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  • Niger: un altro bagno di sangue
    Un gruppo di motociclisti piomba in tre villaggi nella regione di Tahoua e compie una strage


    Un altro attacco jihadista in Niger. Un altro bilancio pesantissimo di vittime. Sono 137 le vittime di tre attacchi compiuti domenica 21 marzo ad altrettanti villaggi della regione di Tahoua, nel sud del Paese. Si tratta del più feroce massacro di civili inermi mai compiuto in Niger. Il modus operandi è sempre lo stesso e ricalca altri cruenti eccidi compiuti dagli integralisti all’inizio di quest’anno: un gruppo di motociclisti piomba nel villaggio sparando all’impazzata a uomini, donne e bambini col solo intento di fare più vittime possibili, e poi si dileguano.

    Il Niger, uno dei Paesi più poveri del mondo, non mostra nessuna capacità di reazione. Intere province oramai sono in mano a varie formazioni integraliste provenienti dal Ciad ad est, o dal Mali ad Ovest, mentre il sud del Paese è praticamente controllato dalle milizie di Boko Haram e alle frontiere occidentali premono migliaia di profughi provenienti da un Burkina Faso, anch’esso sotto attacco dal terrorismo islamista. Terrorismo che, come per il Niger, ha preso come obiettivo i villaggi più poveri ed indifesi.

    Intere aree del Paese sembrano oramai in mano agli integralisti, così come la stessa città di Tahoua, un tempo crocevia commerciale tra i pastori tuareg del nord e i popoli del sud dediti all’agricoltura.

    Le recenti, contestatissime elezioni, hanno visto la vittoria dell’uomo forte del Paese, Mohamed Bazoum. Inutile il ricorso alla Corte Costituzionale dell’avversario Mahamane Ousmane. Inutili le protesta di piazza che hanno causato almeno due morti e migliaia di arresti.

    Il Paese sud sahariano rimane nel caos. La popolazione rurale, per sfuggire alla violenza di Boko Haram ed ai suoi “posti di blocco” nelle strade locali, dove è sicuro essere fermati e derubati ma è molto meno sicuro sopravvivere, si sta spostando a ridosso delle grandi città: abbandonando i terreni agricoli e rinunciando all’unica forme di sussistenza a disposizione della povera gente che si vota alla fame. Un futuro incerto ma comunque preferibile ad una morte violenta per mano dei terroristi di Boko Haram, i cui raid in motocicletta sono sempre più frequenti e sanguinosi. Ad inizio gennaio a Tschomabangou si contarono almeno 79, a Zaroumadareye 30. Adesso è toccato a Tahoua: 137 assassinati. Il totale di morti di quest’anno, contando solo queste stragi, è di 246. E se non è una guerra questa…
  • Strage in Niger
    Il villaggio di Zarmou è stato letteralmente dato alle fiamme dai jihadisti provenienti dal Mali


    Un attacco terroristico ha causato una strage tra gli abitanti di due villaggi del Niger orientale, ai confini col Mali: Tchombangou e Zarmou. Quest’ultimo villaggio sarebbe stato letteralmente dato alle fiamme dai jihadisti provenienti dal Mali. Secondo una stima dell’attivista tuareg per i diritti umani Alassane Bilalane Dallo, i morti sarebbero circa 120, oltre ad un numero non precisato di feriti. La stima non è ancora stata confermata dal Governo ma a giudicare dal video inviato a Dossier Libia allo stesso Alassane, girato al momento della sepoltura dei corpi, la notizia non dovrebbe essere troppo distante dal vero.

    Quest’ultimo sanguinoso attacco dimostra ancora una volta la pericolosa situazione in cui è precipitato il Niger, preso di mira da aderenti allo Stato Islamico sia da ovest, ai confini con Burkina Faso, che da est, alla frontiera col Mali. Una situazione alla quale il Governo di Niamey non riesce a porre rimedio e l’Europa non può, o non vuole, intervenire anche se nel Paese sono dislocate ingenti forze francesi, sopratutto a nord per scoraggiare le migrazioni verso il Mediterraneo e “difendere” le aree minerarie che, evidentemente, contano più della vita delle persone.


  • Un migrante nigeriano bruciato vivo a Tripoli
    Tre libici armati hanno fatto irruzione nella fabbrica dove lavorava il nigeriano, lo hanno cosparso di benzina e lo hanno dato alle fiamme.


    Cosparso di benzina e bruciato vivo senza nessun motivo apparente. E’ accaduto a Tajoura, un quartiere di Tripoli. La vittima è un migrante nigeriano che lavorava in una fabbrica locale che si avvale per di più di manodopera proveniente dai Paesi dell’Africa sub sahariana. La notizia proviene da fonti ufficiali delle nazioni Unite ed è stata riportata dal sito giornalistico ApNews. Martedì scorso tre libici armati hanno fatto irruzione nella fabbrica dove lavorava il nigeriano, lo hanno cosparso di benzina e lo hanno dato alle fiamme. Altri tre migranti, anch’essi di origine nigeriane, hanno subito ustioni più o meno estese. Una nota del ministero dell’Interno libico conferma il fatto e aggiunge che gli autori del crimine, tutti sulla trentina, sono stati arrestati e deferiti ai pubblici ministeri per indagini, ma ancora non si conoscono i motivi del loro gesto.

    “A volte si esauriscono gli aggettivi per descrivere ciò che vediamo in troppi posti – ha dichiarato il portavoce delle Nazioni Unite Stephane Dujarric – Questo sottolinea, come se dovessimo sottolineare ancora una volta, quanto la Libia sia pericolosa per i migranti, per i rifugiati e quanto le autorità sul campo devono ancora fare per garantire la protezione di queste persone vulnerabili”.

    L’articolo pubblicato da APnews spiega come l’assassino del lavoratore nigeriano sottolinei ancora una volta i pericoli che i migranti devono affrontare in Libia, “emersa come un importante punto di transito per i migranti africani e arabi in fuga dalla guerra e dalla povertà verso l’Europa in mezzo a anni di caos a seguito della rivolta del 2011 che ha rovesciato e ucciso il dittatore di lunga data Moammar Gheddafi”.

    Nel 2017, la CNN ha trasmesso un video di un’asta di schiavi in Libia in cui i migranti africani sono stati “venduti come capre”, provocando indignazione globale e ha portato il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite a tenere una riunione di emergenza per condannare “atroci abusi dei diritti umani”.

    A maggio, la famiglia di un trafficante di esseri umani libico ucciso ha attaccato un gruppo di migranti nella città deserta di Mizdah, sparando e uccidendo almeno 30 migranti. principalmente dal Bangladesh, secondo l’agenzia delle Nazioni Unite per la migrazione.

    A luglio, le autorità libiche hanno ucciso tre migranti sudanesi nella città costiera occidentale di Khoms. Secondo quanto riferito, i migranti stavano cercando di fuggire dopo essere stati intercettati dalla guardia costiera libica nel mar Mediterraneo e riportati a riva.

    Finora nel 2020, l’agenzia delle Nazioni Unite per la migrazione ha segnalato circa 200 morti di migranti in Libia e almeno 275 dispersi nel Mar Mediterraneo. Solo martedì, i corpi di 11 migranti sono stati trascinati sulle coste libiche. Il loro affogamento risale tra il 28 settembre e il 5 ottobre.

    Quest’anno, sono giù stati riportai in Libia dalle guardie costiere, circa 9 mila e 500 migranti. In tutto il 2019, sono stati ) mila 225.

    I migranti di solito attraversano la Libia diretti in Europa, partendo dalla costa rocciosa di Tripoli su gommoni – continua l’articolo di APnews. La guardia costiera libica, addestrata dall’Unione Europea per impedire ai migranti di raggiungere le coste europee, intercetta le barche in mare e le riporta in Libia.

    Le associazioni per i diritti umani affermano che questi sforzi hanno lasciato i migranti in balia di brutali gruppi armati o confinati in centri di terrificanti e sovraffollati centri di detenzione, senza rifornimenti adeguati di cibo e di acqua.

    Invece di concentrarsi sull’embargo dei rifornimenti d’armi decretato dalle Nazioni Unite – l’unica chiave per fermare il conflitto nel Paese – l’Ue dedica le sue forze a contrastare il flusso migratorio, sostenendo con finanziamenti, mezzi e logistica la Guardia Costiera libica. Così, navi battenti improbabili bandiere di facciata e con le stive piene di munizioni e armamenti, sostano indisturbate nei porti italiani per far fare rotta verso Tripoli o Bengasi.

    E’ la globalizzazione, bellezza! Un mondo spezzettato da mille frontiere che fermano i diritti e la vita ma lasciano passare la devastazione e la morte.
  • Agadez: maltempo e proteste mettono in ginocchio la città nigerina
    l’alto Niger è stato colpito da una impressionante alluvione che ha letteralmente sommerso le strade della città dei tuareg, nota col nome di Porta del Deserto.


    I nostri amici e collaboratori dell’Association Taggazte Nagadoum, attiva nella città di Agadez, ci ha informato che l’alto Niger è stato colpito da una impressionante alluvione che ha letteralmente sommerso le strade della città dei tuareg, nota col nome di Porta del Deserto.

    “Oggi è stata una giornata dura per la popolazione di Agadez, specialmente per chi vive nei sobborghi della città – ci ha scritto l’amico Alassane, presidente di Taggazte Nagadoum – Dopo la forte pioggia caduta ieri, l’allagamento continua in alcuni quartieri dove vivono i poveri che sono rimasti senza riparo, senza cibo, senza bestiame. Tutto è stato spazzato via dall’acqua. Alcuni villaggi come Azel, Sabon, Gari sono stati completamente devastati e non è rimasta una sola capanna in piedi”.



    Conclude Alassane: “Ci stiamo impegnando con molta buona volontà per aiutare tutti coloro che sono rimasti senza cibo”.

    Una regione, quella subsahariana in cui sorge la città di Agadez, assolutamente nuova a questi fenomeni meteorologi estremi imputabili ai cambiamenti climatici che, oramai sempre più frequentemente, stanno devastando tutta l’africa tropicale, passando da periodi di estrema siccità a violenti nubifragi e allagamenti.
    In tutto questo sconvolgimento climatico, continua la protesta dei rifugiati presenti nel campo Unhcr che sorge proprio alle periferia della città nigerina. Un centinaio di loro, nonostante l’allagamento, sta continuando a protestare davanti alla sede Onu per chiedere l’accelerazione dell’approvazione delle loro pratiche per ottenere lo status di rifugiati.

  • “Sono solo bambini”. Un report di Human Rights denuncia le torture che la polizia egiziana infligge ai minori
    L’esercito e la polizia egiziana arrestano arbitrariamente, uccidono e torturano anche i bambini. Lo afferma una particolareggiata inchiesta pubblicate dall’ong Human Rights Watch e dall’associazione per i diritti umani Belady. Il report, dal significativo titolo di “A nessuno importava che fosse un bambino”, documenta terrificanti abusi compiuti contro una ventina di ragazzi di età compresa tra i 12 e i 17 anni arrestati dalle forze dell’ordine egiziane.
    L’esercito e la polizia egiziana arrestano arbitrariamente, uccidono e torturano anche i bambini. Lo afferma una particolareggiata inchiesta pubblicate dall’ong Human Rights Watch e dall’associazione per i diritti umani Belady.

    Il report, dal significativo titolo di “A nessuno importava che fosse un bambino”, documenta terrificanti abusi compiuti contro una ventina di ragazzi di età compresa tra i 12 e i 17 anni arrestati dalle forze dell’ordine egiziane.

    Di fronte a tali crimini contro dei minori, Human Rights Watch chiede a tutti gli Stati “alleati degli egiziani, in particolare gli Stati Uniti, ma anche la Francia e gli altri Paesi dell’Unione Europea, di interrompere il sostegno alle forze di sicurezza egiziane fino a quando l’Egitto non prenderà tutte le misure necessarie per porre fine a questi abusi e punire i responsabili”.

    Aya Hijazi, responsabile dell’associazione Belady, ha sottolineato come “quando si tratta di minori o di bambini, le autorità egiziane agiscono come se non dovessero rendere conto a nessuno delle loro azioni. Si sentono superiori alla legge ed agiscono in totale impunità”. Parole che fanno pensare quanto accaduto, sia nell’esecuzione dell’omicidio sia nei successivi depistaggi, nel caso del nostro Giulio Regeni. Adesso, grazie al dossier di Human Rights Watch, sappiamo che questo accade anche quando le vittime sono bambini.

    Le testimonianza che si possono leggere nel dossier, liberamente scaricabile da questa pagina del sito di Human Rights, sono degne di un film dell’orrore. Sette bambini hanno riferito che gli agenti di sicurezza li hanno torturati con l’elettricità e facendo anche uso di pistole stordenti.

    Altri sette minori hanno spiegato che i poliziotti li hanno sospesi con una corda al soffitto dalle braccia che gli avevano legato dietro la schiena e li hanno strattonati sino a slogare loro le spalle.

    “Altri bambini sono stati torturati col waterboarding (una forma di tortura che consiste nel tenere fermo il bambino a testa in giù e versargli acqua nella bocca e nel naso sino a simulare l’annegamento. Ndr) e con scariche di elettricità nei genitali e nella lingua – ha denunciato Bill Van Esveld, direttore di Human Rights Watch -. Tutto questo viene compiuto nella più totale impunità”.

    Alcuni bambini sono stati tenuti arbitrariamente in detenzione per 13 mesi, senza che venisse dato alla famiglia la benché minima informazioni sulla sorte dei loro figli. In tre casi, tra quelli documentati nel rapporto, i minori sono stati trattenuti in isolamento, negandogli anche le visite dei genitori, per più di un anno. Altri bambini, sono stati rinchiusi con adulti in celle così sovraffollate che erano costretti a dormire a turni, senza cibo e cure mediche.

    “Avevo 17 anni quando gli agenti della sicurezza nazionale mi hanno arrestato – racconta Belal B. – Gli agenti mi hanno tenuto per tre giorni legato stretto ad una sedia, in isolamento. Non mi hanno detto nulla e i miei genitori non sapevano che fossi stato fermato”. Ricordiamoci che l’Egitto, in violazione al diritto internazionale, ha già condannato a morte un minore.

    “La legge egiziana impone alla polizia di segnalare a un pubblico ministero i soggetti fermati entro 4 ore dall’ arresto – si legge nel rapporto – ma è una pratica comune che le date siano falsificate dagli stessi magistrati, in modo da coprire detenzioni molto più lunghe. In nessuno dei casi che abbiamo esaminato le autorità hanno presentato un mandato di arresto o arrestano i minori in modo lecito”.

    Ci sono casi di ragazzini trattenuto senza processo per più di 30 mesi, quando il limite per la legge egiziana è di due anni.

    “Un minore è stato accusato di aver partecipato ad una protesta avvenuta mentre era in detenzione e si sono rifiutati di lasciargli sostenere gli esami di scuola, minando le sue possibilità di proseguire gli studi”. Il sistema giudiziario penale egiziano non si è mai preoccupato di indagare seriamente sulle accuse di tortura e maltrattamenti da parte dei bambini. “In un caso che abbiamo esaminato – si legge – il pubblico ministero ha persino minacciato il minore di riconsegnarlo all‘agente che lo aveva torturato se avesse rifiutato di sottoscrivere la confessione che gli volevano imporre”.

    E non solo giudici civili! In due casi tra quelli esaminati nel rapporto, i bambini sono stati processati e condannati addirittura da un tribunale militare!

