Ogni riferimento è puramente

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Un puffo a Napoli

(Ogni riferimento a persone, città, polveri e omissioni è puramente casuale. Dio abbia misericordia della mia fantasia malata).

Mettiamola così: per chi sa vivere, per chi se lo può permettere, Napoli all’inizio degli Ottanta è una città molto divertente. Attici accoglienti, festini memorabili, donne sollecite, e poi neve, neve a fiocchi, a manciate, a nuvole, a palate: non quella fredda e scostante che hanno al nord; e neanche quella spuria e tossica che gira dietro la stazione; neve da signori. Ma bisogna esser prudenti.

Metti che sei il segretario di un grande Partito – neanche tanto grande, ma abbastanza per fare l’ago della bilancia – metti che brighi per diventare il primo Capo di Governo laico, ma non è che puoi passare tutta la vita ad aspettare, tu: tu vuoi vivere anche l’istante, come coso, Orazio. Gli indirizzi giusti li hai, ma ti serve un uomo fidato. Uno che conosce i guappi e gli uomini di Cutolo, quel tanto che basta per voltare la testa al momento giusto. Lo assumi in nero, con quei fondi del partito che conosci solo tu (tutti i segretari di Partito lo fanno, niente falsi moralismi). È il tuo autista ufficioso per i vichi della città: di sicuro non ha mai preso a bordo i tuoi figli. Ti porta alle feste e aspetta fuori. Quando scendi non fa domande; ride alle tue barzellette, è il tuo uomo a Napoli.

Capita che un giorno, a una di queste feste, incontri quel palazzinaro milanese che adesso si è buttato nelle tv. È venuto fin quaggiù a rilevare emittenze che non interessano a nessuno, che ammuffiscono riprogrammando Merola a esaurimento; lui le compra e poi ci mette i puffi. I puffi a Napoli, mah, che idea.
“E perché no”, ribatte, sudato, arricciando il nasone un po’ più rosso del necessario. “Mi consenta, forse che non sono azzurri anche loro? E il cappello, ci pensi bene, non è lo stesso di Pulcinella? Creda a me, gli scugnizzi ne andranno mah… oh crib...”
“C’è qualcosa che non va?”
“Non mi sento tanto bene”.
E si accascia. Siamo a posto, pensi, adesso mi muore tra le braccia. E ai giornalisti dovremo raccontare che non digeriva l’impepata di cozze. “No, niente ambulanza, no, lasciate stare. Giù c’è il mio autista. Chiamate il mio autista. Lui sa cosa fare”.

L’autista sa cosa fare. Si carica in spalla l'immobiliarista, lo sdraia con tenerezza sul sedile dietro, e parte montando una sirena taroccata che è tale quale quella della polizia, anzi meglio. Tre minuti, tre sensi unici contromano, e il palazzinaro riapre gli occhi nel meglio pronto soccorso della città, che ci sta un cugino mio che non ci chiede manco la carta d’identità.
“Cavaliere, oh, come sta?”
“Bene, adesso sto bene”.
“Il cugino mio qui dice che ha avuto un piccolo infarto, ma piccolo, eh? Ma per fortuna che siamo arrivati subito”.
“Per fortuna”
“Cavaliè, deve ringraziare ‘o onorevole, se non c’era lui…”
“E se non c’eri tu. Ti devo un favore”.
“Vabbuò, non si preoccupi mo’, poi ci aggiustiamo…”

Nei giorni, nei mesi, negli anni successivi, l'uomo si sarebbe più volte rimproverato per quella frase, “io ti devo un favore”. Gli era partita dal cuore, un cuore appena morto e rinato, quindi comprensibilmente ancora un po’ imbecille. D’altronde, frase o no, l’autista segreto la vita gliel’aveva salvata sul serio: e adesso era un po’ sua. In qualsiasi momento, con un piccolo sforzo, avrebbe potuto alzare una cornetta, comporre il numero di un quotidiano della concorrenza, e raccontare una piccola storia dei primi anni Ottanta.

Per fortuna era una persona ragionevole. Si era contentato di mantenere il suo stile di vita, anche quando il partito per cui lavorava aveva chiuso i fondi occulti; anzi aveva proprio chiuso il partito. Per lui, come per molti altri, il passaggio al libro paga del cavaliere fu quasi automatico. E in parte giustificato: capitava ancora, per qualche giorno all’anno, che il vecchio autista conducesse per i vichi il nuovo padrone.

Questi gli era simpatico. Molto più del trombone precedente. Visibilmente inquieto nel ventre di una città dalle astuzie millenarie, che resisteva alle sue goffe avances da imbonitore brianzolo. Le sue barzellette erano agghiaccianti, ma l’autista le ascoltava e rideva. Era sempre stata una parte importante della sua professione: ascoltare e ridere.

Un giorno si azzardò a portarselo in casa! Per un caffè, che mia moglie lo fa meglio che al bar. Clamorosa bugia, ma la signora gli aveva fatto una capa tanta con l’Uomo della Provvidenza che era appena entrato in politica, e quando ce lo presenti, e posso dire alla parrucchiera che lavori per lui? e non te lo fai fare un autografo? E insomma tanto brigò che finì per trovarselo sul pianerottolo. La bambina, che teneva in braccio, a momenti le cascava dall’emozione.

