Gli schiavi bambini del coltan in Congo

Stacks Image 1572
Africa. A mani nude e per 14 ore al giorno, al lavoro nelle miniere illegali dove si estraggono i minerali che alimentano le batterie dei cellulari

A mani nude. Al massimo, proprio quando è necessario, con l’impiego di un bastone o di qualche altro arnese rudimentale. Certamente senza nessun equipaggiamento protettivo come guanti, elmetti o mascherine. Così, per almeno 14 ore al giorno, tutti i giorni, centinaia di schiavi bambini sono costretti a lavorare nelle miniere della Repubblica Democratica del Congo. A mani nude, estraggono il coltan, il cobalto e gli altri preziosi minerali indispensabili ad alimentare le batterie «ad alte prestazioni» dei nostri cellulari e dei nostri tablet. Una giornata di lavoro viene pagata un dollaro, al massimo due se il bambino è efficiente e un po’ più grandicello. Ma nelle miniere illegali, la paga scende a mezzo dollaro e le ore di lavoro aumentano. Teniamo presente che questa “paga” va decurtata dalle tangenti che i bambini sono costretti a versare ai militari che sorvegliano la miniera e che dovrebbero garantire il rispetto della legalità.
Per lo più, questi minori sono impiegati in attività che si svolgono in superficie, come la raccolta, la selezione e il lavaggio del minerale, ma non è infrequente che vengano anche utilizzati nelle estrazioni sotto terra, in tunnel stretti e angusti, privi di areazione e soggetti a crolli frequenti, dove riescono ad infilarsi grazie alla loro ridotta corporatura.

LO SFRUTTAMENTO INUMANO DELLE MINIERE della Repubblica Democratica del Congo cominciò nei primi anni ’90, come conseguenza del fallimento dell’industria mineraria che allora era gestita dal governo. La dinastia dei presidenti congolesi – ma potremmo tranquillamente scrivere dittatori – Laurent Désiré Kabila che si autoproclamò Capo di Stato nel 1997 e il figlio Joseph, che gli succedette dopo il suo assassinio, nel gennaio del 2001, incoraggiarono una politica di estrazione artigianale delle miniere, con l’intento, a loro dire di ispirazione marxista, di concedere a tutti i congolesi il diritto di poter usufruire delle ricchezze del Paese.
L’estrazione mineraria in Congo infatti non richiede costose o sofisticate tecnologie: il coltan ma anche pepite d’oro o diamanti alluvionali o il cobalto di cui il Congo copre il 60% della produzione mondiale, possono essere raccolti anche in superficie o a basse profondità, con il solo uso delle mani. Mani da uomo o anche mani da bambino.
Ma in un Paese fortemente destabilizzato da anni di guerra civile, questa liberalizzazione portò alla creazione di milizie paramilitari legate ai tanti signori della guerra e finanziate sottobanco dalle imprese straniere di export, che occuparono militarmente le aree più remunerative, combattendosi a vicenda, schiavizzando i minatori e vessando le popolazioni locali, dove vengono tutt’ora reclutati, anche a forza, uomini, donne e bambini da usare come manodopera. Ma anche qui, potremmo tranquillamente scrivere schiavi. Si aprì così un mercato illegale ad altissimo rendimento, considerato che l’estrazione e la manodopera non costa praticamente nulla e che la merce prodotta è indispensabile a tutte le industrie high tech del mondo. Un mercato illegale sul quale si fiondarono la Cina e pressoché tutte le multinazionali minerarie dell’Occidente.