    “Il sistema giudiziario egiziano invece di proteggere i bambini dai maltrattamenti, copre i torturatori – ha affermato Hijazi -. I Governi dei Paesi che sostengono di avere a cuore i diritti umani, dovrebbero porre fine ad ogni sostegno ai servizi di sicurezza egiziani, altrimenti non sono altro che complici di questi orrori”.
  • La Guinea sull’orlo della guerra civile. L’opposizione ha scelto di boicottare le elezioni: in piazza si bruciano i manifesti elettorali
    Proteste di piazza, disordini, risposte violentissime da parte della polizia e delle forze armate. In Guinea, i morti, i feriti e le sparizioni si contano con le decine.

    Proteste di piazza, disordini, risposte violentissime da parte della polizia e delle forze armate. In Guinea, i morti, i feriti e le sparizioni si contano con le decine. Nella capitale Conakry e nelle principali città del Paese subsahariano le agitazioni contro il presidente Alpha Condé, in carica dal 2010, sono cominciate alla fina dell’anno scorso e non si sono ancora placate. Il Paese è sull’orlo di una guerra civile che rischia di ripercorrere i tragici binari dello scontro tra diverse culture che troppo spesso hanno insanguinato il continente africano. Tanto il presidente quanto i principali attori del Governo sono di cultura Malinké, così come l’esercito e la polizia, mentre la maggioranza della Guinea è formata da persone di cultura Peuhl. Gli scontri, in altre parole, hanno assunto i contorni di un conflitto inter etnico che è già costato la vita a più di 150 oppositori politici, per lo più assassinati durante gli scontri svoltisi a Ratoma, un sobborgo della capitale interamente abitato da Peuhl. Senza contare le persone incarcerate o fatte sparire e le pressoché costanti violazioni dei diritti umani.

    Le proteste sono nate dopo le dichiarazione del presidente Alpha Condé, al suo secondo mandato, di modificare la Costituzione del Paese, scritta secondo lui “troppo in fretta”, in modo da permettergli di essere rieletto per la terza volta consecutiva. Una prospettiva che ha fatto infuriare i Peuhl che speravano di poter rovesciare il Governo in carica, proprio come ha fatto la confinante Guinea Bissau che neppure un mese fa è riuscita a mandare a casa il presidente Domingos Simoes Pereira ed ad eleggere il leader dell’opposizione Umaro Sissoco Embal.


    Diallo Diamant, rifugiato guineano

    “Se nel mio Paese si potesse votare regolarmente, avrebbe già vinto il partito di opposizione che si ispira agli insegnamenti di Boubacar Diallo Telli (politico guineano assertore dell’unità africana torturato ed ucciso nel ’77.ndr) – spiega Diallo Diamant -. Purtroppo il partito al potere sta facendo di tutto per inquinare le elezioni che dovrebbero svolgersi il 16 febbraio prossimo, proprio come ha fatto con quelle del 2015 che hanno rieletto in maniera truffaldina Alpha Condé”. Diallo è un giovane migrante che da tre anni vive a Ferrara. E’ dovuto scappare dalla Guinea proprio a causa il suo impegno politico e sul corpo porta ancora i segni delle ferite infertegli dalla polizia di Conakry. Il suo viaggio verso la vita è stato quello di tanti altri ragazzi dell’Africa sub sahariana. Il confine nigerino sino ad Agadez, tre mesi di attesa, e quindi la traversata del deserto sino alla Libia. Poi sette mesi di inferno nei lager libici sino alla tragica traversata del Mediterraneo dove i tre ragazzi che erano con lui hanno lasciato la vita. Venivano dal suo stesso quartiere di Ratoma.

    “Nel mio Paese si lotta per costruire una democrazia che sappia andare oltre le culture Peuhl o Malinké. La nostra è una battaglia per la libertà contro l’incoscienza dei politici che pensano solo a difendere i loro interessi e quelli delle multinazionali straniere, in particolare francesi, che li sostengono – spiega Diallo -. In questi giorni, l’opposizione ha deciso di boicottare le elezioni in tutti i modi, anche bruciando i manifesti elettorali e le liste. Abbiamo bisogno dell’attenzione del mondo. Tutti devono sapere cosa sta accadendo nel mio Paese. Devono sapere dei morti ammazzati, delle persone incarcerate e di quelle fatte sparire. Il principale nemico di noi guineani, oltre che il nostro Governo, è l’indifferenza dell’Europa. Indifferenza che fa da contraltare ai grandi interessi che proprio l’Europa ha nel mio Paese”.
  • L’Unhcr chiude il centro di accoglienza di Tripoli. E lascia i profughi senza cibo per “motivarli ad andarsene”
    Abbandonati senza nulla da mangiare, sino a morire di fame, per “motivarli ad andarsene”. Sono accuse pesantissime quelle che il giornale inglese Guardian ha mosso all’Unhcr.


    Abbandonati senza nulla da mangiare, sino a morire di fame, per “motivarli ad andarsene”. Sono accuse pesantissime quelle che il giornale inglese Guardian ha mosso all’Unhcr. Accuse suffragate non soltanto dalle dichiarazioni di molti migrati del centro ma anche da alcuni operatori della stessa agenzia per i rifugiati e, addirittura, da una denuncia ufficiale dell’Oim.

    Accuse tanto più pesanti in quanto riguardano fatti non avvenuti nei famigerati centri di detenzione libici ma in una struttura protetta, o perlomeno così si pensava, gestita a Tripoli dall’Unhcr, l’agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati.

    Il campo in questione era stato inaugurato un anno fa dallo stesso Filippo Grandi, l’alto commissario Onu per i rifugiati, che, tra squilli di tromba e fanfare, aveva sottolineato come, pur in condizioni di estrema difficoltà, l’Unhcr fosse riuscito ad aprire questa struttura per “offrire protezione e sicurezza immediate ai rifugiati vulnerabili che necessitano di un evacuazione urgente”. Sempre nelle parole di Grandi, il campo doveva essere “una alternativa alla detenzione per centinaia di rifugiati attualmente intrappolati in Libia”.

    Ad accusare l’Unhcr è la stessa Oim (Organizzazione internazionale per i migranti), anch’essa collegata all’Onu, che potremmo definire come l’agenzia “gemella” dell’Unhcr focalizzata più sui migranti in generale che sui profughi. Secondo l’Oim, da due settimane 400 profughi, tra cui anche dei bambini, provenienti dal campo di detenzione di Abu Salim, nel sud della Libia, sono lasciati senza scorte di cibo da due settimane, sopravvivendo solo grazie a quanto gli è stato “fatto sgattaiolare” dagli altri migranti già presenti nel centro. Scrive il Guardian che l’Unhcr sta “pianificando di ritirare il cibo ad altri 600 rifugiati e migranti nel centro, tra i quali ci sono sopravvissuti a bombardamenti, torture, lavoro forzato e altre violazioni dei diritti umani. La maggioranza di costoro aveva tentato di raggiungere l’Europa attraversando il Mediterraneo, ma è stata riportata in Libia dalla guardia costiera che agisce col sostegno dell’Unione Europea”.

    Una circolare riservata all’Unhcr, girata al Guardian da una “talpa”, sottolinea la volontà di ridurre progressivamente, a partire da dicembre, i rifornimenti di cibo a tutte le persone ospitate nel campo, mantenendo solo la clinica per le emergenze, per fare in modo che i rifugiati “varchino volontariamente” la porta di uscita. L’obiettivo finale dell’Unhcr è quello di chiudere il centro.

    “Qui la gente sta morendo di fame – ha dichiarato indignato un operatore che il Guardian ha, giustamente, mantenuto anonimo – L’Unhcr trattiene deliberatamente i rifornimenti di cibo per obbligare i rifugiati ad andarsene”.

    Tra le persone ospitate nel campo ci sono anche i sopravvissuti all’attentato di Tajoura, avvenuto nello scorso luglio. Uno di questi ha contattato il giornale inglese ha raccontato che l’Unhcr avrebbe offerto piccole somme di denaro ai profughi che intendessero uscire dal programma di assistenza e tentare di vivere da soli a Tripoli. “A parte il fatto che la somma offertaci è ridicola, non si rendono conto che fuori da queste mure noi saremo immediatamente reclutati a forza dalle milizie in guerra civile o rapiti di nuovo dai trafficanti” ha spiegato un sopravvissuto. Solo una settimana fa, la polizia libica ha accoppato un rifugiato eritreo appena uscito del campo di Triq al Sikka dopo aver tentato di rapinarlo.

    “Fuori di questo campo ci attendono solo traffico, abusi e tortura – conclude il sopravvissuto -. Sino a quando l’Unhcr non ci darà una valida alternativa di sopravvivenza, noi non ce possiamo andare”.

    Tre ore dopo la pubblicazione dell’articolo, ci è giunta la replica dell’Unhcr che conferma la “chiusura dei servizi di ristorazione” ma con le motivazioni che potete leggere qui sotto e che, per correttezza, riportiamo integralmente.

    Gentile Riccardo Bottazzo,

    abbiamo letto con dispiacere il servizio pubblicato su Dossier Libia e Melting Pot, in cui lei riprende e rilancia le accuse mosse dal Guardian contro l’UNHCR in merito alla situazione al Centro di Raccolta e Partenza (GDF) di Tripoli.

    Come lei sicuramente saprà, la situazione in Libia è estremamente complessa, e la fondatezza di alcuni rapporti va controllata in quanto si basano su messaggi raccolti non parlando con le persone direttamente, come fa l’UNHCR, bensì via WhatsApp. La giornalista del Guardian il cui articolo lei ha citato non è mai stata in Libia, e non ha verificato le informazioni riportate.

    Voglio innanzitutto chiarire che UNHCR non sta interrompendo l’assistenza verso rifugiati e richiedenti asilo, nonostante le enormi difficoltà che affrontiamo giornalmente nel lavorare in un contesto come quello libico. Come è stato annunciato in un nostro comunicato pubblicato ieri sera, al contrario l’Agenzia sta intensificando il sostegno destinato a rifugiati e richiedenti asilo presenti nelle aree urbane della Libia, anche con l’obiettivo di ridurre la pressione sul GDF.

    Il centro di cui si parla è stato concepito come centro di transito per rifugiati e richiedenti asilo vulnerabili, principalmente donne e minori non accompagnati a rischio elevato in stato di detenzione, per i quali sono già state individuate soluzioni al di fuori della Libia.

    L’UNHCR e i suoi partner operano all’interno della struttura, la quale ricade però sotto la giurisdizione complessiva del Ministero dell’Interno libico.

    Tuttavia, a partire da luglio, in seguito all’attaco aereo che ha colpito il centro di detenzione di Tajoura, centinaia di ex detenuti si sono recati presso il GDF. A fine ottobre, a questi si è aggiunto un altro gruppo di circa 400 persone provenienti dal centro di detenzione di Abu Salim, oltre ad altre 200 persone dalle aree urbane. Delle persone arrivate recentemente la maggior parte sono giovani uomini in salute che hanno situazioni di minore vulnerabilità rispetto ad altri soggetti, come le donne e i minori di cui sopra.

    Il GDF è quindi ora in condizioni di grave sovraffollamento: a fronte di una capacità di circa 600 persone, attualmente ne ospita quasi il doppio. L’UNHCR, insieme ad altre Agenzie delle Nazioni Unite ed altri partner, ha fornito loro assistenza umanitaria, offrendo cure mediche, supporto psico-sociale, pasti caldi e biscotti ad alto contenuto energetico.

    Tuttavia, la situazione presso il GDF non è sostenibile e la struttura non riesce più a funzionare come centro di transito, ostacolando la capacità di UNHCR di evacuare i rifugiati più vulnerabili fuori dai centri di detenzione verso luoghi sicuri.

    Per questo è stato deciso di ampliare il programma di assistenza nelle aree urbane, dove tra l’altro due terzi dei rifugiati e richiedenti asilo sono in grado di trovare lavori saltuari per sopperire ulteriormente alle loro necessità. Chi lascia il centro non viene quindi escluso dall’assistenza, anzi. Tutti coloro che presentano un profilo per cui è necessaria la protezione internazionale continuano ad essere seguiti e il programma di assistenza urbana include sostegno economico diretto, beni di prima necessità, accesso alle cure primarie, visite specialistiche e consulenza con il personale UNHCR per individuare vulnerabilità e soluzioni specifiche.

    Circa 40 persone hanno già accettato quest’opzione e questo non esclude assolutamente la possibilità che possano essere evacuate o reinsediate in futuro qualora la situazione lo richiedesse. A titolo di esempio, a quattro persone che hanno accettato il pacchetto di assistenza urbana è stata riconosciuta l’ammissibilità all’evacuazione umanitaria a seguito dei colloqui di valutazione delle esigenze specifiche.

    Dato l’ampliamento del pacchetto di assistenza urbana, UNHCR eliminerà gradualmente il servizio di ristorazione erogato presso il GDF dall’inizio dell’anno.

    Per l’UNHCR è importante che il GDF possa tornare a svolgere la sua funzione originaria di centro di transito per i rifugiati con le vulnerabilità più gravi, così da poterli evacuare verso luoghi sicuri. Ci sono attualmente centinaia di richiedenti asilo in stato di detenzione che aspettano di essere trasferiti nel GDF in vista dell’evacuazione dalla Libia, ma che non possono andarci a causa del sovrafollamento.

    Confidando nella sua correttezza deontologica professionale, le chiederei cortesemente di rivedere il suo articolo alla luce dei miei chiarimenti. Qualora dovesse avere ancora dei dubbi, sono a disposizione.

    Cordiali saluti

    Carlotta Sami
    Carlotta Sami Regional Spokesperson UNHCR South Europe
  • Mezzo miliardo di euro. Ecco quanto è costato all’Italia mantenere i campi di tortura in Libia negli ultimi due anni
    Le famose dieci motovedette che ci sono costate 250 mila euro l’una, per un totale di due milioni e mezzo di euro, sono solo l’ultimo regalo che il Governo Italiano fa alla guardia costiera libica.


    Le famose dieci motovedette che ci sono costate 250 mila euro l’una, per un totale di due milioni e mezzo di euro, sono solo l’ultimo regalo che il Governo Italiano fa alla guardia costiera libica. Sì, avete letto bene. La Guardia Costiera libica, quella fedele al Governo di Accordo Nazionale del premier Fāyez Muṣṭafā al-Sarrāj. Quella che non soltanto inchieste giornalistiche o denunce di associazioni per i diritti umani ma anche processi giudiziari e rapporti di osservatori dell’Onu hanno indicato come un’organizzazione in mano a criminali che gestisce la tratta dei migranti. Proprio quella marina che minaccia le navi delle Ong, riporta i profughi dentro gli inferni dei campi di concentramento, quando non li lascia morire in mare o li accoppa direttamente a fucilate, come è recentemente accaduto ad un profugo sudanese. E’ cambiato il Governo non è cambiata la politica italiana nel Mediterraneo. L’Italia ha regalato altri due milioni e mezzo di euro a dichiarati trafficanti di uomini come il noto Abdul Rhaman Milad meglio conosciuto come Bija, appena riconfermato a capo della Guardia costiera, dopo un breve allontanamento dovuto agli scandali sollevati dalle pesantissime accuse dei funzionari delle Nazioni Unite.

    Un altro regalo milionario ad un regime criminale che, oramai nessuno si azzarda a negarlo, basa la sua forza sul traffico di armi, petrolio ed esseri umani ed è responsabile di torture, stupri, uccisioni e continue violazioni dei diritti umani.

    Ma lasciamo perdere l’aspetto umano, per una volta almeno, e chiediamoci soltanto questo: quanto costa al nostro Paese finanziare questo circo dell’orrore?

