per i cattolici il matrimonio in primo luogo è un sacramento. Per questo lascia perplessi l’attacco di Paola Concia alla Bindi (“non sei una buona cristiana se non metti al centro la dignità umana, il rispetto di tutti, la felicità di tutti”) : s’intende, la Concia ha tutti i diritti di sentirsi offesa, ma se pensa di poter dare lezioni di ‘buon cristianesimo’ alla Bindi casca un po’ male. Non c’è nessuna possibilità che tra l’insegnamento del Papa e i consigli di un’omosessuale sposata in Germania la Bindi possa dare maggior peso a questi ultimi. E allora che si fa?
Ci sono due strade – fermo restando che secondo me prima o poi ci arriveremo – per non arrivare al matrimonio gay nel tremilaedodici. Il primo consiste nel far uscire la questione dal PD, e in generale dal centrosinistra: dopotutto è una questione bipartisan, molti gay votano legittimamente a destra o non votano affatto. Anche nel resto del mondo, quella per i diritti civili non è necessariamente una battaglia di sinistra: vedi le aperture di Cameron sull’argomento. Invece di intestardirsi a negoziare con chi non intende negoziare (la Bindi e compagnia), i gay del centrosinistra potrebbero provare a creare una lobby trasversale ai partiti. La principale obiezione a un’ipotesi del genere è: te li immagini deputati pidiellini o leghisti sensibili a un argomento del genere? Onestamente no, almeno in questa legislatura non me li immagino, ma nemmeno mi immagino che all’improvviso la Bindi cambi idea perché la Concia le fa il catechismo. Invece una persona che dopo averne discusso con la Concia ha cambiato le sue idee è stata l’ex ministro Mara Carfagna…
La seconda strada ce l’aveva già mostrata la Bindi stessa, con la bozza sui DiCo. In sostanza si trattava di questo: visto che per i cattolici il matrimonio è in primis un sacramento, proviamo ad aggirare la questione, trasformandola in un mero problema di terminologia: inventiamo un’altra istituzione, chiamiamola Pacs o Dico o Xswf, mettiamoci dentro tutti i diritti che si aspettano i gay, e dopo un po’ nessuno farà caso alla differenza. Secondo me non era una cattiva idea, almeno per cominciare: Scalfarotto però dice che non se ne parla più: “troppi anni sono passati dal 2007″, dice, “troppo il mondo ha proceduto per poter farci ingollare una legge in cui le coppie non diventano tali perché esprimono di volerlo ma perché possono provare di aver già passato un tot di anni insieme”. Su una cosa ha ragione: non si è mai capito perché per fare un DiCo una coppia dovesse certificare qualcosa come tre anni di felice convivenza, mentre per sposarsi no. E tuttavia la legge avrebbe avuto effetto retroattivo, e avrebbe semplificato la vita di migliaia di persone: certo, non si sarebbe chiamato “matrimonio”, ma nel giro di una generazione quanti avrebbero notato la differenza?
Scalfarotto dice che è passato troppo tempo, ma per la verità sono passati appena cinque anni: cinque anni in cui tante altre coppie avrebbero potuto migliorare oggettivamente la propria condizione. Può anche darsi che il mondo abbia fatto progressi inimmaginabili, in questi cinque anni, ma nel frattempo l’Italia non sembra aver fatto alcun passo in avanti, né sul piano sociale, né su quello politico: e di questo il muro contro muro tra presidente e vicepresidente del PD mi sembra una prova eloquente. http://leonardo.blogspot.com
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coi piedi di Boninho la Uefa è assicurata

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Scalfarotto e la banda dei Brocchi
(L'immagine a fianco è un falso. Questa, invece, è vera (via Wittgenstein). Vedi anche Akille).

Interrompo temporaneamente la mia battaglia per la Vita per esprimere, seriamente, un parere su Scalfarotto. Mi è simpatico.

