In questa pagina ho riportato gli ultimi articoli che ho scritto per il quotidiano ambientalista Terra, il settimanale Carta, Manifesto, per siti come Global Project, FrontiereNews o siti di associazioni come In Comune con Bettin e altro ancora.
Tangenti sotto il cemento
2/03/2013Global Project
Con l’imprenditore, la cui difesa è già stata assunta dall’avvocato e senatore Piero Longo, il legale di Berlusconi, è stata arrestata anche Claudia Minutillo, ora amministratore delegato di Adria Infrastrutture, ma più conosciuta con l’appellativo di “Dogaressa” all’epoca in cui era la segretaria particolare di Giancarlo Galan e fungeva da perno di collegamento tra il Governatore Veneto e tutta la mandria di cementificatori e palazzinari che gli scodinzolava attorno. In manette anche un presunto console onorario di San Marino, William Ambrogio Colombelli - un “poveraccio” che al fisco dichiarava di guadagnare 12 mila euro all’anno e fatturava per 10 milioni di euro alla volta -, e Nicolò Buson direttore finanziario della Mantovani.
Quella Mantovani spa che a Venezia si legge Mose. Ma non solo. L’impero di cemento costruito da Baita comprende anche l’appalto principale per la realizzazione del prossimo Expo di Milano ma la fetta di torta più grossa era quella che la società si era ritagliata nel Veneto. Potremmo pure dire che nella nostra Regione, la Mantovani si è mangiata tutta la torta! Un vero e proprio asso pigliattutto a Rubamazzetto. Dall’ospedale all’Angelo al percorso del tram di Mestre, dagli interventi di difesa della laguna al passante di Mestre, dalla viabilità della base statunitense Dal Molin alle autostrade. Difficile trovare una devastazione ambientale dove non ci sia dietro lo zampino della Mantovani spa.
Secondo gli inquirenti, l’associazione a delinquere messa in piedi da Baita & C ruotava attorno ad una società con sede legale a San Marino verso la quale venivano emesse fatture false - accertati sempre secondo la guardia di finanza perlomeno 10 milioni di euro - i cui importi venivano in seguito prelevati in contati per essere restituiti all’imprenditore e alla “dogaressa” Minutillo. Frode fiscale quindi. Ma non solo. La domanda che bisogna porsi è: come venivano utilizzati questi fondi neri?
Proprio qualche mese fa, Beppe Caccia, consigliere comunale di Venezia per la lista In Comune, aveva rivolto un appello a Piergiorgio Baita per sollecitarlo a fare chiarezza e ad illustrare pubblicamente, i conti del Consorzio Venezia Nuova e del suo azionista di maggioranza, la Mantovani. Anche in virtù della non irrilevante considerazione che ciò che maneggiano questi signori non sono soldi loro ma risorse pubbliche!
Come c’era da aspettarsi, l’appello di Caccia è stato completamente ignorato dall’imprenditore e, allo stato delle cose, si capisce pure il perché. “Dal 1984, da quando cioè è partito il progetto del Mose, quasi trent’anni or sono - ha dichiarato Beppe Caccia in un suo commento pubblicato sul sito dell’associazione In Comune - della marea di danaro che è andata e che va spesa per quel progetto, solo una parte va a finanziare le opere, mentre una gran parte va a finanziare qualcos’altro”.
Cosa sarò mai “qualcos’altro”? Vediamo come saranno spesi gli ultimi 1.250 milioni di euro stanziati per il Mose dal Governo Monti nell'ultimo scorcio (sconcio) di legislatura. “Innanzi tutto una quota del 12% va a pagare non i lavori o la loro progettazione, ma l’attività di management del Consorzio Venezia Nuova: ciò significa che questa attività verrà finanziata nei prossimi quattro anni con 250 milioni di euro, oltre sessanta milioni all’anno. Chiunque abbia una qualche competenza in materia sa che si tratta di cifre assurde e del tutto spropositate. Mettendo l’occhio nei bilanci passati si vede poi che questa cifra aumenta considerevolmente attraverso attività affidate dal Consorzio ad altri soggetti e rimborsate con cifre molto superiori a quanto effettivamente speso. Si può dunque pensare che i 250 milioni lieviteranno almeno fino a 300”.
“I 950 milioni restanti verranno spesi per i lavori. Ma come? Attraverso l’affidamento diretto alle imprese del Consorzio tra cui le indagate Mantovani SpA e le sue controllate come Palomar e senza gara di appalto. Anche pensando che la forte etica di quelle imprese non le induca a gonfiare le voci di costo (basterebbe informarsi in proposito presso i costruttori veneziani), qualora si facessero delle gare, come avviene in tutto il mondo civile, si otterrebbero dei ribassi medi sui lavori di circa il 30%. Ciò significa che se si facessero delle gare si risparmierebbero 285 milioni di euro, pur lasciando alle imprese la legittima remunerazione del proprio lavoro. Ripeto, questo sarebbe il risparmio minimo a fronte di conti ineccepibili da parte delle imprese. Per la precisione, in questa cifra ci sono anche costi di progettazione, magari fatta in famiglia con incarichi, sempre senza gare, dati da moglie a marito o da padre a figlio, ma non è questo il punto”.
Continua l’ambientalista: “Dunque, dei 1.250 milioni dati dallo Stato circa il 50%, cioè circa 600 milioni di euro non vanno a pagare le opere, ma vanno a un ristretto numero di persone che realizzano così assieme a degli impressionanti superprofitti, degli inspiegabili consensi e degli inspiegabili silenzi da decenni a questa parte. Ristretto numero di persone tra le quali va annoverata la rete dei “collaudatori”, che dovrebbero essere i controllori di ultima istanza, i quali si distribuiscono parcelle principesche e alla cui testa c’era fino a poco fa il noto Balducci”.
Per farla breve tutta l’operazione che ruota attorno al Mose rappresenta il più colossale e impressionante trasferimento di danaro dal pubblico al privato che si sia visto in Italia. Quando l’opera sarà finita (sempre che venga mai finita perché chi la realizza ha interesse ad allungare continuamente i tempi e ad aumentare continuamente i costi) della cifra spesa, solo poco più della metà sarà stato effettivamente speso nelle opere di salvaguardia.
E il resto? “Tutto ciò, che produce gravi distorsioni dell’etica e (a qualcuno potrebbe interessare) del mercato, e che viene pagato, come si dice oggi, ‘mettendo le mani nelle tasche degli italiani’, avviene in nome di Venezia - spiega Caccia -. Con il pretesto della salvezza della città che tutto il mondo vuole e che tutto copre è stata attivata una macchina per mangiare soldi che non si ferma di fronte a nulla”. E conclude: “Vogliamo la verità. Vogliamo sapere a cosa sono serviti questi fondi neri. Se sono state pagate tangenti, chi si è lasciato corrompere e perché”.