    Una domanda alla quale non è affatto facile rispondere. E il primo motivo è che il nostro Governo – e parliamo tanto del Conte 1 che del Conte 2 che dei precedenti – non vuole che queste rendicontazioni vengano alla luce. I legali dell’Asgi, l’associazione studi giuridici sull’immigrazione, avevano inoltrato una formale richiesta di trasparenza a riguardo al ministero degli Affari Esteri. E’ notizia di due settimane fa che il Tar del Lazio abbia respinto tale domanda. I contribuenti italiani non possono sapere come il ministero spende i loro soldi in terra libica.

    Per avere una idea di quanto ci costa mantenere i torturatori libici, altro non resta da fare che buttare giù due “conti della serva”.

    Lo ha fatto, e bene, una inchiesta pubblicato su Euronews ad opera del collega Lillo Montalto Monella secondo cui “risulta che negli ultimi due anni l’Italia ha messo nel piatto libico quasi 475 milioni di euro, di cui 100 milioni provenienti da Bruxelles”.

    Quasi mezzo miliardo di euro in due anni! E, come se non bastasse, si tratta di una cifra di sicuro sottostimata. Se non altro perché si riferisce ai finanziamenti regalati ad una sola delle fazioni in guerra, quella del tripolitana di al-Sarrāj. Ma l’Italia, grazie agli accordi dell’allora ministro Marco Minniti, ha offerto finanziamenti, sia pure minori, anche alle milizia di Haftar. Quanti soldi? Non si sa. La guerra in corso impedisce una gestione trasparente delle spese, spiegano al ministero. E questo è vero. Ma, casomai, dovrebbe costituire un motivo per cui non concedere questi finanziamenti!

    Da sottolineare che, per lo più, questa vagonata di denaro che lascia l’Italia per le sanguinose coste libiche viene contrabbandata sotto voci del tipo: “investimenti per lo sviluppo” o “aiuti umanitari”.

    Quattro sono le principali strade per cui il nostro Paese finanzia le atrocità libiche.

    La prima strada passa per il Viminale. Il Ministero ha ricevuto 46 milioni di euro nel 2017 e 45 nel 2018 dalla voce che l’Europa ha destinato all’Africa “per lo sviluppo”. Altri 200 milioni vengono dal fondo italiano per l’Africa istituito nel 2017. Soldi destinati alla “cooperazione” da cui è stato prelevato il denaro per la messa in cantiere di 4 motovedette che vanno ad aggiungersi a 30 fuoristrada e 10 autobus speciali. Tanto per rimanere nei “regali” degli ultimi due anni.

    Poi ci sono i finanziamenti dei progetti italiani destinati alla cooperazione. Beneficiari sono associazioni come Cesvi, Emergenza Sorrisi, Helpcode, Cir e altre. A loro spetta la parte minore della “torta”. Appena 6,7 milioni di euro nell’ultimo anno. Certo, alcune di questa Ong svolgono un lavoro importante. Ma il loro impegno all’interno di campi di concentramento in cui la legalità non è neppure contemplata sulla carta, va per forza di cose oltre i limiti di una rendicontazione trasparente. Non è la prima volta che viene documentato come i generi di prima necessità portati da queste ong all’interno dei campi, vengano vendute dalle guardie al mercato nero o agli stessi profughi. Il punto che, come Dossier Libia, vorremmo ribadire è che in un campo di prigionia dove si pratica quotidianamente la tortura e lo stupro, non ci sono politiche di mitigazione che tengano. La struttura va chiusa, i prigionieri trasferiti in un luogo sicuro. Punto e basta.

    Oim, Unhcr e Unicef sono sostenuti dall’Italia con 30 milioni di euro prelevati dal sopracitato fondo per l’Africa. Gli accordi prevedono una generica partnership senza particolari richieste da parte del nostro Governo. In altre parole, l’Italia paga la sua parte senza stare a fare troppe domande su come vengono spesi questi soldi.

    Ma la voce spese più cospicua è senz’altro quella delle missioni militari. Missioni che vengono sempre definito “umanitarie”, naturalmente. Si tratta di supporti tecnici o militari, operazioni di assistenza con impiego di personale italiano e di mezzi dell’esercito e della marina come, per fare un esempio, “Mare sicuro”. Su questo capitolo l’Italia ha investito ben 325 milioni di euro dal 2017 ad oggi. Col solo risultato che in Libia si continua a torturare, violentare e uccidere più di prima! E qualcuno sosterrà che sono spese necessarie per “difendere i confini della nazione”.
  • Nel campo di Zawiya niente cibo e niente acqua ai migranti in rivolta. Colpito in testa anche un bambino di pochi anni
    Ancora violenze al campo profughi di Zawiya, Libia. Un bambino di pochi anni è stato ripetutamente colpito alla testa durante la repressione della rivolta verificatasi nella notte di martedì 27 agosto.
    Ancora violenze al campo profughi di Zawiya, Libia. Un bambino di pochi anni è stato ripetutamente colpito alla testa durante la repressione della rivolta verificatasi nella notte di martedì 27 agosto. Secondo fonti interne al campo, la sommossa è stata provocata dal riconoscimento da parte di un gruppo di etiopi di un presunto aguzzino da cui avevano subito torture in un campo del sud del Paese dove erano stati precedentemente rinchiusi. Per tutta risposta, i responsabili del centro hanno punito i rivoltosi impedendo la distribuzione di acqua e di cibo. 
    Sempre martedì 27, sono stati riportati nel campo un gruppo di uomini e di donne ripresi dalla guardia costiera dopo che questi avevano tentato di fuggire dal Paese. Come da prassi consolidata, questi sono stati rinchiusi per punizione nella parte chiusa della struttura, quella non accessibile neppure al personale dell’Unhcr, laddove vengono praticate le torture. In questa zona, le famiglie vengono sempre divise. Uomini e donne possono ricongiungersi solo per le canoniche tre ore di aria al giorno.
    Racconti di una ferocia inaudita trapelano quotidianamente dalle zone inaccessibili dei centri di detenzione libici. Racconti che, nonostante le denunce degli attivisti per i diritti umani e delle Ong, si scontrano contro il muro di indifferenza con il quale l’Europa ha circondato le sue frontiere.
    “Abbiamo inoltrato stamattina agli uffici dell’Unhcr una richiesta di verifica delle condizioni del bambino e di eventuali altri feriti e siamo in attesa di una risposta – commenta Yasmine Accardo, portavoce della Campagna LasciateCIEntrare -. Per conto nostro, ribadiamo ancora una volta che i lager libici vanno chiusi e le persone liberate, concedendo dei visti umanitari e aprendo un canale aereo affinché possano al più presto raggiungere luoghi sicuri”.
  • Verso le coste di Zarzis, verso il muro della fortezza Europa dove si spiaggiano i cadaveri dei migranti
    Il gruppo internazionale Europe Zarzis Afrique lancia una carovana in Tunisia e ai confini con la Libia per denunciare gli orrori cui sono sottoposti i migranti ed avviare progetti di solidarietà
    A Zarzis si arriva, si parte e si muore. Sulle bianche sabbie che buttano a mare della cittadina sono rimasti ancora degli ombrelloni a testimoniare un trascorso turistico neppure troppo lontano. Siamo in Tunisia, nel governatorato di Médenine, nella costa sud. Zarzis, poco più di 70mila abitanti, è vicina, troppo vicina al confine con la Libia. Sulle sue strade arrivano i profughi in fuga da quello che oramai viene comunemente chiamato come l’inferno libico. Una sosta obbligata che può durare mesi o anche anni prima di riprendere un viaggio ancora lungo, verso una meta che forse non vedranno mai. 
    Le onde che lambiscono le belle spiagge dove un tempo si abbronzavano i turisti oggi depositano quasi quotidianamente
    cadaveri. Corpi semilavorati dal mare e dalla salsedine che un tempo erano uomini, donne e bambini. Sono i corpi dei migranti in fuga dalla Libia. Migranti fatti salpare per lo più dal porto di Zuwara (o Zuara), sopra scassati gommoni che non hanno retto l’impatto del mare. Un mare dove le navi delle Ong, scientificamente criminalizzate da una politica senza più vergogna, sono sempre più rare. 
    Ogni giorno, la gente di Zarzis ed i volontari della
    Mezzaluna Rossa battono la spiaggia per raccogliere i cadaveri e portarli in cimiteri senza nome. Becchini loro malgrado, seppelliscono ciò che l’Europa non vuole vedere. 
    Vittime innocenti dell’esternalizzazione e della militarizzazione della frontiera europea, i migranti in fuga non fanno oramai notizia se sono morti. Quando sono vivi, quando riescono a sopravvivere alle torture e al mare, vengono trasformati in carne da “talk show” da una politica che ha superato tutti i livelli di spudoratezza e che punta a
    fascistizzare l’Europa cavalcando paure immotivate e fake news. Chi soccorre i migranti, viene indicato come il pericolo numero uno per la “patria”, la “razza”, l’“identità nazionale”. Lo scorso agosto, alcuni pescatori di Zarzis furono fermati in mare, in acque internazionali, da una motovedetta italiana, condotti ad Agrigento ed arrestati. L’accusa era quella di aver soccorso in mare una barca con 29 profughi che stava naufragando. Il 19 giugno, un’altra barca di pescatori tunisini si era azzardata a soccorrere 75 migranti su una imbarcazione che stava affondato. Le loro richieste di aiuto erano state ignorate dalle autorità marittime italiane e maltesi. Per venti giorni sono stati abbandonati in mare prima che la Tunisia concedesse il permesso di sbarco. 
    Nonostante tutto questo, i pescatori di Zarzis continuano a
    salvare la gente. “Quando in mare vedi 100 o 120 persone che stanno per annegare cosa fai? – ti chiede Slaheddine Mcharek, un pescatore tunisino – pensi solo a come puoi metterli in salvo, anche se non è facile!”.
    Sono in tanti a Zarzis a pensarla come
    Slaheddine. Volontari di associazioni umanitarie, donne e uomini che non si rassegnano ad un mondo in cui domina la violenza. Ed è proprio per incontrare queste persone che si è costituito il gruppo internazionale “Europe Zarzis Afrique” e gettare un ponte ideale tre le due sponde dello stesso mare. Nato nel 2011 dalla lotta delle famiglie tunisine che chiedevano verità sulla scomparsa dei loro figli partiti per l’Europa, il gruppo informale Europe Zarzis Afrique ha costruito un percorso che è riuscito a superare ogni confine. Non solo quelli d’Europa. Pensiamo solo alla partecipazione all’incontro “Cumbre Mundial de Madres de Migrantes Desaparecidos” svoltosi a Città del Messico nel novembre del 2018.
    Sul sito di “
    Europe Zarzis Afrique” potete trovare tutte le informazioni sugli obiettivi e la carovana e anche la possibilità, se potete, di sostenere economicamente il progetto con un piccolo contributo anche di un solo euro. Il prossimo appuntamento lanciato da Europe Zarzis Afrique sarà proprio Zarzis, da giovedì 1 a lunedì 5 agosto, per una serie di laboratori di scambio politico e progetti di economia alternativa a sostegno delle comunità locali e una marcia al confine con la Libia.
    Dossier Libia parteciperà alla carovana, assieme agli amici di Carovane Migranti, Melting Pot e di Ya Basta Êdî Bese. Arriveremo a Zarzis da
    Tunisi, seguendo a ritroso le tracce dei profughi in fuga verso l’Europa. Perché oggi più di ieri il silenzio è complice e neppure noi, proprio come la gente di Zarzis, vogliamo rassegnarci ad un mondo in cui domina la violenza. 
  • Il campo di Zawuya è sotto attacco!
    Le persone all’interno tra cui molte famiglie con bambini da tempo attendono un lasciapassare per uscire dalla Libia
    A Zawuya si spara. Come attivisti di LasciateCIEntrare e di DossierLibia riceviamo da tempo segnalazioni dal campo. In queste ultime settimane le richieste di aiuto, le denunce si sono intensificate, così come le morti e le violazioni dei diritti umani. Il conflitto tra le milizie cirenaiche di Haftar e quelle del Governo unità Nazionale di Tripoli si stava avvicinando anche al campo profughi. Oggi abbiamo ricevuto come testimonianza diretta, l’audio degli spari a raffica alle porte del centro di detenzione.

    Le persone all’interno tra cui molte famiglie con bambini da tempo attendono un lasciapassare per uscire dalla Libia, in troppi da oltre 4 anni passano da un centro detentivo all’altro, da una lista all’altra senza mai uscire dall’inferno libico. Prima le torture e gli abusi, poi l’imprigionamento ad oltranza. In tanti hanno protestato a Zawuya per la situazione sempre più insostenibile nel centro: l’acqua a pagamento, la mancanza di viveri, la reclusione in aree all’interno prive di accesso in cui sono state uccise un numero imprecisato di persone riportate indietro dal mare. Uomini, donne, bambini coraggiosi che nonostante la convivenza con i carnefici continuano a protestare ed inviare tutto ciò che sta accadendo, sperando di sopravvivere.
    “I don’t know of what freedom you are speaking about. 
    But i will do all i can to make everybody free from this prison. for me there is not future in the world and here you can die in each second”. Queste le parole che ci ha scritto una delle persone che sta provando in ogni modo a chiedere giustizia.
    Ora la guerra è arrivata anche alle porte di Zawuya. E certo non è un evento che possiamo dire inatteso.
    Ci appelliamo al Parlamento ed al Consiglio d’Europa, al Governo Italiano e ai governi europei perché diano il via con urgenza all’evacuazione dalla Libia. Avrete anche solo un pizzico di quel coraggio che ha ogni singolo uomo donna o bambino detenuto in Libia o che prova ogni giorno a sopravvivere agli attacchi ? 
    Evacuazione subito! Canali umanitari per tutti!
  • Acqua solo a pagamento. A Zawiya ora si muore anche di sete
    DossierLibia lancia un appello perché vengano aperti immediatamente dei corridoi umanitari
    Nel campo di Zawiya non arriva più acqua da due giorni. Quella poca che c’è, è gestita dagli aguzzini che la offrono solo a pagamento. Da tempo, ancora da prima dello scoppio del conflitto civile, organizzazioni non governative e operatori umanitari dell’Onu, hanno denunciato le terrificanti condizioni di vita dei richiedenti asilo rinchiusi in questo centro di detenzione e sottoposti a trattamenti inumani. Con la guerra, la situazione è ulteriormente peggiorata. I migranti sono pressoché abbandonati a se stessi, in balia della brutalità delle milizie e facili prede di malattie che si potrebbero curare con un semplice antibiotico. Non sono più garantiti i regolari rifornimenti di viveri. A Zintan, in mezzo a montagne di spazzatura ed escrementi, l’agenzia di stampa AP News ha riportato che almeno 20 persone sono già morte di fame. Un bombardamento aereo, due giorni or sono, ha ucciso almeno 40 persone nel campo di Tajoura
    Contatti interni al campo di Zawiya, ad est di
    Tripoli, ci hanno chiesto disperatamente aiuto. Da due giorni non hanno più una sola goccia di acqua da bere. Non tutti hanno il denaro sufficiente per acquistare qualche bottiglia. Nel campo ci sono anche famiglie e minori. Molti di questi profughi sono stati trasferiti a Zawiya da altri campi e patiscono la detenzioni libica da più di 4 anni. Un inferno di cui ancora non vedono la fine. Dossier Libia lancia un appello all’Unhcr, ai Governi e alla società civile perché disponga senza indugi l’evacuazione del campo.
    Non lasciamoli morire di sete.

    Segue il testo dell’appello

    Lasciateli partire!