Ora, è chiaro che di un parere del genere voi non sappiate cosa farvene, e che preferireste trovare qui un'analisi dettagliata delle idee di Scalfarotto e dei metodi finora da lui messi in atto per realizzarle. Ecco, purtroppo un'analisi del genere non sono in grado di farla, per mancanza di tempo, di voglia, forse anche di cervello: ci sarà pure un motivo per cui al tempo della grande fuga dei medesimi il mio è rimasto qui.

Alla fine sono un italiano come tanti, videodipendente quanto basta per avere digerito la faccia di Scalfarotto identificandola come volto nuovo di centrosinistra. Mi è capitato qualche volta di leggere le sue cose su internet, e le ho trovate abbastanza condivisibili, pur non condividendo un certo ottimismo della volontà (ma è un problema mio) e facendo la tara a un certo fighettismo da italiano all'estero che per esempio fa finta di non capire a cosa servono gli stadi (dai che lo sai benissimo – a riempire la vita di chi non ha di meglio).

Quello che però è determinante non è tanto la simpatia che mi può ispirare Scalfarotto, quanto il buio più o meno assoluto che c'è dietro. Vale a dire: Scalfarotto magari lo conosco poco, ma quelli che il PD candiderà sopra di lui, anche meno. Lui sarà pure un po' fighetto – ammesso che sia un male: ma quelli che verranno eletti al suo posto potrebbero benissimo esserlo di più. Non li conosco. Invece Scalfarotto un po' sì, lo conosco. E lo conosco solamente perché si è dato da fare, senza essere cooptato, inventandosi strapuntini mediatici un po' discutibili, ma efficaci. Insomma, è stato bravo. Questo mi basterebbe a preferirlo a quella massa grigia e informe che lo sopravanzerà in lista: lui la sua 15esima posizione se l'è veramente sudata. È uno dei pochi esempi di valore aggiunto del PD: un attivista che non viene né dai DS né della Margherita. Non solo, ma il valore aggiunto in questione è quello dei diritti civili.

Per quanto lo conosca poco, io, elettore incerto tra Pd e Sinistra, identifico immediatamente Scalfarotto come un candidato PD che ha a cuore questo tema. Credo di conoscere la sua posizione sulle unioni civili, o sulla fecondazione in vitro. Per farla breve: mi sembra proprio che Scalfarotto sia un gran bell'esempio di laico nel PD. Ed è un laico, attenzione, 'nato' nel PD, un laico che il PD non ha dovuto comprare al mercato dei volti noti della politica. Gente così, invece di venire inserita alla 15esima posizione, dovrebbe essere messa subito sotto i riflettori: cosa c'è di meglio della bella faccia di Scalfarotto per dimostrare che il PD ha i suoi laici Doc?

E invece, cos'ha fatto il PD? Dovendosi coprire sul fronte laico ha preferito comprarsi i Radicali – degli esterni, anche un po' esosi, che hanno subito preteso poltrone sicure e più soldi degli altri, e che probabilmente appena arrivati a palazzo cominceranno a guardarsi in giro in cerca di un migliore offerente. L'impressione è che i boss PD si siano comportati un po' come certi vecchi presidenti di Serie A degli Ottanta-Novanta, che compravano centravanti in Brasile, anche brocchi, sapendo bene che in settembre, quando si vendono gli abbonamenti, è importante sfoggiare sulle colonne della Gazzetta un bel cognome brazileiro – a prescindere se sappia veramente toccare un pallone. Ecco, se vogliamo vendere il PD ai 25 elettori laici (e ai 12 gay), cosa c'è di meglio di un bel cognome Radicale? Anche brocco va benissimo.