LA LEGGE VOLUTA DAL PRESIDENTE Joseph Kabila varata nel marzo del 2018, che ha raddoppiato le royalties governative a carico delle multinazionali minerarie legalmente presenti nel Congo per far fronte agli enormi debiti esteri in cui versa il Paese, ha ottenuto il solo risultato di dirottare pressoché l’intera l’attività estrattiva verso l’illegalità.
La catena di approvvigionamento dei minerali preziosi, dalla terra al mercato globale, prevede almeno sette passaggi. Ii minatori artigianali estraggono il minerale e lo rivendono ai compratori locali, questi lo rivendono a compagnie estere presenti in loco, come la cinese Cdm, che poi a loro volta lo rivendono a compagnie estere che lavorano il minerale. Gli ultimi passaggio sono la vendita alle industrie che producono le batterie e che, infine, sono rivendute ai grandi brand internazionali che le assemblano nei cellulare e portano il prodotto compiuto nei negozi dove noi andiamo ad acquistare l’ultimo modello di telefonino.
Una catena difficile da spezzare perché il sangue scorre solo nei primi anelli. Ci provò Barack Obama nel 2010, con il Dodd-Frank Act, quando impose alle aziende americane l’obbligo di certificare la provenienza dei minerali adoperati nei loro prodotti. Tentativo nobile ma alquanto improducente. La compravendita del coltan si è semplicemente trasferita a Kigali, nel vicino Rwanda, dove il prodotto può essere venduto in maniera pulita, perché in questo Paese non sono mai stati registrati casi di sfruttamento minorile nelle miniere di coltan. Anche perché in Rwanda non vi sono miniere di coltan!
Anche il via vai dei camion pieni di materiale tra le frontiere dei due Paesi africani è sotto il controllo dalle bande armate che impongono tangenti ai minatori di passaggio. Una voce in più nella colonna dei profitti dei signori della guerra, contenti di lucrare con le briciole di un mercato globale miliardario.
LA SVENDITA DELLA PATAGONIA è cominciata nel 1996, quando il Governo di Carlos Menem, decise di aprire le porte al liberalismo più sfrenato e di seguire i consigli del Fondo Monetario internazionale, privatizzando tutto quello che si poteva privatizzare. Il «surplus di terra» – secondo le parole dell’allora presidente – della Patagonia fu svenduto prezzo di realizzo senza considerare le popolazioni native che lì vivevano, come ripetono da queste parti, sin dall’ Once de Octubre, dall’11 di ottobre. Cioè da prima che Colombo scoprisse il continente! Il maggior acquirente fu il nostro Luciano Benetton che mise la sua bandiera di novello conquistadore su 924 mila ettari di terreno. Come dire più di mezzo Veneto. Ma in realtà sono molti di più perché ci sono intere aree che, pur non essendo di proprietà di Benetton, sono interamente circondate dai suoi possedimenti e quindi inagibili per i pastori mapuche. Intere comunità hanno dovuto abbandonare le loro case perché circondate dai possedimenti di Benetton che impediva loro di accedere all’acqua dei fiumi.

QUESTI IMMENSI LATIFONDI SONO stati trasformati dall’azienda trevigiana in pascolo per 260 mila pecore da lana e 16 mila bovini da carne. Inoltre sono stati piantati ettari di alberi da legna ad alto rendimento. Specie alloctone che hanno devastato l’ecosistema. Come se non bastasse, negli ultimi anni, la Benetton ha dato il via allo sfruttamento di giacimenti di oro e di altri minerali preziosi attraverso la Compañia Mineras Sur Argentino.

I MAPUCHE HANNO REAGITO a quella cosa per loro inconcepibile che è stata la vendita della terra e dell’acqua che danno nutrimento a tutti i figli di Wallmapu, abbattendo il filo spinato e recuperando i terreni alle comunità. Ma questo significa resistere ai continui tentativi di sgombero da parte della polizia o delle milizie private che Benetton ha istituito per difendere le sue proprietà. «Senza uno stretto rapporto con la madre terra – spiega il lonko, capo spirituale, Mauro Milan – un mapuche non esiste. Noi non lottiamo soltanto per difendere i pascoli necessari alla sopravvivenza della comunità. Noi stessi siamo la terra e l’acqua che difendiamo. Noi stessi siamo questo vento che su Wallmapu non cessa mai di soffiare».