Da sempre, le associazioni ambientaliste e non solo oro, hanno sostenuto che le grandi opere come il Mose non servono a salvaguardare l’ambiente, anzi. Piuttosto queste operazioni sono strutturate per deviare finanziamenti pubblici verso colossi privati che li utilizzano non soltanto per cementificare il territorio ma anche per corrompere ed influenzare la politica, dirottandola dal cittadino e bypassando le amministrazioni locali verso ristretti gruppi di potere non di rado malavitoso.
Non è incredibile, riteniamo, che l’arresto di Baita & C sia avvenuto dopo lo tsunami elettorale che ha scompaginato gli equilibri politici. Non è neppure incredibile che il leader del centro destra, Silvio Berlusconi, abbia dichiarato in piena campagna elettorale che le tangenti sono una pratica necessaria per far girare l’economia. Quello che ci risulta davvero incredibile è che 7 milioni 332 mila e 972 italiani lo abbiano pure votato.
Ma questo punto, gli ambientalisti non possono più farsi bastare la soddisfazione di poter dire, ancora una volta, "visto che avevamo ragione noi?". Conclude Beppe Caccia "Ci auguriamo che questa sia la volta buona per fare pulizia e per liberare una volta per tutte Venezia e il Veneto da questo sistema malavitoso di intreccio tra politica ed affari".
Caso Abu Omar. La Corte d’appello condanna i vertici del Sismi
13/02/2013Global Project
Comunque la si pensi, è innegabile che il potere politico abbia giocato tutte le sue carte per impedire che si giungesse a questa sentenza di condanna. Proprio durante il dibattimento, anche il governo Monti, così come prima aveva fatto quello di centrodestra (Berlusconi) e quello di centrosinistra (Prodi), aveva esplicitamente ribadito la piena copertura del segreto di Stato sull’intera vicenda. Inoltre, a pochi giorni dalla sentenza, la presidenza del Consiglio dei Ministri ha sollevato un conflitto di attribuzione tra i poteri dello Stato nel tentativo di invalidare la sentenza della Cassazione che ha chiesto alla corte d’Appello di procedere con questo processo “bis” nei confronti di Pollari e dei suoi sottoposti.
Una mossa che non ha ottenuto gli effetti sperati, tanto è vero che la Corte si è ben guardata dal sospendere il dibattimento in attesa della decisione della Consulta ed anzi ha proceduto con la sentenza, accogliendo le richieste dell’accusa. Pollari è stato giudicato colpevole e condannato a 10 anni (il sostituto procuratore generale Piero De Petris ne aveva chiesto 12), 9 anni per Marco Mancini, all’epoca numero due del Sismi, e 6 anni gli agenti Raffaele Di Troia, Giuseppe Ciorra, e Luciano Di Gregori.
Vicenda chiusa? Non ancora. Gli avvocati della difesa hanno già annunciato il ricorso alla Cassazione. Il legale di Marco Mancini, Luigi Panella, ha sollevato dubbi sulla legittimità della sentenza sostenendo che in questo processo "sono stati utilizzati atti coperti da segreto". Il che, va detto, contraddice quanto afferma Pollari, secondo cui i giudici non avrebbero utilizzato il segreto di Stato in quanto questo proverebbe l’innocenza degli imputati.
L’ex capo del Sismi comunque è assai esplicito nel ribadire la sua fiducia nella Cassazione. “E' una questione di civiltà giuridica - afferma - A cosa serve parlare di rapporti leali tra poteri dello Stato se poi sono soltanto mere enunciazioni di principio? La democrazia si esercita con i fatti e con la sincerità”.
Democrazia, appunto. Questa è la parola con la quale Nicolò Pollari giustifica il sequestro e le torture inflitte, prima nella base di Aviano e poi in Egitto, ad un cittadino egiziano perseguitato dal Governo di Mubarak ed al quale il nostro Paese aveva concesso l’asilo politico. Una persona sulla quale gravavano solo dei “sospetti”, peraltro mai confermati, di essere in contatto con cellule terroriste. Il “caso Abu Omar” non è stato altro che un rapimento in piena regola autorizzato dal governo Bush a pochi giorni dall’invasione dell’Iraq e compiuto da un commando di agenti della Cia - tutti condannati in via definitiva dalla corte di Cassazione - nel nostro territorio. Uno schiaffo alla nostra dignità democratica e alla nostra sovranità nazionale. Uno schiaffo al quale ben tre Governi non hanno saputo rispondere in altro modo che apponendo il segreto di Stato.
Il giro del mondo in ottanta piani
12/02/2013Frontiere News
Sto parlando di un grattacielo. Anzi “del” Grattacielo. E’ così infatti che a Ferrara, senza sforzare troppo la fantasia, chiamano il loro unico edificio che si stacca altissimo verso il cielo del capoluogo emiliano. Il Grattacielo. Ma fate attenzione: il termine va connotato con una forte enfasi negativa. Come se parlassimo di una favela di Rio de Janeiro o di uno slum di Città del Capo. Se - coraggiosamente - vi azzardate a salirne le scale, scordatevi la Ferrara dell’Ariosto e del Tasso. Qui siamo in un altro mondo. Anzi, in tanti altri mondi: quello di Khayyam, poeta e matematico allo stesso tempo, dei grandi “mari che non navigammo” di Hikmet o dell’esilio e dello spaesamento post coloniale dell’africano Achebe. Se fate lo sforzo di rinunciare all’ascensore, vi sembrerà davvero di viaggiare per terre esotiche respirando i persistenti odori di spezie che invadono i corridoi, ammirando le decorazioni che ornano gli stipiti delle porte. E non dimenticate di buttare un occhio sui campanelli per leggervi i nomi di famiglie le cui origini spaziano della Romania alla Nigeria, dal Marocco al Kazakistan, dalla Cina al Venezuela. Sui pianerottoli incontrerete persone che vi salutano con accenti e lingue diverse, augurandovi una buona giornata e le benedizioni dei tanti dei del vasto Creato.
Eppure, per i ferraresi, il Grattacielo è solo una anticamera dell’inferno dantesco. Luogo di pianti e stridor di denti. Una baraccopoli tutta in altezza di parlate, di riti e di razze strane. Fucine di spaccio, violenza e prostituzione. Inesplorabili territori di degrado sia fisico che morale dove si dice, si racconta e qualche volta anche si scrive che succeda di tutto anche se, alla luce dei fatti... non vi è successo mai niente!
Il Grattacielo di Ferrara è così una perfetta metafora di come in Italia vengono presentate le problematiche legate alla migrazione. Tanta paura da manipolare senza fatti concreti con i quali giustificarla. Ma si sa che il terreno più fertile per far crescere le paure è proprio quello della disinformazione!