    In LIBIA si sta consumando un nuovo genocidio. E’ di fronte alle nostre coste, di fronte ai nostri occhi e alle nostre responsabilità. Fino a qualche anno fa nel Mediterraneo capi di Stato e religiosi commemoravano le vittime ed i morti dei naufragi, affermando di fronte alle telecamere MAI PIU’.
    Gli ultimi Governi si sono illusi e hanno creduto possibile il “governo” di quell’area, hanno organizzato
    Summit ed incontri con i leader politici, hanno istruito guardie costiere e fornito imbarcazioni, soldi e lasciapassare, più utili alle imprese nostrane che alla salvaguardia di uomini e donne e bambini condannati all’inferno libico. 
    Nei lager libici si stupra e si
    tortura, si ricatta e si violenta, sono all’ordine del giorno le condanne dell’ONU e le richieste di aiuto, video e materiali che la campagna LasciateCIEntrare e DOSSIER LIBIA ricevono quotidianamente. Durante il Governo Gentiloni e l’attività dell’ex ministro dell’Interno Marco Minniti, lanciammo la prima delle nostre infinite denunce, #NOI VI ACCUSIAMO.
    In questi due anni non solo si è continuato a perpetrare l’orrore sul corpo di migliaia di persone, le ONG che riescono ad entrare sono testimoni di quello di cui l’
    Europa ed il nostro Paese sono completamente corresponsabili.
    Il ministro dell’Interno,
    Matteo Salvini, nostalgico delle operazioni di pulizia etnica che segnano i peggiori regimi fascisti e populisti, chiude i porti e stringe la mano a torturatori ed assassini, ai veri trafficanti di uomini mentre invoca la galera per i soccorritori di vite umane, sprezzante dei trattati internazionali e violando anche il nostro dettato costituzionale.
    Mentre nei centri di detenzione si muore di
    fame, di sete e, da ieri, anche delle bombe e dei raid aerei, noi continueremo a denunciare l’indifferenza degli Stati e dei governi, denunciando le responsabilità dirette delle istituzioni ipocrite. Chi uccide con marche da bollo e protocolli, non è meno colpevole di chi uccide con le armi o con la violenza. 
    Chiediamo che vengano immediatamente aperti dei
    canali umanitari e sicuri verso l’Europa e che l’Europa abbatta i suoi muri, interni ed esterni, coinvolgendo tutti i suoi Stati membri in un piano di accoglienza che superi tutti i confini. 
    Ci appelliamo alla società civile, agli uomini e alle donne, agli intellettuali e a chi non vuole arrendersi di fronte a questa tragedia umana e politica. Ci appelliamo per combattere l’indifferenza, perché le violazioni dei diritti umani e le inutili
    sofferenze di tanti uomini, di tante donne e di tanti bambini cessino immediatamente.
  • Bombardato il centro di detenzione di Tajoura. Almeno 40 migranti uccisi. Almeno il doppio i feriti
    Non si capisce comunque come un campo profughi possa essere ritenuto un “obiettivo selezionato”.
    Il centro di detenzioni di Tajoura, a pochi chilometri ad est di Tripoli, è stato sottoposto ieri ad un violento bombardamento aereo. Secondo Malek Merset, portavoce del Governo di Alleanza Nazionale guidato dal presidente Fayez al-Serraj, l’attacco sarebbe da attribuire alle milizie del generale Khalifa Haftar che nei giorni scorsi aveva annunciato “decisivi raid aerei su postazioni selezionate” per fiaccare la resistenza degli uomini di al-Serraj. Una quarantina di migrati – tra uomini, donne e bambini – sono rimaste uccisi. Almeno il doppio i feriti gravi.
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    In questo centro, che per il nostro Governo continua ad essere “sicuro”, sono stati portati una 90ina di migrati ricatturati dopo un respingimento in mare il 27 giugno operato dalla guardia costiera libica.
    Sempre Malek Merset ha assicurato che i feriti sono stati trasportati in ospedale d’urgenza. Non abbiamo comunque conferma di queste operazioni di assistenza da parte di organizzazioni non governative che, da tempo, hanno denunciato come i migranti del campo di Tajoura come di altri campi libici siano “abbandonati a se stessi” e privati addirittura di rifornimenti regolari di cibo e acqua tanto che almeno una ventina sono morti di fame. Inascoltati, sino ad oggi, tutti gli appelli delle associazioni umanitarie ad evacuare i profughi da queste strutture carcerarie che si sono rivelate delle camere di tortura ed ora, in pieno conflitto civile, anche delle trappole mortali.
    Da parte dei portavoce del generale Haftar non è ancora arrivata una smentita. Non si capisce comunque come un campo profughi possa essere ritenuto un “
    obiettivo selezionato”, se non come pressione politica all’Europa. A Tajoura ci sono caserme abbandonate e la sede di una accademia militare che però non sono state sfiorate dal bombardamento. Nelle vicinanze ci sono anche importanti impianti petroliferi gestiti da Eni e da Libyan Oil Company che continuano a funzionare a pieno regime. Neppure questi sono stati bombardati. La guerra si combatte per il petrolio. I pozzi e gli impianti di estrazione e di trasporto sono i posti più sicuri dell’intero Paese.
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  • L’accordo con la Libia è illegittimo. Lo afferma il Tribunale di Trapani che assolve i migranti della Vos Thalassa per “legittima difesa”
    Erano accusati di ammutinamento e aggressione ma il giudice ha stabilito che è lecito ribellarsi contro chi ti vuole riconsegnare ai tuoi torturatori
    Si sono fatti 10 mesi di galera, ma alla fine il tribunale li ha mandati a casa con assoluzione piena. Stiamo parlando dei due migranti, un ghanese e un sudanese, accusati di aver fomentato la rivolta a bordo della nave Vos Thalassa che stava tentando di riportarli in Libia. Ma la notizia vera sta tutta nelle motivazioni della sentenza di assoluzione, emessa dal giudice Piero Grillo del tribunale di Trapani: settanta pagine in cui si invoca per i “rivoltosi” il diritto alla legittima difesa, in quanto l’intenzione di riconsegnarli alla Guida Costiera libica e, di conseguenza, alle carceri inumane in cui erano detenuti era una evidente aggressione nei loro confronti e la loro reazione perfettamente legittimata. 
    Ma c’è di più. La sentenza prende in esame anche il comportamento del comandante della
    Vos Thalassa la cui condotta viene definita “non giusta, ma semplicemente scusata”. L’uomo infatti si era conformato alle disposizioni del Viminale che gli aveva ordinato di riconsegnare i migranti ai loro torturatori libici. Se per un comandante, obbedire agli ordini, anche quando non sono giusti, può considerarsi giustificabile, scrive il giudice, ancor di più è comprensibile e legittima la ribellione dei migranti a bordo, considerando che – e questo è il punto focale della sentenza del tribunale – il famoso accordo tra Italia e Libia voluto dal ministro Marco Minniti è da ritenersi non legittimo, in quanto non è stato mai ratificato dal Parlamento (passaggio obbligatorio per ogni trattato internazionale), non rispetta la convenzione Sar sui salvataggi in mare, e viola esplicitamente i fondamentali i diritti umani dei profughi in fuga da un Paese che certo non può essere considerato sicuro. La sentenza insomma, afferma senza tanti giri di parole che le navi italiane non possono e non devono riconsegnare i profughi alla famigerata Guardia Costiera libica. 
    La storia risalente allo scorso luglio della Vos Thalassa, nave di proprietà della società olandese
    Vroom ma battente bandiera italiana, era stata usata dalla propaganda sovranista per sottolineare la presunta pericolosità dei migranti in fuga dalla Libia. I 67 migranti raccolti a bordo, secondo la ricostruzione del Viminale, avrebbero violentemente aggredito i marinai del cargo colpevoli solo di volerli riconsegnare al paradiso libico, ed avrebbero “dirottato” (termine usato dal ministro Matteo Salvini) da autentici pirati la nave verso le coste italiane. Una bufala smentita dallo stesso comandante della nave e dai marinai di bordo che, hanno dichiarato, non sono stati vittime di nessuna violenza o aggressione pur se i migranti erano decisi a non lasciarsi riconsegnare nelle mani dei torturatori libici. Probabilmente, il rischio di un possibile ammutinamento fu cavalcato dalla Vos Thalassa per sollecitare l’intervento della nave costiera italiana Diciotti e risolvere la situazione senza perdere troppo tempo, cosa che poi accadde. La nave infatti era impegnata nel suo quotidiano lavoro di assistenza alle piattaforme petrolifere e, dopo aver svolto il suo dovere di salvare i naufraghi, non aveva voglia di perdere troppo tempo in estenuanti battibecchi da campagna elettorale col Viminale. Fatto sta che i migranti appena sbarcati nel suolo italico furono accusati di aggressione e di violenze e, due di loro, furono tradotti in carcere sino alla piena assoluzione da parte del tribunale di Trapani
    Da sottolineare che la sentenza del giudice Grillo adopera un concetto tanto caro ai sovranisti come quello di
    legittima difesa.  Se questa va applicata contro il pluri citato “ladro che ti entra in casa”, tanto più va usato contro chi ti vuole riconsegnare ai tuoi torturatori!
  • Dopo la guerra, l’inondazione. Ghat, la città del deserto, spazzata via da tre giorni di impossibile pioggia
    Secondo The Libya Observer, i morti accertati sarebbero 4 ma migliaia di persone mancano all’appello e più di 628 famiglie (2500 persone circa) sarebbero ancora bloccate nella città.
    Ghat era una città del deserto. Sorgeva nel sud ovest della Libia, a pochi chilometri dall’Algeria. Scriviamo “sorgeva” perché è stata spazzata via da una inondazione. Tre giorni di pioggia incessante in una città del Sahara che sapeva a malapena cosa fosse una precipitazione. Tre giorni di pioggia che hanno inondato d’acqua tutte le strade, abbattuto mura e costretto la popolazione a cercare rifugio nelle alture. Tre giorni di pioggia che non sono ancora finiti. Il meteo prevede “precipitazioni abbondanti” tanto oggi quanto domani. E se questo non è un segnale del clima che cambia, ditemi voi cosa è. 
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    Secondo The Libya Observer, i morti accertati sarebbero 4 ma migliaia di persone mancano all’appello e più di 628 famiglie (2500 persone circa) sarebbero ancora bloccate nella città. La linea elettrica è saltate e le comunicazioni difficili. Si teme un’emergenza sanitaria perché Ghart è rimasta anche senza rete idrica e l’acqua potabile si è mescolata con quella piovana. Nessuna notizia giunge da molti villaggi che sorgevano nelle vicinanze di Ghat e che sono stati colpiti dall’inondazione. 
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    La guerra in corso, rende praticamente impossibile organizzare gli interventi di soccorso. I nostri contatti in loco, ci raccontano che molti volontari libici si stanno recando a Ghat per prestare soccorso alla popolazione ma la guerra in corso, l’assenza di presidi di associazioni umanitarie come la Croce Rossa, rende praticamente impossibile pianificare razionalmente gli interventi.
     