Del resto, cos'hanno fatto esattamente di così laico i Radicali negli ultimi vent'anni? A parte indire dei bellissimi referendum e perderli, cos'hanno ottenuto? È un'impressione soltanto mia che l'arroganza clericale in Italia si sia diffusa soprattutto a partire dal catastrofico referendum del 2005, che i Vescovi hanno vinto semplicemente invitando gli italiani a non votare? Contenti i Vescovi, contenti i Radicali che hanno rafforzato il loro marchio di Laici Duri e Puri, contenti tutti. Beh, no, non proprio tutti: qualcuno è dovuto andare a fecondarsi all'estero. Ma questo evidentemente non era prioritario per Capezzone e compagnia. E dagli torto. Ancora oggi, grazie a quella campagna (persa) riescono a strappare contratti piuttosto vantaggiosi, a destra come a sinistra. A prescindere da quanto siano bravi o no.

Ecco, più penso a loro e più trovo simpatico Scalfarotto. Non è detto che alla prova dei fatti sia meglio di loro; mentre alla prova dei fatti loro hanno dimostrato di essere la banda dei brocchi (perlomeno sul fronte laico – come liberisti invece sono bravini, salvo che a me il liberismo non piace). E comunque, se devo scegliere dei brocchi, privilegerei quelli del vivaio. Ma capisco che i dirigenti del PD abbiano altre priorità, e in fondo che ne so io di tattiche elettorali? Che ne so io di tattiche in generale? Da domani mi rimetto a difendere gli spermini, quelli forse li ho capiti.
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aspettando i treni, guardandosi in giro

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A letter to Ivan

Caro Scalfarotto,
abbi pazienza per questo mio finto tono informale, in realtà non ci conosciamo. Non ho neanche votato per te alle primarie, mi scuserai.
Ho appreso con piacere del tuo nuovo incarico in Inghilterra.
Ti scrivo perché ho letto che l’altro giorno, mentre guardavi il notiziario BBC su uno schermo al plasma, a bordo del “carissimo ma efficientissimo trenino Heathrow Express che in 15 minuti ti porta in centro a Londra”, ti chiedevi che senso avesse, in Italia, continuare col campionato di calcio.

[...] non si capisce a cosa serva questa specie di circo putrido, incivile, sanguinolento e fallimentare. Davvero: a cosa serve? A chi giovano le devastazioni sui treni e negli autogrill? Chi è responsabile del fatto che da decenni si tollerano le peggiori manifestazioni di violenza e le più meschine apologie di nazismi, fascismi, forni crematori e quant'altro? Perché non lo si è ripulito fino ad oggi come è successo in ogni altro paese civile? Qual è il contributo del calcio professionistico alla cultura sportiva del paese? Che danno verrebbe alla nazione semplicemente levandolo definitivamente di mezzo?

Forse era una domanda retorica; o forse da lassù è davvero difficile capire queste cose, con tutto il movimento che c’è. In ogni caso lascia che ti spieghi, caro Scalfarotto, che levare il calcio agli italiani, a questo punto, sarebbe come sospendere la morfina a un malato grave (forse terminale). Non è detto che non sia la cosa giusta: ma bisogna andarci coi piedi di piombo. Qui da noi siamo riflessivi, lo sai. È un vizio che prendiamo da giovani, aspettando a lungo i treni.

Nello stesso pezzo ti chiedi perché non è mai venuto in mente a un nostro Ministro dell’Interno di telefonare all’Home Office britannico, per chiedere come si fa a risolvere il problema degli hooligans. Domanda più che legittima. Eppure, dopo attenta riflessione (tanto il treno non arriva), sono giunto alla conclusione che sarebbe inutile chiedere medicine agli inglesi: la nostra malattia è molto diversa.

È vero che i sintomi sono simili: folle in delirio intorno a 44 polpacci sudati. Ma la storia clinica che c’è dietro è assai differente. È qualcosa che ci portiamo dalla notte dei tempi, delle nostre rispettive civiltà. Semplificando: gli inglesi hanno inventato il libero mercato, noi siamo famosi nel mondo per alcuni antichi proverbi come Divide et Impera, Panem et Circenses, e più recentemente per prodotti doc come la mafia, il fascismo e il corporativismo. Ebbene, se hai pazienza ti spiego in che modo il calcio è lo specchio di tutto questo. Sì, lo so, tu a quest’ora sei già in riunione. Io invece sono ancora qui, l’espresso non arriva. Neanche a pagarlo col supplemento rapido. Non mi resta che rimuginare, su questa panchina, fingendo che tu sia qui con me.