Anche il nome della struttura, a ben vedere, è tutt’altro che corrispondete alla realtà. I grattacieli infatti sono due, simmetrici e alti cento metri per una ventina di piani, connessi da un paio di blocchi abitativi di due e tre piani. Ci troviamo a ridosso della stazione ferroviaria di Ferrara che, nell’elegante città emiliana, si infila proprio dentro il centro storico. Quartieri tradizionalmente riservate all’alta e ricca borghesia. Il Grattacielo infatti fu costruito, verso la fine degli anni ’50, sulle ali di una delle prime speculazioni edilizie ai bei (?) tempi del cosiddetto “boom economico”, quando gli economisti facevano credere alla gente che le risorse di questa nostra terra fossero inesauribili. Quei moderni appartamenti che facevano tanto “made in Usa” , costruiti per guardare la nobile città degli Estensi dall’alto in basso, erano destinati ai figli della cosiddetta “Ferrara bene” oppure a mero investimento immobiliare.
Fatto sta che quando il grattacielo fu inaugurato, nei primi anni ’60, quasi tutti gli appartamenti erano già stati venduti ma, per la maggior parte, a persone che non avevano mai avuto l’intenzione di trasferirsi là. Tutto sommato, vivere al ventesimo piano farà anche tanto “Stelle&striscie” ma mal si adatta alle abitudini tutte emiliane dei ferraresi, più propensi ai cappellacci di zucca che al Mac Donald.
Il Grattacielo cominciò a vivere solo in seguito alla prima ondata migratoria, alla fine degli anni ’70, quando giunsero nel capoluogo emiliano, e in particolare nella sua provincia, centinaia di migranti in cerca di lavoro e di dignità. In pochi anni, il Grattacielo si riempì di persone provenienti dal Africa settentrionale, dal vicino e dal lontano Oriente, dall’est europea e anche dal sud Italia. Persone che avevano in comune solo il fatto di essere povere e talmente disperate da dover sottostare alle dure regole del mercato nero degli affitti e rassegnarsi a convivere in dieci, quindici, per appartamento. Secondo i dati che mi sono stati forniti dal progetto “Ferrara città solidale e sicura”, di cui parlerò più avanti, il Grattacielo arrivò a dare ospitalità fino a 35 etnie diverse contemporaneamente (adesso se ne trovano “solo” 22).
La diffidenza nei confronti dei nuovi arrivati contribuì a creare un clima di ostilità e di pregiudizio nei confronti dell’edificio che si avviava lungo un inesorabile degrado. Le cronache di quegli anni registrano varie perquisizioni da parte delle forze dell’ordine che portarono a qualche arresto per spaccio. Nell’immaginario cittadino, il Grattacielo divenne così il Bronx di Ferrara. Pochi giornalisti ebbero il coraggio e l’onestà intellettuale di sottolineare che, tanto il mercato dei fitti in nero quanto quello della droga che affliggevano il Grattacielo, erano in mano a dei rispettabilissimi italiani.
Le cose non migliorarono con l’arrivo della Bossi Fini, nel 2002, quando anche i giornali di sinistra cominciarono ad utilizzare quotidianamente termini che io non posso che riportare tra virgolette perché essenzialmente scorretti come “clandestini” e altre parole sporche, per citare il bel libro di Lorenzo Guadagnucci.
Da questo momento in poi, la triste fama che si era creata attorno al Grattacielo cominciò ad incupirsi sempre di più anche se, nei fatti, non si trova un solo episodio di cronaca nera riguardo ai residenti della struttura, se non i sopra menzionati arresti per spaccio e un paio di scazzottate senza pesanti conseguenze avvenute peraltro nelle vicinanze della struttura. Vorrei vedere di quanti caseggiati in Italia, anche meno popolati, si potrebbe scrivere altrettanto nel corso di trent’anni di storia.
La svolta definitiva avvenne nel 2007, quando cominciarono ad arrivare le famiglie per i ricongiungimenti. Il Grattacielo, per così dire, si “normalizzò” arricchendosi di colorati giochi di bimbi sparsi sui pianerottoli e di donne, velate e non, che portavano su per le scale borse di spese.
La povertà arrivata in seguito alla crisi ha colpito duro su queste scale. Non tutti i migranti che oggi ci abitano sono in grado di sostenere le pesanti spese di condominio che prevedono lo stipendio del portiere, la manutenzione dell’ascensore e il riscaldamento centralizzato. L’intervento del Comune e il cambio dell’agenzia che gestiva il condominio hanno temporaneamente permesso ai residenti di affrontare i rigori invernali con i termosifoni accesi ma hanno anche evidenziato uno scoperto di oltre 300 mila euro.
“La vita si è fatta dura per tante famiglie del Grattacielo che, sino a poco fa, potevano contare su una rendita sufficiente a vivere, a pagare le spese condominiali e, in qualche caso, anche il mutuo della casa - mi spiega Roberta, una bella ragazza che lavora al sopracitato progetto -. Molti hanno perso il lavoro e oggi sono alla disperazione. Mi auguro che il Comune sappia trovare una soluzione. Adesso, ad esempio, stanno lavorando per separare i contatori del gas e decentralizzare l’impianto termico per abbassare le spese. Ma quello che mi preme sottolineare è che, oggi come nel passato, episodi davvero violenti non ne sono mai capitati. Eppure, se lo fai notare ad un ferrarese, lo vedrai sgranare gli occhi e blaterare che aveva sentito parlare di omicidi in serie e di stupri collettivi... tutte storie truci che altro non sono che mere leggende urbane. Io ci vengo da anni per lavoro a tutte le ore del giorno e della notte. Ci fosse mai stato qualcuno che mi ha fischiato dietro! Ma come si fa a far cambiare idea alla gente quando neanche i fatti bastano?”
Basta battere la parola “Grattacielo” nel motore di ricerca di uno dei giornali on line di Ferrara per vedere comparire un piccolo museo degli orrori. C’è chi invoca l’intervento dell’esercito, chi propone di abbattere la struttura con tutti quelli che ci sono dentro. Il tutto però è confinato alle solite dichiarazioni xenofobe di esponenti del Carroccio, o nelle lettere al direttore inviate da spaventati quanto ignoranti lettori, per lo più residenti in tutt’altra parte della città.
“Il Comune di Ferrara ha avuto il merito, grazie anche al progetto di cui faccio parte, Città Solidale e Sicura che non a caso ha sede proprio alla base del Grattacielo, di aver governato la situazione impedendo il nascere di una ‘Via Anelli’, come è accaduto a Padova - continua Roberta -. Oggi il Grattacielo è un edificio vivo e ricco di iniziative pubbliche. Negli uffici sistemati al primo piano, accanto a noi, lavorano decine di associazioni. L’unico appunto che vorrei fare agli amministratori è che si continua a dare questi spazi all’associazionismo che opera nel campo dell’emarginazione. In questo modo si alimenta la fama di ‘posto da sfigati’ che ha il Grattacielo. Mi spiego, non ho naturalmente niente contro chi si occupa, che so?, di disagio mentale, ma vorrei vedere alla porta di fianco alla nostra anche la targhetta di qualche associazione che lavora per promuovere la cultura, l’arte o lo sport. Certo, non è facile per nessuno superare certi pregiudizi. E’ capitato che alcune associazioni inizialmente abbiano rifiutato questi spazi, ma poi, quando ci sono entrati, non se ne sono più andate”.