    (Le immagini ci sono state spedite da un nostro contatto a Ghat. La bassa qualità è dovuta alle difficoltà di connessione)
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  • Fame, tubercolosi, violenza: nei campi libici si muore ammazzati. E l’Italia è complice
    Il mese scorso una milizia libica, non viene precisato di quale fazione, ha fatto irruzione nel centro di detenzione, Qasr bin Ghashir, nei pressi di Tripoli sparando all’impazzata tra i rifugiati, accoppando almeno due persone e lasciando a terra più di una ventina di feriti
    Migliaia di rifugiati detenuti in centri di detenzione libici nei pressi di Tripoli è in serio pericolo a causa della guerra. Lo afferma un documento interno di Onu ripreso dal giornale inglese The Guardian. 
    Secondo l’Unhcr, l’agenzia Onu per i rifugiati, e l’organizzazione, almeno 3.919 dei 5.378 detenuti (dato “ufficiale” riferito al 29 maggio, e sicuramente in difetto perché in molti campi la registrazione dei migranti è quantomeno approssimativa) sono soggetti particolarmente vulnerabili come bambini o malati.  
    Molti di questi migranti che cercavano di attraversare il Mediterraneo verso l’Europa sono stati ricatturati dalla guardia costiera libica che – sottolinea documento delle nazioni Unite – è “finanziata dall’Unione Europea” e riportata nei centri di detenzione.
    Sempre secondo il rapporto Onu, 4.148 di quei rifugiati in Libia sono costretti a vivere  in aree di forte pericolo come Tripoli o al nord-ovest. Più di un quarto  di questi (27%) sono minori, tra cui molti neonati e bambini piccoli.
    L’Unhcr ha lanciato un appello – sino ad oggi inascoltato – per l’evacuazione  di tutti questi rifugiati. Cibo e acqua scarseggiano, infezioni e malattie come la tubercolosi si stanno diffondendo rapidamente. 
    Sempre The Guardian ha riferito che il mese scorso una milizia libica, non viene precisato di quale fazione, ha fatto irruzione nel centro di detenzione, Qasr bin Ghashir, nei pressi di Tripoli sparando all’impazzata tra i rifugiati, accoppando almeno due persone e lasciando a terra più di una ventina di feriti sulla cui sorte non si hanno notizie. 
    Dopo il raid, molte rifugiati sono stati evacuati verso il centro di detenzione di Zintan, al nord-ovest della Libia. Ma anche qui le condizioni non sono migliori: tubercolosi, infezioni toraciche, fame  hanno ucciso 22 persone negli ultimi sette mesi. 
    I rifugiati sono riusciti a far girare all’esterno filmati che testimoniano la presenza di montagne di spazzatura all’interno del centro con la gente costretta a dormirci accanto, tra infestazione di vermi e altri insetti. Un rapporto interno destinato all’Alto commissario Onu per i rifugiati (Acnur) ha identificato 744 delle 754 persone presenti a Zintan come persone di vulnerabili. 
    “I dati sui decessi nel centro di detenzione di Zintan sono profondamente preoccupanti – ha dichiarato un portavoce dell’Unhcr – . Ma tanto a Zintan, quanto negli altri centri di detenzione, i rifugiati stanno sopportando condizioni  di vita terribili. I detenuti sono lasciati senza cibo e acqua. Servizi igienici e docce sono rotti. Vengono negate le cure mediche e un focolaio di tubercolosi si sta diffondendo velocemente. È fondamentale che tutti queste persone vengano evacuate immediatamente”.
    Giovedì scorso – nel silenzio totale del Governo italiano che continua a blaterare di “porti chiusi” ed a rifiutarsi di uscire da una campagna elettorale permanente per affrontare seriamente la questione dei rifugiati –  l’Unhcr è riuscito a portare a Roma 149 rifugiati vulnerabili, tra cui 65 bambini. Sam Turner, capo dei Médecins Sans Frontières della missione in Libia, ha raccontato: “il livello di sofferenza in centri di detenzione libici è aumentato significativamente dall’inizio di combattimento nei pressi di Tripoli. La fornitura di cibo, che era già scarsa prima della guerra, è diventata ancora più scarsa. Molte persone semplicemente non hanno niente da mangiare da giorni”.
    Giulia Tranchina, una avvocata del Wilsons Solicitors specializzata in diritti umani del Wilsons Solicitors, che fa da riferimento via WhatsApp a tanti rifugiati in Libia, ha lanciato un appello ai Governi Europei e all’Italia perché smettano di finanziare quei criminali della guardia costiera libica ”a meno che non vogliano essere un giorno accusati di complicità con chi ha causato terribili sofferenze e la morte lenta di centinaia di uomini, donne e bambini”. 
  • In Libia, combattono anche i bambini
    Fonti giornalistiche riportano selfie di minori con fucili in mano, pronti a combattere “per l’anima della patria”
    Bambini soldato nel conflitto libico. Alcuni giornali europei hanno riportato dei selfie provenienti dai dintorni di Tripoli ritraenti minori vestiti con la mimetica e con armi in mano. Le immagini li ritraggono seri e fieri, mentre si apprestano a raggiungere il fronte e combattere “per l’anima del paese”, come un ragazzino con un mitra in mano ha commentato la sua immagine. 
    Non possiamo neppure dire che sia una novità, considerando che l’uso di minori nei conflitti armati è una pratica comune tanto in Africa come in altri Paesi del Sudamerica o dell’Asia. Secondo una stima dell’Unicef, dichiaratamente per difetto, sarebbero almeno 2 milioni e mezzo i minori arruolati in tutto il pianeta. La Libia non fa eccezione. Le armi moderne, per quanto letali, sono leggere e maneggevoli. Anche un bambino di 10 anni riesce ad adoperarle. Non serve, come nelle guerre passate, avere un fisico da uomo o saper lottare all’arma bianca per andare in guerra e provare ad accoppare qualcuno. A sparare con un kalashnikov ultimo modello o a tirare una bomba son buoni tutti. 
    I minori, in questo senso, sono una “merce” perfetta per gli eserciti in lotta: facili da addestrare e da indottrinare, facili da portare alla disperazione e al fanatismo con la promessa che, una volta in  paradiso, troveranno quella felicità che gli è sempre stata negata in terra. Sono soldati perfetti, i bambini. Soldati che non sanno cosa sia la pietà perché, nella loro breve vita, nessuno ne ha mai avuta per loro. Soldati facilmente rimpiazzabili perché un bambino soldato costa molto, molto meno di un mercenario adulto. Soldati ideali diventare carne da cannone. 
    Il loro impiego nel conflitto in corso in Libia, oltre che da quegli sciagurati selfie, viene anche da una fonte giornalistica di al-Sharq al-Awsat che ha riportato come qualche giorno fa tre bambini soldato siano stati ammazzati nei pressi di Misurata.
    Ma quali delle due principali fazioni in guerra stanno reclutando minori? Tanto le milizie di Haftar che le forze fedeli al governo di Fayez al-Serraj si lanciano a vicenda l’accusa di adoperare bambini negli scontri. La verità è che entrambi gli schieramenti non ci perdono il sonno nel reclutare tutto quanto si può reclutare, compresi anche i migranti presenti nei campi di detenzioni ai quali sarebbe stata promessa la “libertà” in cambio dell’arruolamento. Il giornale on line Periodico Daily riporta le interviste di alcuni abitanti di Sharq al-Awsat che hanno denunciato come “entrambi gli schieramenti, spingono la maggioranza della popolazione giovanile ad andare in guerra”. 
    Arruolamenti forzati di minori, comprati dalle famiglie stremate o raccattati tra gli orfani che ti seguono per un pezzo di pane. Oppure arruolamenti indotti con la persuasione facendo leva su convinzioni patriottiche o religiose. E anche queste sono storie che, purtroppo, abbiamo già sentito e scritto per tante altre guerre del mondo. La Libia, come abbiamo detto, non fa eccezione, ma la responsabilità dell’Europa e dell’Italia, stavolta, pesa come un macigno. 
  • A Zintan si muore di fame
    Un tweet di Giulia Tranchina denuncia che da due giorni i rifugiati – uomini, donne e anche bambini – sono stati abbandonati senza cibo né acqua.
    Drammatiche notizie ci giungono dal campo di detenzione di Zintan, nel nord-ovest della Libia. Un tweet di Giulia Tranchina denuncia che da due giorni i rifugiati – uomini, donne e anche bambini – sono stati abbandonati senza cibo né acqua. Negli ultimi due mesi, già una ventina di persone di questo campo sono morti di tubercolosi o semplicemente di fame e di stenti. “Hanno urgente bisogno di assistenza e di essere evacuati – afferma l’avvocata specializzata in diritti umani – Stanno patendo abusi sistematici e costretti a vivere in condizioni disumanate”: Non rimaniamo in silenzio. La mancanza di segnalazioni dai campi che si registra in questi ultimi tempi è dovuta al sequestro dei cellulari da parte delle guardie e dalla mancanza di energia elettrica per la ricarica. Ma questo silenzio testimonia solo che le condizioni in cui versano i migranti sono terrificanti. 
  • L’inferno della Libia è la vergogna dell’Europa
    “Ci promettono la libertà ma nessuno gli crede. Mi hanno già venduto come schiavo troppe volte. Non voglio combattere per coloro che mi hanno torturato” (Scritto per il giornale on line 15121)
    “Le guardie sono scappate e ci hanno abbandonati in questa prigione. Non abbiamo cibo né acqua, aiutateci, abbiamo bisogno dell’intervento dell’Unhcr”. “Abbiamo supplicato i soldati di portarci del cibo e dell’acqua. Qui ci sono almeno un centinaio di bambini e di donne in gravidanza. Per tutta risposta ci hanno picchiato a sangue”. Sono solo alcuni dei terrificanti messaggi che i profughi del campo di Zintan hanno lanciato sugli Alarm Phone. Nelle altre strutture le cose non vanno meglio. Qaser Ben Gashir è stato trasformato in una caserma di arruolamento forzato. Al “Paese sicuro”, come solo Matteo Salvini oramai si ostina a definire, serve carne da cannone. “Arrivano con camionette cariche di fucili e ci obbligano a indossare vecchie divise. Ci mettono in mano delle armi che non sappiamo neppure come si chiamano e ci dicono che dobbiamo combattere. Noi non vogliamo ma i soldati ci minacciano”. “Ci promettono la libertà ma nessuno gli crede. Mi hanno già venduto come schiavo troppe volte. Non voglio combattere per coloro che mi hanno torturato”.
    Tutta la zona attorno a Tripoli è teatro di aspri combattimenti. Le milizie del presidente Fāyez al-Sarrāj stanno abbandonato il campo e il generale Haftar ha oramai la strada spianata verso la Capitale. La conquista della Libia oramai, più che una questione militare, è una questione politica. Haftar deve farsi accettare dalla Comunità Europea, oltre che dalla Francia che lo ha sponsorizzato sino dall’inizio. Proprio per questo ha incaricato il suo portavoce, il generale Ahmed Al-Mismari, di denunciare i presunti aiuti militari che alcuni Paesi Europei – a questo proposito il quotidiano
    The Malta Independent cita espressamente l’Italia – stanno fornendo “a gruppi terroristi nella capitale”, intendendo le milizie fedeli al Governo in carica. Anche gli aerei da combattimento di Tripoli, sempre secondo la denuncia di Al-Mismari, sarebbero pilotati da mercenari italiani e americani. Lo scopo di queste denunce è evidente: far passare il Governo di al-Sarrāj, riconosciuto dall’Europa, come “terrorista” e far accreditare Haftar, l’uomo forte della Cirenaica, come il nuovo interlocutore ufficiale della comunità internazionale. Cambieranno gli attori che tirano le fila in Libia e la Francia sostituirà l’Italia come interlocutrice privilegiata dei nuovi poteri, ma la politica sul petrolio e sui migranti rimarrà la stessa. E per l’Europa purtroppo, conta solo questo.
    Non trascuriamo, inoltre, che il
    casus belli di questa ennesima guerra civile libica lo ha dato proprio il nostro Governo, trattando direttamente col presidente al-Sarrāj, per conto di imprese italiane, l’appalto sulla ricostruzione dell’aeroporto di Tripoli, l’unico scalo del Paese. Una mossa quantomeno avventata che il generale Haftar non poteva stare a guardare. Ed infatti, due giorni dopo l’annuncio del premier Giuseppe Conte, le milizie della Cirenaica hanno attaccato l’aeroporto.
    In tutto questo squallido gioco di potere, chi ne paga le spese sono soprattutto i civili. Gli ultimi dati parlano di oltre cento morti, tra cui almeno 28 bambini, solo negli scontri attorno alla Capitale. Ma ora la situazione è peggiorata. A Tripoli sono migliaia le persone che hanno abbandonato le loro case e si sono date alla fuga. Haftar ha scatenato le truppe impiegate nella cosiddetta Operazione Dignità che, tra il 2014 e il 2015, hanno sterminato gli jihadisti ma – come hanno denunciato vari rapporti dell’Onu – si sono abbandonate anche a inimmaginabili violenze e ad uccisioni indiscriminate nei confronti della popolazione civile. Gente per cui la parola pietà non ha significato.
    Ma se la situazione è tragica per i civili libici, che perlomeno possono provare a cercar scampo nella fuga, ai migranti detenuti nei campi viene preclusa anche questa speranza.
    I soldati fedeli al Governo in carica hanno praticamente abbandonato la maggior parte dei campi. Da giorni oramai non arriva né cibo né acqua. Assistenza medica non ne avevano neppure prima. L’elettricità è stata tolta da tempo e anche i messaggi sugli Alarm Phone sono sempre meno frequenti. Gli ultimi messaggi denunciavano la morte per fame dei primi bambini. E la tubercolosi, che già ammazzava, ora sta compiendo delle vere stragi.
    In tutto questo, la responsabilità dell’Europa pesa come un macigno. Abbiamo trasformato i migranti in una merce e ne abbiamo appaltato lo sfruttamento a gruppi criminali più o meno intersecati col potere politico. Proprio come la mafia. In cambio dello sfruttamento del petrolio, abbiamo costruito – investendo perlomeno 338 milioni di fondi europei, senza contare i regali di mezzi vari come motoscafi e motovedette – un mercato della sofferenza capace di far fruttare ai trafficanti almeno 450 milioni di dollari all’anno.
    E se a voi tutto questo non fa schifo…
  • Carne da cannone. In Libia i profughi dei campi sono arruolati a forza e mandati a combattere
    I profughi di Libia, dopo essere stati trasformati in “merce” preziosa dai trafficanti, con la complicità e il supporto del’Italia e dall’Europa, sono diventati anche carne da cannone.
    Arruolati di forza, vestiti con vecchie divise, armati con fucili di scarto e spediti a combattere le milizie del generale Haftar che stanno assediando Tripoli. I profughi di Libia, dopo essere stati trasformati in “merce” preziosa dai trafficanti, con la complicità e il supporto del’Italia e dall’Europa, sono diventati anche carne da cannone.

    Secondo fonti ufficiali dell’Unhcr e di Al Jazeera, il centro di detenzione di Qaser Ben Gashir, è stato trasformato in una caserma di arruolamento. “Ci viene riferito – ha affermato l’inviato dell’agenzia Onu per i rifugiati, Vincent Cochetel – che ad alcuni migranti sono state fornite divise militari e gli è stati promesso la libertà in cambio dell’arruolamento”. Nel solo centro di Qaser Ben Gashir, secondo una stima dell’Unhcr, sono detenuti, per o più arbitrariamente, perlomeno 6 mila profughi tra uomini e donne, tra i quali almeno 600 bambini.

    Sempre secondo l’Unhcr, tale pratica di arruolamento pressoché forzato – è facile intuire che non si può dire facilmente no al proprio carceriere! – sarebbe stata messa in pratica perlomeno in altri tre centri di detenzione del Paese. L’avanzata delle truppe del generale Haftar ha fatto perdere la testa alle milizie fedeli al Governo di accordo nazionale guidato da Fayez al Serraj, che hanno deciso di giocarsi la carta della disperazione, mandando i migranti – che non possono certo definirsi militari sufficientemente addestrati – incontro ad una morte certa in battaglia. Carne da cannone, appunto.

    I messaggi WhatsUp che arrivano dai centri di detenzione sono terrificanti e testimoniano una situazione di panico totale che ha investito tanto i carcerieri quanto gli stessi profughi. “Ci danno armi di cui non conosciamo neppure come si chiamano e come si usano – si legge su un messaggio riportato dall’Irish Time – e ci ordinano di andare a combattere”. “Ci volevano caricare in una camionetta piena di armi. Gli abbiamo detto di no, che preferivamo essere riportato in cella ma non loro non hanno voluto”.

    La situazione sta precipitando verso una strage annunciata. Nella maggioranza dei centri l’elettricità è già stata tolta da giorni. Acque e cibo non ne arrivano più. Cure mediche non ne avevano neppure prima. I richiedenti asilo sono alla disperazione. Al Jazeera porta la notizia che ad Qaser Ben Gashir, qualche giorno fa, un bambino è morto per semplice denutrizione. Quello che succede nei campi più lontani dalla capitale, lo possiamo solo immaginare. E con l’avanzare del conflitto, si riduce anche la possibilità di intervento e di denuncia dell’Unhcr o delle associazioni umanitarie che ancora resistono nel Paese come Medici Senza Frontiere.

    Proprio Craig Kenzie, il coordinatore per la Libia di Medici Senza Frontiere, lancia un appello perché i detenuti vengano immediatamente evacuati dalle zone di guerra e che le persone che fuggono e che vengono intercettate in mare non vengano riportate in quell’Inferno. Ma per il nostro Governo, quelle sponde continuano ad essere considerate “sicure”.
  • Il segretario generale dell’Onu, Antonio Guterres, sconvolto dalle torture perpetrate ai prufughi in Libia
    Dopo la smentita della Commissione Ue alle dichiarazioni del Viminale secondo cui i porti libici sarebbero “sicuri”, arriva anche la bocciatura della massima carica delle Nazioni Unite
    Scioccato dalle inumante condizioni in cui vengono trattenuti nei centri libici i profughi. A dirlo non sono più solo i giornalisti o gli osservatori della associazioni per i diritti umani, ma lo stesso segretario generale dell’Onu, Antonio Guterres. “Sono rimasto molto sconvolto dal livello di sofferenza e soprattutto dal livello di disperazione che ho trovato”, ha dichiarato Guterres alla stampa, di ritorno da una visita ufficiale al centro di detenzione di Zara. “E non sogniamoci di addossare tutte le colpe alla Libia – ha aggiunto il segretario generale delle Nazioni Unite – Di quanto sta succedendo è responsabile l’intera comunità internazionale”.

    Sotto accusa specialmente la linea del Governo italiano che non si fa scrupolo di riportare i migranti in fuga in quelle stesse prigioni da cui erano scappati. Prigioni in cui, denuncia sempre Antonio Guterres, li aspettano torture e violenze.

    “Nelle attuali circostanze – afferma il segretario Onu – è davvero difficile sostenere che lo sbarco in Libia sia lo sbarco in una situazione di sicurezza”. Guterres ha concluso la sua conferenza stampa invitando i Paesi europei ad affrontare con serietà la questione dei migranti, “in modo compatibile con la difesa degli interessi dello Stato ma anche con i diritti umani dei profughi”.

    Una ennesima bocciatura – arrivata questa volta da altissimo livello – della fake new diffusa dal Viminale secondo cui la Libia sarebbe un “Paese sicuro” anche per la comunità Europea.

    Ricordiamo che una settimana fa, giovedì 28 marzo esattamente, una nota del ministro Matteo Salvini riportava la “notizia” secondo cui la Commissione Europea avrebbe dichiarato che la Libia “può e deve soccorrere gli immigrati in mare, e quindi è da considerare un Paese affidabile. Dove gli immigrati che vengono riportati a terra dalla Guardia costiera vengono tutelati dalla presenza del personale Oim, l’Organizzazione internazionale per le migrazioni”.