Il calcio professionistico inglese è nato, ed è sempre stato, un’economia di mercato. Contrariamente a quanto si potrebbe credere, per molti decenni è stato un piccolo mercato. I calciatori non guadagnavano molto più di un operaio specializzato. Tanto che iniziarono prestissimo (1908) a sindacalizzarsi.
Del resto le squadre non avevano moltissimo da offrire. Erano (piccole) società private, e possedevano gli stadi – quegli leggendari stadi proletari, dove si stava in piedi aggrappati a una sbarra. Le piccole squadre campavano vendendo biglietti ai tifosi e i gioiellini alle squadre più forti. Le squadre più forti, per mettere a libro paga i fuoriclasse, dovevano vendere più biglietti. Economia di mercato, senza tanti fronzoli.

Quando negli anni Cinquanta il calcio inglese si aprì al resto del mondo, alcuni di questi operai-calciatori scoprirono una cosa curiosa: che potevano far fortuna all’estero. Ti ricordi del gigante buono della Juventus, John Charles? Beh, lì da te Charles è conosciuto come “The first rich British footballer”, il primo calciatore britannico a far soldi. E non li fece in Inghilterra, no. Li fece qui da noi. Nel 1957 la Juventus gli offrì quattro volte il tetto massimo consentito in Gran Bretagna per un calciatore.

Ora, dimmi tu: secondo la più elementare logica della domanda e dell’offerta, è possibile che negli anni Cinquanta l’Italia avesse un mercato così competitivo da attirare i calciatori britannici? No, non è possibile. Il fatto è che in Italia, già nel 1957, non c’erano squadre-imprese affidate a manager con l’ossessione di quadrare i bilanci. Ma c’erano gli Agnelli, che volevano offrire ai loro concittadini e sudditi un gioiellino. Eravamo ancora in un’economia da mecenati rinascimentali, capisci? Il signore della città che sborsa milioni per questioni di prestigio. Pensa a come il vecchio Agnelli chiamava i suoi gioiellini: Raffaello, Pinturicchio… O pensa, se preferisci, al questore edile che nell’antica Roma dilapidava le sue fortune in Circenses per farsi eleggere Console. Cinquant’anni dopo siamo ancora lì, alla Roma dei Cesari o alla Firenze dei Medici. Forse non ne usciremo mai, come questo Intercity che arranca, sul binario steso un secolo fa.

Ma del resto, c’è mai stata una vera economia di mercato, in Italia? Se togli le oligarchie del vecchio capitalismo famigliare, il sommerso di mafia e camorra, gli interessi corporativi e le storiche lottizzazioni tra partiti, cosa resta? Di sicuro non il calcio. Nessun imprenditore ha mai cercato di fare fortuna col calcio. Le squadre di serie A, B, persino C, sono quasi sempre in mano a qualche industriale che aveva soldi da sbattere via – letteralmente: da sbattere via. Quando Tanzi prese il Parma, Cecchi Gori la Fiorentina, Moratti l’Inter, non pensavano certo di lucrare. Il loro primo interesse era farsi belli davanti ai concittadini. Altri più avveduti, come Berlusconi, hanno utilizzato il calcio come veicolo promozionale per lanciare altri prodotti. Il calcio italiano non è autonomo, non se lo può permettere. Gli stadi sono in affitto: li mantengono i contribuenti. Anche la sicurezza negli stadi è a carico nostro. I tifosi non sono un pubblico pagante, libero di decidere se una squadra merita o no di essere seguita. La tifoseria italiana è l’erede della plebe romana: deve credere ciecamente ai suoi colori, acclamare i suoi tribuni o calpestarli.