Ma i pregiudizi sono duri a morire ed i fatti non bastano ad ammazzarli. “Qualche tempo fa - mi racconta Loris, un altro operatore del progetto - tutto il quartiere attorno al Grattacielo, stazione compresa, è stata invasa da legioni di scarafaggi. Grossi, neri e schifosetti... li trovavi dappertutto. Il problema è stato facilmente superato con una buona disinfestazione ma non ti dico quello che ci è toccato leggere nei giornali! Tutti accusavano i migranti di aver portato queste blatte dall’Africa. Poi uno studio scientifico spiegò che era una specie endemica della pianura padana! Ma l’immaginazione popolare continua ancora adesso a collegare l’invasione degli scarafaggi ai migranti del Grattacielo. Cosa vuoi che ti dica? Neanche fosse stata una invasione di zebre...”
Si Hungría pierde la libertad también Europa pierde la libertad
28/01/2013desinformemonos
El primer paso fue el cambio del nombre del Estado, que de “República Húngara” fue modificado por uno más nacionalista: “Hungría”. Para Orbán, evidentemente el término “Hungría”, que se deletrea de pie y con la mano sobre el corazón, es más que suficiente. Cosas como “democracia” o “república” son adjetivos de importancia secundaria con respecto al orgullo nacionalista. Orgullo que hace que cualquier manifestación de protesta sea etiquetada, y por consiguiente duramente reprimida, como antipatriótica. Tampoco la oposición bromea en el Congreso de Budapest. Si dejamos a lado el 7.5 por ciento obtenido por los Verdes, los únicos que intentan defender lo que queda de los derechos civiles – una resistencia desesperada que pagan diariamente con detenciones, golpes y persecuciones – hay que registrar el éxito conseguido por el partido Jonbbik (que subió del 2 por ciento en 2006 al 16.7 por ciento en las últimas elecciones) que no esconde sino que magnifica su inspiración a la ideología nazista. Es tan cierto que su líder, Gabor Vona de 31 años de edad, recientemente propuso una ley dirigida a registrar a todos los ciudadanos de origen judío. Una medida justificada, naturalmente, con la finalidad de garantizar “su seguridad”. Discursos ya escuchados y que dan escalofríos en la espalda. Imposible no pensar en cuando Primo Levi escribía: “Inútil creer en ello, pasó, y volverá a pasar”. Los neonazis de Jobbik, en efecto, tienen la función de sostener desde fuera el gobierno de Viktor Orbán, empujándolo cada vez más a la derecha. Los efectos ya se pueden ver. Todos los periódicos de la oposición y también los que simplemente rechazaron tener un papel de meros repetidores de comunicados del régimen cerraron actividades. El histórico Nepszava publicó su última edición insertando una sola frase traducida en las 23 lenguas europeas: “la libertad de prensa en Hungría se acabó”. Una desesperada petición de ayuda a la comunidad internacional que fue deliberadamente ignorada.
El aire que sopla en la que hasta hace poco tiempo era la República Húngara nos lo explicaron claramente los músicos de jazz del espléndido Szoke Szabolc Quartet, que hacen giras en Europa para dar a conocer tanto su música como la situación húngara. Una situación que encuentra muy pocos espacios en nuestros medios, tradicionalmente poco atentos a los que sucede más allá de los Alpes, incluso en países como Hungría que está a menos de tres horas de la frontera italiana.
“Y es una vergüenza porque las formaciones de extrema derecha mantienen contactos muy estrechos entre sí”, explica en el taller Morion, de Venecia, el domingo 20 de enero, Gabor Juhàsz, guitarrista de la banda. “Sabemos que hace poco de tiempo varios autobuses llenos de nazistas húngaros llegaron justo a su región para participar en un concierto organizado por el Frente Skinhead. La cosa que más me sorprende es que todo fue realizado a la luz del día. La policía se conformó con controlar que los medios estuviesen estacionados en los lugares asignados, mientras que desde la tarima se lanzaban himnos a la violencia, al odio racial y a Hitler. ¿Pero su Constitución no prohíbe acaso la propaganda de la ideología fascista?”, cuestionó el músico al auditorio italiano.
Juhasz, entrevistado por Vilma Mazza de Globalproject, contó acerca de las persecuciones a las que son sometidos los músicos y, más en general, los escritores y los artistas y todas las personas que hacen cultura en Hungría. “Museos, fundaciones, teatros fueron cerrados o asignados a siervos del régimen que los usan sólo para fines propagandísticos. La música, sin embargo, no tiene confines y un artista ama siempre la libertad porque sabe que sin libertad no se puede ni tocar ni producir cultura. Nosotros, además, somos músicos de jazz que es una forma musical mestiza y transnacional por su propia naturaleza. Éste es el motivo por el cual debemos tocar en el exterior. Al régimen le gustan más los himnos nacionales y detesta una música como la nuestra, que básicamente quiere decir libertad e interculturalidad”.
No sólo es la cultura la que sufre la degeneración fascista en Hungría. Con la nueva Constitución, el poder judiciario fue puesto bajo el control directo del Ejecutivo, en menosprecio de esa división de los poderes que está en los cimientos de las repúblicas modernas (no es una casualidad, entonces, que, como dijimos, el gobierno renunció a la palabra “república” frente a “Hungría”). La persecución racial afectó sobre todo a los rom (gitanos) que fueron todos registrados como pertenecientes a una etnia “no húngara” y que para trabajar tienen como única alternativa la de entrar a un programa de “trabajos socialmente útiles”. Por un salario de hambre, son desplazados y concentrados en campos de trabajo bajo la vigilancia de policías armados. La diferencia con un campo de concentración nazista no es tanta, finalmente. Por ahora. Otro punto fuerte del programa electoral de Orbán era hacer publicidad a los bancos bajo el eslogan de que el dinero de los húngaros es de los húngaros. Como imaginarán, se trataba sólo de un patético intento de corte populista.
Hacer tontos a los bancos no es tan fácil como poner en un gueto a los rom o registrar a los judíos. Bastó una pestañeada del Banco Mundial para abortar todo el proyecto ignominiosamente. También en Hungría, como en Italia y en el resto del mundo, se podrán igualmente golpear los derechos de los trabajadores, pero cuidado con tocar el capital. Ésta es una elección que obtuvo el favor inmediato del gobierno chino. El secretario de industria de Beijing, el “camarada” Miao Wei, recientemente declaró que su país invertirá fuertes sumas de dinero en el “desarrollo económico” de Hungría, ya que, afirmo textualmente, en este país, único en Europa, la mano de obra cuesta poco y los trabajadores – ¡Qué buenos son! – no exigen casi derechos. ¡Viva el comunismo y la libertad!