    Una balla bella e buona, immediatamente smentita anche dalla stessa Commissione Europea. Natasha Bertaud, portavoce dell’esecutivo Ue che si occupa del dossier migranti, ha subito precisato che “La Commissione europea non considera i porti libici come porti sicuri. E’ proprio per questa ragione che nessuna nave battente bandiera europea può sbarcare dei migranti nei porti libici!”

    “Un porto sicuro – ha sottolineato Bertaud – è un porto dove possono effettuarsi le operazioni di salvataggio e dove la vita delle persone salvate non è minacciata. Queste condizioni non sono rispettate nei porti libici ed è la ragione, ripeto, per la quale nessuna nave battente bandiera europea può sbarcare dei migranti in quei porti”.

    Adesso la Libia è precipitata di nuovo nella guerra civile. Due giorni dopo le ottimistiche dichiarazioni di Salvini sul suo “Paese sicuro”, le milizie fedeli al generale Haftar, l’uomo forte della Cirenaica, hanno attaccato Tripoli deve risiede il Governo ufficiale del Paese. E’ guerra civile. In più, lo stesso segretario generale dell’Onu ha dichiarato che nelle carceri libiche sono perpetrarti stupri, torture e violenze indicibili.

    Davvero saremo così ipocriti e vigliacchi da continuare a considerare i porti di Libia sicuri?
  • Nessuna e nessuno scampa allo stupro. Nei centri libici l’impunità dei carcerieri è la regola
    Racconti orribili emergono dal report della Commissione Onu per le donne rifugiate
    Violenze sessuali orribili e di routine. Violenze cui sono sottoposti praticamente tutti i migranti in transito per la Libia: uomini, donne, bambini e bambine. Violenze che spesso vengono filmate e girate via Skype ai parenti delle vittime per spingerli a pagare ingenti somme di denaro come riscatto.

    Lo afferma un report presentato lunedì dalla Commissione Onu per le Donne rifugiate che ha intervistato centinaia di sopravvissute all’inferno libico.

    “La violenza sessuale crudele e brutale, oltre alla tortura, è consumata come una prassi consolidata tanto nelle carceri clandestine quanto nei centri di detenzione ufficiali del Governo libico. Ma gli stupri sono perpetrati di routine anche durante gli arresti casuali e nell’ambito del lavori forzati, che possiamo anche chiamare ‘schiavitù’, ai quali sono costrette le donne e gli uomini migranti” ha spiegato Sarah Chynoweth, portavoce dalla Commissione che cha subito sottolineato come sia “assolutamente insostenibile che i rifugiati che riescono a fuggire attraverso il Mediterraneo vengano intercettati, riconsegnati alla Libia e costretti ancora a subire queste violenze”. La Commissione cita esplicitamente l’accordo firmato dal nostro Paese nel 2017, quando, con il sostegno dell’Unione Europea, che ha finanziato con decine di milioni di euro la Guida costiera libica che opera in un clima di assoluta impunità, fornendogli anche i mezzi per catturare i migrati e riportarli nei centri di tortura.

    Nel complesso, l’Ue ha speso 338 milioni di euro, dal 2014 ad oggi, in questa politica sulle migrazioni che si è rivelata non soltanto fallimentare ma anche delinquenziale.

    Sono storie orribile e racconti da farti venire il voltastomaco, quelli che – a fatica – gli psicologi e gli operatori specializzati riescono a cavar fuori dai sopravvissuti. Storie di stupri di una violenza inaudita, di torture indicibili, di mutilazioni genitali di massa, di fratelli costretti a violentare le sorelle o la stessa madre. Alcuni rifugiati hanno raccontato di fosse comuni riempire di cadaveri con i genitali tagliati lasciato fuori a marcire. Storie quasi impossibili da raccontare. Per vergogna, incredulità, e anche per paura. “Ci minacciano di fare delle cose orribili ai nostri fratelli e alle nostre sorelle rimasti laggiù, se raccontiamo in Europa quello che accade in Libia” ha detto un ragazzino ai soccorritori dell’Aquarius.

    Orrori che vengono filmati e mostrati ai parenti rimasti in patria per estorcere denaro. Quando alle famiglie è stato rubato tutto quello che si poteva rubare, i carcerieri permettono ai migranti ancora vivi di continuare il viaggio. I centri di detenzione libici non servono a impedire o a limitare le migrazioni. Aggiungono solo dolore al dolore con l’unico risultato quello di far sbarcare in Europa persone pesantemente traumatizzate e che, nel caso dell’Italia, come sottolinea il report della Commissione Onu, ricevono pure un sostegno psicologico del tutto inadeguato o addirittura assente.
  • L’Unhcr denuncia l’ingiustificabile violenza della polizia libica contro i migranti
    50 feriti di cui 2 gravissimi è stata la risposta alla protesta dei richiedenti asilo del campo di Sikka
    Almeno 50 migranti sarebbero stati seriamente feriti dalla brutale azione condotta dalla polizia libica per rispondere alle proteste dei rifugiati rinchiusi nel campo di Sikka. Una violenza ingiustificabile portata a termine, per di più, contro persone che già versano in precarie condizioni di salute e la scorsa settimana avevano deciso di protestare contro una detenzione che si sta prolungando nei mesi e senza prospettive di soluzione. 
    La denuncia viene dalla portavoce dell’agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati, Shabia Mantoo, in occasione di una conferenza stampa svoltasi ieri al Palazzo delle Nazioni di Ginevra. Parole molto dure, queste di Mantoo, secondo il quale la reazione spropositata delle polizia ha causato anche due ferimenti gravissimi di cui non si hanno notizia.
    Al momento dello scoppio della protesta, nel campo di Sikka erano detenute circa 400 persone registrate dall’Unhcr: 200 eritrei, 100 somali, 53 etiopi e 20 cittadini sudanesi. Dopo l’irruzione della polizia, 120 migranti sono stati trasferiti in altri campi. Shabia Mantoo ha espresso grande preoccupazione sulla sorte di queste persone e anche su coloro che sono rimasti nel campo di Sikka, sottolineando come agli ispettori dell’Agenzia per i rifugiati non  sia ancora stato concesso di avvicinare i feriti per sincerarsi delle loro condizioni.
    L’Unhcr ha denunciato la detenzione prolungata e insostenibile che molti rifugiati stanno affrontando in Libia. Attualmente ci sono 5.700 rifugiati e migranti prigionieri nei campi, 4.100 sono valutati dall’agenzia come bisognosi di protezione internazionale. Parliamo di cifre “ufficiali” naturalmente, riguardanti i migranti regolarmente registrati dall’Unhcr, perché sui numeri reali non si possono che fare stime approssimative. 
    Trovare alternative alla detenzione, spiega l’Unhcr, deve essere una priorità. L’apertura di un corridoio umanitario per il rimpatrio, chiamato Gathering and Departure Facility, ha permesso all’Agenzia di salvare 3 mila 303 migranti – l’ultimo rimpatri di 128 nigerini è avvenuto due giorni fa –  ma i numeri rimangono assolutamente sproporzionati per la reale quantità di richiedenti asilo presenti nel territorio libico.  
    Per questo, l’Agenzia per i rifugiati ha lanciato un appello alla comunità internazionale affinché faccia pressione nei confronti del Governo libico e collabori per trovare alternative valide alla detenzione prolungata. Appello rimasto assolutamente inascoltato. 
  • Tutto il dolore del mondo nelle poesie di Segen
    Non era neppure il suo vero nome, Segen. Lo chiamavano così perché nel piccolo villaggio di Mai Mine, nel cuore dell’Eritrea da dove è partito, così vengono soprannominate le persone alte e con il collo lungo che pare quello di una giraffa. 
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    Il suo vero nome era Tesfalidet Tesfom. E’ morto subito dopo il suoi sbarco a Pozzallo, il 12 marzo dello scorso anno. Inutili i soccorsi che il personale medico della nave Open Arms e del presidio medico della cittadina siciliana hanno tentato di prestargli. Era ridotto troppo male. Solo pelle e ossa. Non riusciva neppure a stare in piedi. Il dottor Vincenzo Morello dell’Usmaf ha dovuto prenderlo in braccio per farlo sbarcare dalla nave: “Gli ho chiesto perché era in quelle condizioni e lui ripeteva: Libia, Libia”. Non ha potuto dire altro perché è spirato poco dopo. 
    In tasca gli hanno trovato un portafogli senza soldi ma con due fogli di carta strappati da qualche quaderno e mezzo mangiati dalla salsedine. 
    Li aveva utilizzati per scriverci due poesie. 
    Il suo corpo è stato sepolto nel piccolo cimitero in riva al mare di Pozzallo, sotto una croce bianca. Qualcuno ci ha scritto sopra in matita il suo nome: Tesfalidet Tesfom.
    Poesie
    Nel portafogli di Segen, solo due fogli di carta riempiti di poesie

    Tempo sei maestro
    per chi ti ama e per chi ti è nemico,
    sai distinguere il bene dal male,
    chi ti rispetta
    e chi non ti dà valore.
    Senza stancarti mi rendi forte,
    mi insegni il coraggio,
    quante salite e discese abbiamo affrontato,
    hai conquistato la vittoria
    ne hai fatto un capolavoro.
    Sei come un libro, l’archivio infinito del passato
    solo tu dirai chi aveva ragione e chi torto,
    perché conosci i caratteri di ognuno,
    chi sono i furbi, chi trama alle tue spalle,
    chi cerca una scusa,
    pensando che tu non li conosci.
    Vorrei dirti ciò che non rende l’uomo
    un uomo
    finché si sta insieme tutto va bene,
    ti dice di essere il tuo compagno d’infanzia
    ma nel momento del bisogno ti tradisce.
    Ogni giorno che passa, gli errori dell’uomo sono sempre di più,
    lontani dalla Pace,
    presi da Satana,
    esseri umani che non provano pietà
    o un po’ di pena,
    perché rinnegano la Pace
    e hanno scelto il male.
    Si considerano superiori, fanno finta di non sentire,
    gli piace soltanto apparire agli occhi del mondo.
    Quando ti avvicini per chiedere aiuto
    non ottieni nulla da loro,
    non provano neanche un minimo dispiacere,
    però gente mia, miei fratelli,
    una sola cosa posso dirvi:
    nulla è irragiungibile,
    sia che si ha tanto o niente,
    tutto si può risolvere
    con la fede in Dio.
    Ciao, ciao
    Vittoria agli oppressi

    Non ti allarmare fratello mio, dimmi, non sono forse tuo fratello?Perché non chiedi notizie di me?
    È davvero così bello vivere da soli,
    se dimentichi tuo fratello al momento del bisogno?
    Cerco vostre notizie e mi sento soffocare
    non riesco a fare neanche chiamate perse,
    chiedo aiuto,
    la vita con i suoi problemi provvisori
    mi pesa troppo.
    Ti prego fratello, prova a comprendermi,
    chiedo a te perché sei mio fratello,
    ti prego aiutami,
    perché non chiedi notizie di me, non sono forse tuo fratello?
    Nessuno mi aiuta,
    e neanche mi consola,
    si può essere provati dalla difficoltà,
    ma dimenticarsi del proprio fratello non fa onore,
    il tempo vola con i suoi rimpianti,
    io non ti odio,
    ma è sempre meglio avere un fratello.
    No, non dirmi che hai scelto la solitudine,
    se esisti e perché ci sei
    con le tue false promesse,
    mentre io ti cerco sempre,
    saresti stato così crudele se fossimo stati figli dello stesso sangue?
    Ora non ho nulla,
    perché in questa vita nulla ho trovato,
    se porto pazienza non significa che sono sazio
    perché chiunque avrà la sua ricompensa,
    io e te fratello ne usciremo vittoriosi
    affidandoci a Dio.

    Tomba
    La tomba di Segen sul mare di Sicilia
  • Gli altri migranti della Libia
    Che fine hanno fatto i sub sahariani che lavoravano nel Paese all’epoca di Gheddafi, prima della guerra civile?
    L’immagine che abbiamo dei migranti in Libia è quella di persone ridotte alla disperazione, brutalmente incarcerata e quotidianamente torturata nei centri di detenzione. Un quadro che senza dubbio corrisponde alla verità dei fatti, considerato le oramai innumerevoli testimonianze di sopravvissuti e di giornalisti, per tacere dei tanti report dell’Unhcr e di ong per i diritti umani che hanno a più riprese denunciato e documentato senza possibilità di smentita, gli abusi e le violazioni perpetrate nelle famigerate strutture di detenzioni. Violazioni, peraltro, confermata in molte interviste dallo stesso premier Fāyez al-Sarrāj.

    Ma ci sono anche altri migranti, in Libia. Persone che, perlomeno all’inizio, non avevano nessuna intenzione di raggiungere l’Europa e che avevano come meta della loro migrazione proprio la Libia.

    All’epoca di Gheddafi, la Libia era un grande attrattore di lavoratori provenienti per di più dall’Africa sub sahariana. Dal Chad, dalla Nigeria, dal Niger e anche da Sudan o dai Paesi del golfo di Guinea, migliaia di persone salivano verso la costa per svolgere quei lavori che, per dirla con un luogo comune, “i libici non volevano fare”. Manodopera a basso costo che veniva sfruttata, in particolare, nelle coltivazioni agricole, nell’edilizia, nei trasporti, nel settore petrolifero o come scaricatori nei porti. Lavori senza dubbio duri e mal pagati, con pochissime tutele statali e sindacali, ma che hanno permesso a decine di migliaia di migranti di costruirsi un futuro nel Paese, affittando casa e costruendo una famiglia.

    Poi è arrivata la guerra civile. Il Paese si è spezzato in tre con un Governo a Tripoli, un altro nella Cirenaica ed il sud abbandonato alle organizzazioni criminali che fanno capo a milizie mercenarie alle dipendenze di vere e proprie città stato. Qualsiasi parvenza di legalità è stata spazzata via. E nessuno si è domandato che cosa ne sia stato di questi migranti.

    Secondo una stima delle nazioni unite, oggi in Libia ci sono perlomeno 670 mila migranti. Coloro che sono stati regolarmente registrati dall’Unhcr sono esattamente 56 mila 455. All’incirca 6 mila e 200 sono detenuti nei centri per immigrazione irregolare. Ma questo è un dato sicuramente sottostimato considerando le continue violazioni alle più elementari procedure giuridiche che avvengono in questi luoghi.

    In ogni caso, salta immediatamente agli occhi che attualmente in Libia ci sono alcune centinaio di migliaia di persone di cui nessuno sa nulla.

    P. B. era uno di questi migranti. E’ arrivato a Tripoli dal nativo Niger nel 2008 o nel 2009 (non se lo ricorda bene). Ha lavorato nei campi e poi al porto di Tripoli come scaricatore e stivatore. “Ci facevano fare i turni più pesanti e ci pagavano la metà di quanto guadagnava un libico per lo stesso lavoro. Dormivamo nei capannoni o anche a bordo delle navi ma almeno avevamo di che campare. Io riuscivo anche a mandare qualcosa a casa”. P. è arrivato in Italia due anni fa e oggi svolge lavori saltuari nel porto di Venezia. “Con Salvini è sempre più dura. Pare che abbiano timore di ritorsioni a farti lavorare. Eppure non manca il lavoro attorno alle navi. E’ chiaro che ci sarebbe bisogno di noi. Mi pare di rivivere la stessa situazione che ho vissuto in Libia quando è cominciata la guerra ed è esploso il razzismo. Tutti stanno diventando cattivi ed hanno sempre più paura”.