“Ma lei è… il Cavaliere”.
“E lei è una meravigliosa mamma di una splendida bambina! Come si chiama?”
“***”.
“Ah sì! Tanto piacere, ***! Me lo fai un sorriso?”
La bimba nascose immediatamente il capino biondo dietro alla nuca della madre.
“Amo’, sorridi al Cavaliere, su, lo sai chi è?”
“No”.
“È… è un uomo tanto importante, sai. È il padrone di tutte le tivvù”.
“Ancora non tutte, signora. Ti piace la tivvù, ***?”
La bimba ora stava studiando il nasone dell’ospite. Le era, in qualche modo, familiare: e poi un naso così grande non può essere cattivo. La madre cercava ancora di estrapolarle una risposta:
“Essù, amore, di’ al Cavaliere cosa ti piace in tivvù”.
“…”
“Ti piacciono i cartoni?”
“I puffi”.
“I puffi! Ma lo sai che li ha inventati lui? Proprio lui!”
“Beh, modestamente, se non fosse stato per me…”
Fu un flash improvviso: la bambina si immaginò il signore che aveva davanti virato in blu, con in coppa il cappuccio ‘e Pulicinella, e si mise a ridere. E che risata squillante aveva. Fu un bagliore improvviso, un lampo ai raggi x, che attraversava le bugie degli adulti e le mostrava al negativo. L'uomo ebbe un brivido. Aveva già avuto molte donne, in vita sua, molti affari e molte soddisfazioni. Ma forse non aveva mai fatto ridere un bambino. Non in quel modo. La mamma si stava ancora scusando, di cosa? Di avere una figlia allegra? Ma sono benedizioni queste, signora. Bevvero il caffè, una fetenzìa. L’autista sudava freddo: si era immaginato tante volte questa scena, una silenziosa odissea nell’imbarazzo. E invece il cavaliere era suo agio. Si mise a chiacchierare del più del meno, amabilmente, senza raccontare nemmeno una delle sue orribili freddure. Discussero di quant’era bella Napoli, con i suoi cieli, le sue canzoni, lo sa Signora che da giovane cantavo? Facevo il piano bar alle crociere, bei tempi quelli, siete mai stati in crociera? Savissi fatto a n’ato’ chillo ch’ài fatt’a’mmè…

La bambina lo guardava fisso, senza mostrare segni di noia. Non aveva mai visto un puffo dal vero, e forse non lo avrebbe rivisto più, voleva riempirsene gli occhi. Venne ora di cena, e il Cavaliere si autoinvitò. Mentre la madre, col cuore a mille, si ritirava in cucina, l’uomo si prese la bambina sulle ginocchia. Si misero a discutere di cose serie, cartoni animati: meglio i puffi o my mini pony? Mentre soppesava i pro e i contro di entrambi i prodotti, il cavaliere tratteneva a stento le lacrime.

Dalla vita aveva avuto tutto, incluso i figli. Meravigliosi figli. Ma con nessuno aveva mai condiviso la sua passione per i puffi. Con nessuno aveva discusso dei My Mini Pony. Se n’erano andati tutti, i suoi pargoli, in quella cazzo di scuola steineriana per la classe dirigente del futuro, quella dove il teleschermo era off limits. Così, mentre il cavaliere selezionava con cura il pastone chimico da servire al popolo (non troppo nutriente, non troppo noioso, coloranti in abbondanza), in casa gli crescevano questi piccoli radical chic con la mania dei libri, che scherzavano su Fede, che trattavano con sufficienza persino Costanzo. Certo, era l’età. Col tempo sarebbero diventati più ragionevoli. Ma io che ho rifatto l’Italia e gli italiani a mia immagine e somiglianza, io non avrò il diritto di prendermela sulle ginocchia ogni tanto, e farla ridere?

“Cavaliere, non abbiamo parole per la splendida serata. Io…”
“Non dica niente, signora, tocca a me piuttosto sdebitarmi”.
“Ma non lo dica neanche per sogno, cavaliere, noi…”
“Venitemi a trovare. Su da noi. O anche in Sardegna, quest’estate. ***, sei mai montata su un pony?”
“No”.
“Allora devi assolutamente venire a vedere il mio ranch in Sardegna, l’ho fatto uguale a quello dei My mini pony, cosa dici, ti piacerebbe?”
A *** sarebbe piaciuto di più vedere il villaggio del cavaliere con le case scavate nei funghi giganti, ma disse ugualmente di sì.
“E allora ci conto. Buonanotte, principessa”.

****
“E questo cos’è?”
“Lo vedi da sola cos’è”.
“Una stalla? Da quando dietro alla nostra villa c’è una stalla?”
“È un ranch”.
“E questa puzza cos’è… cavalli?”
“Sono pony”.
“Va bene, hai messo su un allevamento di pony senza dirmi niente”.
“Se è un problema possiamo andare nella villa qui di fianco”.
“Ma non riesco a capire… chi è che dovrebbe montare questi pony?”
“Pensavo che i bambini…”
“I bambini sono grandi ormai. Se vogliono cavalcare vanno al club. Ma i pony…”
“I bambini dei nostri ospiti”.
“Certe volte non ti capisco”.
“Non c’è niente da capire, ormai sono un politico, avrò più ospiti in casa, verranno con le famiglie, e i bambini si annoiano. Non li possiamo mica mettere davanti alla televisione”.
“Eh, certo”.

(Forse continua).
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