Esto es lo que pasa en Hungría. Un país que, como para Bosnia, se encuentra a dos pasos de Italia, pero en la opinión común construida por nuestro mass media, parece ubicado en otro y lejano continente. Empero no debería ser difícil darse cuenta de que en este mundo globalizado lo que acontece detrás de la puerta de nuestra casa es como si pasara en nuestra misma casa. Y no sólo por una imprescindible cuestión de justicia universal que, como nos dijo un hombre llamado Ernesto Che Guevara, debería empujarnos a sentir cualquier prepotencia ejercida en cualquier lado del mundo como si hubiera sido hecho en contra de nosotros. El problema es también que cada ataque a los derechos fundamentales que se dé en cualquier país del mundo se traslada, tarde o temprano, a un ataque parecido contra nuestros propios derechos fundamentales. No podemos ilusionarnos más con que se puede vivir libres en un mundo de esclavos. “Si Hungría pierde la libertad – concluye Vilma Mazza – también Europa pierde la libertad”.
Profughi libici in corteo per la dignità e la libertà
24/01/2013Global Project
L’accordo stipulato tra la Caritas e la Prefettura di Venezia, che non ha neppure preso in considerazione la proposta della Rete Tuttiidirittiumani e di altre associazioni cittadine che si erano offerte di occuparsi dell’accoglienza a titolo gratuito, ha fissato il contributo statale in 46 euro al giorno a profugo. Una cifra che al mese fa all’incirca lo stipendio medio di un professore. Mille trecento e rotti euro netti al mese che in tanti, qui, se li sognano di notte. Dove sono finiti quei soldi? hanno chiesto i migranti. Possibile che la Caritas non debba neppure produrre una rendicontazione su come è stato speso questo denaro pubblico? Anche se la convenzione - chissà come mai - non lo prevede, fare chiarezza sulle spese dovrebbe essere ugualmente un obbligo per una mera questione di trasparenza.
“Siamo persone e non siamo valigie - spiega un migrante -. Ci hanno tenuto parcheggiati per troppo tempo. Tra noi ci sono anche donne con bambini. Questa che ci è stata data non è accoglienza. Non possiamo andare avanti a permessi di soggiorno che scadono ogni due o tre mesi. E dove andremo dopo il 28 senza un soldo in tasca, senza prospettive e senza documenti? Vogliamo sapere quale sarà il nostro futuro. Ne abbiamo il diritto”.
Tra le donne fuggite dalla guerra in Libia c’è una battagliera Blessing. Potremmo definirla una doppia profuga, considerato che era giunta a Tripoli per fuggire alla guerra che insanguinava il suo Paese d’origine. Blessing ha due bambini. Il secondo ha pochi mesi ed è nato in Italia eppure, per i motivi che sappiamo tutti, non può considerarsi italiano. Il bambino più grande ha sette anni e non può andare a scuola. “Mi hanno detto che non posso iscriverlo a scuola - spiega - e che devo attendere che la mia posizione venga definita. Ma che colpa ne ha mio figlio? E cosa aspettano a dirci cosa faranno di noi? Questa che loro chiamano accoglienza ha ottenuto solo di tenerci segregato dal resto della società. Non abbiamo neppure avuto la possibilità di cercarci un lavoro e di intessere relazioni sociali. Questa non è giustizia. Io voglio un futuro per me e per i miei bambini. Voglio dignità”.
Quella stessa dignità che reclamavano tutti gli striscioni che i circa 250 profughi dalla Libia - migranti di guerra provenienti da tanti Paesi come il Mali, la Nigeria, il Sudan - hanno portato per le calli di Venezia sino alla prefettura dove sono stati accolti da uno schieramento di poliziotti e di celerini francamente eccessivo per una manifestazione che certamente non si poteva definire a rischio di violenza. La tensione è comunque calata quando il prefetto ha accettato di ricevere una delegazione dei profughi.
“Abbiamo assistito all’ennesima gestione emergenziale e ad un meccanismo forzato che ha prima costretto che ha prima costretto tutti i migranti provenienti dalla Libia a chiedere asilo politico per poi ricevere nella stragrande maggioranza dei casi un diniego - si legge nel documento diffuso dalla Rete Tuttidirittiumani -. Infine è stato loro concesso con colpevole ritardo (cioè solo adesso) un permesso umanitario in concomitanza con la scadenza del programma di accoglienza. Alla base di questo c’è stata una gestione che ha assunto in molti casi la forma di un vero e proprio business costruito sulle spalle dei migranti (così come dimostrato da diverse inchieste) con un'enorme discrepanza tra le grosse cifre investite - 46 euro al giorno a persona - e la bassissima qualità e disorganizzazione del sistema di accoglienza”.
Più o meno quello che, in un linguaggio meno forbito ma più diretto, ha scritto un profugo sul suo cartello: “Dove sono finiti questi soldi?”
Studenti in campo per dire no all'omofobia
24/01/2013Global Project
La mobilitazione degli studenti medi di Venezia nasce in risposta al caso sollevato dal professore di religione del liceo marco Foscarini Enrico Pavanello che in una sua lezione tenuta in una classe di studenti di seconda superiore ha equiparato l’omosessualità alla pedofilia, sostenendo inoltre che essere gay è una scelta malata che un preparato psicologo può risolvere. Il docente in questione non è nuovo a queste prese di posizioni. Lo scorso anno infatti era riuscito ad ottenere dal preside il permesso di organizzare all’interno dell’istituto (e stiamo parlando di una scuola pubblica) una mostra contro l’aborto.
La lezione sul tema “gay = pedofilo” del Pavanello è comunque finita dritta nei media locali, sollevando il proverbiale vespaio di polemiche cui lo stesso Pavanello ha cercato di smorzare sostenendo che altro non si trattava che di uno “spunto di riflessione”. Inevitabile, spunto o no, la dura presa di posizione delle associazione per i diritti dei gay e, di contrasto, la pronta difesa del patriarcato di Venezia che ha ribadito piena fiducia nel suo docente, considerato “una ottima persona”.
Al di la della facile ironia sul fatto che le alte gerarchie della chiesa non perdano mai l’occasione di evidenziare il pericolo della pedofilia ma sempre in casa d’altri, resta il fatto che il vero problema non sta tanto nella presa di posizione omofoba di uno sconosciuto professore di religione, sia pure sostenuta nell’ambito di una lezione svolta in una scuola pubblica, quanto nel fatto che questi, alla fin fine, non fa che ribadire quando ogni giorno affermi il papa Ratzinger, che è tutt’altro che uno sconosciuto professore di religione.
Tra i senza dimora con la cooperativa Caracol
19/12/2012Global Project
E’ proprio nel momento in cui il gelo ti stringe le carni sino ad ammazzarti che alla stazione di Mestre arrivano i compagni della cooperativa Caracol. Sono in tutto una decina, scendono da una scassato pulmino portando scorte di coperte, termos con bevande calde, merendine e altri generi di conforto. Indossano una specie di giubbotto arancione da stradino (non ci sono certo soldi per una vera divisa) ma che per i senza dimora di Venezia è diventato un segno di riconoscimento che fa la differenza tra la vita e la morte. “Oramai abbiamo il nostro giro consolidato col pulmino che ripetiamo tre o quattro volte per notte - spiega Momo, portavoce della cooperativa che ha sede all’interno del centro sociale Rivolta di Marghera -. Alla stazione troviamo di solito una sessantina di persone che ci attende. Non abbiamo posti per tutti, al ricovero. Diamo la precedenza ai malati, alle donne, ai bambini...” Bambini? Sulla strada?