    Dopo la morte di Gheddafi, le condizioni dei lavoratori stranieri in Libia sono precipitate. “Capitava che alla fine della giornata non ci dessero lo stipendio, semplicemente perché non volevano darcelo. E se protestavamo, minacciavano di non farci lavorare domani. Se andava bene ce ne davano solo una parte, proprio per non farci morire di fame, e l’altra se la intascavano loro. Capitava anche che ci minacciassero con la pistola. Tutti giravano armati al porto. Chi protestava, spariva”. Una situazione di violenza e sopraffazione che ha investito, sia pure in misura minore, anche i lavoratori libici. “Una volta, loro perlomeno, avevano dei diritti. Oggi non più. Quando sono andato via, buttava male anche per loro”.

    Ma il vero problema che ha spinto P. e tanti altri migranti arrivati in Libia per lavorare, a prendere il mare per l’Europa è stato il crollo della moneta locale. Uno stipendio base di 700 dinari equivalgono sulla carta a 500 dollari ma al mercato nero non ottieni più di 100, 150 dollari Usa al massimo. Impossibile quindi riuscire a ricavare qualcosa da spedire a casa per aiutare le famiglie, come facevano prima della guerra.

    Con la perdita di valore del dinaro, la guerra ha portato anche disoccupazione. E proprio i lavoratori stranieri, meno tutelati, sono stati i primi a pagarne le spese. Nella campagne soprattutto, molte aziende sono state chiuse e i campi coltivati ridotti. I lavoratori salariati sono stati pressoché rimpiazzati da schiavi. Ed intendiamo dire proprio “schiavi”. Perché non ci sono altri termini per definire una persona rapita e costretta a lavorare a forza di botte sino alla morte.

    Da sottolineare che lo schiavismo, in Libia, è stato pressoché legalizzato, nell’indifferenze del mondo intero, anche se i militari libici continuano pudicamente ad usare il termine “lavoratori”. “Qui in Libia, abbiamo bisogno di lavoratori migranti. Ad essere onesti, non potremmo fare niente senza di loro – ha spiegato in una intervista a Irin il generale Mohammed al-Tamimi, comandante militare di un posto di blocco a nord di Sebha – Quando catturiamo dei migranti preferiamo tenerli con noi e impiegarli nei campi come lavoratori, invece di spedirli in un centro di detenzione. Senza di loro non tireremmo avanti”.

    Chiamiamola schiavitù, allora. Tanto è una parola che oggi non fa più orrore a nessuno.
  • “Gli abusi ai migranti? Colpa dell’Europa!” Fayez Al-Sarraj si scaglia contro i Paesi dell’Unione, e li accusa di spendere più risorse a stilare report umanitari che ad aiutare i profughi
    Il primo ministro libico, Fayez Al-Sarraj, declina qualsiasi responsabilità sui maltrattamenti e sugli abusi cui sono soggetti i profughi in transito per la Libia e rilancia, accusando l’Europa di essere la vera responsabile della crisi in atto nel suo Paese e di non fare abbastanza per aiutare tanto il popolo libico quanto i migranti. 
    In una intervista rilasciata al quotidiano spagnolo El Pais e riportata anche dal sito The Libia Address, Al-Sarraj ammette esplicitamente che nei centri di detenzione libici, come più volte hanno segnalato tante organizzazioni umanitarie, la situazione è disperata e le violazioni dei diritti umani sistematiche. La colpa però, sarebbe tutta dell’Europa che “dedica più risorse alla realizzazione di questi rapporti che ad aiutare la Libia a risolvere il problema”. 
    Il primo ministro Al-Sarraj confonde le organizzazioni non governative che stilano queste relazioni con i Governi incaricati di disegnare una politica estera e di gestire le risorse economiche destinate ai Paesi terzi. 
    “Ma perché l’Europa non sostiene i Paesi da cui provengono questi migranti? – ha dichiarato il primo ministro – Perché non trovano un posto per costoro? Magari integrandoli in Europa? Ai leder europei non importa nulla dei profughi che restano in Libia ma solo di quelli che sbarcano nelle loro coste! Dateci delle soluzioni, invece di limitarvi a stilare delle inutili relazioni!” 
    Le “soluzioni” di cui parla Fayez Al-Sarraj, sarebbero naturalmente l’investimento di ulteriori risorse economiche nella Guardia Costiera e nell’esercito libico, attualmente impegnato a fronteggiare le milizie del generale Khalifa Haftar, l’uomo forte della Cirenaica, per il controllo dei depositi petroliferi. 
    Alla domanda del giornalista de El Pais che gli chiede se ritiene la Libia un “porto sicuro” – che è la foglia di fico dietro la quale l’Europa può evitare di affrontare la questione dei recuperi in mare – Al-Sarraj evita di rispondere spiegando che “Stiamo cercando di fare il nostro meglio con le risorse disponibili” ma ammette la sua incapacità a dettar legge al suo stesso esercito. “Ora come ora, non è possibile disciplinare tutte le nostre forze armate e contenere il loro ricorso all’uso forza. Ma speriamo di riuscirci il primo possibile”. 
  • Altri cadaveri nel Mediterraneo. Un risultato della politica dei “Porti chiusi”
    Altri naufragi nel Mediterraneo. Altri cadaveri da consegnare ad una storia che condannerà all’infamia l’Italia e l’Europa.
    Altri naufragi nel Mediterraneo. Altri cadaveri da consegnare ad una storia che condannerà all’infamia l’Italia e l’Europa. Un gommone semi affondato con 120 persona a bordo tra cui donne incinta, bambini e un neonato di appena due mesi, era stato avvistato nella mattinata di ieri a 50 chilometri dal porto di Tripoli da un aereo dell’Aeronautica Militare Italiana che ha dato il via alle operazioni di soccorso. Ma, questa mattina, quando è arrivata a soccorso la vedetta Duilio della Marina Militare, solo tre migranti erano ancora vivi, tutti e tre in grave stato di ipotermia. I sopravvissuti sono stati trasportati a Lampedusa. Nel mare, sono rimasti 117 cadaveri. Il gommone aveva cominciato a sgonfiarsi 11 ore dopo la partenza. Uomini, donne e bambini sono caduti in mare un po’ alla volta, annegando o morendo di freddo. Delle gravi condizioni in cui versava l’imbarcazione era stata avvisata anche la Guardia Costiera libica, cui spettava il compito di coordinare i soccorsi, che però non è intervenuta a soccorso dei naufraghi.
    Un tweet di Sea Watch International informa che al momento del naufragio un mercantile era nella zona ma non ha aiutato i migranti. “Una conseguenza dei porti chiusi: troppa paura di soccorrere”. 
    Quando la Duilio che si trovava a 110 miglia dal disastro è arrivata nella zona, era oramai troppo tardi per soccorrere i naufraghi. 
    La politica dei “porti chiusi” ha avuto come unico risultato quella di svuotare il mare dalle navi delle Ong. Porti che poi sono tutt’altro che chiusi. Questa mattina una motovedetta della Guardia Costiera aha sbarcato a Lampedusa 68 migranti, tra cui una quindicina di minori non accompagnati, per lo più provenienti del Bangladesh. Erano salpati mercoledì notte dal porto libico di Zuara. Una operazione che – sottolinea La Stampa che ne dà notizia – “smentisce la retorica dei «porti chiusi» ai migranti: disposizione che, allo stato dei fatti, sembra riguardare solo le navi umanitarie delle Ong che, peraltro, al momento non si trovano in zona Sar, fermate da divieti e questioni burocratiche”. 
    L’Europa ha trasformato l’immigrazione in merce preziosa e, con la politica dei “porti chiusi”, si è sbarazzata dagli unici attori che continuavano ad operare con logiche non di mercato, le Ong, consegnando di fatto il business alle mafie. Mafie che comprano e vendono esseri umani dalle milizie libiche che, a loro volta, ricevono soldi dall’Italia per nuove divise, armi e barche proprio per fare “affari” con queste mafie. Il mercato nero dei diritti umani è stato di fatto non soltanto legalizzato ma anche sostenuto ed alimentato dai nostri democratici Governi. Un giorno, ne siamo certi, la storia ci condannerà con infamia.
  • La denuncia di Human Rights Watch: in Libia civili e migranti quotidianamente rapiti, torturati e uccisi
    Violazioni continue dei diritti fondamentali.  Nessun percorso aperto alla giustizia
    Ginevra – La Libia è in balia di gruppi armati irregolari e violenti ed a pagare il prezzo di questo Paese diviso sono i civili. Lo ha dichiarato ieri Human Rights Watch presentando il suo World Report 2019. L’organizzazione internazionale per i diritti umani chiede alle autorità libiche di dare priorità alla riforma del settore della giustizia e ristabilire il principio di responsabilità per i membri di gruppi armati.
    Sette anni dopo la fine della rivoluzione del 2011 che mise fine al regime di Muammar Gheddafi, in Libia si sono formati due Governi che si sono rivelati incapaci ad intraprendere un qualsiasi percorso di riconciliazione.
    Entrambi i governi rivendicano il controllo del territorio, delle istituzioni e delle risorse. Intanto gruppi armati legati all’una o all’altra fazione spadroneggiano nel Paese e violano continuamente le leggi: rapiscono i civili, uccidono, torturano, imprigionano arbitrariamente ed hanno costretto con la forza a sfollare migliaia di persone.
    Tanto le forze governative che le milizie hanno mantenuto migliaia di migranti e richiedenti asilo in centri di detenzione dove le condizioni sono disumane e l’abuso fisico è la prassi.
    Le milizie hanno imposto il terrore sia ai libici che ai migranti. Nessuna autorità si oppone a loro o osa chiedere loro di rendere conto delle loro azioni” ha spiegato Hanan Salah, operatore di Human Rights Watch. “Fino a quando questo stato di cose non cambierà, non ci sarà possibilità alcuna di svolgere una consultazione elettorale libere ed equa”.
    Nelle 674 pagine del World Report 2019, giunto oramai alle sue 29esima edizione, Human Rights Watch valuta il rispetto dei diritti umani in più di cento Paesi.
    Nell’introduzione, il direttore esecutivo Kenneth Roth sottolinea che l’odio, l’intolleranza e il populismo che si è diffuso in molti Paesi hanno anche posto i semi di una nuova resistenza. Nuove alleanze di Governo basate sul rispetto dei diritti, spesso sollecitate da cittadini e associazioni, sono nate proprio per controbattere la deriva sovranista. I loro successi dimostrano che è possibile difendere i diritti umani anche in tempi scuri.
    Il prolungato conflitto armato ha azzoppato le più importanti istituzioni libiche, come la magistratura che oggi non può funzionare correttamente per le continue minacce e gli attacchi dei miliziani contro giudici, avvocati e procuratori.
    E anche dove i tribunali esercitano la loro influenza, sono state ravvisate gravissime violazioni del procedimento penale.
    Nel mese di agosto, per esempio, un tribunale di Tripoli in un processo di massa ha condannato a morte, nonostante le palesi violazioni della procedura, 45 presunti ex sostenitori di Gheddafi ed altri 54 a cinque anni di carcere per l’uccisione di manifestanti nei disordini 2011.
    Anche la Corte penale internazionale che nel 2011 ha avuto mandato di indagare sui crimini di guerra, sui crimini contro l’umanità e sul genocidio in Libia, ha emesso un solo mandato di arresto contro un comandante delle forze di Bengasi affiliato al Libyan National Army (LNA) che continua a rimanere in libertà.
    Come conseguenza dei conflitti, 200mila persone rimangono sfollate. Migliaia di famiglie che sono fuggite dagli scontri a Bengasi dal 2014 e dagli scontri armati a Derna del maggio 2018, non sono in grado di tornare alle loro case e di rivendicare le proprietà ed i mezzi di sussistenza per timore di rappresaglie da parte di gruppi LNA che li hanno accusati di sostenere il terrorismo.
    In giugno, i rappresentanti delle città di Misurata e Tawergha hanno firmato un accordo di pace che doveva aprire la strada per il ritorno di 48mila persone scacciate illegalmente dalle loro città. Ma le distruzioni, i saccheggi, la paura di rappresaglie ed i continui problemi di sicurezza, hanno fatto fatto sì che solo poche centinaia di persone accettassero l’invito a tornare a casa.
    Gli scontri tra Tebu e le milizie locali arabe del sud tra febbraio e giugno hanno ucciso decine di civili. Le Nazioni Unite hanno denunciato come nel solo mese di settembre, i sanguinosi scontri tra milizie rivali a Tripoli hanno lasciato più di 100 morti, tra cui molti civili.
    Anche se lo Stato Islamico, dalla sua cacciata da Sirte nel mese di dicembre 2016, non controlla nessun territorio in Libia, non smette di organizzare attacchi mortali diretti soprattutto contro obiettivi civili. Nel mese di maggio, l’Isis ha rivendicato un attacco all’Alto Commissariato Elettorale di Tripoli che ha provocato la morte di 12 persone, alcune delle quali civili.
    Non se la passano meglio i giornalisti presenti nel Paese. Sia le milizie che le forze governative hanno minacciato, attaccato e imprigionato i professionisti dei media. I giornalisti inoltre denunciano come anche il governo di Accordo Nazionale, riconosciuto a livello internazionale, ha imposto misure restrittive nei confronti di colleghi internazionali e delle reti televisive, imponendo censure e restrizioni durante le visite di esponenti di Governi internazionali, limitando l’accesso alle sedi istituzionali e impedendo di visitare i centri di detenzione per migranti.
  • Guerra all’aeroporto di Tripoli. In Libia la tregua è già finita
    Si torna a combattere il Libia. Fonti ufficiali del Consiglio di Presidenza parlano di 6 morti – di cui perlomeno due civili – e 38 feriti in un un conflitto scoppiato martedì nella zona sud di Tripoli e che si è intensificato nella giornata di ieri.
    Si torna a combattere il Libia. Fonti ufficiali del Consiglio di Presidenza parlano di 6 morti – di cui perlomeno due civili – e 38 feriti in un un conflitto scoppiato martedì nella zona sud di Tripoli e che si è intensificato nella giornata di ieri. La ripresa dei combattimenti tra le milizie fedeli al presidente Fayez al Serraj e i rivali della settima fanteria controllate dal Governo della Tripolitania, mette di fatto fine alla tregua stipulata in settembre. 
    Secondo il Libya Herald, la causa del conflitto va imputata al tentativo delle truppe presidenziali di prendere il controllo dell’aeroporto per consegnarlo al consorzio di imprese italiane cui sono stati appaltati i lavori di ricostruzione. Appalto che nel nostro Paese è stato propagandato come uno dei “successi del Governo Conte” che non ha però fatto i conti con il precario equilibrio in cui versa il Paese. Un appalto che Serraj avrebbe sottoscritto senza consultare gli altri membri del Governo e che è stata una delle principali cause della mozione di sfiducia nei suoi confronti presentata lunedì dai tre vice presidenti in carica – Abdul Salam Kajman, Ahmed Maiteeq e Fathi Magbari – che ha scatenato il conflitto armato. I tre vice hanno indicato nel protagonismo di Serraj principale causa della frammentazione che impera nel Paese e del crollo degli equilibri che dovevano garantire un percorso costituzionale di pacificazione sotto l’egida dell’Onu.
    Percorso che oggi sembra improponibile. Al momento in cui scriviamo, continuano i combattimenti nella zona aeroportuale di Gaser Benghashir. “I civili sono terrorizzati a causa di scontri tra gruppi armati non controllati e abbandonano le case per rifugiarsi a Tripoli” si legge in una nota ministeriale. Allarme anche al centro di detenzione dei migranti dove centinaia di eritrei e somali sono rinchiusi. Tra loro ci sono 44 minorenni, 12 neonati e circa 45 donne. A loro non è concesso possono neppure scappare a Tripoli. 
  • Avvertimento dell’Onu: “La presenza di mercenari provenienti dal Sudan si sta rafforzando”
    Questi gruppi irregolari sono arrivati a seguito di Operazione Dignità e potrebbero diventare protagonisti del conflitto in Libia
    Secondo una notizia riportata dall’agenzia Libya Observer, nel sud della Libia, si starebbe rinforzando la presenza di milizie armate provenienti dal Darfur, la provincia settentrionale del Sudan. Si tratta, sempre secondo l’agenzia distanza libica, di gruppi di mercenari sudanesi che avrebbero già partecipato a vari conflitti nel Paese, intervenendo, in particolare, a sostegno della cosiddetta Operazione Dignità, lanciata dalla metà dello scorso maggio dal generale Khalifa Haftar contro le milizie islamiste arroccate in Cirenaica. 
    Questi mercenari sarebbero ora tornati in forze nel sud del Paese e, spiegano una nota diffusa dagli
    osservatori Onu, “Questi gruppi sono coinvolti in varie attività mercenarie (non è chiaro se ancora alle dipendenze di Haftar o di altri.ndr) o operano addirittura per conto proprio. In entrambi i casi, istituiscono checkpoint illegali e sono responsabili di attività criminali come il contrabbando o di veri e propri atti di banditismo”. 
    Gli osservatori dell’Onu avvertono il rischio più che concreto che queste milizie di
    irregolari sudanesi diventino parte integrante del conflitto nel caso la loro presenza del Paese dovesse protrarsi nel tempo.  
  • “Paga o ti spacchiamo un braccio”
    Il video ci è stato segnalato dalla comunità nigerina e mostra un ragazzo torturato nel campo di Bani Walid.
    Il video ci è stato segnalato dalla comunità nigerina e mostra un ragazzo torturato nel campo di Bani Walid. Le immagini sono di ieri. Altri 12 migranti provenienti dal Niger sono stati rapiti dai miliziani libici e si aggiungono ai circa 200 di cui abbiamo già scritto. La voce del torturatore chiede al ragazzo di farsi mandare del denaro dai suoi familiari altrimenti gli spezzeranno un braccio. Il ragazzo piange e ripete “domani, domani vi trasferiscono i soldi”
  • Dalla Libia una richiesta d’aiuto: “Hanno già assassinato 6 persone, aiutateci!”
    25 Dicembre. Qui, oggi, è Natale. Lì è l’orrore quotidiano. Riceviamo stamattina presto da alcuni contatti in Libia e da alcune famiglie di migranti un nuovo appello. Un audio nel quale è stata registrata la trattativa in corso da trafficanti di esseri umani. Modalità, costo a persona, costo totale a gruppo. Tra i due trafficanti c’è una terza persona, il “condottiero”, quello che si occuperà del trasporto degli uomini e delle donne vendute. La trattativa è urgente. Uno dei trafficanti deve lasciare il paese e si deve sbarazzare del suo carico umano in tempi brevi. La telefonata viene inviata anche ai familiari di alcuni dei prigionieri, per tentare anche gli ultimi riscatti possibili. Abbiamo immediatamente avvisato le organizzazioni internazionali presenti in Libia ed in Niger. Ma è Natale. Abbiamo girato le informazioni e la registrazione al giornalista Ibrahim Manzo Diallo, giornalista nigerino molto noto e attivo in patria, e che a sua vola aveva ricevuto la stessa notizia. Diallo ha diffuso questo comunicato, appellandosi alle autorità di Niamey per tentare di salvare il gruppo di prigionieri:
    “Le immagini delle torture alle quali sono sottoposte queste persone sono insostenibili e non ce la sentiamo di pubblicarle. Chiediamo che venga fornita tutta l’assistenza necessaria a questi compatrioti”. Il gruppo di circa 200 prigionieri si trova a Bani Walid, nella Libia meridionale. La nostra fonte riporta che sei di loro sono stati già uccisi.
    Nell’audio si ascolta l’appello di uno dei detenuti che è stato obbligato a chiamare la sua famiglia. Al fratello del giovane detenuto viene chiesta una somma per la sua liberazione. Il fratello giura che troverà i soldi e chiede il luogo dove portarli per poter liberare il fratello prigioniero. Ma i trafficanti alzano la posta e la richiesta di riscatto. Chiedono che oltre ai soldi per il fratello, lui trovi i soldi per altre sei persone. Quelle sei persone sono morte.
    Trai i prigionieri c’è una donna malata. Per quei 200 prigionieri potrebbe essere l’ultimo giorno di vita oggi. O potrebbero intraprendere un viaggio su un barcone dalla Libia verso Malta, verso l’Europa che li accoglierà o che li rimanderà nell’inferno libico. Noi li chiamiamo crimini contro l’Umanità. Chi può faccia qualcosa !

