Café Rebelde

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Ribellarsi alle mafie che costringono alla povertà è possibile.
Anche bevendo un caffè
Selva Lacandona, Messico. Una decina di anni fa. Sullo sterrato che porta al paese di San Juan, poco più di dodici case a fianco di un rigagnolo che hanno avuto il coraggio di chiamare Rio Bravo, si è radunato un gruppo di campesinos. Hanno le camicie e i pantaloni stracciati e uno non ha le scarpe. Tengono la testa bassa mentre trascinano sulla carretera una decina di grossi e pesanti sacchi di juta per mostrarli ai coyoteros. Stanno trattando la vendita del raccolto di caffè del villaggio. I coyoteros sono in tutto una mezza dozzina. Sono arrivati a San Juan rombando a bordo di due pick-up. Il loro capo discute animatamente con i campesinos sul prezzo e sulla qualità del caffè. Gli altri si limitano a osservare la scena con la faccia da duri. Sono armati. Dalla tasca di uno di loro spunta il calcio di una pistola. Un altro ha un fucile appoggiato sul sedile vicino e ne accarezza la canna. Il capo coyote urla il suo ultimo prezzo: 40 pesetas al chilo. Non un centavo di più, altrimenti se lo tengano, il loro sudicio caffè. È un prezzo da infami. Rivendendolo a una qualsiasi azienda di caffè a Tuxtla Gutiérrez, i coyoteros incasseranno almeno dieci volte tanto. I campesinos si consultano timidamente tra di loro. Qualcuno fa cenno di sì con la testa. Una donna dice qualcosa con rabbia ma senza alzare la voce. Il capo coyote sembra soddisfatto. Uno degli uomini sul pick-up abbassa lo sportello posteriore per prepararsi a caricare i sacchi. È proprio in questo istante che dal fitto della selva escono gli zapatisti. Sono tutti a cavallo: quattro uomini e una donna col volto coperto dal passamontagna nero. Sembra di stare dentro la scena finale di “Mezzogiorno di Fuoco”.
«Quando arriveranno i compas non metterti tra loro e i coyoteros» aveva raccomandato Miguel, l’amico insurgente che mi aveva accompagnato a San Juan. «Di solito non succede niente, nessuno ha voglia di mettersi a sparare, ma non si sa mai» aveva aggiunto per tranquillizzarmi. Mi aveva salutato due ore prima dicendo che lo spettacolo stava per andare in onda ed era sparito nella selva. «Tu che sei giornalista, raccontalo quanto torni in Germania (in realtà io sono italiano ma Miguel non ci ha mai visto troppa differenza) che cosa fanno gli zapatisti». Ora Miguel ricompariva dietro al passamontagna nero. L’ho riconosciuto subito per la maglietta con la pubblicità di una bibita, l’unica che gli ho sempre visto indossare.
L’arrivo dei cavalieri spaventa i coyoteros che mettono le mani sulle armi, pur senza puntarle. Il loro capo urla insulti ai campesinos definendoli complici dei banditi. Gli zapatisti rimangono calmi. Uno di loro si fa avanti e si offre di comperare il caffè a nome della rebeldia. Alza il prezzo a 50 pesetas. È ancora un prezzo da regalo. Il capo coyote offre 60 pesetas. «Noi allora paghiamo 70 al chilo» ribatte lo zapatista. L’asta va avanti per 15 minuti, tra gli insulti del coyote e gli sguardi di odio dei suoi accoliti ricambiati da quelli determinati degli zapatisti. Quando il prezzo arriva a 140 pesetas, l’incappucciato tace. I coyoteros caricano il caffè, pagano il dovuto e se ne vanno per la loro strada mentre i cavalieri col passamontagna spariscono nel folto della Lacandona.
«Vedi, è per questo che abbiamo bisogno di voi tedeschi» mi spiega un’ora dopo il ricomparso Miguel che proprio non vuole capire che sono italiano. Ha il passamontagna in tasca ed è venuto e riprendermi per riportarmi al caracol de La Realidad. «Qualche volta succede che i coyoteros rinuncino ad alzare l’offerta e ci sfidino a pagare il prezzo che abbiamo dichiarato. Allora dobbiamo mettere mano al portafogli. Ma noi soldi non ne abbiamo. E che cosa ce ne facciamo di tutto quel caffè? Così lo diamo a voi che lo vendete in Europa».
Il progetto “Café Rebelde” è nato così, pochi anni dopo l’inizio della Rebeldia zapatista annunciata da quel “Ya Basta!” urlato dal subcomandante Marcos dalla finestra del Comune di San Cristobal, in quella notte del primo gennaio ’94. L’Italia è uno dei Paesi europei che ne commercia di più. Il progetto fa capo a Casa Loca di Milano e si avvale della rete delle tante associazioni “Ya Basta” presenti nelle nostre città. Daniele di Stefano è il coordinatore: «Difficoltà ne abbiamo avute tante. Lo sdoganamento per esempio, che abbiamo risolto tramite una cooperativa di camalli genovesi nostri amici. Grazie agli sforzi di tutti e alla cooperazione oggi il progetto è consolidato. L’intervento diretto dei milites incappucciati dell’Enzl adesso è meno frequente perché i contadini si sono costituiti nell’associazione Yachil che provvede alla raccolta del prodotto evitando l’ingerenza dei coyoteros e spedendo i chicchi direttamente in Europa dove lo mettiamo in commercio. Le comunità autonome indigene ci garantiscono un prodotto biologico di qualità respingendo le pressioni dei latifondisti che vorrebbero convertire le loro terre in produzioni di caffè Ogm»


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