“Dove vivi? Certo che ci sono bambini sulla strada. Tanti minori che si autogestiscono ma soprattutto sotto natale troviamo sempre delle madri con figli di due o tre anni. Anche infanti mi è capitato. A loro diamo sempre la precedenza e li portiamo al caldo. Ovviamente, il giorno dopo mi attacco al telefono e spacco le palle anche alle pietre sino a che l’assessorato, il Comune, il sindaco, il patriarca, o San Pietro in persona non gli trova una sistemazione decente”. Conosco Momo da un bel po’ di tempo e vi assicuro che come rompe le palle lui su questioni come queste, non le rompe nessuno. Ogni inverno mi faccio un dovere di trascorrere qualche notte con la cooperativa Caracol - che per inciso ha assunto questo nome dai liberi municipi organizzati dal sub comandante Marcos (praticamente ogni attivista della Caracol ha trascorso due o tre estati in Chiapas a sostenere la rebeldia zapatista). Trovo l’esperienza estremamente educativa per capire quale siano i veri problemi della città e che, guarda caso, non sono mai quelli dentro le agende politiche dei nostri onorevoli e non finiscono mai in prima pagina nei giornali che contano. La domanda che faccio sempre a Momo è: quale è la new entry di questo inverno? Ci sono stati i cassaintegrati, gli sfrattati che dormivano in auto, i rovinati dalla slot machine... E quest’anno? “Le donne. Soprattutto donne dell’est, ex badanti che hanno perso il lavoro perché l’anziano che accudivano è morto o perché le famiglia non poteva più permettersi di pagarle. Sono loro le ‘nuove facce‘ della povertà“. Il clochard tradizionale, mi spiega, oramai non esiste più da qualche anno. Sono sempre meno. Gli alcolizzati, magari con problemi psichici alle spalle, hanno vita breve sula strada.
”Il ricambio viene da persone che fino a poco tempo fa facevano una vita normale. Li vedi subito, alla stazione. Si avvicinano a noi timidamente. Vestono in maniera decente o quasi e cercano di darsi un contegno. Ci tengono a giustificarsi e raccontano che la loro è una situazione di bisogno temporanea. Quasi sempre si illudono, purtroppo”.
“Noi cerchiamo di fare quello che possiamo per tutti - prosegue Momo -. Soprattutto non obblighiamo nessuno. Chi vuole viene con noi e chi vuole prende la sua coperta e rimane là”. Perché qualcuno dovrebbe rifiutare la vostra assistenza? “Nelle strade c’è tutto un mondo che è difficile, se non impossibile, comprendere appieno. C’è chi ha teme che se lascia libero il suo giaciglio non lo recupera più. C’è chi è alcolizzato e ha bisogno di stare vicino ad un supermercato perché mezz’ora prima l’orario di apertura vuole già essere là, davanti all’entrata, per procurarsi il suo cartoccio di vino. C’è chi ha problemi mentali, chi ha paura e non si fida, chi con parla l’italiano e non capisce chi siamo, chi occupa spazi abusivi e teme che la polizia lo sgomberi...” E aggiunge ridendo: “Anche se, avremmo tanti difetti noi della Caracol, ma non certo quello di avvisare gli sbirri! Al massimo, quando il freddo è eccessivo e non possiamo portare tutti al ricovero, avvisiamo l’assessore Sandro Simionato che, va detto a suo onore, si fa in quattro per chiamare le Ferrovie e far aprire la sala riscaldata della stazione”. Momo non lo dice, ma qualche anno fa, di fronte ad un rifiuto delle Ferrovie dello Stato, i ragazzi del Rivolta hanno aperto la porta della sala d’aspetto riscaldata col piede di porco! Da quella volta comunque non ci sono più stati incomprensioni con le Ferrovie. La lotta paga. Soprattutto quando si fa dura.
Va sottolineato comunque che il Comune di Venezia gioca un ruolo importante e cosciente di fronte all’emergenza freddo. Al contrario della Regione Veneto di marca leghista che ha tagliato qualsiasi fondo per l’assistenza ai senza casa, dirottandoli a quel genere di “feste culturali” tanto amate dai padani tipo la “sagra dei osei” dove si celebra la caccia agli uccelli con le reti da richiamo, vietata dall’unione Europea che non manca mai di affibbiare al veneto qualche multa meritata e salata. La Caracol si mantiene grazie ai finanziamenti del Comune di Venezia ma soprattutto grazie all’attivismo e al volontariato dei suoi sostenitori. In un Veneto dove i sindaci leghisti anche quando danno il panettone ai poveri si accertano se questi siano di razza padana, la città lagunare è rimasta l’unica ad offrire assistenza a chi ne ha bisogno senza distinzione di razza o di colore. Qui i vigili non bastonano i mendicanti accucciati in stazione come ho personalmente visto fare due anni fa nella Verona di Tosi (il che mi è costato una litigata furiosa con i due prodi “tutori dell’ordine” con conseguente invito a “mostrare miei i documenti” e domanda del “ma lei perché non si fa i cazzi suoi?”)
Il risultato è che la stazione di Mestre è diventata un ricovero per tutti i senza dimora del Veneto e se ci prendi un treno di sera non ti manca mai di sentire l’imbecille di turno che ti commenta di quanto questo luogo sia sporco e mal frequentato “al contrario della stazione di Verona”. Al che vi lascio solo immaginare la mia risposta.
“Così vanno le cose. Ma che ti devo dire? - mi fa Momo - Io preferisco mille volte avere a che fare con queste persone, molte dei quali posso chiamare amici, che con tutti quei pezzi di m... posso dire pezzi di merda in una intervista?” Diciamo di cacca. “Va bene. Preferisco stare con questa povera gente che con tutti quei pezzi di cacca che comandano in Regione e vanno in Tv a fare la voce grossa su questioni di sicurezza, pericolo clandestini, xenofobie varie e altre fesserie. Cioè... mi domando: sono particolare io o anche tu la pensi così?” Sta tranquillo che sono le persone “particolari” come te quelle che rendono il mondo un posto degno di essere vissuto e non certo quei pezzi di me... voglio dire, di cacca che mi toccava vedere nel teleschermo, prima che buttassi via la Tv.