    Ecco l’audio con la richiesta di aiuto
  • “Migliaia di migranti muoiono nel tentativo di attraversare il deserto del Sahara”
    La denuncia dell’International Organization for Migration
    Negli ultimi cinque anni, almeno 6 mila e 600 migrati sono stati ammazzati mentre tentavano di attraversare il Sahara. Lo riferisce l’International Organization for Migration (Iom) che ha parlato di vero e proprio “record” di morti calcolato, per di più, in forte difetto. Infatti, riporta l’agenzia di stampa The Libyan Address, “questi numeri sono solo la punta dell’iceberg” e  “rappresentano solo una piccola parte del vero numero di morti di persone in movimento dall’Africa”. Solo quest’anno che va a concludersi, gli osservatori hanno documentato mille e 400 migrati uccisi. La maggior parte di questi sono morti nel sud della Libia, ma anche nelle regioni settentrionale del Niger e del Sudan. Fame, disidratazione, percosse e abusi fisici, malattie e mancanza di medicinali sono le principali cose dei decessi. 
    Il portavoce dell’IOM, Joel Millman, ha denunciato come le rotte migratorie siano saldamente controllate da bande di trafficanti di esseri umani, che gestiscono come “merce” i migranti dall’africa nera. Tra loro, ci sono anche donne e bambini. Tutto questo nell’indifferenza se non con la complicità delle truppe regolari. Chi riesce a sopravvivere, rimane comunque vittima di traumi fisici e psichici che lo segneranno per tutta la vita. E’ questa la gente che finisce nei lager libici e che viene abbandonata in mare dalla Comunità Europea. 
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  • Quanto accade in Libia va al di là di ogni possibile giustificazione politica
    Lo dice un rapporto dell’Onu che invita gli Stati europei a soccorrere in mare i migranti e ad evitare qualsiasi collaborazionismo con le autorità libiche
    L’ultimo rapporto degli osservatori Onu sulle condizioni dei migranti in Libia è un campionario di orrori indicibili. Ve lo diciamo col cuore in mano: abbiamo fatto fatica a leggerlo sino alla fine. Eppure per l’Italia e per l’Europa, rimane un “Paese sicuro” e chi se ne frega se le autorità libiche non hanno mai ratificato la Convenzione del 1951 sullo status dei rifugiati, si guardano bene dal riconoscere l’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati e non si sono nemmeno mai sognate di abbozzare una qualsiasi politica di asilo, abbandonando volontariamente queste persone allo sbaraglio, in mano ai ricatti e alle vessazioni delle bande criminali organizzate, se non dalla stessa polizia, senza nessun diritto riconosciuto dallo Stato. 
    Il rapporto, che potete scaricare integralmente in fondo alla pagina, si basa su informazioni raccolte dai funzionari dei diritti umani tra gennaio 2017 e agosto 2018, su visite di monitoraggio regolari a 11 centri di detenzione e su una serie di interviste raccolte in Nigeria e in Italia ai migranti che sono riusciti ad abbandonare il Paese “sicuro”.
    “Migranti e rifugiati – leggiamo – soffrono orrori inimmaginabili durante il loro transito e soggiorno in Libia. Dal momento in cui entrano nel territorio libico, diventano vulnerabili a uccisioni illegali, torture e altri maltrattamenti, detenzione arbitraria e privazione illegale della libertà, stupri e altre forme di violenza sessuale e di genere, schiavitù e lavoro forzato, estorsione e sfruttamento da parte di attori sia statali che non statali”. 
    “Tali violazioni cominciano nel momento in cui migranti e rifugiati attraversano il confine meridionale della Libia durante il loro viaggio verso la costa settentrionale. Il viaggio prosegue con il pericoloso attraversamento del Mar Mediterraneo, che finisce sempre col l’intercettazione da parte dalla Guardia costiera libica che li riportano indietro, dove sono sottoposti a detenzione indefinita e frequenti torture e altri maltrattamenti in centri inadatti ad ospitare esseri umani”. 
    A tutto questo orrore le autorità libiche non possono, o non vogliono, porre rimedio e si sono rivelate “incapaci o riluttanti a porre fine alle violazioni e agli abusi commessi contro migranti”. 
    “Anni di conflitti armati e divisioni politiche hanno indebolito le istituzioni libiche, compresa la magistratura, che non sono state capaci, se non addirittura riluttanti, ad affrontare la pletora di abusi e violazioni commessi contro migranti e rifugiati da parte di contrabbandieri, trafficanti, membri di gruppi armati e funzionari statali che godono di totale impunità”.
    “Questo clima di illegalità fornisce terreno fertile per attività illegali illecite, come la tratta di esseri umani e il traffico criminale, e lascia uomini, donne e bambini migranti e rifugiati in balia di innumerevoli predatori che li considerano come merci da sfruttare e estorcere al massimo guadagno finanziario. Gli abusi contro i migranti e rifugiati subsahariani, in particolare, sono aggravati dal fallimento delle autorità libiche nell’affrontare il razzismo, la discriminazione razziale e la xenofobia”.
    La stragrande delle detenzioni, spiega il rapporto, sono assolutamente arbitrarie “in quanto non sono mai stati accusati o processati in base alla legislazione sulla migrazione”.
    Gli osservatori Onu hanno “costantemente osservato un grave sovraffollamento, mancanza di adeguata ventilazione e illuminazione, accesso inadeguato alle strutture di lavaggio e latrine, confinamento costante, rifiuto di contatto con il mondo esterno e malnutrizione. Le condizioni portano alla diffusione di infezioni cutanee, diarrea acuta, infezioni delle vie respiratorie e altri disturbi, e le cure mediche sono inadeguate. I bambini, compresi quelli separati o non accompagnati, sono tenuti insieme agli adulti in condizioni similmente squallide“. Sono state documentate “torture e altri maltrattamenti, lavori forzati, stupri e altre forme di violenza sessuale perpetrate dalle guardie. Il fatto che le donne siano detenute in strutture senza guardie di sesso femminile facilita ulteriormente l’abuso e lo sfruttamento sessuale”.
    “Molti di coloro che sono detenuti nei centri sono sopravvissuti a orrendi abusi da parte di contrabbandieri o trafficanti e avrebbero bisogno di assistenza medica e psicologica. Eppure sono sistematicamente tenuti prigionieri in condizioni abusive, tra cui fame, gravi percosse, ustioni con metalli caldi, elettrocuzione e abusi sessuali di donne e ragazze, con l’obiettivo di estorcere denaro alle loro famiglie … Sono spesso venduti da una banda criminale a un’altra e hanno l’obbligo di pagare il riscatto più volte prima di essere liberati o portati nelle zone costiere per attendere la traversata del mar Mediterraneo. La stragrande maggioranza delle donne e delle adolescenti più giovani intervistate ha riferito di essere stata violentata da gruppi di trafficanti e spesso sono stati portate in alloggi predisposti per per essere abusate collettivamente”. 
    “Le donne più giovani che viaggiano senza parenti maschi sono anche particolarmente vulnerabili all’essere costrette a prostituirsi. Innumerevoli migranti e rifugiati hanno perso la vita durante la prigionia da contrabbandieri o trafficanti di esseri umani dopo essere stati uccisi, torturati a morte o semplicemente lasciati morire di fame o di negligenza medica. In tutta la Libia è facile trovare corpi non identificati di migranti e rifugiati con ferite da arma da fuoco, segni di tortura e ustioni mortali in depositi di immondizia, argini di torrenti, vicoli o nel deserto”.
    Tutto questo lo compiono non solo le bande di trafficanti ma anche polizia ed esercito regolare.  Gli osservatori hanno ricevuto molte “informazioni credibili sulla complicità di alcuni attori statali, inclusi funzionari locali, membri di gruppi armati formalmente integrati nelle istituzioni statali e rappresentanti del Ministero dell’Interno e del Ministero della Difesa, nel contrabbando o traffico di migranti e rifugiati. Questi attori statali si arricchiscono attraverso lo sfruttamento e l’estorsione di migranti e rifugiati vulnerabili”.
    “Oltre alla detenzione per violazione della legislazione sull’immigrazione, i migranti e i rifugiati sono vulnerabili ad essere arbitrariamente arrestati e detenuti, anche da gruppi armati nominalmente sotto il controllo del Ministero dell’Interno, in relazione ad accuse di furto, reati legati alla droga, lavoro sessuale, consumo di alcool e terrorismo. In questo modo si tengono centinaia di persone, la maggior parte senza accusa né processo per periodi prolungati”.
    “Migranti e rifugiati sono a rischio di arresto o cattura arbitraria ai posti di blocco o in strada da parte di forze di sicurezza, membri di gruppi armati ma anche privati cittadini privi di qualsiasi autorizzazione”. Come dire che un libico vede un migrante per strada, se è una donna la può stuprare liberamente, se è un uomo se lo può portare nei campi o nella fabbrica e metterlo al lavoro a suon di frustate. “Migranti e rifugiati sono spesso sfruttati da datori di lavoro senza scrupoli che si rifiutano di pagare i loro stipendi, sapendo che in pratica non hanno alcun ricorso alla giustizia”. E questo non solo per i migranti in transito verso l’Europa ma anche per quelli che già si trovavano in Libia prima della rivoluzione e lavoravano legalmente. “La mancanza di liquidità nelle banche libiche ha lasciato migranti e rifugiati impiegati nel settore pubblico come insegnanti, infermieri e ingegneri che non riescono a ritirare i loro stipendi”. 
    Anche l’esistenza medica più elementare viene negata a chi non è libico. Gli osservatori hanno “raccolto informazioni su migranti e rifugiati malati e feriti, tra cui anche donne incinte e in travaglio, che sono state allontanate dagli ospedali pubblici”. Rivolgersi alla legge è peggio che andar di notte. “Migranti e rifugiati cui sono stati commessi abusi, compresi i sopravvissuti alla tratta e allo stupro, si astengono dal presentare denunce o reclami alla polizia, temendo di essere arrestati e di trasformarsi da vittime a colpevoli”. 
    Il rapporto Onu termina con una raccomandazione all’Europa che è esattamente l’opposto di quanto sta facendo attualmente il nostro Governo Lega 5 Stelle che ha scelto di perseguire la stessa politica varata da Minniti di affidare alla Libia – “Paese sicuro”! – il compito di fermare le migrazioni, condendola, per di più, con una valanga di razzismo e xenofobia, chiusura dei porti e criminalizzazione delle navi delle Ong. 
    “Raccomandiamo che l’Unione europea e i suoi Stati membri intensifichino le operazioni di ricerca e salvataggio nel Mediterraneo e facilitino il lavoro salvavita delle navi di soccorso gestite dalle organizzazioni umanitarie. Esortiamo inoltre gli Stati europei a sincerarsi che qualsiasi cooperazione con le istituzioni libiche includa la garanzia del rispetto dei diritti umanitari, e che non contribuiscano o facilitino, direttamente o indirettamente, la violazioni di questi diritti”. 

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