aspettando i treni, guardandosi in giro

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A letter to Ivan

Caro Scalfarotto,
abbi pazienza per questo mio finto tono informale, in realtà non ci conosciamo. Non ho neanche votato per te alle primarie, mi scuserai.
Ho appreso con piacere del tuo nuovo incarico in Inghilterra.
Ti scrivo perché ho letto che l’altro giorno, mentre guardavi il notiziario BBC su uno schermo al plasma, a bordo del “carissimo ma efficientissimo trenino Heathrow Express che in 15 minuti ti porta in centro a Londra”, ti chiedevi che senso avesse, in Italia, continuare col campionato di calcio.

[...] non si capisce a cosa serva questa specie di circo putrido, incivile, sanguinolento e fallimentare. Davvero: a cosa serve? A chi giovano le devastazioni sui treni e negli autogrill? Chi è responsabile del fatto che da decenni si tollerano le peggiori manifestazioni di violenza e le più meschine apologie di nazismi, fascismi, forni crematori e quant'altro? Perché non lo si è ripulito fino ad oggi come è successo in ogni altro paese civile? Qual è il contributo del calcio professionistico alla cultura sportiva del paese? Che danno verrebbe alla nazione semplicemente levandolo definitivamente di mezzo?

Forse era una domanda retorica; o forse da lassù è davvero difficile capire queste cose, con tutto il movimento che c’è. In ogni caso lascia che ti spieghi, caro Scalfarotto, che levare il calcio agli italiani, a questo punto, sarebbe come sospendere la morfina a un malato grave (forse terminale). Non è detto che non sia la cosa giusta: ma bisogna andarci coi piedi di piombo. Qui da noi siamo riflessivi, lo sai. È un vizio che prendiamo da giovani, aspettando a lungo i treni.

Nello stesso pezzo ti chiedi perché non è mai venuto in mente a un nostro Ministro dell’Interno di telefonare all’Home Office britannico, per chiedere come si fa a risolvere il problema degli hooligans. Domanda più che legittima. Eppure, dopo attenta riflessione (tanto il treno non arriva), sono giunto alla conclusione che sarebbe inutile chiedere medicine agli inglesi: la nostra malattia è molto diversa.

È vero che i sintomi sono simili: folle in delirio intorno a 44 polpacci sudati. Ma la storia clinica che c’è dietro è assai differente. È qualcosa che ci portiamo dalla notte dei tempi, delle nostre rispettive civiltà. Semplificando: gli inglesi hanno inventato il libero mercato, noi siamo famosi nel mondo per alcuni antichi proverbi come Divide et Impera, Panem et Circenses, e più recentemente per prodotti doc come la mafia, il fascismo e il corporativismo. Ebbene, se hai pazienza ti spiego in che modo il calcio è lo specchio di tutto questo. Sì, lo so, tu a quest’ora sei già in riunione. Io invece sono ancora qui, l’espresso non arriva. Neanche a pagarlo col supplemento rapido. Non mi resta che rimuginare, su questa panchina, fingendo che tu sia qui con me.

Il calcio professionistico inglese è nato, ed è sempre stato, un’economia di mercato. Contrariamente a quanto si potrebbe credere, per molti decenni è stato un piccolo mercato. I calciatori non guadagnavano molto più di un operaio specializzato. Tanto che iniziarono prestissimo (1908) a sindacalizzarsi.
Del resto le squadre non avevano moltissimo da offrire. Erano (piccole) società private, e possedevano gli stadi – quegli leggendari stadi proletari, dove si stava in piedi aggrappati a una sbarra. Le piccole squadre campavano vendendo biglietti ai tifosi e i gioiellini alle squadre più forti. Le squadre più forti, per mettere a libro paga i fuoriclasse, dovevano vendere più biglietti. Economia di mercato, senza tanti fronzoli.

Quando negli anni Cinquanta il calcio inglese si aprì al resto del mondo, alcuni di questi operai-calciatori scoprirono una cosa curiosa: che potevano far fortuna all’estero. Ti ricordi del gigante buono della Juventus, John Charles? Beh, lì da te Charles è conosciuto come “The first rich British footballer”, il primo calciatore britannico a far soldi. E non li fece in Inghilterra, no. Li fece qui da noi. Nel 1957 la Juventus gli offrì quattro volte il tetto massimo consentito in Gran Bretagna per un calciatore.

Ora, dimmi tu: secondo la più elementare logica della domanda e dell’offerta, è possibile che negli anni Cinquanta l’Italia avesse un mercato così competitivo da attirare i calciatori britannici? No, non è possibile. Il fatto è che in Italia, già nel 1957, non c’erano squadre-imprese affidate a manager con l’ossessione di quadrare i bilanci. Ma c’erano gli Agnelli, che volevano offrire ai loro concittadini e sudditi un gioiellino. Eravamo ancora in un’economia da mecenati rinascimentali, capisci? Il signore della città che sborsa milioni per questioni di prestigio. Pensa a come il vecchio Agnelli chiamava i suoi gioiellini: Raffaello, Pinturicchio… O pensa, se preferisci, al questore edile che nell’antica Roma dilapidava le sue fortune in Circenses per farsi eleggere Console. Cinquant’anni dopo siamo ancora lì, alla Roma dei Cesari o alla Firenze dei Medici. Forse non ne usciremo mai, come questo Intercity che arranca, sul binario steso un secolo fa.