“fatto sta che per noi è sempre più dura. Le risorse sono poche e le spese come la benzina, il riscaldamento, i generi di prima necessità aumentano”. Già ma voi siete tipi tosti, giusto? “Più ce le danno e più teniamo duro! La Regione non ci da più un soldo? tanto peggio. Gli abbiamo risposto di andare...” Sì, ho capito dove... “e ci stiamo attrezzando per aumentare il numero di posti letto da 24 a 30, e offrire altri servizi come pasti caldi, corsi di lingua con la scuola Liberalaparola, medicine, docce due volte alla settimana, anche se non siamo gente che obbliga gli altri a lavarsi. E oggi, tanto per continuare in gloria, abbiamo organizzato un bel festone natalizio con tanto di panettone e spumante, grazie ai ragazzi dell’Osteria del Rivolta che hanno cucinato gratis”.
Ci sono andato ed è stata davvero una bella festa. Oltre agli attivisti del Rivolta e della Caracol c’era una sessantina di senza dimora. “Vedi come stanno cambiando le cose - mi ha detto preoccupato il consigliere Beppe Caccia intervenuto come rappresentante del comune assieme a Flavio del Corso presidente della municipalità di Marghera - Di clochard vecchio stile ce ne sono due o tre. Gli altri sono tutte persone che stanno conoscendo solo ora la miseria e la vita di strada. Operai che hanno perso il lavoro, cassa integrati, ex badanti dell’est che non hanno neppure i soldi per tornare in patria. Ascolta qualche loro storia che hanno tanto da insegnare”. Così ho fatto. Ho parlato con Andrej, studente dell’est con una media da capogiro all’università di Venezia ma che vive in strada perché, pur essendo iscritto ad architettura, non ha i documenti in regola e non può fare domanda per la casa dello studente. Poi c’è Paolo, italianissimo, che vendeva protese dentarie e aveva rapporti con tutti gli studi dentistici del veneziano. Dopo il divorzio è arrivato lo sfratto e la crisi gli ha tolto il lavoro. Vive in un’auto parcheggiata in via Fratelli Bandiera che non può muoversi perché non ha più un soldo per pagare il bollo di circolazione. Per curarsi le carie, va a mettersi in fila all’ambulatorio che Emergency ha messo in piedi a Marghera. Sergej invece è russo. Lavorava in una piattaforma in mezzo al mar Baltico e guadagnava una vagonata di rubli. La caduta dell’unione sovietica lo ha riportato a terra solo per scoprire che i suoi rubli non valevano più niente e che sua moglie che viveva con un altro uomo e gli aveva cambiato la serratura di casa. Allora è partito per la Spagna a cercare lavoro. Qui a Venezia, mi spiega è solo di passaggio, perché un tecnico del suo valore lo stanno aspettando a braccia aperte. La stessa storia che mi aveva raccontato tre anni fa, mentre aspettava la sua coperta alla stazione di Mestre. Mentre faccio finta di credergli ripenso a quello che mi ha appena detto il saggio (che non sa di essere saggio) Momo. Meglio questa gente a tutti quei musi di cac... ma no, diciamo pure di merda che contrabbandano idee vili, razziste e fasciste davanti alle servili telecamere dei nostri telegiornali.
Delinquenti, tossici ed extracomunitari. Il razzismo nei media
13/12/2012Global Project, Melting Pot
Poi ci sono tutta una lunga serie di “si dice”, “pare che”, “secondo alcuni”... tutte affermazione che alla scuola di giornalismo ti spiegano che non vanno mai usate ma che, evidentemente, se riferite a nomadi, extracomunitari e clandestini si può fare una eccezione. Ecco qualche esempio. Dalla Nuova del 25 novembre: “Al servizio mensa di Marcon si sono presentate delle persone, pare zingari...”. Dal Gazzettino del 4 novembre: “la donna ha raccontato di essere stata aggredita da tre individui, forse extracomunitari”. Dal Gazzettino del 22 novembre: “L’uomo aveva i tratti somatici dell’etnia sinti”. Mi spiegate per cortesia quali sono i tratti somatici dei sinti? Prendiamo un esempio: il calciatore Andrea Pirlo che non ha mai nascosto di provenire da questa, chiamiamola, anche noi, etnia, che tratti somatici distintivi dagli “italiani doc” possiede?
Per non parlare, tanto per testimoniare la suprema ignoranza di tanti miei colleghi giornalisti, di tutta la serie di “extracomunitari rumeni” che infestano gli articoli di cronaca nera. Qualcuno glielo dovrebbe spiegare, prima o poi, che la Romania è parte integrante della Comunità Europea! Un canadese può essere definito extracomunitario, ma un rumeno proprio no!
Ultima nota per le lettere al direttore. Certo, queste non le scrivono i giornalisti, ma vi assicuro che sono un indicatore precisissimo della linea politica del giornale perché tra le centinaia che arrivano quotidianamente in una redazione vengono pubblicate solo quelle che, in qualche modo, testimoniano la correttezza dell’approccio politico del quotidiano ai problemi della città. Alle voci discordanti che servono a testimoniare la pluralità, casomai, si lascia spazio nelle colonnina riservata all’opinionista (che non legge mai nessuno). Quella delle lettere invece è, dopo lo sport, la pagina più letta dei nostri giornali. Ebbene, la lettera pubblicata dal Gazzetino il 27 novembre è stupendamente emblematica: “Sovente leggiamo i ben noti e soliti problemi che affliggono Venezia: l’acqua alta e il Mose, il turismo maleducato, il moto ondoso, le grandi navi, Santa margherita, via Piave, i sinti, i cassa integrati di Marghera, i vu cumprà, il tram, la sporcizia dilagante nel centro storico”. Che dire di questo bell’elenco di disgrazie? Qualsiasi commento è superfluo!
Questo che abbiamo sopra riportato è un sunto del lavoro effettuato dal gruppo stampa del l’Osservatorio contro le discriminazioni Unar del Comune di Venezia e presentato in un incontro svoltosi lunedì 10 dicembre al liceo scientifico Giordano Bruno di Mestre. Davide Carnemolla dell’Osservatorio veneziano ha presentato i dati complessivi del monitoraggio sui termini e sui pregiudizi razzisti veicolati dai nostri giornali locali, compreso le “perle” che abbiamo già riportato. Il rapporto è scaricabile dal sito dell’osservatorio all’indirizzo
http://antidiscriminazionivenezia.wordpress.com.
Ospiti d’onore dell’incontro sono stati due giornalisti del calibro di Carlo Berini di Articolo 3 e Giulietto Chiesa presidente di Alternativa. Berini che nella sua città, Mantova, ha organizzato un osservatorio antidiscriminazione che è stato uno dei punti di riferimento per la struttura veneziana, ha messo in guardia gli studenti sul fatto che la discriminazione non riguarda solo categorie come i rom o i migranti ma “è una questione che vi troverete ad affrontare per tutta la vostra vita e che vi colpirà personalmente quando al lavoro sceglieranno un raccomandato al posto vostro o qualcuno vi passerà davanti in una graduatoria senza averne i requisiti. Allora sarà importante imparare a riconoscere l’ingiustizia, affrontarla e superarla così che nessuno che viene dopo di voi ne venga fatto oggetto”. Applauditissimo l’intervento di Giulietto Chiesa che ha parlato dell’informazione nel nostro Paese. Anzi, dell’informazione che non c’è nel nostro Paese. “I telegiornali sono composti per il 5% da notizie false al 95%, per il 45% da pubblicità che come tutta la pubblicità è falsa al 100% e per il restante 50% da intrattenimento che, quando non è inutile, è comunque falso all’80%”. E ha concluso: “L’informazione è controllata da un gruppo ristretto di potenti che possono decidere cosa dire e come. E’ un sistema che non accetta e che non lascia trapelare la realtà dei fatti. Ci mettono davanti agli occhi una realtà virtuale che è totalmente diversa dal mondo reale in cui dobbiamo vivere”.