Non che in Gran Bretagna sia sempre stato tutto rose e fiori: con tutta la nostra guerriglia domenicale, un massacro come Hillsborough in Italia non c’è ancora stato (forse è quello che ci manca per voltar pagina davvero). Ma dopo Hillsborough il sistema del calcio inglese ha mostrato gli anticorpi. I club hanno capito che per sopravvivere dovevano evolversi. Hanno tolto le sbarre e hanno montato le poltroncine sugli spalti. Hanno dimezzato i biglietti, e hanno scoperto l’economia dei diritti tv. Hanno investito in sicurezza, perché non potevano contare sui bobby della Regina per ogni minimo tafferuglio. È stato pesante, ma l’alternativa era fallire. E per chi fallisce non c’è perdono.

In Italia un perdono, un condono, c’è sempre. C’è sempre un padre amoroso, ansioso di rimetterti i peccati. Le stesse squadre non sono imprese, ma entità metafisiche che passano liberamente da un fallimento all’altro, da una proprietà all’altra. Per loro non valgono le regole dell’economia o del buon senso: non so quale altra società al mondo abbia il diritto di spalmare i propri debiti su una distanza di trent’anni. Perfino gli intellettuali si inginocchiano ai riti della plebe: guai se gli tocchi i colori, gli stendardi, i gonfaloni. Siccome sugli spalti non c’è vera economia, si fa il possibile per trovarci qualcos’altro: cultura, senso di appartenenza, e tutte le altre baggianate che servono a coprire la realtà più evidente.

E la realtà più evidente è che il calcio vive, da un secolo e più fuori dall’economia, finanziato dallo Stato, perché lo Stato ha bisogno di una valvola per il disagio del proletariato urbano. Quei vecchi pensatori oggi in disuso, che nell’Ottocento davano per imminente la rivoluzione, erano meno ingenui di quello che pensiamo. Vivendo nelle prime città industriali, si guardavano attorno e vedevano una rabbia, un’energia, che nulla sembrava poter contenere. Prima o poi quest’energia avrebbe trasformato il mondo. Era chiaro.
Ma avevano fatto i conti senza il calcio. Questa pesissima varietà di oppio dei popoli, di fronte al quale la Chiesa cattolica è solo un placebo per bambini e vecchiette. Chi poteva immaginarselo, a metà Ottocento. Proletari di tutto il mondo, fatevi la guerra. Palermo contro Catania, ultrà contro poliziotti, passatevi il tempo. Ché alternative, per voi, non ne abbiamo.

A meno che non ne abbia una tu, caro Scalfarotto.
Ma tu non mi ascolti. A quest’ora il tuo meeting è finito, e magari stai già prendendo un altro treno.
Anche il mio, finalmente, è arrivato. Saluti.
Solo, un’ultima cosa:
non crederti al sicuro.

No, cos'hai capito, non è una minaccia. È una constatazione. È vero che il calcio inglese funziona meglio. Ma certi problemi del calcio italiano sono sintomi di un malessere di tutta l’Europa occidentale. Dopotutto la Storia non ha sensi di marcia obbligati. E se quelli avanti, per una volta, fossimo noi?

La guerriglia urbana settimanale, la gestione camorristica dello sport, la società dell’avanspettacolo, non sono necessariamente retaggi di un passato. Forse sono il futuro: anche il vostro futuro.
Può essere una mia impressione, ma ultimamente è il calcio inglese ad essersi accostato al modello italiano. I grandi club stanno cominciando a monopolizzare il campionato: non era mai successo. Il Chelsea è in mano a un miliardario russo che sbatte via capitali per questioni di prestigio, e forse per riciclare un bel po’ di denaro sporco. Non è detto che tra un po’ non sia l’Home Office a telefonare al Viminale, per chiedere come si risolvono certi affari.
E al Viminale, gli eredi di una sapienza di generazioni di treni in ritardo, probabilmente gli risponderanno che certi affari non si risolvono: si gestiscono e basta.
Adesso ho veramente finito. Scusa per lo sfogo, e buon lavoro.
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