Ma del resto, c’è mai stata una vera economia di mercato, in Italia? Se togli le oligarchie del vecchio capitalismo famigliare, il sommerso di mafia e camorra, gli interessi corporativi e le storiche lottizzazioni tra partiti, cosa resta? Di sicuro non il calcio. Nessun imprenditore ha mai cercato di fare fortuna col calcio. Le squadre di serie A, B, persino C, sono quasi sempre in mano a qualche industriale che aveva soldi da sbattere via – letteralmente: da sbattere via. Quando Tanzi prese il Parma, Cecchi Gori la Fiorentina, Moratti l’Inter, non pensavano certo di lucrare. Il loro primo interesse era farsi belli davanti ai concittadini. Altri più avveduti, come Berlusconi, hanno utilizzato il calcio come veicolo promozionale per lanciare altri prodotti. Il calcio italiano non è autonomo, non se lo può permettere. Gli stadi sono in affitto: li mantengono i contribuenti. Anche la sicurezza negli stadi è a carico nostro. I tifosi non sono un pubblico pagante, libero di decidere se una squadra merita o no di essere seguita. La tifoseria italiana è l’erede della plebe romana: deve credere ciecamente ai suoi colori, acclamare i suoi tribuni o calpestarli.

Non che in Gran Bretagna sia sempre stato tutto rose e fiori: con tutta la nostra guerriglia domenicale, un massacro come Hillsborough in Italia non c’è ancora stato (forse è quello che ci manca per voltar pagina davvero). Ma dopo Hillsborough il sistema del calcio inglese ha mostrato gli anticorpi. I club hanno capito che per sopravvivere dovevano evolversi. Hanno tolto le sbarre e hanno montato le poltroncine sugli spalti. Hanno dimezzato i biglietti, e hanno scoperto l’economia dei diritti tv. Hanno investito in sicurezza, perché non potevano contare sui bobby della Regina per ogni minimo tafferuglio. È stato pesante, ma l’alternativa era fallire. E per chi fallisce non c’è perdono.

In Italia un perdono, un condono, c’è sempre. C’è sempre un padre amoroso, ansioso di rimetterti i peccati. Le stesse squadre non sono imprese, ma entità metafisiche che passano liberamente da un fallimento all’altro, da una proprietà all’altra. Per loro non valgono le regole dell’economia o del buon senso: non so quale altra società al mondo abbia il diritto di spalmare i propri debiti su una distanza di trent’anni. Perfino gli intellettuali si inginocchiano ai riti della plebe: guai se gli tocchi i colori, gli stendardi, i gonfaloni. Siccome sugli spalti non c’è vera economia, si fa il possibile per trovarci qualcos’altro: cultura, senso di appartenenza, e tutte le altre baggianate che servono a coprire la realtà più evidente.

E la realtà più evidente è che il calcio vive, da un secolo e più fuori dall’economia, finanziato dallo Stato, perché lo Stato ha bisogno di una valvola per il disagio del proletariato urbano. Quei vecchi pensatori oggi in disuso, che nell’Ottocento davano per imminente la rivoluzione, erano meno ingenui di quello che pensiamo. Vivendo nelle prime città industriali, si guardavano attorno e vedevano una rabbia, un’energia, che nulla sembrava poter contenere. Prima o poi quest’energia avrebbe trasformato il mondo. Era chiaro.
Ma avevano fatto i conti senza il calcio. Questa pesissima varietà di oppio dei popoli, di fronte al quale la Chiesa cattolica è solo un placebo per bambini e vecchiette. Chi poteva immaginarselo, a metà Ottocento. Proletari di tutto il mondo, fatevi la guerra. Palermo contro Catania, ultrà contro poliziotti, passatevi il tempo. Ché alternative, per voi, non ne abbiamo.

A meno che non ne abbia una tu, caro Scalfarotto.
Ma tu non mi ascolti. A quest’ora il tuo meeting è finito, e magari stai già prendendo un altro treno.
Anche il mio, finalmente, è arrivato. Saluti.
Solo, un’ultima cosa:
non crederti al sicuro.

No, cos'hai capito, non è una minaccia. È una constatazione. È vero che il calcio inglese funziona meglio. Ma certi problemi del calcio italiano sono sintomi di un malessere di tutta l’Europa occidentale. Dopotutto la Storia non ha sensi di marcia obbligati. E se quelli avanti, per una volta, fossimo noi?

La guerriglia urbana settimanale, la gestione camorristica dello sport, la società dell’avanspettacolo, non sono necessariamente retaggi di un passato. Forse sono il futuro: anche il vostro futuro.
Può essere una mia impressione, ma ultimamente è il calcio inglese ad essersi accostato al modello italiano. I grandi club stanno cominciando a monopolizzare il campionato: non era mai successo. Il Chelsea è in mano a un miliardario russo che sbatte via capitali per questioni di prestigio, e forse per riciclare un bel po’ di denaro sporco. Non è detto che tra un po’ non sia l’Home Office a telefonare al Viminale, per chiedere come si risolvono certi affari.
E al Viminale, gli eredi di una sapienza di generazioni di treni in ritardo, probabilmente gli risponderanno che certi affari non si risolvono: si gestiscono e basta.
Adesso ho veramente finito. Scusa per lo sfogo, e buon lavoro.
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