“Proprio come il film Matrix?” ha osservato uno studente dalla platea.
“Già, proprio come Matrix - ha risposto Chiesa - solo che questo non è un film e non ci sarà nessun Eletto a salvarci. Dobbiamo farlo noi”.
Venezia in campo per il suo Arsenale
14/10/2012EcoCivici Veneto, EcologistiCivici, EcoMagazine, Global Project, In Comune
In altre parole, il Consorzio e il Magistrato, braccio operativo del ministero a Venezia, avrebbero fatto pressione sul ministro Passere - più propenso a far andare avanti i lavori del Mose che a favorire Venezia - per inserire questo contestato codicillo che consente al demanio di mantenere il possesso di circa il 70% dell’area dell’Arsenale, lasciando alla città solo un’elemosina.
Il che ha improvvisamente fatto tabula rasa di circa trent’anni di discorsi, sogni e progetti che tra calli e campielli si sono sempre fatti a tutti i livelli - dalle stanze di Ca’ farsetti ai tavoli di osteria tra uno spritz e l’altro - su “cosa faremo quando finalmente torneremo in possesso del nostro Arsenale?”
Si capisce che la faccenda sia andata di traverso ai veneziani che, per l’appunto, hanno accolto in gran numero l’invito lanciato da una ventina di associazioni a partecipare a questa prima giornata di mobilitazione per chiedere che l’arsenale dei veneziani venga dato ai veneziani. La partecipazione all’iniziativa infatti, è stata numerosa e pittoresca con le remiere e le associazioni di vela ad occupare pacificamente il canale con caorline e bragozzi dalle vele coloratissime, sandoli e gondolini da regata e persino una “bissona” da parata sulla quale lo stesso sindaco Giorgio Orsoni ha preso la parola per denunciare questa sorta di furto con destrezza. “La nostra mobilitazione è la prova concreta di quanto la città abbia a cuore una parte importante della sua storia come l’arsenale” ha dichiarato il primo cittadino che ha poi lanciato un appello al presidente della Repubblica perché non firmi il decreto “truccato”.
Una partecipazione, dicevamo, a 360 gradi che ha coinvolto oltre al sindaco anche altri esponenti del consiglio comunale come il capogruppo della lista in Comune, Beppe Caccia, uno dei primi a denunciare la vergogna del “codicillo fraudolento”. Caccia ha chiesto al sindaco Orsoni la convocazione di un consiglio comunale straordinario dedicato all’Arsenale ed inoltre ha depositato una interrogazione urgente in cui chiede che siano avviate le procedure per rimuovere dal suo incarico il presidente del Magistrato alle Acque di Venezia, Ciriaco D'Alessio. Personaggio già noto alle cronache di Tangentopoli e ora protagonista di questo tentativo di strappare alla città di Venezia un pezzo della sua tradizione per consegnarlo alla lobby del Consorzio Venezia Nuova. "Considerato che i gravi precedenti penali, la discutibile gestione dell’intera vicenda legislativa relativa al passaggio del compendio dell’Arsenale e l’inaccettabile atteggiamento tenuto nei confronti delle Istituzioni locali dimostrano una complessiva inadeguatezza di Ciriaco D’Alessio a ricoprire l’importante e delicato incarico di Magistrato alle Acque per Venezia, - spiega l’ambientalista -e inoltre configurano una condizione di vera e propria ’incompatibilità ambientale’ di tale indegno funzionario dello Stato con la nostra città, chiediamo al sindaco di intervenire presso il presidente del Consiglio dei ministri per rimuoverlo dal suo incarico”.
“Questo colpo di mano fatto dal ministro Passera su ordine del Consorzio e con l’arma meno democratiche che esiste, che è quella del decreto, è assolutamente inqualificabile ed inaccettabile - ha concluso Tommaso Cacciari del laboratorio Morion -. Il ministro ci ha letteralmente scippato l’Arsenale per girarlo al Consorzio Venezia Nuova che, ricordiamolo, è un cumulo di imprese private di emeriti cementificatori che dagli anni ’80 hanno il monopolio delle grandi opere di salvaguardia della città, spesso inutile e dannose come il Mose, e per questo hanno dragato tutto i fondi della legge speciale. Adesso vorrebbero mettere le mani anche sull’Arsenale, anche in vista del business della manutenzione del Mose stimata sulla ventina di milioni all’anno. E per far questo hanno bisogno degli spazi dell’Arsenale che stanno cercando di sottrarre alla città”. Il tutto, al di là di qualsiasi percorso partecipativo dei cittadini su scelte che coinvolgono la loro città.
Ancora, come per l’acqua e per le grandi opere, si scrive Arsenale ma si legge democrazia.
Di seguito, intervista con Beppe Caccia
Intervista con Tommaso Cacciari
Fiaccolata per l’ambiente e la salute a Monselice
29/09/2012EcoMagazine, Global Project
Questi tre impianti, spiegano gli organizzatori della manifestazione sono autorizzati a produrre cemento utilizzando rifiuti. Una lavorazione riconosciuta come altamente pericolosa per la salute. In totale, ogni anno sono smaltite nel territorio del parco dalle cementerie Zillo di Este e Italcementi di Monselice ben 343.500 tonnellate di rifiuti. Ora, la nuova proprietà della Cementeria di Monselice ha chiesto l'autorizzazione di smaltire altre 225.000 tonnellate di rifiuti speciali. "Chi concede le autorizzazioni non considera che questi impianti ormai si trovano all'interno dei centri abitati - spiega Silvia Mazzetto del comitato "E noi?" - e che i limiti di legge delle emissioni inquinanti vanno calcolati globalmente e non separatamente per ciascun impianto. Il risultato è che, da anni, noi e i nostri figli, unici in Europa, respiriamo incredibili quantità di sostanze pericolose per la nostra salute".
"Dobbiamo disinnescare questa bomba ecologica - conclude Francesco Miazzi - . Dobbiamo difendere la salute e le giuste aspettative di quanti qui vivono e lavorano. E' urgente cercare soluzioni che consentano finalmente l'equilibrato sviluppo di questo territorio, tutelando il lavoro ma anche il futuro nostro e dei nostri figli. La Bassa Padovana non può diventare la discarica del Veneto".