«Pochi controlli, quel lavoro è disumano e dannoso»

Intervista. L’avvocata per i diritti umani Maria Rosaria Cataleta: «Le compagnie controllino la filiera»Stefania Cataleta (1 di 1)

«È riconosciuto a livello internazionale che il coinvolgimento dei bambini nelle miniere costituisce una delle peggiori forme di lavoro minorile. Uno sfruttamento che tutti i Governi devono proibire e punire nel rispetto delle convenzioni internazionali», spiega Maria Stefania Cataleta, avvocata per i diritti umani ed attivista di associazioni nazionali ed internazionali come Amnesty International e l’Association Europeenne pour la Défense des Droits de l’Homme.

La legislazione della Repubblica Democratica del Congo non prevede misure a difesa di questi bambini?
Il sistema di ispezione volto a verificare l’impiego di minori nelle miniere è piuttosto scarso. Indagini svolte da Amnesty International hanno evidenziato che gli agenti governativi sono al corrente del lavoro minorile nelle miniere, ma che chiudono un occhio in cambio di tangenti.

Quanto ore al giorno è costretto a lavorare un bambino in una miniera? A quali conseguenza va incontro per la sua salute?
La giornata lavorativa media è di 14 ore, ma molti bambini lavorano anche di più. L’esposizione alle polveri ha notevoli conseguenze dannose per la salute di questi bambini, come malattie polmonari da inalazione di metalli pesanti, dermatiti da contatto o deformazioni muscolo-scheletriche per il sollevamento di pesi dai 20 ai 40 kg.

Se il Governo del Congo non tutela questi minori, non ci sono leggi internazionali che possano obbligare le multinazionali occidentali a farsene carico?
Il lavoro minorile per l’estrazione artigianale del coltan e del cobalto dimostra proprio che vi è una falla nella due diligence policy che le compagnie internazionali devono rispettare nella filiera produttiva e di approvvigionamento del minerale. I Guiding Principles on Business and Human Rights delle Nazioni Unite impongono l’adozione di una certa condotta per garantire il rispetto dei diritti umani e identificare, prevenire e mitigare i rischi legati alla loro violazione. Ma i report di tante Ong hanno dimostrato che le compagnie non si uniformano al rispetto della due diligence policy, sopratutto le compagnie estere presenti nel Congo, che sono al corrente delle condizioni di estrazione in miniere illegali dove vengono impiegati bambini ed i cui proventi contribuiscono a finanziare i gruppi armati che controllano le zone di estrazione.

Cosa dovrebbero fare, ma non fanno, la Repubblica del Congo e le compagnie minerarie straniere?
La Repubblica Democratica del Congo dovrebbe creare più miniere artigianali autorizzate e mettere in regola quelle irregolari, dovrebbe monitorare e proibire l’impiego di bambini nelle miniere, favorendo l’eccesso all’educazione primaria gratuita ed obbligatoria. Dal canto loro, le compagnie dovrebbero rendere pubbliche le due diligence practices adottate, facendosi anche carico di misure riparatorie per le violazioni dei diritti umani occorse nella catena di approvvigionamento dei minerali.

Secondo il diritto internazionale, gli Stati non hanno l’obbligo di perseguire ogni violazione dei diritti umani intervenendo nei confronti delle proprie imprese, anche se queste violazioni sono commesse in altri Paesi?
Sì. Gli Stati dovrebbero adottare e far rispettare le leggi che richiedono alle imprese di conformarsi alla due diligence ed a rendere pubbliche le politiche adottate e le operazioni effettuate nella fornitura di minerali. Tutto questo ancora non si è verificato ed ecco perché 14 famiglie congolesi, lo scorso dicembre, hanno citato in giudizio alcuni colossi del digitale per rispondere della morte e dei danni riportati dai loro figli impiegati nelle miniere da cui si rifornivano.
Torna indietro